Lo Hegel husserlianizzato di Axel Honneth. Riattualizzare la filosofia hegeliana del diritto

Pierre Macherey

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Abstract: A French translation by F. Fischback of Axel Honneth’s “Leiden an Unbestimmtheit” has just been published and in this article Pierre Macherey discusses how Honneth’s book attempts to reactualize Hegel’s “Philosophy of Right”. According to Macherey Honneth is right in reading Hegel as a philosopher of freedom instead of a philosopher of statism and authoritarianism. In Hegel the notion of freedom is not a feature of the subject as it is in liberal philosophy, on the contrary it presupposes its achievement through confrontation and mediation with others. Indeterminacy and that suffering which comes from it are direct consequences of a failure of understanding made by subjects who remain unable to conceive that their own freedom can only be achieved through social institutions and alterity. These are the subjects who still fail to understand that justice is made by social conditions that allow every subject to perceive others’ freedom as prerequisites to their own self-fulfilment. In this regard, the author argues, when Honneth, as well as Habermas, emphasizes communicative experience as the only viable solution to intersubjectivity, we are presented with more than one problem. According to Macherey the solution that Honneth provides is mired in Husserlian egoity and thus it is unable to go beyond the I and, finally, to produce any real sociality.

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La versione originale del libro di Axel Honneth, la cui traduzione francese, a cura di Franck Fischbach, è apparsa nel 2008 per i tipi de La Découverte col titolo Les Pathologies de la liberté. Une réactualisation de la philosophie du droit de Hegel, aveva un titolo che al primo sguardo può risultare piuttosto enigmatico: Leiden an Ungestimmtheit, letteralmente “Soffrire di indeterminazione”.
L’interrogativo che ci porremo sarà in un primo momento il seguente: in cosa il fatto di “soffrire di indeterminazione” rappresenta ciò che il traduttore francese ha scelto di rendere, senza dubbio con il consenso dell’autore, con l’espressione “patologie della libertà”? Il significato di quest’ultima espressione non è maggiormente esplicativo e, comunque, non risponde all’aspettativa che in linea di principio il titolo di un’opera dovrebbe soddisfare, ovvero fornire accesso immediato al suo contenuto. La versione francese del titolo aggiunge, da questo punto di vista, un’indispensabile precisazione: “Una riattualizzazione della filosofia del diritto di Hegel” dà conto, infatti, del percorso seguito da Honneth nei tre capitoli del suo libro. Intitolati, nell’ordine, 1) “La filosofia del diritto di Hegel come teoria della giustizia”, 2) “La relazione tra teoria della giustizia e diagnosi dell’epoca”, 3) “La dottrina dell’eticità come teoria normativa del moderno”, i tre capitoli procedono a una rilettura guidata dell’opera di Hegel pubblicata nel 1821, all’inizio del periodo berlinese, i Lineamenti di filosofia del diritto.
Hegel vi aveva sistematizzato la sua filosofia politica, sviluppando i temi che in precedenza aveva affrontato nella terza parte (“Lo spirito oggettivo”) dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche – opera pubblicata ad Heidelberg allo scopo di servire da manuale per il suo corso universitario di filosofia. I Lineamenti, frutto delle sue lezioni, sono l’ultima pubblicazione di Hegel, che vi ha concentrato, in una prospettiva dialettica, la sintesi delle sue riflessioni sul mondo umano e la sua storia. D’altronde, è studiando con la penna in mano uno stralcio della terza parte (consacrata allo Stato) che Marx, nel 1843, in un manoscritto redatto a Kreuznach prima di partire per Parigi dove soggiornerà fino al 1845, ha compiuto uno dei passi decisivi che l’hanno portato a elaborare il suo “materialismo storico”: il confronto critico con il pensiero hegeliano ne ha costituito una fonte essenziale. E questo vuol dire che una rilettura dei Lineamenti di filosofia del diritto non può essere un’impresa neutra, atemporale, unicamente sottomessa a criteri accademici di esattezza. L’intenzione di Honneth di “riattualizzarne” il contenuto lascia in ogni modo intendere che l’impresa di occuparsene “nel suo stato presente” è oggi priva di senso, o almeno non completamente soddisfacente.
Cosa vuol dire, esattamente, “riattualizzare” un contenuto dottrinale? Il verbo “riattualizzare”, che sebbene non figuri nel dizionario è di immediata comprensione, presenta un carattere ridondante: significa infatti la stessa cosa di “attualizzare”, il prefisso “ri-” ha la sola funzione di sottolineare la necessità di ri-tornare ancora una volta su un testo la cui importanza teorica è riconosciuta, per chiarirne la portata sotto una nuova luce.
Volgere uno sguardo nuovo su un testo può voler dire due cose: 1) si suppone che il testo in questione non abbia ancora svelato tutti i suoi segreti, che fino a questo momento qualcosa di esso non è stato colto, almeno non in maniera abbastanza chiara. Si tratta allora, possiamo dire, di attualizzarlo dall’interno, facendogli restituire un insieme di significati che nascondeva sin dall’inizio senza che fossero mai stati portati alla luce. 2) Si suppone che il testo, così come si presenta letteralmente, non basta o non basta più a se stesso, il che diviene manifesto quando lo si confronta con delle sfide “attuali” nel senso che appartengono a un’attualità diversa da quella della sua composizione. Così sembra che, lungi dal presentare l’apparenza omogenea che all’inizio poteva pretendere, esso è attraversato da una spaccatura tra ciò che è diventato privo di validità e ciò che ancora presenta un interesse per l’oggi, e giustifica lo sforzo di rileggerlo, a condizione che sia effettuata la cernita tra ciò che Croce, proprio a proposito di Hegel, chiamava “quello che è vivo” e “quello che è morto”, intendendo ciò che, per noi oggi, costituisce l’essenziale e ciò che, col passare del tempo, non merita di essere conservato.
La scelta di Honneth è chiaramente la seconda, laddove considera che, nei Lineamenti di filosofia del diritto, vi sono cose che non sono più accettabili o non sono più aderenti alla realtà – come ad esempio la concezione della famiglia patriarcale borghese, o la difesa del modello delle corporazioni medievali presentata come soluzione ai problemi della “società civile”, o la sacralizzazione dello Stato burocratico di tipo prussiano. Questi temi, che oggi hanno perso la loro credibilità, avrebbero reso le analisi condotte da Hegel definitivamente obsolete se in quelle analisi non vi fosse qualcos’altro meritevole di essere salvato, purché venga estrapolato dal contesto originario all’interno del quale era stato proposto.
Cos’è questo “qualcos’altro” che permette di restituire attualità all’analisi di Hegel? Ed esiste davvero? Non bisogna, una volta riconosciuto il carattere storicamente superato dei riferimenti oggettivi su cui si fonda la filosofia hegeliana del diritto, limitarsi a lasciarla cadere nell’oblio e rivolgersi altrove per cercare le basi di una filosofia del diritto valida per l’oggi? All’inizio del suo libro, Honneth parte da una constatazione che va in questo senso, quando rileva che «la filosofia del diritto di Hegel è finora rimasta senza alcun influsso sui dibattiti contemporanei della filosofia politica»[1], affermazione giustificata dal fatto che il suo libro si fonda interamente su ricerche condotte in inglese e in tedesco, escludendo qualunque altro riferimento: tali ricerche sarebbero le sole a rappresentare «i dibattiti contemporanei della filosofia politica» – il che non può mancare di sorprendere un lettore francese.
Certamente è un fatto che, con la rilevante eccezione dei libri di Charles Taylor citati da Honneth[2], Hegel è uscito dal raggio di attenzione della maggior parte dei filosofi importanti dell’universo culturale anglosassone e tedesco, che gli dedicano esclusivamente, in una prospettiva antiquaria, un interesse accademico, ed è stato soppiantato da altri riferimenti, primo fra tutti la Teoria della giustizia di John Rawls[3], considerata come autentico fondamento di una riflessione sui problemi della democrazia moderna, problemi che la tradizione hegeliana avrebbe completamente ignorato e su cui, di conseguenza, non ha niente di interessante da dire.
Honneth, a questo proposito, adotta una posizione diversa e rifiuta di trattare Hegel come un «cane morto», per riprendere la formula di Marx sulla condizione dell’hegelismo dopo il 1850. Honneth considera che, nonostante alcune opinioni alla moda, la filosofia hegeliana, purché sia “riattualizzata”, ha ancora qualcosa da dire, e da dirci, anche rispetto a problemi che non erano realmente suoi, o di cui aveva sottostimato l’importanza, come quelli della democrazia. Questo giustifica che si ritorni a Hegel, per costringere la sua filosofia del diritto a esprimere quel che non ha potuto dire spontaneamente e che, ancora oggi, può servire a pensare quei problemi, proprio mentre, trovandosi per sua stessa ammissione nell’incapacità di «superare il suo tempo», essa, come sembra,  non era del tutto in grado di pensarli da sola, almeno non direttamente.
Considerata sotto questa prospettiva, la riattualizzazione del testo hegeliano cui procede Honneth non consiste solo nello scindere ciò che in esso è vivo da ciò che è morto, in modo da estrapolare quel che oggi può meritare ancora la nostra attenzione, operazione di epurazione negativa nel suo principio. Ma, cosa che va in tutt’altro senso, deve preoccuparsi, non di sottrarre dal testo quel che può non convenirci più, ma piuttosto di aggiungergli qualcosa che, di fatto non conteneva, almeno in termini propri, ma che, ciò nondimeno, iniettato alla sua organizzazione speculativa, le restituisce il supplemento di senso indispensabile perché noi le troviamo o le ritroviamo un’attualità. In breve, più che rileggerlo, essendo principalmente attenti al suo significato letterale, si tratta, in qualche modo, di riscrivere il testo della filosofia hegeliana del diritto, apportandole o istillandole un certo numero di elementi interpretativi che permettono di indirizzarne il significato in una direzione diversa, in conformità con criteri e attese che Hegel stesso non avrebbe potuto evitare di tenere in considerazione se avesse dovuto sviluppare la sua concezione dei rapporti socio-storico-giuridici all’inizio del XXI secolo.
Così si colma un grande vuoto, cercando al tempo stesso di conseguire due obiettivi lontani fra loro al punto da sembrare i termini di un’alternativa: da una parte, modernizzare la dottrina hegeliana rivolgendole uno sguardo che ne modifica alcuni equilibri di fondo e, dall’altra, mantenere una certa fedeltà allo spirito del pensiero hegeliano, con la convinzione di fondo che in esso vi sia qualcosa che è ancora suscettibile di illuminare i problemi del presente, quindi che vi siano serie ragioni per sostenere la necessità di passare per Hegel, invece di accantonare definitivamente il suo apporto, allo scopo di riflettere su problemi, come quelli della democrazia moderna, che la sua situazione storica l’aveva costretto a ignorare.
Per riuscire nel suo intento, cioè per «rendere la filosofia hegeliana del diritto ancora una volta feconda per il discorso della filosofia politica»[4], Honneth sceglie di adottare una strategia che egli stesso definisce «indiretta». A suo avviso tale strategia è l’unica che permette di aggirare l’ostacolo costituito da ciò che, dal suo punto di vista, ha reso quella filosofia illeggibile, ovvero il logicismo razionale che, chiudendola nei circoli apparentemente intangibili del “sistema”, ne ha cristallizzato la riflessione intrappolandola nei rigidi schemi di un necessitarismo (cioè di un autoritarismo) di cui la figura dello Stato burocratico, presentata alla fine dei Lineamenti come la soluzione a tutti i problemi della società, è in fin dei conti l’immagine conforme. Invece di tentare di riabilitare la concezione hegeliana dello Stato, cammino espressamente rifiutato da Honneth, come lo era stato già da Marx in occasione della sua rilettura dei Lineamenti, questa strategia indiretta porta a comprendere che non è possibile mantenerla nella posizione centrale che un hegelismo dottrinario, più attento alla lettera che allo spirito, le aveva assegnato, facendone un punto di ancoraggio e attribuendole così un carattere dirimente tale da giustificare una critica della filosofia hegeliana del diritto che vada nella direzione del suo rifiuto radicale.
Invece di affrontare frontalmente quella filosofia, cercando di essere il più possibile fedele alla sua logica dichiarata (il che ha come inevitabile conseguenza di mettere in evidenza ciò che la rende oggi, per dirla brutalmente, impossibile, insostenibile, inaccettabile), anche se poteva sembrare ai suoi tempi, quindi per noi nel passato, che essa presentasse una dimensione progressiva, bisognerà quindi prenderla di traverso, facendone emergere alcuni aspetti, come ad esempio l’osservazione marginale che si riferisce alla tematica dell’amicizia, che Honneth scopre[5] nell’aggiunta al §7 dell’Introduzione dei Lineamenti e che trasforma in una sorta di filo conduttore per una ripresa del contenuto della totalità dell’opera che vada nel senso della “riattualizzazione”.
A questo proposito facciamo notare che la lettura indiretta che Honneth propone dei Lineamenti di filosofia del diritto, si appoggia essenzialmente sui passaggi elencati alla voce “aggiunte” (Zusätze) nella versione dell’opera di cui disponiamo attualmente, risultato di un processo editoriale proseguito dopo la morte di Hegel. Le aggiunte riprendono il contenuto degli approfondimenti orali offerti da Hegel durante le lezioni, approfondimenti che gli servivano a commentare il contenuto redatto in precedenza dei paragrafi (stampati) e delle note (manoscritte) in cui aveva già inserito gli elementi sistematici della sua dottrina che le conferiscono il suo carattere dogmatico. Sono questi liberi commenti, colti all’impronta dagli studenti nei loro quaderni di appunti che, recuperati e successivamente integrati nel corpo dell’opera, hanno fornito la materia delle “aggiunte” di cui Honneth si serve per portare sul testo una nuova luce. Come aveva fatto notare Domenico Losurdo nel suo pregevole libro su Hegel e la libertà dei moderni[6], queste aggiunte rappresentano da parte di Hegel non solo un prolungamento o un’esplicitazione di quanto era già scritto nella parte redatta del suo testo, ma una presa di distanza, uno scarto, nella forma di un ritorno riflessivo, cui le condizioni restrittive della censura avevano imposto un carattere criptico che ne limitava, fino a deformarla, l’autentica portata. Si potrebbe applicare qui la tesi sostenuta da Deleuze a proposito di ciò che chiama, nella sua lettura di Spinoza, le due Etiche: quella delle proposizioni e delle loro dimostrazioni il cui rigore razionale lascia fuori, per principio, ogni aspetto suscettibile di riferirsi a pratiche esistenziali vissute direttamente, e quelle degli scolii, in cui sono accennati dibattiti, spesso veementi, che mettono in gioco i poteri propri dell’immaginazione da cui un’etica autentica non può permettersi di fare astrazione, a dispetto della ragione raziocinante che vorrebbe riuscire a ignorarli. In maniera analoga, si potrebbe dire che i Lineamenti di filosofia del diritto, così come li possiamo leggere oggi, consistono nella sovrapposizione di due insiemi testuali che non sono l’esatto equivalente l’uno dell’altro e che non dicono affatto la stessa cosa, nella misura in cui rispondono a obiettivi diversi, il che produce un effetto di torsione da cui uno sforzo di riattualizzazione del pensiero hegeliano ha tutto l’interesse a trarre partito per far pendere quel pensiero da un’altra parte, liberandolo dalla cappa dogmatica con cui è stata indebitamente coperta.
L’altro Hegel che Honneth scopre nelle aggiunte ai Lineamenti di filosofia del diritto presenta notevoli somiglianze con quello che Lukács, in un libro importante composto nel 1938 e pubblicato nel 1948, aveva chiamato “il giovane Hegel”, quello prima di Norimberga, Heidelberg e Berlino, la cui traiettoria si era compiuta, nel 1807, a Jena, con la messa a punto definitiva e la pubblicazione della Fenomenologia dello spirito, l’opera mitica in cui era catalogata e interpretata la successione delle «esperienze della coscienza». Semplificando all’estremo, si può dire che ciò che caratterizza la filosofia del giovane Hegel sotto le diverse forme che essa ha rivestito dopo il 1796, da quando Hegel aveva terminato il suo corso di studi allo Stift di Tubinga fino a quando, non senza un certo sentimento di frustrazione, esercitò le funzioni di Privatdozent a Jena, all’epoca roccaforte dei giovani intellettuali romantici tedeschi coi quali discuteva, è l’aver preso in considerazione pratiche esistenziali concrete, come quelle legate all’amore e al desiderio di riconoscimento, al fine di chiarire problemi che sono soprattutto quelli della coscienza e del suo intimo convincimento piuttosto che quelli dello Spirito universale, spersonalizzato e disumanizzato, che, al contrario, sono stati al centro delle ricerche condotte in seguito da Hegel, cosa che si è tradotta in uno sforzo crescente di sistematizzazione del loro contenuto.
L’impresa portata avanti da Honneth consiste quindi nel reinterpretare i Lineamenti di filosofia del diritto, una delle opere più importanti dell’Hegel della maturità, effettuando una lettura che abbiamo definito laterale che prende come modello di riferimento la Fenomenologia dello spirito – il che rende possibile l’attenzione privilegiata rivolta al testo delle aggiunte. Tutto si svolge così dal punto di vista di questa lettura, come se i diversi “momenti” logici dello “Spirito oggettivo” studiati in quest’opera (ovvero il diritto astratto, la moralità soggettiva e, per finire, quell’insieme singolare di comportamenti che costituisce la principale scoperta presentata da Hegel in questo quadro, per cui ha coniato, allo scopo di indicarlo, il termine a prima vista enigmatico e difficilmente traducibile di Sittlichkeit) erano le tappe di un percorso effettuato “di persona” dalla coscienza, le “figure” dell’esperienza da essa vissute al momento di attraversare il mondo “oggettivo” del diritto. Di tale mondo la coscienza ha dovuto assimilare in tutto o in parte le forme, a prezzo di alcuni sacrifici o rinunce: è questo ad aver conferito alla traversata il carattere di un’autentica prova. Facendo riferimento nel titolo originale della sua opera a una “sofferenza” (Leden), Honneth ha senza dubbio voluto mettere in luce l’interesse prioritario che accorda a determinazioni essenziali che una lettura frontale e sistematica dei Lineamenti di filosofia del diritto, concentrata sulla materia letterale (paragrafi e note complementari) del libro, porterebbe a trascurare. A dire il vero, questa tematica della sofferenza, se è effettivamente presente nel testo di Hegel, lo è solo a tratti: il tour de force compiuto da Honneth è consistito proprio nell’inversione del rapporto tra ciò che si trova scritto in caratteri pieni, in maniera centrale, e ciò che nella sua organizzazione occupa solo una posizione marginale o laterale, che ha fatto passare in primo piano, il che cambia tutto, o comunque inficia considerevolmente, il significato complessivo.
Notiamo che questo tentativo di rovesciamento o di rivolgimento è di tutt’altro tipo rispetto a quello praticato da Marx nel 1843 quando aveva iniziato a rileggere il testo di Hegel focalizzando la sua attenzione sul rapporto tra gli ultimi due momenti della Sittlichkeit, la “società civile” (bürgerliche Gesellschaft) e lo “Stato” (Staat), considerati come masse formali di attività desoggettivate, e inserite in questo modo in un semplice rapporto di determinazione reciproca, il che permette di misurare il rispettivo peso storico:  la tesi difesa da Marx è consistita nel sostenere che è nella società civile, quindi sul piano della struttura economica, che bisogna cercare la chiave delle difficoltà e dei conflitti legati al funzionamento politico dello Stato, e non l’inverso, come Hegel aveva preteso di dimostrare. Tale questione non attira l’interesse di Honneth, che non ne fa neppure menzione nel suo libro. È tutt’altra cosa a preoccupare Honneth, e segnatamente un insieme di problemi evocati solo di sfuggita nel testo di Hegel, principalmente nelle aggiunte, e che ricostruisce attraverso una rilettura creatrice, attiva, dell’opera. Tale rilettura, come abbiamo suggerito, le aggiunge qualcosa che letteralmente le mancava, senza tuttavia essere completamente assente, e che bisogna necessariamente tenere in considerazione per restituire un senso oggi al percorso di Hegel, cioè, riprendendo la formula di Honneth che abbiamo già citato, al fine di «rendere la filosofia hegeliana del diritto ancora una volta feconda per il discorso della filosofia politica»[7].
Attirano principalmente l’attenzione di Honneth tre punti, che possiamo supporre siano legati tra loro e che possono essere caratterizzati nella maniera seguente: 1) ciò che nei Lineamenti di filosofia del diritto è sviluppato è innanzitutto una teoria della giustizia, 2) tale teoria presenta un carattere normativo, 3) la normatività all’opera in tale teoria ha come punto di forza le condizioni della comunicazione intersoggettiva che definisce autonomamente le condizioni umane e di cui il diritto effettua la sistemazione. Una lettura frontale dell’opera di Hegel, in apparenza esatta e fedele, rischia di tralasciare questi tre punti, che non vi sono sviluppati espressamente a chiare lettere; mentre permette di svelarli un’impresa di ricomposizione del suo contenuto del tipo di quella condotta da Honneth, di cui si può dire indubbiamente che forza il senso del testo, o piuttosto che lo forza a dire qualcosa che dice solo di sfuggita e che si può udire solo avvicinando molto l’orecchio per cercare di cogliere quel che si mormora con parole velate e che costituirebbe, per noi oggi, la sua “modernità”.

La filosofia hegeliana del diritto come “teoria della giustizia”
Cosa significa interpretare la filosofia del diritto nei termini di una teoria della giustizia che, se è realmente hegeliana nello spirito (il che resta da dimostrare) si troverebbe iscritta in filigrana nel testo dei Lineamenti? La formula “teoria della giustizia” è quella di cui lo stesso John Rawls si è servito per presentare il suo tentativo di rifondazione del diritto. Si può interpretarla come un ritorno da Hegel a Kant, che mira a restituire alle prescrizioni generali del diritto un valore per l’individuo e il suo bisogno intimo di libertà, senza che si rimetta in discussione la portata generale delle prescrizioni. È in questo senso che è utilizzata da Honneth? Il suo percorso ha per obiettivo di far comprendere che Hegel era ancora influenzato dai presupposti della filosofia kantiana fino al punto da essere già rawlsiano senza saperlo? Questo interrogativo è posto da Franck Fischbach nella sua presentazione dell’edizione francese del testo di Honneth di cui è il traduttore, e che a questo proposito scrive: «Quando si è disposti a dar prova di buona volontà nei confronti di Hegel al punto di volerlo mettere in relazione con sfide contemporanee, gli si vuole far giocare il ruolo di precursore del metodo delle scienza sociali (anche solo per aver formulato l’idea di una razionalità del sociale), ma si è certamente lontani dall’ammettere che possa essere considerato come autore di una “teoria della giustizia” ante litteram».
Eppure è questa la scommessa di Axel Honneth ne Les pathologies de la liberté» (p. 9). Su quali elementi si fonda Honneth per fare questa scommessa, convinto che gli offrano la possibilità di uscirne vincitore? E sono sufficienti per consentirgli di superare l’ostacolo che costituisce, nelle sue parole, «l’inconfondibile tendenza hegeliana di voler comprendere l’autonomia individuale di tutti i cittadini dello Stato in senso assolutamente antitetico a quello kantiano di un principio della sovranità popolare»[8]? Infine, per semplificare all’estremo la questione: nel testo di Hegel vi sono argomenti che permettono di superare il dilemma che oppone, da un lato, la teoria autoritaria che rappresenta indiscutibilmente la sua dottrina razionale dello Stato come incarnazione di Dio sulla terra e, dall’altro, la rivendicazione di autonomia propria degli individui, che non possono consentire a cedere su ciò che concepiscono come loro diritto naturale, ovvero la loro rivendicazione spontanea di autonomia, a meno che non vedano in questa rinuncia il mezzo, il solo di cui dispongono, per “realizzare” questo diritto naturale, e quindi strapparlo allo statuto formale del “dover-essere”?
Per rispondere a questi interrogativi, Honneth riparte dall’Introduzione dei Lineamenti di filosofia del diritto, in cui è presentato il problema cui l’insieme dell’opera è votato a rispondere, un problema che difficilmente si immagina che abbia potuto perdere di vista o che abbia rinunciato a tenere in considerazione quando è giunto al termine del suo percorso attraverso la sfera dello Spirito oggettivo, cioè del mondo di ciò che possiamo chiamare la cultura umana pensata come una “seconda natura”. Di quale problema si tratta? È quello della determinazione oggettiva delle strutture istituzionali in cui devono svolgersi le pratiche individuali per evitare di sprofondare in conflitti insolubili? Oppure è quello dei fini perseguiti in ultima istanza attraverso queste pratiche, che le motivano a sufficienza, nel senso forte della categoria razionale del motivo (che non è riducibile a moventi empirici), affinché esse accettino di piegarsi alle obbligazioni imposte da tali strutture? Hegel dichiara espressamente nel §4 della sua Introduzione ai Lineamenti che «il terreno del diritto e, precisamente il suo luogo e punto di partenza, è la volontà libera» e precisa che «la libertà costituisce la sostanza e la destinazione del diritto». A partire da qui, è chiaro che, prima di tutto, la dottrina del diritto può essere una teoria della libertà, e non una dottrina dell’autorità. E se, per finire, questa dottrina giustifica la necessità per la volontà di accettare di sottomettersi a un’autorità del tipo di quella incarnata nello Stato, può essere solo perché questa volontà ha assimilato l’esigenza di piegarsi a questo tipo di obbligo una volta ammesso che si tratta del solo mezzo di cui dispone per raggiungere i suoi scopi. Se prendiamo questo ragionamento alla lettera, il rapporto dell’autorità con la libertà è lo stesso che intercorre tra mezzo e fine; e se l’autorità costituisce il mezzo che non si può aggirare, la libertà, o meglio la libertà della volontà, è indiscutibilmente il fine.
Così coloro che rifiutano Hegel perché vedono in lui un dottrinario dell’autorità, un maître à penser la cui ispirazione sostiene tutti i tentativi “totalitari” che in lui hanno trovato la migliore delle garanzie, trascurano il fatto che, lungi dal procedere a un’apologia senza riserve dell’autorità – che sarebbe la negazione di una teoria della giustizia – Hegel non perde mai di vista che l’autorità non è in nessun caso un fine in sé, che in quanto tale dispone di un valore assoluto. Poiché il fine ultimo, attraverso tutta la concatenazione delle mediazioni il cui insieme complesso costituisce la sfera dello Spirito oggettivo, resta, a dispetto di ogni ostacolo, la volontà libera. Il problema è allora sapere se tale sfera dello Spirito oggettivo, ovvero il mondo del diritto, è in grado di raggiungere integralmente il fine.
Tuttavia è impossibile fermarsi qui, dal momento che l’espressione “volontà libera” nasconde il seguente enigma: di chi è la volontà? E, quindi, qual è il soggetto di tale volontà (dal momento che è impossibile, o almeno estremamente difficile, immaginarla come una volontà senza soggetto, una volontà oggettivata o sostantivata al punto di aver perso ogni relazione con un soggetto, cosa che, inevitabilmente, la priverebbe dello statuto autentico della volontà)? La scommessa di Honneth, che ne elenca in dettaglio le attese nel primo capitolo del suo libro, è che il soggetto della volontà libera di cui parla Hegel rimanga, in ultima istanza, l’individuo in persona, e che lo scopo perseguito da tale volontà, che per l’individuo è “sua” sino in fondo, nel senso che è escluso che possa mai privarsene, è quello della sua “autorealizzazione”, vale a dire di una realizzazione del suo desiderio intimo di libertà che garantisca al massimo la sua autonomia. A questa condizione, e solo a questa, la filosofia hegeliana del diritto può essere interpretata nei termini di una teoria della giustizia: dietro le diverse forme giuridiche esaminate nei Lineamenti, vi è un’esigenza di giustizia che non è soltanto formale, ma è avvertita e vissuta dal punto di vista di una volontà che è concretamente quella degli individui, al contempo soggetti e oggetti del diritto di cui costituiscono la fonte e il punto di forza, fino a quando costoro accettano tali forme, per quanto costrittive esse siano, poiché vi scorgono l’unico mezzo per realizzare la loro libertà.
Da questa prospettiva, la lettura che Honneth fa della filosofia hegeliana del diritto consiste nel restituirle una dimensione intenzionale che, bisogna dirlo, non è assolutamente esplicitata nel testo dei Lineamenti e, nel migliore dei casi, le è soggiacente, il che spiega, pur senza giustificarlo, perché questa dimensione non sia presa in considerazione dalle interpretazioni tradizionalmente in voga di questa filosofia, che normalmente ne sottovalutano l’importanza. Per dimensione intenzionale si deve intendere la convinzione in coloro che si conformano alle prescrizioni del diritto sotto tutte le forme che esso può assumere, che tali prescrizioni siano “giuste”, cioè legittimate dal desiderio di autorealizzazione che le anima in profondità, il che giustifica la loro adesione. A tal proposito Honneth scrive che la filosofia dello Spirito oggettivo «deve ricostruire in maniera sistematica i passaggi necessari attraverso i quali il libero volere di ogni singolo uomo giunge a realizzarsi nel presente […]. Come Rousseau, Kant e Fichte, Hegel parte dalla premessa che tutte le determinazioni morali o giuridiche possono essere considerate legittime solo in quanto esprimono l’autonomia o l’autodeterminazione degli uomini»[9]. Se questa condizione non fosse rispettata, non si vede infatti come il diritto potrebbe essere considerato come la sfera propria di realizzazione della volontà libera, tesi di partenza sostenuta da Hegel.
Non si tratta tuttavia di negare l’originalità della concezione hegeliana del diritto, ovvero di trascurare il fatto che, partendo dalle basi che condivide con Rousseau, Kant e Fichte, Hegel si distingue da loro sul piano delle soluzioni che pone in vista di risolvere il problema della messa in atto delle intenzioni o degli scopi propri della volontà libera. Questa differenza attiene alla maniera estremamente peculiare in cui egli tratta il soggetto del diritto: non come un soggetto già costituito in via preliminare rispetto al suo ingresso nella sfera del diritto, ma come un soggetto la cui incorporazione in questa sfera, a tutti i livelli, condiziona la sua formazione, in tutte le accezioni che la parola “formazione” può assumere.
Da qui deriva la conseguenza che, se la filosofia hegeliana del diritto è conforme agli obiettivi fondamentali di una teoria della giustizia, essa conferisce a questa teoria un andamento tra i più originali, di cui non è possibile negare la specificità. Honneth caratterizza questa specificità nel modo seguente: «Hegel  desidera dar vita ad un modello più complesso di libero volere, nel quale alla materia dell’autodeterminazione individuale deve essere tolta ogni traccia di eteronomia, poiché essa deve essere pensata come un prodotto della libertà»[10] .
In altre parole, si tratta di uscire dall’alternativa tra autonomia ed eteronomia in cui sono costrette le concezioni tradizionali della volontà libera: se la volontà è libera, non lo è nel senso di un dato iniziale o di una proprietà della sua sostanza che dovrebbe a tutti i costi preservare da ogni attacco esterno, ma in quello di una libertà che essa deve conquistare in pratica impegnandosi in un processo di liberazione di cui deve percorrere tutte le tappe per giungere al suo scopo. Lo Spirito oggettivo è la sfera all’interno della quale la volontà deve affrontare attivamente il rischio dell’esteriorità, una volta ammesso che si tratta della condizione affinché consegua effettivamente il suo scopo ultimo, che rimane l’autorealizzazione del soggetto di questa volontà.

L’“ideale normativo” della volontà libera
Questo porta a prendere in considerazione il secondo punto su cui si fonda la lettura proposta da Honneth della filosofia hegeliana del diritto in vista di una sua riattualizzazione, vale a dire il fatto che tale filosofia è incomprensibile se non si traggono tutte le conseguenze del fatto che essa risponde a un “ideale normativo”. Presa in prima istanza, l’espressione “ideale normativo” suggerisce il riferimento a un dover-essere, ovvero un rifiuto di accontentarsi di ciò che è, che giustifica uno sforzo per superarlo. Ma Hegel non ha sostenuto, a più riprese e con particolare insistenza, in particolare nella Prefazione dei Lineamenti che, nel conflitto che lo oppone al dover-essere, è sempre l’essere che deve avere l’ultima parola, condizione affinché sia garantito l’adeguamento tra reale e razionale così come prescrive l’iscrizione della «rosa» della ragione nella «croce» del presente? A questo risponderemo immediatamente che l’essere, per Hegel, non è l’essere dato, cioè la sostanza che non è divenuta soggetto, ma è il reale in quanto impegnato concretamente nel processo della sua costituzione o razionalizzazione che, propriamente, lo fa essere nel senso della realtà effettiva o Wirklichkeit, attraverso cui l’essere è la propria opera, quindi non solo la causa, ma anche l’effetto della sua libertà, in quanto questa è il prodotto del suo lavoro. In altre parole, l’uomo non nasce libero, ma lo diviene, nel corso di una storia che non è solo il suo percorso individuale, ma partecipa a ciò che, nella Prefazione della Fenomenologia, Hegel chiama il «mostruoso lavoro della storia universale», lavoro che ha permesso alla sfera dello Spirito oggettivo di costituirsi sviluppando l’insieme complesso delle sue mediazioni, che non erano tutte costituite in partenza come se fossero scaturite direttamente dalla natura. Parlare di ideale normativo, in questo contesto, non è dunque porre l’ideale in contrapposizione a ciò che esiste realmente, come se si trattasse di un’opposizione frontale, ma significa tener conto del fatto che il reale non è tutto compiuto in partenza, poiché è ciò che, nello specifico, si fa o deve farsi, affrontando dei rischi, condizione perché realizzi un progetto la cui riuscita non è immediatamente garantita, anche se risponde a un orientamento razionale nel suo spirito.
È questo che permette di comprendere ciò che distingue le norme dalle semplici regole: le regole devono solo essere applicate, così come sono enunciate, senza che la loro attuazione, che sia compiuta o meno, possa metterne in dubbio la legittimità; al contrario, le norme sono “ideali” nella misura in cui rappresentano mire o obiettivi il cui andamento si definisce nella misura della loro realizzazione, di cui esse sono simultaneamente cause ed effetti; si può anche dire che le regole sono valide in teoria, mentre le norme sono suscettibili di essere affermate solo in pratica, nel quadro del processo della loro effettiva realizzazione – e questo fa la differenza tra vincoli formali, imposti dall’esterno, e obblighi la cui necessità è sentita e assunta da coloro che ne sono i destinatari, in una prospettiva normativa, non riducibile al conformismo evocato da un astratto modello di normalità.
Per questo, il secondo punto su cui si fonda la lettura di Honneth si lega strettamente al precedente: le norme non costituiscono una quadro rigido dato indipendentemente dalle forme della loro realizzazione, ma sono inseparabili da un’intenzione che si confronti con il banco di prova della realizzazione, di cui bisogna inventare in corso d’opera le forme, laboriosamente e senza garanzia di successo. Confrontarsi con le norme significa, per riprendere la formula di Georges Canguilhem che, recentemente, è stato tra coloro i quali  hanno spinto più lontano la riflessione sulle norme, e da cui è ripresa la distinzione tra normatività e normalità, intraprendere il superamento degli ostacoli che si presentano come “valori negativi”, su cui non si può trionfare senza combattere. Possiamo dire che le regole accedono allo statuto di norme quando integrano nella loro affermazione la rappresentazione dei valori negativi con cui sono in lotta e contro le quali si definiscono in pratica o, per meglio dire, a caldo, nel vivo dell’azione che dirigono a titolo di ideale, cioè di scopo non ancora raggiunto, ma che rimane da realizzare a prezzo di un difficoltoso sforzo solo al termine del quale appare la sua autentica natura, quando i suoi contorni sono stati completamente tracciati. Si comincia allora a comprendere perché Honneth collochi in primo piano nella sua analisi la categoria di “sofferenza” (Leiden), di cui Franck Fischbach, il traduttore francese del suo libro, ha offerto un equivalente servendosi della formula: “le patologie della libertà”. Qual è questa sofferenza, tenendo conto della quale è possibile restituire alla filosofia hegeliana del diritto la sua originalità e renderla, alla luce di questa sofferenza, imprescindibile? È, precisa il titolo originale del libro di Honneth, la “sofferenza legata all’indeterminazione” (Leiden an Unbestimmtheit). L’indeterminazione in questione è quella legata a una certa incapacità di dare un contenuto effettivo all’ideale normativo che guida le iniziative della volontà libera, incapacità vissuta in maniera patologica come una manifestazione di impotenza. Nel suo percorso attraverso la sfera dello Spirito oggettivo, la volontà tenta prima di tutto, allo scopo di soddisfare le sue esigenze di libertà, le soluzioni che le sono offerte, in primo luogo dal diritto astratto, il cui esempio tipico è il diritto di proprietà, con le modalità del consenso formale che gli consente di stabilirsi, poi dalla morale soggettiva, che richiede forme di comportamento motivate dall’intima convinzione di fare bene, un atteggiamento mentale che non è in alcun modo compreso nel corso della tappa precedente. Queste due soluzioni di segno opposto, che mettono in risalto le figure paradigmatiche del proprietario e dell’anima bella, si rivelano ugualmente deludenti, nella misura in cui esse non riescono a determinare a sufficienza il contenuto di ciò che può essere un’azione libera nelle condizioni fissate dal diritto. Se non ci riescono, è in ragione del loro carattere restrittivo, che contamina i loro risultati con una certa dose di negatività, nella misura in cui incoraggiano tutt’al più a fare la libertà tramite il vuoto, eliminando, ma senza produrre niente di effettivo. Come nell’itinerario seguito dalla coscienza nell’ambito della Fenomenologia dello spirito, le esperienze infelici che sfociano in fallimenti sono ciò che costringe a riprendere di nuovo, su nuove basi, lo sforzo per realizzare la libertà nel mondo esterno, che è il compito impartito allo Spirito oggettivo. Senza le delusioni accumulate a seguito di queste imprese che si sono rivelate in fin dei conti non conformi allo scopo iniziale, sarebbe incomprensibile il passaggio all’ultima tappa del processo, vale a dire l’ingresso nell’universo estremamente peculiare della Sittlichkeit, per riprendere alla lettera il titolo della terza parte dei Lineamenti. Per rimediare alle sofferenze causate da queste esperienze infelici, la volontà è finalmente indotta ad acconsentire, sulla base della rinuncia, alle condizioni che le sono fissate dalla necessità di “vivere in comune”, che è in fondo l’idea essenziale veicolata dalla nozione di Sittlichkeit. Le “patologie della libertà” risultano dalla coscienza che subisce le gravi limitazioni legate all’identificazione della sfera giuridica con le forme del diritto astratto e della morale soggettiva, che non hanno permesso di soddisfare il bisogno viscerale di essere libera che muove la volontà, il che l’ha portata, nella sofferenza, a ritornare riflessivamente su di sé e a ridefinire il proprio concetto. A questo prezzo gli obblighi legati al funzionamento delle diverse istanze di questo conclusivo momento del diritto che costituisce la Sittlichkeit, cioè la famiglia, la società civile e lo Stato, sono assunte non come vincoli imposti dall’esterno, quindi come negazioni o restrizioni dell’ideale normativo di libertà, ma come manifestazioni positive della volontà che ne ha pienamente assimilato la necessità.
Honneth insiste sul fatto che il confronto con valori negativi, cioè con le “patologie della libertà”, è proprio delle società moderne. È innegabile, infatti, che Hegel ha voluto dare alla presentazione dei momenti successivi del diritto una dimensione storica: il diritto astratto è il diritto romano che, in una determinata epoca storica, è potuto apparire come la soluzione adatta al problema posto dalla realizzazione dell’ideale normativo che anima la volontà; allo stesso modo, la moralità soggettiva, in epoca romantica, è stata presentata come la migliore forma di realizzazione dello stesso ideale, su cui poteva dunque essere riposta, senza nessuna riserva, quindi senza sofferenza, una fiducia piena e completa. È solo nell’epoca moderna che è stata stabilita la “diagnosi dell’epoca” che ha rivelato l’insufficienza di fondo di queste forme: così, esse hanno perso la credibilità di cui avevano potuto beneficiare alla loro epoca, il che ha reso inevitabile il passaggio a una nuova tappa, e a una riformulazione del concetto di diritto, sulla base di usi pratici sul piano specifico delle diverse istanze della Sittlichkeit. Questa nuova tappa culmina con l’esperienza della cittadinanza politica, sotto l’autorità e la garanzia dello Stato sovrano.

Una filosofia della comunicazione intersoggettiva?
Il terzo punto proposto da Honneth per effettuare una riattualizzazione della filosofia hegeliana del diritto è la considerazione dell’aspetto “comunicativo” delle condotte umane che, vissute sul piano dell’intersoggettività, accedono infine allo scopo (l’autorealizzazione della volontà) in condizioni a prima vista paradossali, dal momento che evocano la sottomissione consensuale a un principio che si rivela in ultima istanza come un principio di autorità. Da qui la domanda: come ci si può  liberare sottomettendosi volontariamente a delle costrizioni? Poiché, sul piano della Sittlichkeit, ovvero delle diverse forme di vita comune o comunitaria, la negatività non è scomparsa in modo puro e semplice, è stata “superata” nel senso dell’Aufhebung, cioè al contempo eliminata e conservata. In fondo, sono i paradossi associati alla tematica della “servitù volontaria” che si trovano qui al centro del dibattito. Tutta la questione è allora sapere se i concetti di “comunicazione” e di “intersoggettività”, assenti in forma letterale nel testo di Hegel, e inseriti nella rilettura che ne fa Honneth al fine di “riattualizzarlo”, vale a dire, riprendendo la sua formula, di «rendere la filosofia hegeliana del diritto ancora una volta feconda per il discorso della filosofia politica», siano adatti a risolvere questi paradossi.
Secondo Honneth, l’originalità della riflessione che Hegel dedica ai problemi generali del diritto consiste nell’aver messo in primo piano il rapporto con l’altro in quanto condizione della realizzazione della libertà nelle società moderne: «se la libertà individuale si contraddistingue in primo luogo come l’essere presso di sé nell’altro, allora la giustizia nelle società moderne si commisura sulla loro capacità di garantire le condizioni di una tale esperienza comunicativa e quindi di consentire a ogni singolo la partecipazione a nessi di interazione non deformata. Accentuando questo punto si può affermare che Hegel, in nome della libertà individuale, caratterizza le relazioni comunicative come il bene fondamentale di cui dispongono le società moderne dal punto di vista della giustizia»[11]. La nozione di “esperienza comunicativa” ha quindi lo scopo di dar conto del fatto che non ci si libera da soli, ma con gli altri, in un contesto di conseguenza comunitario del quale le istanze della Sittlichkeit, famiglia, società civile (cioè mondo del lavoro e degli scambi economici) e Stato, che Honneth presenta come «strutture comunicative»[12], costituiscono le figure principali.
La presentazione dei rapporti interumani in termini di rapporti comunicativi, ripresa originariamente da Habermas, è trasformata da Honneth, nell’ambito della sua rilettura dei Lineamenti di Hegel, in un modo che le conferisce un nuovo orientamento: «mentre Habermas in Fatti e norme sviluppa una concezione normativa secondo cui la legittimità dell’ordinamento giuridico statuale risulta dalla capacità di garantire le condizioni della formazione democratica del volere, Hegel fa intervenire l’autorealizzazione individuale per dedurre dalle sue condizioni il compito di un moderno ordinamento giuridico; il fatto che per lui le sfere comunicative vengano in primo piano, risulta proprio dal particolare modo nel quale egli determina la struttura della libertà del libero volere»[13]. In altre parole, secondo Honneth, il fatto che Hegel presenti l’ordine comunicativo, in tutte le sue diverse manifestazioni, come lo spazio che la volontà libera deve occupare al fine di realizzare il suo ideale normativo, significa che quest’ordine, lungi dal presentarsi alla volontà come un ambito esteriore, è una manifestazione del progetto di autorealizzazione che definisce la libertà individuale. Ritorna in questo contesto l’idea veicolata dalla categoria di “giustizia”: il significato dello sforzo compiuto da Hegel, da cui deriva la sua profonda “modernità”, è non aver mai perso di vista il fatto che l’esigenza di libertà è iscritta nel profondo della natura individuale, anche quando quest’ultima  sembra sacrificarsi, entrando nelle “sfere” in cui l’individuo non è più solo di fronte a se stesso e alla sua coscienza personale: sfere all’interno delle quali, nonostante le apparenze, resta fedele al suo bisogno viscerale di giustizia, che si incarna allora nella volontà di intrattenere rapporti “giusti” con gli altri.
L’idea di intersoggettività assume allora il suo pieno significato: parlare di intersoggettività significa presentare il rapporto con l’altro come un rapporto tra soggetti, un rapporto che, di conseguenza, trae il suo significato da intenzioni che hanno origine nei soggetti, i quali manifestano i propri scopi personali intrattenendo relazioni in cui sembrano sacrificare qualcosa di se stessi, che però realizzano solo facendo leva sul rapporto con sé, il che definisce l’orizzonte in cui si iscrivono senza eccezioni tutte le loro condotte. Quest’orizzonte è ancora quello all’interno del quale si attua la sfera dell’«éthicité», ‘eticità’, (termine utilizzato da Frantz Fischbach per dare un equivalente in francese del concetto hegeliano di Sittlichkeit, anche se si può discutere sul fatto che il termine sia veramente francese). A tal proposito, Honneth scrive: «Il passaggio all’eticità deve, insieme con il superamento degli atteggiamenti patologici, favorire contemporaneamente la comprensione delle condizioni comunicative che costituiscono il presupposto sociale per cui tutti i soggetti possano realizzare in egual misura la loro autonomia. Nel momento in cui coloro che soffrono d’indeterminatezza comprendono che in loro hanno agito rappresentazioni di una libertà incompleta perché parziale, possono riconoscere, nelle proprie situazioni esistenziali, che partecipare all’interazione è condizione necessaria della libertà individuale»[14].
Si deve notare, in queste righe, il recupero del concetto di «mondo della vita» (Lebenswelt) introdotto da Husserl nei suoi ultimi scritti, editi dopo la sua morte e noti sotto il titolo complessivo di Krisis, al fine di collocare la tematica dell’intersoggettività al centro dell’analisi della coscienza e delle forme del suo essere al mondo. Parlare d’intersoggettività in quest’ottica significa evocare la possibilità di un “noi” che, superando lo scoglio del solipsismo, resta, se possiamo dirlo, un “io” fatto di “io plurali” che comunicano tra loro nella forma dell’intersoggettività.
Una delle migliori critiche al concetto di intersoggettività è quella che è stata mossa da Alfred Schütz nell’ambito del suo intervento al convegno «Husserl» a Royaumont nel 1957, “Il problema dell’intersoggettività trascendentale in Husserl”[15]. Schütz è generalmente presentato come seguace di Husserl (il quale, dopo aver letto la sua tesi, discussa nel 1932, Der sinnhafte Aufbau der sozialen Welt, “La costruzione significativa del mondo sociale”, gli aveva proposto di diventare suo assistente), e più precisamente come colui che iniziò un’applicazione sistematica del metodo della fenomenologia alle scienze sociali. Ed è proprio a una valutazione critica del metodo di Husserl che Schütz procede nel suo intervento a Royaumont, che si conclude nel modo seguente: «Il tentativo di Husserl di fondare la costituzione dell’intersoggettività trascendentale a partire dalle operazioni coscienziali dell’Ego trascendentale non è compiuto»[16].
Il tentativo di Husserl si giustifica in prima istanza in quanto constata l’insufficienza dello spontaneismo ingenuo del positivismo adottato dalle scienze sociali, atteggiamento che le porta a interpretare l’esistenza della società come un dato di fatto non problematico, quindi come un automatico punto di partenza, il che non è accettabile da un punto di vista teoretico: se ne conclude che è necessaria una filosofia sociale che interroghi la società sul suo essere, ponendo la questione delle sue condizioni di possibilità. Se ammettiamo che si tratta di una buona domanda, dobbiamo riconoscere, secondo Schütz, che del resto non è neanche del tutto sicuro che si tratti di una buona domanda, cui Husserl non è stato in grado di rispondere.
È questa infatti l’idea che guida tutto il ragionamento di Schütz: Husserl, a causa del punto di partenza che si era dato, ovvero proprio quelle «operazioni coscienziali dell’Ego trascendentale» che gli hanno permesso di dedurre il modo in cui l’altro appare alla coscienza per il tramite di ciò che chiama «l’appresentazione», cioè una congettura fondata su un’analogia, non è mai riuscito, nonostante i suoi sforzi, a uscire dalla sfera dell’egologia, neppure con la Krisis, testo che, all’epoca dell’intervento di Schütz, cominciava appena a essere conosciuto e studiato. Una sociologia non può però essere ragionevolmente ricondotta nei limiti di una egologia, che tutt’al più può far conoscere il modo in cui il soggetto si rappresenta la società dal proprio punto di vista, e quindi fondare una teoria dei sentimenti sociali, ma resta incapace di far conoscere l’essere stesso della società – il che presuppone che la società non sia ridotta alla rappresentazione che ce ne facciamo a partire da noi stessi.
Secondo Schütz, se Husserl riesce a pensare la relazione tra Io e Tu, in quanto esso è anche Io, o almeno un Io, un altro Io, o per meglio dire un alter ego, non è però in grado di pensare la struttura di un mondo comunitario, cioè di giungere all’idea di ciò che può essere un autentico Noi, che non sia solo una collezione di Io o di ego plurali, anche se legati interattivamente tra loro.
Husserl ha proposto una soluzione a questa aporia, sostenendo che

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