Miguel Giusti
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Abstract: Probably the most interesting contribution of the last book that Paul Ricoeur left us before his death, The Course of Recognition (Parcours de la reconnaissance), lies in the concept of “course” (“parcours”), which is proposed in order to understand the problem of recognition. In this sense, first of all, we will remember the stages this proposal goes through, highlighting its originality and novelty. In a second moment, we will study the point of arrival of this course, since it is precisely there where Ricouer discusses and criticizes Axel Honneth’s conception, with the aim of offering a more assertive solution than the one that (according to Ricoeur) the logic of the “struggle for recognition” presents. Finally, as a conclusion, we will try to offer a balance of this debate, asking ourselves to what extent the proposed course is truly convincing.
L’ultimo libro che ci ha lasciato Paul Ricoeur prima di morire s’intitola Parcours de la reconnaissance[1]. Si tratta realmente di un’opera scritta con la maturità e la sapienza degli anni, in cui si esprime un talento filosofico ermeneutico del più alto livello. Ed è un’opera che intende prendere posizione nel complesso dibattito sul paradigma del riconoscimento, che sta esercitando una notevole influenza sulla filosofia morale e politica contemporanea. Il libro è stato presto tradotto in italiano con il titolo Percorsi del riconoscimento[2]. Sconcertante traduzione, a dire il vero, perché è ostensibile che Ricoeur non usa il termine parcours al plurale, ma al singolare, e che ha prestato molta attenzione nello scegliere una parola assai più precisa di quanto ci suggerisce la vaga denominazione “percorsi”. Il libro si conclude precisamente con un capitolo finale titolato “Un parcours”, nel quale Ricoeur spiega il senso specifico in cui la sua opera può meritare di essere chiamata in quel modo e non essere considerata né una “teoria” (perché non aspira a tanto) ma nemmeno una “rapsodia” (perché non crede di aver offerto così poco). Il termine “parcours” esprime, in realtà, un itinerario specifico che ha un punto di partenza ed uno di arrivo, ma che soprattutto descrive il modo in cui ci si sposta da un punto all’altro. Dovremmo, perciò, tradurre il titolo del libro piuttosto come “Percorso” o, se si preferisce in modo piú elegante: “Itinerario del riconoscimento”. Ciò che si cerca di suggerire è precisamente un itinerario concettuale, un itinerario specifico, che l’autore considera il suo contributo alla discussione, piuttosto che affermare che potrebbero esistere diversi cammini (o percorsi) per affrontare il problema.
Nella concezione di questo itinerario o percorso si trova, a mio parere, precisamente l’idea più originale ed interessante della proposta di Ricoeur. Varrebbe la pena dunque, in un primo momento, ricordare i passi che percorre questa proposta, mettendo in rilievo la sua originalità e la sua novità. In un secondo momento, ci soffermeremo sul punto di arrivo dell’itinerario, poiché proprio lì Ricoeur dialoga e polemizza con la concezione di Axel Honneth, allo scopo di offrirci una soluzione più propositiva di quella che secondo Ricoeur presenta la logica della lotta per il riconoscimento. Infine, per concludere, cercheremo di fare un bilancio di questo dibattito, domandandoci in che misura l’itinerario o il percorso proposto sia veramente convincente.
Il percorso (o l’“itinerario”) di Ricoeur
Ciò che innanzitutto dovremmo sottolineare è che, per affrontare il problema del riconoscimento, ci venga suggerito un “percorso”, un movimento concettuale. Non un approccio storico-sistematico, come quello di Axel Honneth[3], né un bilancio etico attuale, come quello di Charles Taylor[4], e neppure una tipologia concettuale, come quella di Nancy Fraser[5]. È piuttosto un invito ad intraprendere un cammino ermeneutico del quale si possa scoprire gradualmente il filo conduttore. Questo è dovuto, come ben sappiamo, al fatto che Ricoeur sceglie un punto di partenza metodologico molto particolare: senza tralasciare di far menzione della varietà e della ricchezza dei recenti lavori pubblicati sull’argomento, con i quali inizia un dialogo che porterà avanti per tutto il libro, quello che ci suggerisce è di spostare lo sguardo verso l’uso del termine “riconoscimento” nel linguaggio quotidiano. Questa proposta non è naturalmente né ingenua, né azzardata; al contrario ha tra le mani due buoni dizionari della lingua francese del secolo XIX, il Littré ed il Grand Robert, ai quali fa riferimento per prendere atto del registro di accezioni della voce “riconoscimento”. La diversità dei significati lì citati va certamente molto più lontano di quanto possa essere ammesso dalla tradizione e dalla terminologia filosofiche, ma quella diversità non è d’altra parte così caotica o arbitraria da non rappresentare una sfida per il filosofo ermeneutico che vuole scoprire una coerenza concettuale tra gli usi che il dizionario registra senza pretese di sistematicità. Il linguaggio quotidiano esibisce una vasta diversità di usi del termine “riconoscimento”, che vanno dalla semplice identificazione di un oggetto (“lo riconosco”), passando per i significati usati generalmente nella discussione filosofica sull’argomento, sia nella forma attiva che in quella passiva, sino ad arrivare ad un uso che, in francese come certamente anche in italiano o in spagnolo, attribuisce al verbo “riconoscere” il significato di “ringraziare”. La domanda che il filosofo Ricoeur si pone è se sia possibile trovare un filo conduttore che leghi tra loro in modo coerente quei significati così diversi, e la risposta che ci dà è che il miglior modo per esprimere o manifestare questa coerenza è immaginando, appunto, un “percorso” concettuale. Non un quadro, non una rete, non una tipologia; un percorso.
Il percorso si compone di tre tappe (che corrispondono ai titoli dei saggi del libro): “Il riconoscimento come identificazione”, “Riconoscere se stesso” ed “Il mutuo riconoscimento”. Ciò che Ricoeur cerca di spiegare è il passaggio dal primo significato (l’identificazione) al terzo (il mutuo riconoscimento), impiegando una segreta strategia hegeliana che ci faccia concepire il punto finale non solo come punto di arrivo, ma anche come il contesto della giusta comprensione dell’insieme[6]. In prima istanza, la proposta non sembra così originale, a dire il vero, perché ciò che vuole sostenere è che dobbiamo capire il concetto attraverso la svolta semantica che si produce quando si passa dalla forma attiva a quella passiva, dal riconoscere all’essere riconosciuto. Sappiamo che tanto Taylor come Honneth hanno fatto proprio di questa particolarità l’argomento centrale dei loro studi sul riconoscimento. Il primo, Taylor, cercando di caratterizzare le lotte culturali contemporanee come forme di rivendicazione del riconoscimento nella forma passiva, ed il secondo, Honneth, proponendo una lettura capovolta del concetto attraverso il chiarimento delle esperienze di disdegno. Però sarebbe ingiusto non riconoscere a Ricoeur il merito di affrontare la questione con l’esplicito proposito, non presente nei filosofi anteriori, di analizzare la portata epistemologica di questa svolta.
Nel capitolo conclusivo, intitolato, come si è già detto: “Un percorso”, Ricoeur fa un bilancio del percorso realizzato e ci dice che i tre momenti dell’itinerario concettuale potrebbero chiamarsi anche: il momento dell’“identità”, il momento dell’“alterità” ed il momento della “dialettica tra riconoscimento e misconoscimento”[7]. Ricordiamo che il punto di partenza dell’analisi è quel significato del termine “riconoscimento”, citato sempre al primo posto nei dizionari, che si riferisce all’operazione d’identificazione di un oggetto o di una persona. Riconoscere qualcosa vuol dire identificarla, ossia, capire l’identità dell’oggetto che per definizione si trova in una relazione di esclusione rispetto al soggetto. In questo senso tra riconoscere e conoscere non sembra esserci una differenza sostanziale, bensì di tempo o di grado. Ricoeur associa questo atteggiamento gnoseologico alla tradizione filosofica che risale al Sofista di Platone, e crede di vederla inoltre condensata nella teoria cartesiana e nella teoria kantiana del giudizio. Proprio Kant, ci ricorda Ricoeur, impiegò l’espressione tedesca “Rekognition”[8] per riferirsi all’operazione di sintesi, messa in atto nei nostri giudizi, attraverso la quale sussumiamo l’oggetto sotto le regole generali del concetto. La facoltà di giudicare porta a compimento l’impresa cartesiana, la quale si dirige proprio a definire la conoscenza per mezzo dell’identificazione, ossia, per mezzo del “riconoscimento” nel suo primo senso. Ma Ricoeur non intende rimanere su un piano espositivo o genealogico, quindi l’esposizione di questo primo momento viene seguita da una riflessione ex post sul destino che dovette soffrire il paradigma della rappresentazione moderna. I suoi ispiratori sono, in questo caso, Husserl e Levinas[9].
Il secondo momento del percorso si concentra sull’accezione del termine come “riconoscimento di se stesso”. Nella sua riflessione finale, Ricoeur dirà che qui si fa strada la dimensione dell’“alterità”, nel senso specifico in cui questa influenza il soggetto che riconosce se stesso. Ci troviamo ancora sul piano della forma attiva del riconoscere, ma questa volta all’interno di un movimiento riflessivo e più complesso, in cui l’oggetto ed il soggetto del riconoscimento si identificano. Questa parte del libro è, a mio giudizio, la più riuscita, ed è anche quella che Ricoeur ha sviluppato maggiormente in molti dei suoi scritti precedenti, che appaiono nell’analisi come un sottotesto permanente ed ispiratore. Seguendo appunto la via dei suoi scritti sulla teoria dell’azione, e accompagnato questa volta da Bernard Williams[10], ci ricorda che, per riconoscere se stesso, il soggetto deve prima definirsi come il protagonista di un’azione, come agente, e che dev’essere allo stesso tempo suscettibile di responsabilità. Entrambe le cose affondano le loro radici concettuali nella cultura omerica o nella concezione aristotelica dell’etica[11]. Su questo sfondo greco, i filosofi moderni costruiranno successivamente un concetto di soggettività che implica una coscienza riflessiva di sé, tema che proprio Ricoeur ha sviluppato ampiamente sotto il nome d’“ipseità” (“ipséité”)[12]. In questo senso, il riconoscimento di sé potrà essere caratterizzato dalla capacità di parola, capacità di agire ed identità narrativa. Allo stesso tempo, il soggetto dovrà prendere coscienza del ruolo che tanto la memoria (il passato) quanto la promessa (l’impegno verso il futuro) giocano nella sua esperienza del riconoscimento di sé[13], poiché l’una e l’altra sono costitutive di se stesso. E, infine, il soggetto deve allargare l’orizzonte delle sue possibilità come protagonista dell’azione, sviluppando non soltanto i diritti che gli conferisce la sua libertà negativa, ma anche le capacità che si riferiscono all’esercizio della sua libertà positiva, ragion per cui Ricoeur crede pertinente far riferimento ai lavori recenti di Amartya Sen, Martha Nussbaum e Jean-Marc Ferry[14].
L’argomento centrale di questa seconda tappa del percorso è quindi il riconoscimento di sé. L’attenzione di Ricoeur si dirige alla caratterizzazione concettuale del soggetto, del sé, che realizza l’esperienza, ed il risultato che possiamo osservare è quello di un soggetto che si è visto arricchito nelle dimensioni che lo costituiscono e che determinano la sua esperienza riflessiva: il riconoscimento della sua responsabilità, la coscienza della sua capacità di agire e di parlare, la sua identità narrativa, il suo rapporto con la memoria e la promessa, e l’ampiamento delle sue capacità. Anche rimanendo nella prospettiva della forma attiva del verbo “riconoscere”, il quadro che ci presenta Ricoeur è dunque molto suggestivo e contiene un’abbondante gamma di aspetti che potrebbero servire da leve per sollevare la questione del riconoscimento reciproco. La mia impressione è, ciò nonostante, che Ricoeur non sfrutti sufficientemente le possibilità concettuali che lui stesso propone in questa parte.
Arriviamo così al terzo momento del percorso del riconoscimento, quello che giustifica stricto sensu il significato di un itinerario (di un percorso), poiché ci propone il passaggio dalla forma attiva alla forma passiva del verbo riconoscere. Questo terzo momento s’intitola “Il mutuo riconoscimento”, e ad esso si riferisce Ricoeur nel suo bilancio finale come il momento della “dialettica tra riconoscimento e non–riconoscimento”. Cercheremo adesso di capire queste denominazioni, il che ci porta su un terreno conosciuto, perché qui, sul terreno del reciproco riconoscimento, è dove si svolge il dibattito filosofico contemporaneo. Non ci dovrà quindi stupire che proprio in questa parte si mettano in discussione le opere di Axel Honneth e di Charles Taylor. Quello che invece ci potrebbe meravigliare è che lo stesso Paul Ricoeur affermi di aver concepito questo terzo momento, il punto di arrivo del suo itinerario, come un dialogo polemico con Axel Honneth e con la sua interpretazione del riconoscimento.
La controversia con Axel Honneth
La polemica che Paul Ricoeur solleva contro Axel Honneth è, per cosí dire, interessata e, forse proprio per questo, semplificatrice. Ricoeur intende mettere in evidenza che il riconoscimento in Honneth dipende troppo da un modello rivendicativo di reciprocità che sembrerebbe essere determinato dalla logica dell’insoddisfazione, del vittimismo, e vuole contrapporre a questo un ideale morale del riconoscimento più positivo, più generoso, che non solamente dia senso all’esperienza del riconoscimento, ma che inserisca in un’adeguata prospettiva il modello della rivendicazione di reciprocità. Ed è, appunto per questo, un’interpretazione interessata: perché porta la discussione in maniera troppo evidente verso la tesi che desidera proporre. Ed è, inoltre, semplificatrice, perché altera in un certo modo la posizione di Honneth, e scavalca quella di Hegel, con la finalità di adattarle al concetto rivendicativo del riconoscimento che Ricoeur considera inconsistente e non positivo.
Anche se Ricoeur non lo cita, la sua posizione mi richiama alla memoria una delle tesi di Alasdair MacIntyre sulle limitazioni dell’etica moderna[15]. Sostiene infatti MacIntyre che l’etica moderna, la cui influenza continua ad essere ampia ancor oggi, si propose un’impresa assurda: costruire un’etica che rinuncia ad un ideale morale di vita o ad una concezione positiva di ciò che dovrebbe essere una vita piena. Per avere senso, pensa MacIntyre, qualsiasi concezione etica dovrebbe riposare su tre pilastri: 1) sulla definizione della natura dell’essere umano, 2) sull’ideale di vita che quell’essere umano dovrebbe realizzare (il telos), e 3) sulle regole che possano condurlo a compiere codesto telos. Non può avere senso un’etica che non abbia un ideale morale di vita. Ma questo è appunto ciò che l’etica moderna si propone quando cerca di sopprimere la rilevanza del telos nella concezione della vita morale. L’etica kantiana, come quella liberale, sarebbero, per così dire, etiche profondamente incongruenti, perché proporrebbero il rispetto di un insieme di regole di condotta senza poter definire, in ultima istanza, quale sia la loro finalità o il loro scopo. Un qualcosa di simile è ciò che ci propone Ricoeur nei confronti di Honneth. Sembrerebbe, secondo lui, che Honneth definisca una concezione moderna del riconoscimento che non riesce a spiegare per quali ragioni abbia senso riconoscere o essere riconosciuti, e si limiti a riprodurre iterattivamente la logica della rivendicazione della giustizia.
Vediamo più da vicino come si svolge la polemica, e lasciamo per un momento successivo il proposito di stabilire in che misura l’interpretazione è veramente interessata o semplificatrice. Sin dall’inizio, Ricoeur sostiene di aver concepito questo terzo momento del percorso del riconoscimento come “un dialogo con Axel Honneth”[16], e desidera che la sua interpretazione venga intesa come un’espressione di accordo e disaccordo allo stesso tempo. Così, nella sua esposizione seguirà il filo conduttore della proposta di Honneth, ma fin dove consideri indispensabile sottolineare la differenza e contrapporgli il modelo alternativo che lui difende. Il suo accordo si metterà in evidenza attraverso delle “osservazioni complementari”, il disaccordo attraverso delle “considerazioni antagonistiche”[17].
Come Honneth, Ricoeur considera che il salto qualitativo nell’approccio al problema del riconoscimento, che coincide con il movimento verso il significato del termine come “reciprocità”, si produce nella rilettura hegeliana della concezione dello stato naturale di Hobbes. Quello che lí accade è un cambiamento di paradigma, poiché Hegel interpreta la lotta come la ricerca di una reciproca intesa e non semplicemente come il prolungamento dell’individualismo nel conflitto d’interessi. Da questo punto di vista, lo stato naturale stesso può caratterizzarsi come uno stato di “misconoscimento originario”[18], il quale esige, quindi, un superamento. Il passaggio alla forma passiva, all’essere riconosciuto, non è dunque solo un’espressione della reciprocità implicita nel nuovo paradigma morale, ma è al tempo stesso un modo di formulare l’impegno dell’individuo per far valere i suoi diritti.
Ricoeur è del parere che la tesi di Honneth sui tre momenti del riconoscimento –l’amore, il diritto e la comunità –, così come sulle forme correlative di disprezzo, costituisce “il suo contributo più importante alla teoria del riconoscimento”[19], ragion per cui ordina la sua esposizione e propone le sue “osservazioni complementari” rispettando la sequenza di quei momenti. Per quanto riguarda la “lotta per il riconoscimento nell’amore”, è d’accordo con Honneth nell’apprezzare i contributi della psicoanalisi per illustrare il senso del riconoscimento fra madre e figlio, o tra amanti, ma suggerisce complementare la dimensione dell’amore con due nuove prospettive, quella di Hannah Arendt sul riconoscimento di sé nel proprio lignaggio e quella di Simone Weil sull’approvazione reciproca fra amanti[20]. Per quel che riguarda la “lotta per il riconoscimento a livello giuridico”, accetta di far propria l’interpretazione hegeliana del patto sociale, specialmente attraverso la via negativa del “delitto”, però suggerisce questa volta di complementare la dimensione del riconoscimento giuridico attraverso una riflessione sul processo storico che ha accompagnato l’ampliamento del concetto dei diritti delle persone, tanto in direzione della diversificazione dei diritti stessi (civili, politici, economici, culturali), come nella loro attribuzione ad un maggior numero di persone[21]. Infine, per quel che riguarda il “riconoscimento della stima sociale”, si dichiara d’accordo con Honneth nel non seguire le orme di Hegel, il quale considera che il terzo momento del riconoscimento si dovrebbe realizzare nello Stato, ma nel collocare quest’esperienza nell’ambito più ampio dell’ “eticità”, intesa come istituzionalizzazione sociale dei valori e dei principi condivisi da una comunità. In questo contesto, Ricoeur si permette di fare osservazioni complementari più estese, perché intende arricchire la dimensione del riconoscimento sociale con i contributi di Jean-Marc Férry sul “riconoscimento degli ordini”[22] e con i contributi di Luc Boltanski e Laurent Thévenot sulle “economie della grandezza”[23]; si tratta, in entrambi i casi, di analisi illuminanti, seppur leggermente barocche, delle nuove forme o dei nuovi sistemi istituzionali nei quali si iscrivono l’identità degli individui e le loro diverse forme di transazioni[24].
Fin qui arriva l’accordo. Ricoeur ha accompagnato Honneth nel suo approccio sistematico, ed ha cercato di arrichirlo con alcune annotazioni o associazioni contemporanee importanti. Ma il disaccordo è sostanziale, ed è giunto il momento di spiegare in che consiste, e a che cosa si riferiscono quelle “considerazioni antagonistiche” che sono già state accennate. Il punto centrale del dibattito è, come si è detto, la metafora bellica della “lotta”, alla quale Ricoeur vuole contrapporre una metafora, per così dire, pacifica oppure pacifista, che entri in contrasto con l’anteriore e gli dia un orientamento. “A partire dalla discussione incentrata sull’idea stessa di lotta, nella sua provenienza da Hegel, porterò avanti il tentativo di completare una problematica della lotta cercando di richiamarmi alle esperienze di pace grazie con le quali il riconoscimento può, se non portare a compimento il suo percorso, per lo meno lasciare intravedere la sconfitta del diniego di riconoscimento”[25].
Ricoeur non si prende la briga d’indagare se nell’opera di Honneth ci sia qualche prospettiva sistematica più positiva di quella suggerita dal concetto di “lotta”, e non crede neanche necessario dimostrare rigorosamente le carenze strutturali di tale concezione. Lo spinge soprattutto un’intuizione di fondo, alla quale già abbiamo fatto riferimento, e che si traduce nella convinzione che il paradigma del riconoscimento reciproco, di origine hegeliana, dipenda troppo dalla logica della simmetria e quindi non sia in grado di spiegarsi a sé stesso. L’intuizione poggia, infatti, sul presupposto che ormai non ci è più possible chiudere il cerchio del riconoscimento come lo fece Hegel, cioè, facendo appello alla presa di coscienza collettiva della libertà all’interno dello Stato. Però, avendo rinunciato a questa possibilità, ciò che sembra apparire in primo piano è la dimensione permanente della lotta ed il conseguente atteggiamento di rivendicazione nei tre momenti del processo del riconoscimento. Sorge allora la domanda, come dice Ricoeur, quando è che un soggetto potrà ritenersi davvero riconosciuto[26]. Non ci troviamo forse davanti ad un processo che, dal punto di vista soggettivo, bisognerebbe descrivere come interminabile, indefinito, senza fine, un processo che appunto evoca la tesi di Hegel sul “cattivo infinito”?[27] Cattiva infinitezza chiamava Hegel effettivamente quella rappresentazione che ci facciamo dell’infinitezza quando ce la immaginiamo sotto la formula del progresso verso l’infinito, ossia, come una successione interminabile e dunque contraddittoria di momenti. Ed inoltre, la concezione del riconoscimento come lotta, precisamente per concepirla in maniera indefinita, non corre il rischio di farci vedere i suoi protagonisti con il marchio dell’insoddisfazione permanente, della vittimizzazione, nel modo in cui anche Hegel ci descriveva il destino della “coscienza infelice”?[28] È lo stesso Ricoeur che si riferisce a queste due figure hegeliane, l’ultima delle quali, la “coscienza sventurata”, gli serve qui solamente per caratterizzare il sentimento d’insoddisfazione che spinge la coscienza a difendere continuamente una cosa e il suo contrario, o a considerare se stessa sempre solo sotto il segno, o sotto lo stigma, della vittima.
Per “scongiurare questo malessere” – così si esprime Ricoeur –, per contrastare e risolvere la carenza strutturale del paradigma bellico della lotta, ciò di cui abbiamo bisogno è di poter fare appello “all’esperienza effettiva… di situazioni di pace”[29], ossia, a forme concrete di mutuo riconoscimento, vissute in maniera pacifica ed in senso affermativo. “Ma voglio dichiarare – continua Ricoeur – cosa mi aspetto e cosa non mi aspetto da questo abbinamento. Le esperienze di riconoscimento pacifico non sarebbero in grado di costituire la risoluzione delle perplessità suscitate dal concetto stesso di lotta, e meno ancora di costituire la risoluzione dei conflitti in questione. La certezza che accompagna gli stati di pace offre piuttosto una conferma al fatto che la motivazione morale delle lotte per il riconoscimento non è illusoria. Ed è questo il motivo per il quale non può trattarsi che di tregue, di chiarimenti, di “schiarite” verrebbe da dire, dove il senso dell’azione esce dalle brume del dubbio con il marchio dell’azione che conviene.”[30]
Ma quali sono questi stati di pace (états de paix), queste situazioni di pacifico riconoscimento? Innanzitutto, per sottolineare chiaramente la differenza tra le due costellazioni di riconoscimento messe qui a confronto, Ricoeur propone una distinzione concettuale: al riconoscimento promosso dal principio della lotta attribuisce il concetto di “reciprocità”, a quello che invece si sostiene sull’esperienza di pace il concetto di “mutualità”. La reciprocità sarebbe egualitarista e rivendicativa, la mutualità asimmetrica e generosa. Il riconoscimento che Ricoeur vuole difendere è naturalmente, in concordanza con quanto esposto, un riconoscimento mutuo, non uno semplicemente reciproco.
Per spiegare in cosa consiste, in particolare, il riconoscimento mutuo, Ricoeur prende due strade diverse ma complementari. Da un lato ci ricorda la famiglia di concetti greci e greco-cristiani composta da philía, eros e ágape. Si tratta di tre forme diverse d’amore, l’ultima delle quali, l’ágape, esprime pienamente il senso del dono, che non si aspetta nulla in cambio e quindi che si trova agli antipodi della logica vendicatrice della reciprocità. Ma, d’altro canto, affinché questa pista non sembri troppo confessionale, Ricoeur ci riporta ad una discussione più scientifica: quella che procede dall’antropologia culturale e che ha analizzato il ruolo del dono nella struttura delle relazioni delle società primitive. Marcel Maus e Claude Lévi-Strauss[31], ed altri antropologi, hanno sviluppato un interessante dibattito rispetto alla logica dello scambio dei doni nelle società menzionate, ed hanno dimostrato l’esistenza di un interessante meccanismo che sembrerebbe esistere fra il donare, il ricevere ed il restituire ciò che è stato donato. Quello che Ricoeur si propone, è di riunire le due piste e suggerirci dunque che il miglior modo per poter capire il significato dello scambio dei doni è sottolineando il ruolo del ricevere, al di sopra del donare e del restituire, e che è proprio questo ciò che cerca di esprimere il concetto di ágape.
Chi vive l’amore dell’ágape, adotta l’atteggiamento di chi ha ricevuto un dono e desidera far vedere la sua gratitudine. Il riconoscimento mutuo, inteso in modo positivo e generoso, slegato dalla logica della rivendicazione reciproca, sarebbe allora, in ultima istanza, l’espressione di un’etica della gratitudine. Ma eravamo al corrente, sin dal primo capitolo del libro, che una delle accezioni registrate in francese (e in italiano) del termine “riconoscimento”, è proprio quella di “gratitudine”. Concludere adesso che l’atteggiamento etico più significativo è quello della gratitudine, è dunque solo una maniera diversa di affermare che si tratta di un’etica del riconoscimento, naturalmente: del riconoscimento detto mutuo. Si racchiude così l’arco dei significati del concetto che erano stati proposti come una sfida sin dall’inizio, e si conclude così il percorso del riconoscimento fissando il punto di arrivo.
È convincente il percorso?
Rispetto alla proposta globale di Paul Ricoeur, si dovrebbe far qualcosa di simile a ciò che il filosofo fece con la tesi di Axel Honneth e cioè manifestare a un tempo accordo e disaccordo. L’accordo l’abbiamo esposto durante tutta questa presentazione, commentando l’originalità della proposta di fondo che sollecita dalla filosofia una comprensione ermeneutica degli usi del termine “riconoscimento” nel linguaggio quotidiano, nel rilevare la fusione di orizzonti che Ricoeur realizza quando sviluppa i primi due momenti del percorso, particolarmente il momento del riconoscimento di sé del soggetto responsabile, ed addirittura nell’ammettere che il suo punto di vista conclusivo contiene una interessante tesi sulla necessità di fondare l’etica su un atteggiamento propositivo e non esclusivamente rivendicativo. Ma solo fino a questo punto mi è possibile manifestare un accordo, e tutto ciò non basta per concludere che l’itinerario proposto sia convincente.
Avevamo affermato anteriormente che la proposta di Ricoeur è interessata e semplificatrice. Adesso possiamo capire meglio perché è così. Durante lo sviluppo del dibattito con Honneth, abbiamo potuto verificare che l’analisi del riconoscimento reciproco si ferma improvvisamente con l’affermazione, con la tesi radicale, che codesto modello sarebbe incoerente e ripetitivo, nella misura in cui si lascerebbe dominare dalla logica indefinita della lotta per la simmetria. Ma questa tesi non è sufficientemente dimostrata, e sembra avere come unica finalità quella di permettere la controproposta del riconoscimento pacifico. Per poter introdurre quest’ultima tesi come una soluzione, è stato necessario descrivere la tesi precedente come un problema. Sono due questioni diverse, anche se collegate tra di loro: da una parte, se si può veramente affermare che in Hegel o in Honneth ci sia una concezione inconsistente di riconoscimento e, dall’altra, se ha senso proporre un modello di riconoscimento alternativo e propositivo basato sulla carità. Analizziamole separatamente.
Per quanto riguarda il primo punto, e cioè l’inconsistenza del paradigma del riconoscimento reciproco, è chiaro che questo problema non sussiste in Hegel né necessariamente in Honneth. Non in Hegel, in quanto egli ritiene che il riconoscimento si chiuda con la realizzazione della libertà nel contesto di un ethos politicamente organizzato, in cui gli individui coltivano deliberatamente i valori ed i principi della loro comunità. Il momento negativo della lotta viene lì dunque scavalcato dal sostanzialismo positivo dell’ethos. Il caso di Honneth è diverso, perché egli, come Ricoeur, respinge la soluzione politica proposta da Hegel ed anche perché, a differenza di Ricoeur, rafforza il senso kantiano dell’egualitarismo, vale a dire, il momento del riconoscimento giuridico. Però non ritengo neanche che si possa attribuire a Honneth l’assenza di un’istanza etica positiva, diversa dalla lotta per l’uguaglianza. Al contrario, Honneth concepisce il processo del riconoscimento seguendo il modello hegeliano delle determinazioni della libertà[32], dunque anche lui propone l’esistenza di una prospettiva positiva e normativa, rispetto alla quale, e solo rispetto alla quale, la lotta ottiene un senso.
Come abbiamo già visto, Ricoeur forza la questione in modo che tanto Honneth quanto Hegel appaiano come difensori di un modello di riconoscimento esclusivamente egualitarista e rivendicativo, affinché, per contrasto, la sua proposta diventi un’alternativa necessaria. Ma ciò che dovrebbe interessarci di più, al di là di questa deformazione dell’avversario, è se la sua proposta alternativa sia o no convincente. Abbiamo associato prima questa strategia alla tesi di Alasdair MacIntyre sugli elementi costitutivi di qualsiasi etica. In tal senso, quello che Ricoeur ci sta proponendo sarebbe un’ideale positivo di vita morale, un senso o uno scopo di vita che si costruisca sulla base dell’esperienza della gratitudine. In linea di principio, nulla potrebbe obiettarsi alla formulazione di una simile proposta. Però, allo stesso modo, nulla potrebbe costringere qualcuno a farla diventare sua. Pur rimanendo ancorata alla struttura antropologica dello scambio dei doni, il significato dell’ágape come esperienza pacifica di mutuo riconoscimento appartiene a un ethos molto specifico, il quale, sebbene possa avere senso e nobiltà, si trova a concorrere con altri all’interno di una società complessa e pluritarista.
Inoltre, l’obiezione che Ricoeur sostiene contro il modello della reciprocità potrebbe anche rivolgersi contro di lui, mostrando paradossalmente perché il principio dell’uguaglianza sia così importante e così persistente nei confronti del riconoscimento. Potrebbe succedere, in effetti, che l’etica della gratitudine – che si definisce solo attraverso i parametri immanenti all’ethos in cui sorge e che dipende da una positività morale sostantiva e propria –, esiga dagli individui azioni o atteggiamenti che danneggino la loro libertà o la loro uguaglianza di opportunità. Che questo accada o no, si può sapere e giudicare, in realtà, soltanto se si adotta il punto di vista della reciprocità, ossia, il punto di vista negativo e rivendicativo che l’etica dei doni si propone di superare. Il problema non è, quindi, solamente che la concezione del mutuo riconoscimento non possa mostrare un carattere vincolante, ma anche che essa possa esporsi al pericolo di pregiudicare la reciprocità. Se Ricoeur ci avverte, con prudenza e con ragione, che l’etica della gratitudine non è altro che un invito ad osservare il senso positivo della lotta, faremmo bene ad impiegare la stessa prudenza e la stessa ragione nell’impedire che codesta etica possa danneggiare la libertà delle persone che la praticano e che esigono riconoscimento.
[1] Parcours de la reconnaissance. Trois études, Parigi: Éditions Stock, 2004.
[2] Percorsi del riconoscimento: tre saggi, Milano: Raffaello Cortina, 2005.
[3] Honneth, Axel, Lotta per il riconoscimento, Roma: Il Saggiatore, 2002. Cf. ugualmente Honneth, A. e N. Fraser, Redistribution or Recognition. A Political-Philosophical Exchange, Londra/Nuova York: Verso, 2003.
[4] Taylor, Charles, Multiculturalismo: la politica del riconoscimento, Milano: Anabasi, 1993.
[5] Fraser, Nancy, Justice interruptus. Critical Reflections on the “Postsocialist” Condition, Nuova York/Londra: Routledge, 1997. Cf. anche la discussione sostenuta con Axel Honneth nel libro citato nella nota 3.
[6] Nonostante impieghi una strategia di questo tipo in generale, Ricoeur non la sfrutta del tutto negli studi specifici dei diversi capitoli. Potrebbe dirsi che con i materiali che va includendo nel suo studio, Ricoeur sarebbe potuto arrivare ad un risultato diverso.
[7] Cf. Paul Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, op. cit. pp. 277.
[8] Cf. ibidem, pp. 45ss.
[9] Ricoeur si appoggia per l’interpretazone di Husserl in La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (Roma: Il Saggiatore, 1993) ed in un saggio di Levinas intitolato “La ruine de la représentation”, in: En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Parigi: Vrin, 2001.
[10] Cf. Williams, Bernard, Shame and Necessity, Berkeley: University of California Press, 1993.
[11] Cf. di Ricoeur, Del testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Milano: Jaca Book, 1989.
[12] Cf. di Ricoeur, Tempo e racconto, Milano: Jaca Book, tre volumi, 1988.
[13] Cf. di Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Milano: Raffaello Cortina, 2003.
[14] Ricoeur non fa riferimento direttamente a Martha Nussbaum, però sí a Amartya Sen, Poverty and Famine, Oxford: Oxford University Press, 1981. Di Jean-Marc Ferry cita, in diverse stazioni del percorso, il suo libro Les Puissances de l’expérience. Essai sur l’identité contemporaine, Parigi: Éditions du Cerf, 1991.
[15] La riflessione che propongo qui di seguito si fonda sulla tesi centrale di MacIntyre nel suo libro After Virtue, Notre Dame: University of Notre Dame Press, 1981.
[16] Cf. Paul Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, op. cit., p. 211.
[17] Cf. ibidem.
[18] Cf. ibidem, p. 186.
[19] Cf. ibidem, p. 213.
[20] Ricoeur si riferisce specificamente a Vita activa. La condizione umana di Hannah Arendt e al testo “Amitiés”, di Simone Weil (in: Œuvres, Parigi: Gallimard, 1999, p. 755ss.). Il riferimento a questa discussione si trova in Percorsi del riconoscimento, op. cit., p. 213ss.
[21] Cf. Paul Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, op. cit., pp. 221ss.
[22] Cf. Ferry, Jean-Marc, Les Puissances de l’expérience. Essai sur l’identité contemporaine, op.cit.
[23] Cf. Boltanski, Luc y Laurent Thévenot, De la justification. Les économies de la grandeur, Parigi: Gallimard, 1991.
[24] Cf. Paul Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, op. cit., pp. 227ss.
[25] Cf. ibidem, p. 213.
[26] Cf. ibidem, p. 244.
[27] Cf. ibidem.
[28] Cf. ibidem.
[29] Cf. ibidem, p. 245.
[30] Cf. ibidem, p. 245.
[31] Cf. ibidem, p. 253ss.
[32] Cf. il libro di Axel Honneth, Leiden an Unbestimmtheit. Eine Reaktualisierung der Hegelschen Rechtsphilosophie, Ditzingen: Reklam, 2001.