La “société naissante”. Passione, riconoscimento, diritto nel ‘Discorso sull’origine della disuguaglianza’ di J.-J. Rousseau.

francesco toto

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I. Ad un primo sguardo il Discorso sembra abbracciare una riformulazione particolarmente aspra della classica opposizione tra due ordini di realtà, irriducibili l’uno all’altro, tale da permettere a diversi interpreti di parlare, ad esempio, di un «rejet comme absurd du monisme materialiste»[1], o di una «permanence et approfondissement du dualisme cartesien»[2]. Da una parte, in quanto null’altro, in ultima istanza, se non «funzione puramente animale»[3], semplice modo di funzionare della «machine ingénieuse» del corpo, la sensibilità sarebbe sottoposta  alla rigida necessità e allo schietto determinismo delle «leggi della meccanica». Dall’altra le facoltà distintive dell’uomo –e innanzitutto la «puissance de vouloir, ou plûtôt de choisir» e la «conscience de cette puissance», come espressioni della «spiritualité de son ame»– sarebbero invece non solo irriducibili alla legalità della natura, ma ad essa, inoltre, direttamente contrapposte.

Finché ci si ferma a questo primo livello del discorso, sembra che la libertà umana si identifichi con la possibile separazione del cosiddetto côté Métaphysique et Morale da quello meramente Physique[4], ovvero con la sempre presente capacità della volontà di «acconsentire o resistere»[5] all’impulso naturale, col carattere arbitrario delle singole scelte. La libertà si trova innanzi l’impulso come qualcosa di esterno, di oggettivo, di inalterabilmente già dato. Come la volontà non può impedire alla sensibilità di sentire ciò che sente, così non può essere dal sentire che la volontà viene determinata a volere ciò che vuole, la generica «puissance de vouloir» ad incarnarsi in certe volizioni piuttosto che in altre. La libertà, in questo senso, si oppone alla natura non solo quando resiste all’impulso, ma anche quando lo asseconda. Sul presupposto che il concetto di Nature significhi essenzialmente immediatezza, abbandono all’irriflesso automatismo del «seul instinct», necessaria conformità a un insieme di leggi universali, anche l’assenso prestato all’impulso, in quanto esso stesso una forma di mediazione, è reso possibile solo da una manière d’être che réflexion e vouloir rendono necessariamente ‘depravata’, «contre Nature»[6]. Non appena l’uomo smette di «seguire ciecamente il proprio impulso»[7] e comincia a riflettere, la riflessione gli fa perdere «la presenza immediata del mondo naturale», infrangendo la sua «originaria unità con sé stesso»: l’intervento della riflessione a «distinguere l’io dal mondo» non può fare a meno di condurre l’uomo ad «alienarsi», e questa «opposizione alla natura» di porsi, al tempo stesso, come un’interna lacerazione[8]. Il suo nascere «privo di inclinazione al male» non vuol dire –come invece ritiene Derathé– che «le nostre facoltà sono sane in sé stesse, e si corrompono solo per colpa nostra»[9], ma solo che, pur essendo di per sé stesse corrotte ed inclini al disordine, l’uomo le possiede sì come parte integrante della propria natura e però, originariamente, solo «en puissance», fissate in un’astratta virtualità. È lo stesso passare all’atto di potenzialità naturali, il realizzarsi della sua umanità –l’attivarsi dell’Esprit, nella libertà che lo definisce– ad emancipare l’uomo dalla natura, a snaturarlo interrompendo l’eterna ripetizione dell’identico legata alla mera istintualità, consegnandolo alla contingenza e alla storia. Dove l’acquisita capacità di resisterle non affianca ma, paradossalmente, sopprime la natura, e lo stesso coinvolgimento nella storia priva l’essere e l’agire dell’uomo di ogni «vrai fondement dans la Nature»[10], l’inizio dello sviluppo è già, in sé, il compimento della depravazione, l’insanabilità della lacerazione. Come storia della libertà, dello spirito, storia dunque, sin dall’inizio, di «uomini artificiali»[11], la storia umana non può stare con la natura se non in una relazione di reciproca estraneità, costituendosi a luogo di una «caduta non destinata ad arrestarsi»[12], di un «male radicale e definitivo», da cui «non c’è più salvezza»[13].

Ora, poiché Rousseau stesso ne fa il principale banco di prova del modo in cui la Parte prima imposta e risolve la complicata questione del nesso tra i due côtés nei quali si articola l’identità dell’uomo, è a partire dal rapporto di desiderio sessuale ed ‘amore morale’, che questa prospettiva interpretativa può e deve essere capovolta. È vero infatti, come afferma Derrida, che nella «storia dell’amore […] si riflette la storia pura e semplice»[14]. Contro Derrida, che –facendo leva in modo unilaterale su alcuni provocatori passaggi russoiani– pensa l’amore come un rapporto di dominio e dipendenza in cui l’ordine naturale si trova sovvertito, l’analisi dovrà mostrare nella storia, come storia sociale, la condizione alla quale soltanto la natura umana può dispiegarsi, realizzarsi, l’uomo andare incontro alla sua ‘destinazione’.

Per Rousseau le «virtù sociali», come ad esempio l’amicizia, non sono la negazione di quella naturale pietà che precede ogni virtù e società, e spinge l’uomo all’indiscriminata compassione per le sofferenze di qualunque essere sensibile; al contrario, non sono nient’altro che questa stessa pietà in quanto «fissata» –come è reso possibile solo da relazioni sociali stabili– su un oggetto particolare[15]. Analogamente, l’amore non è altro dal naturale «désir général qui porte un séxe à s’unir à l’autre»[16], ma questo stesso desiderio in quanto l’individuo partecipi attivamente, cognitivamente alla sua determinazione[17]. Il besoin physique, qui, è generico nel soggetto come nell’oggetto: legato al solo benessere della macchina-corpo, a quel mécanisme des sens, a quelle «simples impulsions de la Nature»[18] che sono le medesime in ogni membro della stessa specie, è un desiderio che unisce non un certo uomo ad una certa donna, ma «un sesso all’altro»[19]. Del puro desiderio sessuale –funzionale alla riproduzione della specie– il singolo è solo un veicolo, il medium attraverso il quale si esprime la pulsione puramente ‘oggettiva’ che lo attraversa. Di questo aspetto «fisico», però, quello «morale» non rappresenta una “sostituzione” o «perversione»[20]: innestando una dimensione simbolica e sociale sul supporto meramente fisico-biologico del désir général, l’amour ne fissa, investe, devia ed incanala parte delle energie su un bersaglio individuale e privilegiato. Facendogliene preferire una su tutte, «il morale» dell’amore non costringe l’uomo a smettere di desiderare possibilmente, indiscriminatamente, qualunque donna, ma solo ad investire «un plus grand dégré d’energie»[21] sull’«oggetto preferito»: come la determinatezza dell’amitie non nega ma affianca la generalità della pietà, di cui pure rappresenta lo sviluppo, così il morale dell’amore si affianca bensì al physique, determinandolo e dando luogo ad una nuova economia pulsionale che lo ricomprende in sé, ma non lo sopprime. Già in Rousseau si può parlare allora, con Freud, di una «sopravvivenza di qualcosa di originario accanto a ciò che in seguito ne è scaturito», di una «conservazione del primitivo accanto al trasformato derivatone»[22]: cominciare a preferire una cosa alle altre non significa smettere di desiderare le altre ma, proprio al contrario, continuare a desiderarle, sebbene solo subordinatamente alla cosa preferita. Solo in quanto al tempo stesso tenuto fermo nella sua generalità, o virtualità, o indeterminatezza, in effetti, il désir originario può essere fonte di sempre ulteriori investimenti, o determinazioni.

La préférence in cui prende forma l’amore, ad ogni modo, è un «sentimento artificiale, nato dall’uso della società», un sentimento che non è dunque ricevuto direttamente, originariamente dalla natura, ma sempre il prodotto di un incontro tra l’originario e l’artificiale, tra il côté Physique e quello Métaphysique et Moral (tra natura e ‘cultura’). Non si può affermare che sia «contre nature», come fa Burgelin, solo perché «appartient au monde de la liberté et de la moralité»[23]. Da una parte l’amore per una donna –come del resto ogni altra passione– è sempre l’esito di una compenetrazione tra sensibilità, intelletto, libertà; dall’altra, però, la libertà si rivela per ciò stesso irriducibile all’astratta possibilità di «acconsentire o resistere» all’impulso naturale, o alla separazione tra due distinti côtés dell’identità umana, alla capacità dell’uomo di astrarre, nella scelta, dal condizionamento della passione, e questo perché è la stessa sensibilità che in un primo momento sembrava ridotta alla cieca necessità e ripetitività del «meccanismo dei sensi», e apporre perciò alla libertà un argine insormontabile, a dimostrarsi qui ‘permeabile’ alla libertà. La passione che oppone resistenza alla volontà è essa stessa una forma in cui la libertà, mediandosi col proprio ‘altro’, si realizza: non una forza straniera, esterna all’unità dell’Io con sé stesso, ma costitutiva, invece, dell’identità individuale. Come afferma Polin rifacendosi in particolare allo Hegel delle Vorlesungen sulla filosofia della storia, «la libertà trova il suo strumento, o meglio la sua stessa esistenza, nelle manifestazioni affettive immediate […]; essa si realizza attraverso e nelle passioni»[24]. Lungi dal porsi quale astratta indipendenza dalla (o soppressione della, o dominio sulla) sua natura, o come facoltà di prenderne riflessivamente le distanze, lasciandosela alle spalle, prima ancora che scelta riflessa tra diverse alternative, puissance de vouloir, la libertà dell’uomo è la sua specifica, paradossale capacità –capacità che lo distingue da ogni altro animale– di partecipare con la propria natura alla determinazione della propria stessa natura: naturale capacità, cioè, di «concorrere» con la natura alla determinazione, oltre che delle proprie scelte od azioni, del proprio stesso essere e sentire,  del ‘sostrato’ stesso, per così dire, delle scelte e delle azioni. Rousseau parla infatti di una «nature actuelle» dell’uomo in cui a quelle originarie si trovano ‘mescolate’ «diverse qualità […] che non erano affatto inerenti alla sua Natura»[25], e che in questa loro non-inerenza devono essere definite come «artificiali». Naturale è infatti, prima ancora di un certo insieme determinato di qualità, la capacità dell’identità dell’uomo di porsi come «unità di una sintesi»[26], complicità di naturale e non naturale, di inerente e non-inerente: la perfectibilité. Poiché originaria è allora innanzitutto la capacità dell’uomo di scartarsi dall’origine, di accogliere ‘aggiunte’ e ‘modificazioni’ nella sua «costituzione originaria»[27], naturale sarà allora non solo, da un lato, l’originario, «ciò che è stato fatto dalla volontà divina», ma anche, dall’altro, lo storico, «ciò che ha preteso di fare l’arte umana»[28]: non l’opposizione, dunque, ma la complicità e l’unificazione di questi due ‘lati’.

Restringendo lo sguardo sulla relazione tra quella “pulsione della natura” –la sessualità– alla quale «ognuno si abbandona senza scelta»[29] e l’«amore morale», che invece coinvolge necessariamente la «puissance […] de choisir», la questione può essere genericamente enunciata nei termini seguenti. Il superamento della generalità ed occasionalità proprie della mera pulsion e la ‘valorizzazione’, tra tutti, di un solo partner sessuale (o di un certo numero di amicizie), sono legati all’intervento di quelle «facoltà artificiali» che compongono il côté Metaphysique dell’identità umana: la preferenza è concessa sulla base di «idées générales» o «abstraictes» –come quelle di merito o bellezza– e  «comparaisons» che richiedono l’attività di intelletto e riflessione. Come riconoscerà l’Emile, «si può amare solo dopo aver giudicato, si può preferire solo dopo aver comparato»[30]. Queste facoltà sono però possedute dall’uomo, originariamente, solo «en puissance», in modo tale che solo il processo di socializzazione può fornire l’«occasione» del loro sviluppo, il contesto che lo rende al tempo stesso possibile e necessario. Essenzialmente, come non c’è intelletto senza linguaggio né, però, linguaggio senza società, così le «idee astratte» di merito o di bellezza, su cui una préférence può essere fondata, si riferiscono a costruzioni e criteri interamente sociali, culturali. È solo in quanto partecipa alla produzione fuori di sé di un ordine sociale e linguistico ‘oggettivo’, e cioè al tempo stesso condiviso e indipendente dall’arbitrio di ognuno, che l’uomo può realizzare quella libertà che sola, come capacità di determinare sé stesso e la propria natura, lo tiene virtualmente già da sempre distinto dall’animale; reciprocamente, però, è solo come esercizio della propria libertà che l’uomo può partecipare a quella produzione. Affermare che solo tramite l’esercizio della propria libertà l’uomo realizza fuori di sé le condizioni dell’esercizio della propria libertà significa affermare che solo la società, alterando la natura stessa dell’uomo, è capace di produrre le «conditions»[31] che rendono possibile l’associazione. Se da una parte la società che produce l’uomo, nella sua libertà ed umanità, è essa stessa un prodotto umano, dall’altra l’uomo che, libero, produce la società è esso stesso un prodotto sociale.

La libertà dell’uomo, si è visto, è essenzialmente perfectibilité. Essa rappresenta, con la vita, uno dei «doni essenziali della natura» ed anzi, ancor più della vita, il «più nobile» e «il più prezioso di tutti i suoi doni»[32]: «distinction specifique de l’homme», «qualité très specifique qui le distingue», questa libertéperfectibilité è, come nota Polin «la natura dell’uomo»[33]. Come già si intuisce, e qui di seguito si cercherà di mostrare, quale capacità di partecipare con la natura alla determinazione della propria stessa natura essa non potrà mai risolversi in una relazione immediata e solitaria del singolo con sé stesso. Lungi dal coincidere con quel sacrificio «di una parte della propria libertà alla conservazione dell’altra, nello stesso modo in cui un ferito si fa tagliare un braccio per salvare il resto del corpo»[34] che sarà reso inevitabile, col ‘patto iniquo’, dai conflitti legati all’insorgere della proprietà, la socializzazione rappresenta piuttosto essa stessa la condizione alla quale soltanto l’uomo può effettivamente congiungersi alla propria umanità. Lo sviluppo del côté Métaphysique et Moral e la sua integrazione con quello physique, infatti, risultano inseparabili dall’integrazione dei singoli nella società di cui fanno parte. Da una parte, sarà solo questa integrazione a far sì che le passioni, invece di opporsi alla libertà e alla società che le hanno prodotte, invece di rappresentare un’interna lacerazione dell’identità del singolo e del tessuto sociale, siano vettore di un approfondimento dell’unità dell’uomo con sé stesso e con la collettività di cui è membro, della sua individuazione e della sua socializzazione. Proprio per questo, d’altra parte, l’esercizio della libertà ‘metafisica’ –intesa come autodeterminazione di un essere intelligente– non potrà mai essere disgiunta da quella politica e morale, dalla necessità di ognuno sia di rispondere di sé e delle proprie azioni a un altro essere appassionato, intelligente e libero come lui, sia di farsi partecipi l’uno assieme all’altro, all’interno di un più esteso contesto relazionale, della determinazione delle forme e delle «condizioni» della loro convivenza.

II. Nella descrizione del passaggio alla société naissante, Rousseau torna sul tema dell’amour moral, attribuendogli un ruolo di grande rilievo. Spingendo i «giovani di sesso diverso che abitano in capanne vicine»[35] a desiderarsi ed intrecciare rapporti tra loro, è proprio lo sconvolgimento introdotto dal sorgere della passione amorosa ad infrangere la chiusura della relazione familiare, che riproduce immediatamente la propria unità simbiotica, fondata sul solo «affetto reciproco»[36] dei suoi membri, e a far sì che le forme della coesione sociale, private di ogni immediatezza, debbano essere attivamente, liberamente prodotte e riprodotte, costruite e garantite. «È l’amore», infatti, «a porre i rapporti fondamentali che, trasformati e generalizzati, determineranno tutta la vita sociale»[37], «l’origine di tutti i rapporti di inclusione/esclusione che caratterizzeranno la vita sociale pienamente sviluppata»[38]. Contro quanti –come ad esempio Della Volpe– vedono in Rousseau un esponente di quell’«individualismo astratto, cristiano» per il quale «la persona», l’«individuo-valore», «è un a priori pre-sociale o pre-istorico», qualcosa di «originario» e «assoluto»[39], qui di seguito si dovrà opporre l’idea di una genesi relazionale e differenziale, storica e sociale della persona, come essere morale, e dell’individuo. Nel «pur état de Nature» l’uomo, «senza avere alcun bisogno dei propri simili», era «persino incapace di riconoscerne individualmente qualcuno»[40]. È precisamente nell’amore che l’uomo comincia a farsi valere, a vedersi riconosciuto e a riconoscersi nella propria diversità dagli altri, perché chi preferisce vuole sempre anche essere preferito, e nel rendersi conto della singolarità dell’amata si rende conto anche della propria. Come «per essere amati», però, «bisogna divenire amabili», così «per essere preferiti, bisogna divenire più amabili degli altri», sviluppare o simulare quelle «qualità che sole possono destare la stima»[41]. La stima dei singoli, in relazione alla quale soltanto l’amore può accendersi, è radicata in una dimensione che è già quella, collettiva, della pubblicità: lo stesso amore che pare nascere come semplice relazione privata, ricerca di una reciprocità tra singoli, mostra di essere sempre anche la relazione con un terzo –l’«estime» o l’«opinion publique»– che del relazionarsi dei singoli rappresenta al tempo stesso il prodotto e il presupposto. Il problema è allora innanzitutto quello della formazione di quei criteri socialmente condivisi che l’amore non può fare a meno di presupporre, in quanto solo attraverso di essi i singoli possono concedere le loro preferenze, sviluppare il loro sentire: come è stato possibile il passaggio dal vis à vis, dalla concretezza dei «rapporti bilaterali», «da individuo a individuo» implicati dall’amore, ad un livello di socializzazione in cui la società «costituisce un tutto»[42], un «essere morale» che è più di un semplice «aggregato»[43], e le preferenze e i rapporti trovano il loro fondamento in una dimensione «universale (ed astratta)», dove ormai «ognuno» è bensì «in relazione con tutti»[44], e però il rapporto tra i singoli non può mai svolgersi nel segno dell’immediatezza, ma solo attraverso la mediazione del «soggetto impersonale dell’opinion», della «norma anonima» che essa rappresenta[45]?

Come anche nell’Essai, è attraverso l’immagine di una specie di festa che Rousseau simboleggia questo passaggio nel quale, mentre «i legami si tendono, e i lacci si chiudono», «il genere umano continua ad addomesticarsi».

Nacque il costume di adunarsi davanti alle capanne o attorno a un grande albero: il canto e la danza, veri figli dell’amore e dell’ozio, divennero il divertimento o meglio l’occupazione degli uomini o delle donne oziosi e riuniti (attroupés). Ognuno cominciò a guardare gli altri e a voler esser guardato e la stima pubblica ebbe un prezzo. Colui che cantava o danzava meglio, il più bello, il più forte, il più destro o il più eloquente divenne quello che era tenuto più in considerazione, e questo fu il primo passo verso la disuguaglianza e verso il vizio.[46]

La ‘festa’ del Discorso viene spesso interpretata come il luogo nel quale l’uomo comincia ad «alienarsi nell’apparenza»[47], ad «identificarsi nella propria maschera», ovvero «in una costruzione falsa ed ingannevole di sé»[48], cosicché, mentre l’io si trasforma in un «io superficiale sociale»[49], in un «io d’opinione» privo di ogni sostanzialità, l’amore di sé diviene «amore per il nostro personaggio»[50]. L’accenno al «premier pas vers l’inégalité, et vers le vice», poi, lascerebbe intendere che sia la «società in quanto tale»[51] –e dunque anche la storia, che è sempre storia sociale– a coincidere col regno dell’alienazione e di una inégalité pensata come condizione sufficiente del «vizio» e della corruzione. Ora, come è noto, nella festa civica idealizzata dalla Lettre à d’Alembert si tratterà di fare in modo che siano gli spettatori stessi, divenendo «attori in prima persona», a costituire l’oggetto dello spettacolo: «di modo che ciascuno si rispecchi e si ami negli altri, affinché tutti ne siano meglio uniti»[52]. In questo testo l’unità si afferma solo col cadere delle differenze. L’alterità viene infatti neutralizzata, perché l’altro non è se non l’occasione per rispecchiare ed amare sé stesso: un sé stesso astratto, però, ed indifferente da quello di ogni altro. La momentanea sospensione delle divisioni e delle differenze permette agli «uomini di congiungersi immediatamente»[53], di «restaurare la sovranità dell’immediato»[54]: è così che «tutti sono amici, tutti sono fratelli»[55]. A ben vedere si tratta qui di una caso esemplare di quella «fuga nell’ideologia»[56] che Althusser individua con precisione a proposito del Contratto: di una «concordia apparente» la quale –a causa della sua stessa ‘immediatezza’– invece di superare, lascia immutata e conferma, dietro di sé, la «divisione reale»[57]. All’interno del quadro tratteggiato nel Discorso, invece, la festa è il principio di un processo in cui l’unificazione sociale e l’ampliarsi delle differenze, la generalità e la particolarità si integrano reciprocamente.

Per comprendere questo punto, la prima cosa da notare è che l’amour palesa immediatamente un imprescindibile legame con l’amour-propre, con questa controversa «fureur de se distinguer» alla quale «si deve ciò che di meglio e di peggio vi è fra gli uomini»[58]: se è vero che l’amor-proprio, o il desiderio di stima, non è identico all’amore, altrettanto vero è che ne rappresenta la conseguenza immediata, in quanto amare una persona è sempre anche desiderare di esserne preferiti, di affermare e veder riconosciuta la propria superiorità su ogni eventuale contendente. L’amor-proprio però, originato dall’amore, tende a riassorbire in sé la propria origine: appena sorta, quella per l’estime pubblique non può fare a meno di divenire la «passione dominante», capace di sussumere a sé ogni diverso desiderio: l’altro finisce allora per essere amato non di per sé stesso, in quella singolarità che pure nell’amore trova la propria prima affermazione, ma in quanto l’esserne ricambiato venga reputato uno strumento valido al fine di attrarre su di sé la considerazione e l’apprezzamento pubblici. Preferito ed amato, in ogni caso, è bensì il singolo, ma solo in quanto portatore esemplare proprio di quelle qualità generali –merito, bellezza, etc.– alle quali si ritiene che la «stima pubblica» –o l’«opinione pubblica»[59] che dir si voglia– tributi o comunque possa tributare il proprio apprezzamento. Poiché in realtà anche l’amata può ricambiare e concedersi a chi le offre il proprio amore solo in quanto veda in lui un maschio esemplare, il più apprezzabile tra i suoi pretendenti, l’amore di lei viene ricercato come un segno, un’anticipazione, una ‘garanzia’ dell’approvazione pubblica: l’amore diviene sì, come nota Carnevali, una «versione sentimentale […] del ‘dedesiderio di desiderio’ hegeliano-kojèviano»[60], dove però il desiderio è desiderato innanzitutto come ‘vettore’ del pubblico riconoscimento. È proprio per via di questo desiderio –assieme all’indefinita reiterazione del piacere fisico che un’unione sessuale stabile può garantire– che in amore «la preferenza che si accorda vuole essere contraccambiata».

Riguardo al rapporto tra amore ed amor-proprio, allora, non può sorprendere la ‘coincidenza’ per la quale tutti i termini usati da Rousseau nel descrivere una passione si dimostrano puntualmente validi anche per l’altra. L’una e l’altra sono definiti come «fureur», una forza, vale a dire, che ci tiene «quasi sempre fuori di noi», spingendoci a vivere «soltanto nell’opinione degli altri» e rendendo ognuno dipendente dal giudizio altrui per l’autostima e la felicità. Più radicalmente, questa ormai imprescindibile dipendenza si traduce, nell’uno come nell’altro caso, nell’espropriazione e socializzazione non solo della propria ‘immagine’, della rappresentazione che ognuno si fa di sé stesso, indissolubilmente intrecciata con quella che gli altri si fanno di lui, ma anche di ciò che pur dovrebbe essere più intimo, più privato, più incondivisibile: quel «sentiment de sa propre éxistence»[61] che russoianamente rappresenta la forma di soggettività più elementare e fondamentale. L’amore e la stima giungono in questo modo a configurarsi come qualcosa di cui, come del cibo o del sonno, «non si può fare a meno»[62], come dei «vrais besoins». Unicamente nel riconoscimento dell’amata l’uomo può trovare la «possibilità di stabilire un rapporto positivo con sé stesso»[63]: è nello sguardo di lei che può sentirsi sé stesso, sentire, in generale, di essere un ‘Io’ o prima ancora, più semplicemente, di esistere. Sottratto a sé e all’immediatezza di quella «autorelazione monologica»[64] in cui si risolveva l’uomo della solitude, solo sdoppiandosi e riflettendosi nello sguardo dell’altro l’uomo può divenire «Spectateur» e «juge»[65] di sé medesimo e, in questa capacità di guardarsi dall’esterno, in questa raggiunta consapevolezza riflessiva, appropriarsi di sé stesso.

«Medium dell’individuazione», la lotta per il riconoscimento posta in essere dall’amore non solo contribuisce al «potenziamento delle facoltà dell’io»: poiché «l’individualizzazione presuppone che ci si distingua opponendosi»[66], «lo sviluppo di interazioni conflittuali» non solo è «fonte dell’allargamento delle capacità individuali»[67], ma rappresenta inoltre un «processo sociale che porta a una più organica socializzazione»[68]. Da una parte, infatti, svolge rispetto all’individuazione una funzione, prima ancora che di ‘potenziamento’ o ‘allargamento’, propriamente costitutiva[69]. Nel puro stato di natura, infatti, «ogni uomo non è che un uomo»[70], che «riassume in sé l’intera umanità», intesa però come semplice «universale astratto»[71]: la sua identità, definita interamente dalla sua mera appartenenza alla specie, non è altra da quella dell’«homme en général». «Solo a partire da relazioni comunicative normative[72] gli individui potevano differenziarsi e dunque intendersi come soggetti individuati»[73], solo in vista del riconoscimento e attraverso di esso, e dunque «nella società e mediante la società»[74], gli uomini possono cominciare a lasciarsi alle spalle l’impersonalità delle pulsioni naturali, cessare di essere ognuno un identico «uomo in generale» e «abbandonare così l’identità più immediata ed estrinseca del proprio sé»[75] divenendo «individui differenti, coscienti delle proprie differenze e capaci di riconoscersi come tali»[76]. Dall’altra parte, come l’opinione dell’amante si rende inseparabile da quella dell’amato, così quella di entrambi, privata, ha senso solo in relazione all’opinion publique. Nessuna delle due distinte sfere può precedere o prescindere dall’altra. Pubblico e privato si costituiscono e si sviluppano assieme, l’uno in relazione all’altro, separandosi e sconfinando l’uno nell’altro. Dove però «tutto» tende a «ridursi alle apparenze»[77], e l’éxistence della persona ad identificarsi col riconoscimento di cui viene fatta oggetto, è l’être stesso dell’uomo a perdere la sua assolutezza, a farsi relazionale e relativo, indistinguibile dal paroître, da quell’«apparire» che è sempre un esser presenti ed esposti l’uno allo sguardo dell’altro e, attraverso l’altro, della comunità. Il mondo delle apparenze tende a riassorbire in sé quel mondo dell’essere da cui pure, per sorgere, si è dovuto distinguere, così che –almeno nella soggettiva percezione dei singoli– il loro conflitto, e con esso la distinzione del non «essere» dal non «apparire», finisce per sfumare nell’indifferenza: come nell’ordine della natura era solo l’essere ad apparire, senza lasciare a quest’ultimo alcuna autonoma consistenza, nell’ordine della società è invece la sfera dell’apparire a risolvere in sé quella dell’essere. «Non considerato affatto», l’individuo non solo si sente umiliato, «guardato dall’alto al basso», ma oggettivamente, socialmente, «è come se non esistesse»[78]. La lotta per l’amore, o per la considerazione, è lotta per l’esistenza sociale –l’unica ormai possibile per l’uomo– ed in quanto tale tendenzialmente indistinguibile, di fatto, dalla nuda lotta per la sopravvivenza.

Poiché essere apprezzati significa sempre esserlo comparativamente, maggiormente di altri, la mancanza di reciprocità nell’amore è oggettivamente, da parte dell’amato che rifiuta di riamare, una prova di disprezzo. L’amore è infatti per Rousseau non un sentimento eslege, tale che o è assolutamente spontaneo (arbitrario, puramente soggettivo) o non è, ma,  in quanto fondato su un giudizio di valore, sull’«applicazione» di criteri di «merito»[79] che non sono affatto rimessi all’opinione del singolo, una passione inseparabile da criteri oggettivi, vale a dire intersoggettivi, pubblici, socialmente stabiliti e condivisi. Posta con ciò, tanto nel concedersi quanto nel negarsi, la possibilità di un errore, rifiutare il proprio amore a chi se ne ritenga degno e si sia sforzato di esserlo, significa compiere un «torto» ingiustificato, un’«ingiuria» tale da esigere una riparazione. È in forza di quegli stessi criteri che l’uomo, per il bene di entrambi, può e deve ‘dimostrare’ alla donna il suo errore (se non può trattarsi di un’ingiuria volontaria, infatti, è perché nella scelta dell’uomo sbagliato la donna danneggia in primo luogo sé stessa), conquistarne l’amore, e con esso la stima in sé stesso, dando pubblica prova del proprio valore. Si capisce dunque come la «gelosia» possa stare all’origine –a seconda che l’amore sia ricambiato o meno– «da una parte di vergogna ed invidia, dall’altra di vanità e disprezzo»[80], ovvero precisamente dei sentimenti che compongono l’amour-propre[81]. In forza di questo suo legame con l’amor-proprio, che estende e generalizza la conflittualità di cui essa è portatrice, diventa chiaro come «la più dolce delle passioni» possa convertirsi, alla minima opposizione, in una «furia sfrenata e brutale, senza pudore, senza ritegno», che «sfida tutti gli ostacoli» e porta «ogni giorno a disputarsi gli amori a prezzo del sangue»[82].

È questo «sacrificio di sangue umano», appunto, il «prezzo» per  la riparazione del torto, per la conquista dell’amore e del riconoscimento indebitamente negati, per l’acquisto di quella «stima pubblica» e di quel «credito» dei quali la donna rappresenta al tempo stesso il premio e il tramite, la custode e la dispensatrice[83]. Quando il valore delle cose è determinato non più dalla loro capacità di contribuire al benessere fisico, ma dal loro significato sociale, «tutto diventa segno, e tutto» –o almeno ogni danno– «può perciò essere letto come prova di una mancanza di rispetto»[84]. Dove l’offesa, impunita, giustifica sé stessa, lasciare all’altro la libertà di comportarsi in un modo suscettibile di essere interpretato come un segno di disprezzo significa, di tale disprezzo, dimostrarsi effettivamente degno. Il disprezzo che il «torto volontario» o l’«ingiuria» testimoniano acquisisce così un sovraccarico ‘simbolico’, che eccede e diventa «spesso più insopportabile dello stesso male»  reale[85], ed è per questo che, «non appena […] fu formata l’idea di considerazione, ognuno pretese di avervi diritto», di modo che «a nessuno fu possibile negarla impunemente». Ogni «ingiuria», ogni «torto volontario» è, oggettivamente, oltre che un danno, «un’offesa», «un oltraggio», ed ogni danno subito è suscettibile di essere interpretato come un simile «torto». Sorgono qui, assieme, le prime pretese giuridiche e quell’«etica dell’onore» in forza della quale «chi non dava importanza alla reputazione e non era disposto a difenderla non poteva essere che un codardo, e quindi un essere spregevole»[86].

III. La situazione concettuale che viene profilandosi è più complicata di quanto non sembrerebbe a prima vista. A costituire l’offesa, infatti, non è semplicemente il danno subito, ma un’«intenzione di nuocere» che si traduce in un tort –o un’injurevolontaire. Non ha senso, sembra evidente, considerare una certa azione come un’offesa, un intollerabile oltraggio, se non in relazione ad una presupposta distinzione tra torto e diritto: «offesa» non è un qualunque danno, ma la volontaria violazione di un diritto, o quanto meno di una rivendicazione che si pretende legittima. Il riferimento sembra essere al diritto e alla legge naturali, a una moralità o giuridicità immediatamente inerenti «alla natura dell’uomo»[87], precedenti ogni convenzione o patteggiamento, a una ‘legittimità’ che non può dunque essere oggetto di ‘posizione’. I problemi sorgono, però, non appena si richiami pur sinteticamente alla mente le precedenti conclusioni russoiane su questi temi.

L’unica ‘obbligazione’ riconosciuta dalla Parte prima era quella espressa dalla cosiddetta «massima della bontà naturale», la quale comanda all’uomo di «procurare il proprio bene» –ovvero il proprio benessere fisico, il bonheur che esso realizza– «con il minor male possibile per gli altri»[88]: un «minor male possibile» che non è però una variabile indipendente, essendo relativo al «bene» al cui conseguimento è necessario e la cui determinazione, sottratta alla regolamentazione della «massima», è interamente rimessa al giudizio del singolo. La legge naturale obbliga l’uomo unicamente a non danneggiare l’altro se non in vista cioè della propria «conservazione», o «benessere», di quello che ritenga essere il proprio «interesse»; poiché però fino al sorgere della società proprio «l’amore per il benessere era l’unico movente delle azioni umane»[89], l’unico dovere dell’uomo finisce per essere quello di non comportarsi altrimenti da come, di fatto, non può fare a meno di comportarsi, e l’unico ‘diritto’ corrispondente a questo dovere quello a non essere «maltrattati inutilmente»[90]. Se A intende sottrarre a B il suo nutrimento con la violenza, è allora solo l’esito della lotta a decidere se il danno che A ha inflitto a B gli sia o non gli sia stato utile, e a decidere retrospettivamente, con ciò, se A fosse o non fosse legittimato a danneggiare B. Per B, dunque, affermare il proprio diritto contro A non significa altro che riuscire di fatto a prevalere su di lui, impedirgli di danneggiarlo: è solo l’insuccesso a rendere ingiusta –ma forse sarebbe più corretto dire imprudente, contraria a quella «prudence machinale qui lui indiquoit les précautions les plus nécessaires à sa sûreté»[91]– l’aggressione compiuta da A. Non è allora difficile capire il motivo che costringe Rousseau a riconoscere, nonostante la presunta ‘follia’ delle conclusioni, la fondatezza della premessa hobbesiana, per la quale sarebbe «avec raison» che l’uomo naturale si attribuisce un diritto su tutte «le cose di cui ha bisogno»[92]. Se dunque la Loy de la Nature è quella che, per l’homme naturel, «convient le mieux à sa constitution»[93], ciò accade in quanto null’altro essa gli prescrive se non, appunto, la sua stessa convenienza, quello che egli stesso giudica essere il proprio utile. In questo modo il puro stato di natura, e con esso la legge naturale, vengono ridotti «alla sola legge del più forte», a una situazione in cui l’assenza della «nozione di bene» e di ogni «principio della giustizia» fa sì che l’uomo naturale, come in futuro il despota, non abbia «altra regola che le sue passioni»[94]: una situazione in forza della quale tra ‘diritti’ contrapposti l’unica istanza decisiva è la «violenza»[95], quell’esito fattuale del conflitto che solo può determinare quale, tra i due contendenti, sia davvero «il più forte». Trovano qui la loro giustificazione quelle interpretazioni del pensiero russoiano secondo le quali «l’esperienza originaria è quella della conformità tra la nostra natura e la norma, e non del loro scarto»[96], o meglio «non esiste ancora una vera e propria concordanza tra fatto e diritto, perché non è ancora sorto il loro conflitto»[97]. In questo senso si può davvero affermare che «Rousseau ha ridotto il diritto naturale al fatto»[98] perché, dove «il diritto del più forte» si configura come «il diritto naturale par excellence»[99], le regole del diritto naturale non si distinguono «da quelle della fisica, dalle ‘leggi della natura’, perché non sono altro se non regolarità naturali, che governano e spiegano i fenomeni dello stato di natura»[100].

Qualcosa come un «torto», ad ogni modo, risulta ancora inconcepibile. È per questo che nel «puro stato di natura» gli uomini «potevano farsi molte violenze reciproche, quando gliene venisse qualche vantaggio, senza mai offendersi reciprocamente». «Non vedendo i propri simili che come vedrebbe degli animali di un’altra specie» l’uomo «può rubare la preda al più debole o cedere la propria al più forte, senza prendere queste rapine se non come degli eventi naturali»[101]. Finché l’uomo non riconosce nell’altro uomo un proprio simile, finché cioè non riconosce sé nell’altro e l’altro in sé, e nella comune libertà l’identica natura che li accomuna: come potrebbe chiamare l’altro a rispondere dei suoi comportamenti? Considerate al pari di «évenemens naturels», prescindendo dunque dal riferimento alla volontà di chi le compie, e potrebbe non compierle, le «azioni umane», va da sé, sono insuscettibili d’imputazione: capitano, come se fosse la natura stessa a compierle, come se, al pari di quanto accade in ogni altro animale, la «machine humaine» non potesse svolgere le proprie «fonctions» se non in conformità alle universali, immutabili «Loix de la méchanique». Posta però questa inoperatività della distinzione tra diritto e torto, e l’assenza, ancora, di qualunque criterio ulteriore rispetto alla legge di natura, su quale fondamento l’uomo della société naissante può identificare il danno subito da un altro uomo, non più come un semplice, ineluttabile «evento naturale», o un damnum sine injuria, ma come un torto, e solo in quanto tale anche come un’offesa tale da chiamare vendetta?

Come si è visto, l’assenza di ogni moralità nei rapporti intersoggettivi è tutt’uno con la considerazione dell’altro uomo non come un proprio simile, ma come nient’altro che natura, un animale tra gli altri. All’altezza della «società nascente», però, il riconoscimento della comune appartenenza al genere umano è sicuramente già avvenuto. Nella già acquisita consapevolezza per cui «in circostanze simili tutti si comportano come avrebbe fatto lui», allora, e nella conseguente supposizione che «il loro modo di sentire e di pensare è del tutto simile al suo»[102], A non può non dedurre che quanto egli considera un’ingiuria e un’offesa da parte di B, anche B lo considererebbe tale qualora fosse lui a subirlo da A, o da chiunque altro. Riconoscendo B come proprio simile, inoltre, A non può fare a meno o di supporre o di pretendere che anche B faccia altrettanto. Sulla base di questi presupposti A deve necessariamente scorgere nel danno inflittogli da B un «torto volontario» e, in quanto tale, un’offesa di cui è possibile e necessario chiamarlo a rispondere. Quell’offesa non si limita a frustrare il desiderio che l’offeso nutre per la pubblica considerazione, nell’intercettare la quale identifica ormai il proprio appagamento; ad essere misconosciuta, alla radice, è la sua stessa umanità: il suo essere un ‘Io’, un essere che per sua stessa natura, a differenza da ogni altro animale, nessuno ha il diritto di considerare alla stregua di un semplice strumento in vista della soddisfazione dei propri desideri, e le cui pretese sono invece degne, in generale, di considerazione e rispetto.

Lottando allora per risarcire con la punizione il torto e l’offesa che giudica di aver subito, l’uomo non può non lottare –oltre che per la propria felicità– sia per il riconoscimento della propria umanità, sia per il riconoscimento del dovere di riconoscere questa sua umanità. La lotta del singolo per affermare la validità delle proprie particolari pretese è sempre, che egli lo voglia o meno, una lotta per il riconoscimento di sé, prima ancora che come portatore di questo o quel determinato diritto, come ‘persona’, soggettività giuridica e morale dotata di una propria specifica dignità. È vero dunque, come abbiamo visto, che all’uomo non spetta alcun diritto in forza del suo stesso esser uomo: che il concetto di natura umana, cioè, non contiene analiticamente in sé quello di diritto. Affermare il proprio diritto al riconoscimento della propria dignità di uomo, ciò nonostante, significa necessariamente affermarlo come un «diritto naturale». Alla lotta, particolaristica, in cui ognuno si trova impegnato per il riconoscimento della propria superiorità sull’altro e per la conquista della pubblica stima, non  può non affiancarsi quella, universalistica, per il riconoscimento di una uguaglianza giuridico-morale capace di riguardare indistintamente ogni uomo già come tale[103]. Proprio qui, all’interno di questa dinamica in cui il particolare senza trascendersi si fa portatore di un’istanza universale, occorre allora situare il passaggio al di là della «massima di bontà naturale», in cui si riassumeva l’antropologia dell’intera Parte prima dell’opera e, in concomitanza, il primo passo verso la «massima sublime della giustizia razionale», che si presenta qui ancora implicitamente, e solo nella sua forma negativa: invece del «fai all’altro quello che vorresti fosse fatto a te»[104], in cui si esprime una giustizia fattasi indipendente dall’utilità, il più modesto ‘non fare all’altro ciò che non vorresti fosse fatto a te’, nel quale il dovere rimane ancora indissociabile dall’utilità[105].

È dunque l’entità della posta in gioco – la conquista del bonheur, del «sentiment de sa propre éxistence», e il riconoscimento della propria umanità– non solo a spingere di fatto il singolo alla vendetta, e la vendetta a divenire «terribile», ma anche a conferire a questa vendetta il valore di una lotta per il diritto. È in questo senso, per dirla con Honneth,  che «il conflitto è sin dall’inizio un fatto etico»[106]. Per compensare il colpo ricevuto –un colpo prima simbolico che reale, perché, qualunque sia l’entità del danno, è sempre l’umanità ad esser misconosciuta–, la vendetta non può infatti limitarsi a riparare il danno subito: proporzionale solo a quella «stima che [l’offeso] aveva di sé stesso»[107], e che come uomo ritiene gli sia dovuta, la vendetta rappresenta una punizione necessariamente sproporzionata rispetto al danno realmente subito, priva di qualunque misura capace di commisurarli l’una all’altro. Come criterio ‘giuridico’, in effetti, la proporzionalità supporrebbe, verso colui sul quale la vendetta deve abbattersi, il riconoscimento di quella stessa umanità, di quell’uguaglianza che egli è stato il primo a misconoscere, e che la vendetta è tesa a negare. Nella ‘dialettica’ di tale reciproca negazione, come è facile intuire, la successione delle violenze è potenzialmente infinita, e la lotta per il riconoscimento sconfina effettivamente, e non solo ‘simbolicamente’, nella lotta per la sopravvivenza. Vendetta chiama vendetta, sangue chiama sangue, ed è proprio questa ‘cattiva infinità’ del conflitto ad esigere improrogabilmente, per essere interrotta, l’intervento di un’istanza ‘terza’, il formarsi di quell’impersonale «opinion» che è quella di tutti ed ulteriore rispetto a quella di ognuno, e che può a buona ragione già essere chiamata «publique», la produzione di ‘criteri condivisi’ in base ai quali ognuno possa esser chiamato a rispondere delle proprie azioni. Il decentramento già intrapreso deve ora essere portato a temine attraverso la «formazione di una collettività che giudica, valuta, compara, assegna valori alle qualità individuali, alle azioni, alle cose»[108], in base alla quale il «confronto generalizzato», con le lotte ad esso connesse, possa non essere più «arbitrato dal gioco spontaneo delle preferenze» soggettive, ma «regolamentato attraverso norme generali»[109] dotate, oltre che della legittimità conferita loro del consenso di chi vi è sottoposto, di una loro peculiare efficacia. È attraverso la stessa ‘lotta per il riconoscimento’ che finisce per formarsi e depositarsi quel patrimonio comune di «mœurs» in cui si inscrivono i «primi doveri della civiltà», e proprio in forza dei quali «nelle azioni umane» –in quelle stesse «actions humaines» il cui «unico movente» era in precedenza l’«amore per il benessere»– può «cominciare ad introdursi la moralità»[110].

Il tema dei mœurs, che già aveva ossessionato le pagine del Discorso sulle scienze e sulle arti e dell’articolo sull’Economia politica, non smetterà di giocare un ruolo del tutto peculiare nel pensiero russoiano, al punto che nel Contratto essi potranno esser nominati –accanto a coutumes, habitudes ed opinion, nelle quali si incarnano– come quel particolare genere di legge «che non si incide sul marmo o sul bronzo, ma nei cuori dei cittadini», e che proprio per questo è «il più importante di tutte», quello che, sostituendo «un po’ alla volta la forza dell’abitudine a quella dell’autorità», «fa la vera costituzione dello Stato»[111]. Ora, è vero che nel Discorso l’amore, come l’amor-proprio, rappresenta una «passione terribile, che sfida tutti gli ostacoli», e che «più le passioni sono violente, più sono necessarie le leggi per contenerle»[112]. Mentre la legge civile rappresenta un dispositivo frenante, repressivo, i «costumi» riescono a costituire un meccanismo per così dire ‘preventivo’, la codificazione di un implicito sistema di regole capace, indirizzando la distribuzione e l’interpretazione dei segni di stima o di disprezzo[113], sia di distinguere il diritto dal torto, rendendo valida ed efficace questa distinzione, sia di orientare dall’interno le diverse passioni dei singoli verso forme socialmente consentite. Come la pietà nel «puro stato di natura»[114], così la «stima pubblica» e l’«autorità dei costumi» –con le «vertus sociales» che incentivano, con la vendetta alla quale spingono l’offeso– «tengono il luogo del freno delle leggi»[115], svolgendone in modo diverso la medesima funzione unificatrice e pacificatrice: quella di rendere possibile una «vera società», radicalmente diversa da quella in cui, al di sotto dell’«apparente concordia», a dominare tra gli uomini, nell’«opposition de leurs Droits et de leurs intérêts»,  è solo la «division réelle»[116].

L’«autorità dei costumi», infatti, non agisce come qualcosa di estraneo agli individui, parlando invece –come la legge naturale– «immediatamente con la voce della natura», di quella ‘seconda natura’, per la precisione, che l’amor-proprio è ormai divenuto. Conformarsi ai costumi diventa necessario, prima ancora che per non incorrere in una punizione o vendetta che si potrebbe anche non temere, innanzitutto per non esporsi a quel pubblico disprezzo che per il selvaggio rappresenta ormai il peggiore dei mali, per non ferire quell’amour-propre nel quale la totalità dei desideri dell’uomo socializzato trova la sua espressione sintetica, e in secondo luogo per non privarsi dell’accesso ai privilegi dell’amore, che le donne, in qualità di «caste guardiane dei costumi», concedono o rifiutano ai vari pretendenti proprio in funzione della «stima pubblica» che riescono a conquistare. Già qui, come nella repubblica idealizzata dalla Dédicace, sono proprio le donne, con l’esercizio del loro «casto potere» e del loro «impero amabile e innocente», facendo «valere i diritti del cuore e della natura a vantaggio del dovere e della virtù», a mantenere «la pace ed i buoni costumi»[117], una forma di socialità in cui per ognuno «il suo dovere» sia, letteralmente, «un piacere»[118]. È in questo modo che il désir –la naturale ricerca del plaisir, fisicamente necessaria– si trova ad essere intrinsecamente socializzato, e la sociabilité a trovare il proprio fondamento nella capacità della morale non tanto di frenare, come invece ritiene Goldschmidt[119], ma di indirizzare un desiderio che in realtà la socializzazione intensifica fino a rendere ‘sfrenato’. Non è attraverso una esterna limitazione della sua libertà, o dalla repressione delle proprie naturali tendenze «egocentriche, non etiche», che l’uomo viene reso socievole: per Rousseau «l’unità etica tra gli uomini» non può «essere introdotta dall’esterno»[120], contrariamente a quanto succede nella classica interpretazione hegeliana del giusnaturalismo. Come in Mandeville o Smith, in Rousseau sono le stesse pulsioni «egocentriche» a porsi alla base della produzione di socialità ed anzi a presentare l’interna esigenza e un’attiva tendenza alla socializzazione e al ‘decentramento’, all’identificazione del punto di vista dei singoli con quello che Mead chiama l’«altro generalizzato», e che nel Kant della terza Kritik si definisce nella massima del modo di pensare «ampio», consistente proprio nel «pensare mettendosi al posto di ciascun altro»[121]. È perciò solo l’«autorità dei costumi» –e dunque «né le leggi dello stato, né le convinzioni morali dei singoli soggetti, ma solo orientamenti effettivamente tradotti in una prassi intersoggettiva»[122], «fondamento di una moralità sociale»[123]– a costringere l’offeso a non lasciare impunito chi lo offende, a permettere ad individui e famiglie di costituire spontaneamente e a prescindere da qualunque pattuizione, invece di un semplice aggregato, già una «nazione particolare»[124], dotata di una propria interna unità e coesione, e alle pretese dei singoli, ottenuto il riconoscimento pubblico, sociale, di porsi oggettivamente come diritti[125]. Come nota Weil, è vero che per Rousseau da una parte «la società umana è una società di diritto» e dall’altra «il diritto non esiste che nella comunità»: «il diritto nasce con la società», e non c’è associazione senza produzione sociale delle «condizioni» giuridiche dell’associazione stessa. A partire da queste stesse premesse, però, risulta impossibile concludere, con lo stesso Weil, che russoianamente la «società non può costituirsi senza costituirsi in Stato»: esiste infatti una società che non per il fatto di precedere lo stato smette di essere una «comunità del diritto»[126], e nella quale, senza bisogno né di patti né di un’istanza propriamente politica, i «moeurs» rendono inseparabile nell’uomo la spontanea tendenza alla considerazione e alla felicità dal rispetto dei diritti e dei doveri (la «moralité»); l’immediatezza dell’interesse particolare dalla coesione sociale e da quell’«interesse comune»[127] nel quale può effettivamente risolversi la razionalità del suo «vero interesse»[128].

Si conferma qui l’intrinseco nesso, tipicamente russoiano, tra la morale e una dimensione che già si può dire, anche se non ‘in senso proprio’, politica. Solo producendo e riconoscendo un’istanza ‘terza’ e capace di mediare tra le loro opposte pretese i singoli possono riconoscersi l’uno uguale all’altro, e perciò, assieme, un’uguale responsabilità ed uguali diritti e doveri. Questa istanza non è però, nonostante la sua terzietà, estranea al rapporto, non lo regola dall’esterno, in modo repressivo, attraverso l’uso di una forza centralizzata, ma lo rende possibile e lo fonda, per così dire, dall’interno, nella forma di una normatività del tutto immanente. Come l’opinion publique, infatti, non è altra da quella dei singoli, così i moeurs non sono altro dall’intrinseca moralité dei loro comportamenti effettivi[129]. La morale, qui, non ha nulla a che vedere con l’intellettualismo che Rousseau rimprovera a giusnaturalisti e philosophes, con quelle «regole di giustizia e di ragione derivate dall’amore dell’ordine in generale, o dalla conoscenza della volontà del suo creatore» che un uomo potrebbe ipoteticamente ‘costruire’ «mediante ragionamenti astrattissimi»[130], e in modo del tutto «arbitrario»[131] ed autoreferenziale, anche nella più perfetta solitudine. Al contrario, piuttosto che al volontarismo di un astratto dover-essere, è legata alla cogente concretezza di un sentimento, quello dell’amor-proprio, che a sua volta è inseparabile da un terreno comune, di reciprocità, all’interno del quale gli uomini possano sia offrirsi l’un l’altro il reciproco riconoscimento, giudicarsi ed apprezzarsi vicendevolmente in base a criteri condivisi, sia, perciò, «perfezionarsi ed illuminarsi a vicenda»[132]: ad una dimensione che è già propriamente «pubblica». Dove i costumi non hanno perso la loro «autorità» ed efficacia, il «consenso» tra gli uomini è ‘spontaneo’, e riposa non su una contrattazione, su un compromesso di posizioni od interessi prima divergenti, ma, per così dire, sulla formazione di un comune sentire capace di fare da sfondo, limitandolo e preorientandolo alla propria soluzione, anche al prodursi del conflitto, senza richiedere –e si può misurare qui tutta la distanza dalla posizione hobbesiana– l’intervento di un soggetto estraneo alle parti in causa, di un qualche ‘artificio’.

IV. Come si è già detto, dunque, le lotte che i singoli combattono per risolvere le loro questioni particolari non possono non essere –che i singoli lo vogliano o meno– lotte per il riconoscimento di quei ‘criteri condivisi’ e generali in base ai quali ogni conflitto interno alla comunità dovrà essere risolto, in base ai quali, anzi, la comunità intera deve punire i singoli col proprio disprezzo o premiarli con la propria stima, e con l’amore che le fa seguito. Diverse e di particolare rilievo sono le conclusioni che, da tutto ciò, occorre cominciare a trarre.

In primo luogo, come già detto, la libertà è in generale attiva partecipazione con la natura alla determinazione, prima ancora che del proprio volere, del proprio particolare essere e sentire; questa autodeterminazione, però, non può svolgersi sotto il segno della pura immediatezza, ma sempre passando attraverso quella relazione con l’altro che è mediata dai costumi, da questo deposito di pratiche comuni, «di abitudini e di tradizioni che sono il primo vero cemento dell’unione sociale»[133]. La formazione dei costumi, a sua volta, è resa possibile solo dall’attiva, comune partecipazione dei singoli stessi ad un processo nel quale in tanto la loro identità personale si approfondisce e si estende, in quanto la loro identità presociale viene modificata, ‘trascesa’, socializzata. Si vede allora un primo senso in base al quale anche per Rousseau i moeurs –come la Sittlichkeit hegeliana nell’interpretazione di Honneth– possono essere intesi come «l’insieme delle condizioni intersoggettive […] che fungono da presupposti necessari dell’autorealizzazione individuale»[134], la quale viene dunque a dipendere da presupposti che, pur essendo essi stessi un prodotto della medesima libertà la cui realizzazione rendono possibile, non sono però «a disposizione del singolo»[135]. La socializzazione, lungi dall’esigere una semplice limitazione della libertà, ne rende l’approfondimento, al tempo stesso, possibile e necessario. È vero che la libertà originaria, come semplice indipendenza e separazione reciproca, viene ad essere incrinata, già prima della divisione del lavoro, dal sorgere di quell’amore e di quell’amor-proprio la cui soddisfazione dipende strutturalmente, con i mœurs, dall’approvazione dell’altro. Altrettanto vero è però che già qui, come sarà nel Contratto, solo il suo esercizio sociale permette alla libertà, superandosi come semplice arbitrio, di cominciare a realizzarsi ad un livello più alto, come autonomia, autodeterminazione. Posto che dei propri simili, «in un certo senso, l’uomo diventa schiavo anche quando ne diventa il padrone»[136], la libertà di ognuno risulta inseparabile da quella di ogni altro. Già nel Discorso ci si trova di fronte, per i costumi, alla medesima necessità che caratterizzerà il concetto di volonté générale e di legge, quella del «riconoscimento in tutti gli altri del diritto che si rivendica a sé»[137]. Come avverrà con ogni chiarezza nel Contratto, già nel Discorso la libertà dei singoli si realizza solo nel produrre fuori di sé le forme generali nelle quali le sia possibile esercitarsi legittimamente, armonizzandosi con la piena libertà dell’altro, trovando anzi nella relazione con l’altro, prima che un limite, e oltre che una condizione di possibilità, la propria conferma ed esistenza. Affermare la propria soggettività giuridica e morale producendo, nei costumi, delle strutture generali del riconoscimento, circoscrivere una sfera all’interno della quale i propri diritti siano sottratti all’arbitrio altrui, non può significare significa affermare la soggettività dell’altro e una sfera in cui anche i suoi diritti, come quelli di ogni membro della comunità, siano sottratti all’arbitrio di ognuno in quanto pubblicamente garantiti. Avanzare delle pretese verso un qualsiasi altro membro della comunità, riconoscendolo soggetto di obbligazioni, significa dunque riconoscerlo come un soggetto giuridico-morale, e portatore, per ciò stesso, dei medesimi diritti che si pretende egli debba riconoscere: riconoscere cioè, tra sé e l’altro, un’imprescindibile uguaglianza, sostituendo, come nel Contratto, una libertà eslege, coincidente con la forza, ad una che trova nell’égalité de droit, prima che il proprio limite, la propria stessa realtà.

In secondo luogo, è questa uguaglianza che lo stesso insorgere dell’«inégalité morale, ou politique»[138] presuppone quale propria condizione di possibilità. Di questa inégalité Rousseau afferma infatti che «dipende da una sorta di convenzione ed è stabilità o almeno autorizzata dal consenso degli uomini»[139]. Proprio in quanto nessuno può sfuggire al desiderio di dimostrare la propria superiorità sull’altro, la disuguaglianza può trovare la propria autorizzazione nel consenso che gli stessi uomini i quali se ne troveranno ‘discriminati’ non possono fare a meno di fornire a quelle regole, uguali per tutti, in base alle quali soltanto avrebbero potuto soddisfare il loro desiderio di stima. È allora solo su questo sfondo che si può comprendere come sia possibile quella «disuguaglianza di credito […] fra gli individui» che diventa inevitabile «non appena che essi, riuniti in una stessa società, sono costretti a confrontarsi tra loro e a tener conto delle differenze che trovano nei rapporti continui che devono avere gli uni con gli altri»[140]. Se allora è vero, per un verso, che lo sviluppo della società civile «genera necessariamente l’ineguaglianza morale dei soggetti coinvolti», è altrettanto vero, per altro verso, che la formazione di quest’ultima, lungi dal costituire la fonte di una necessaria corruzione, svolge in realtà, almeno all’altezza della société naissante, una funzione positiva, progressiva, essendo «a sua volta condizione necessaria dello sviluppo della natura umana»[141] e fornendo inoltre, già a proposito del Discorso, un’importante conferma della notazione –che della Volpe riferisce però al solo Contratto– secondo la quale proprio in Rousseau si avrebbe una prima messa a punto del «concetto di una società ugualitaria non livellatrice», in grado cioè di risolvere il problema del «riconoscimento sociale dell’individuo»[142] nella sua singolarità. Il pensiero russoiano riesce qui a farsi carico del compito di pensare il processo di socializzazione come promozione dell’individualità che vada al di là delle sue forme più povere ed astratte, del mero «riconoscimento» di un’identità pregressa[143]. È vero che già qui la «disuguaglianza morale» si sostanzia in una serie di «privilegi di cui alcuni godono a danno degli altri»[144]; distribuiti però in proporzione ad un «merito» i cui criteri sono socialmente stabiliti dai costumi, questi «Privileges» contribuiscono, invece che alla disgregazione, ad una più intensa coesione della comunità. La «società nascente» può unificarsi e costituire una «nazione particolare» esattamente nella misura in cui superi la propria qualità di semplice ‘collazione’ –o «assemblement», ‘assemblaggio’– di uomini naturali ed astrattamente uguali tra loro, e la lotta per il riconoscimento si faccia principio tanto del processo attraverso il quale i singoli si determinano distinguendosi ed opponendosi reciprocamente, quanto dell’integrazione di questo moltiplicarsi delle differenze all’interno di una totalità concreta: non solo della produzione di una soggettività giuridica rigorosamente identica per tutti, di identici diritti-doveri, né unicamente dell’universale sviluppo della natura umana (la ragione, il linguaggio…), ma della differenziazione, dello sviluppo, della realizzazione e dell’integrazione sociale delle singole personalità.

In terzo luogo, è l’unità dell’uomo socializzato con sé stesso e la possibilità del suo bonheur a porsi in questo modo come inseparabili dalla riuscita integrazione del singolo all’interno di una comunità che, a sua volta, conquista la sua unità proprio nella forma non autoritaria dei mœurs.  Su questo punto ci si trova però di fronte alla necessità di rovesciare alcune delle più consolidate chiavi di lettura. L’esser gettati «fuori di sé», il cercarsi nello sguardo dell’altro che caratterizza ugualmente amour ed amour-propre, viene spesso interpretato come una forma di alienazione, come corruzione o negazione di quel naturale amour de soi-même la cui principale funzione è infatti, proprio al contrario, quella di tenere l’uomo chiuso «en soi-même», spingendolo a considerare «sé stesso come il solo spettatore che lo osserva […], il solo  giudice dei suoi meriti». Dove il desiderio di stima e la socializzazione renderebbero la persona necessariamente «eterodipendente e schiava dell’‘opinion’»[145], l’«artificio dell’amor-proprio  prende il sopravvento sul naturale amore di sé»[146], e «la spinta all’apparire produce una scissione nell’Io»[147], perché «l’Io dell’uomo sociale, non riconoscendosi più dentro di sé, si cerca fuori»[148], e «il riconoscimento richiede la finzione, lo sdoppiamento, la costruzione di una falsa identità»[149], tale che «assumendo un’identità sociale la coscienza si svilisce, si riveste di una maschera che ne snatura la sostanza originaria»[150]. Il tacito fondamento di una simile comprensione del pensiero russoiano, come non è difficile notare, risiede nell’idea che Rousseau presupponga una «originaria unità e integrità dell’Io»[151], un suo «nucleo naturale e originario»[152] capace di rimanere intatto al di sotto delle apparenze artificiali e fittizie: le modificazioni in cui l’uomo incorre attraverso storia e società rimangono cioè relegate entro il confine di una «pura esteriorità», di una mera doxa capace sì di nascondere, ma non di intaccare l’originaria verità di un Io sostanziale, «chiuso nella sua perfetta compiutezza»[153], di un’identità nella fedeltà o restituzione alla quale risiede l’autenticità dell’individuo, l’unica possibilità di ricomporre il proprio interiore dissidio. Dove però «il male viene prodotto attraverso la storia e la società, senza intaccare l’essenza dell’individuo»[154], rimanendo estraneo cioè –secondo la classica interpretazione di K. Barth– al «cuore» dell’uomo[155], storia e società vengono identificate come elementi necessariamente estranei all’«essenza dell’individuo», tali che attraverso di esse, cioè, «l’uomo è divenuto altro da ciò che è»: «una volta ancora» infatti, con le parole di Gouhier, «il divenire si oppone all’essere, la storia […] alla natura»[156]. Nel suo legame con l’opinion, con l’«apparire», l’insorgere di amore, amor-proprio e costumi rappresenterebbe allora, in una parola, l’estromissione della verità e dell’«essere» dell’uomo, la degenerazione in un triste conformismo.

Infranta l’immediata unità con sé stesso propria dell’homme naturel come di qualunque altro animale, il risultato, esattamente al contrario, non è un’interna lacerazione, una separazione dell’uomo da sé stesso e dalla propria natura, ma la conquista di una ‘seconda natura’, e di una più alta unità: un’unità che non è già data, ma mediata dal rapporto con l’altro, e tale dunque da consistere essenzialmente nell’essere non già semplicemente presso di sé, ma, per usare la nota formula hegeliana, presso di sé nell’altro. I costumi rappresentano allora non la forma di una socialità estrinseca, ma quel «fondo sociale condiviso di atteggiamenti e abitudini d’azione»[157] che l’individuo segue in modo spontaneo, in quanto il seguirli gli permette di «modellare le proprie stesse inclinazioni e i propri bisogni in conformità con l’universalità  delle interazioni sociali»[158]. Come il lato «morale» dell’amore non è opposto a quello «fisico», così l’amor-proprio, nel suo nesso con i mœurs, non è opposto all’originario amore di sé, ma solo la necessaria forma sociale di questa stessa passione; come la ricerca del piacere semplicemente fisico che definisce il desiderio sessuale, inoltre, è solo un particolare aspetto di quel più generale «amore per il benessere» che definisce interamente la natura dell’uomo solitario,  così l’amore morale per una certa persona non è che un determinato aspetto di quell’amor-proprio che risolve in sé, invece, la natura dell’uomo socializzato. Sottrarsi al gioco degli sguardi, delle apparenze, dei giudizi e delle opinioni; ritirarsi e chiudersi «in sé stesso», nella ricerca di un bonheur tutto interiore; assumere sé stesso quale unico spectateur e juge delle proprie azioni e dei propri meriti, secondo la forma di quell’«etica dell’autenticità» sulla quale si tende spesso a schiacciare la complessità del pensiero russoiano: tutto ciò rappresenterebbe in realtà un’immorale rescissione del legame sociale e la riaffermazione di quella solitude nella quale l’uomo si trovava naturalmente posto al di qua non solo del bene e del male, ma anche della propria stessa umanità[159]. Non solo: poiché infatti nella società «l’uomo si trasforma sin nella sua stessa sostanza»[160], sarebbe proprio il ripiegamento su sé stesso a costituire, paradossalmente, un’autentica scissione.

La stessa relazione tra être e paroître non può in alcun modo essere ridotta a quella di una semplice divergenza ed opposizione, come se l’«essere» (l’intima natura) dell’uomo rimanesse identico a sé stesso al di sotto delle apparenze (dell’artificio, della storia). Come l’essere «fuori di sé» è condizione necessaria di ogni sostanziale relazione con l’altro, così l’«apparire», nonostante la loro distinzione, è una dimensione strutturale dello stesso «essere» sociale dell’uomo. È precisamente nella dimensione intersoggettiva dell’opinione e dell’apparire, legata alla naturalità del désir, che affonda le proprie radici quella generale ‘lotta per il riconoscimento’ che a sua volta produce l’insorgere tanto del conflitto quanto, come sua soluzione, di quei «costumi» che sostanziano di contenuti determinati e condivisi l’astratta égalité de droit, e con essi, assieme, la moralità dei singoli e la coesione della società. Nel suo legame con l’opinion ed il paroître, nel suo inevitabile gettare l’individuo «fuori di sé», l’amor-proprio viene a rappresentare non solo il principale motore tanto della competizione e del conflitto quanto della coesione e del progresso, ma anche la «passione dominante» –capace cioè di risussumere a sé tutte le altre– dell’uomo socializzato, di quell’uomo che non solo non può trovare la certezza di sé se non nello sguardo dell’altro, ma che più radicalmente non può essere sé stesso se non in una relazione morale con il proprio simile e politica con la comunità alla quale entrambi appartengono. È perché ognuno si sottomette all’opinion che la «società cominciata», almeno fino all’insorgere e al dilagare dei conflitti legati alla divisione del lavoro e alla proprietà privata, può fare a meno di ogni forma autoritaria o violenta di pacificazione del conflitto.

Dopo quanto detto dovrebbe essere chiaro in che senso si possa affermare che «lo stato selvaggio» –quello corrispondente alla società nascente– «ha un carattere normativo, ci insegna ciò che è potuto essere lo stato di equilibrio e armonia»[161]. È qui, insomma, che può offrirsi allo sguardo un modello di socializzazione capace di prescindere, in linea di principio, da qualunque «restrizione»[162] o «rinuncia»[163] pulsionale, da quell’universale limitazione della «libertà individuale» e della «natura umana originaria»[164], che in Freud sembra essere inevitabilmente «compiuta ad opera dell’incivilimento»[165]. Sappiamo come in diversi luoghi classici del pensiero politico russoiano, come nell’Economia politica, il difficile rapporto tra pubblico e privato, o tra generale e particolare, tenda a configurarsi nella forma di una insolubile tensione, cosicché, se da un lato la funzione della politica sembra essere, lockeanamente, quella di tutelare un ambito –quello dei diritti e degli interessi dei privati– che la precede e la fonda; dall’altra tende a risolversi nell’educare i cittadini «a volere sempre ciò che vuole la società»[166], ovvero ad «addestrarli per tempo a vedere la propria individualità solo attraverso le sue relazioni col corpo dello stato e a non considerare la propria esistenza se non come parte della sua»[167]. La ragione, la volontà, l’interesse dei singoli devono bensì essere politicamente e giuridicamente garantiti, ma solo in quanto identici, in linea di principio, a quelli della collettività. Posto che «la virtù altro non è se non questa conformità della volontà particolare con la volontà generale»[168], la politica è e deve essere innanzitutto moralizzazione, promozione della virtù, formazione di una sfera pubblica e generale attraverso o l’unificazione o il sacrificio di particolarità e differenze. Nelle pagine del Discorso che fin qui abbiamo considerato, invece, la relazione tra queste due polarità è senza dubbio diversa, tale da porsi sotto il segno non di un etica ‘militarizzata’, di quella che Schinz ha individuato come virtù-sacrificio[169], ma di una paradossale felicità. La «società nascente», nonostante la crudeltà delle vendette e il conseguente scorrere del sangue, «dovette essere la più felice e duratura», quella nella quale il genere umano sembrava «esser fatto per restarvi per sempre», e dalla quale solo il «caso funesto» dell’insorgere della divisione del lavoro e della proprietà, che «per l’utilità comune non sarebbe mai dovuto accadere», può averlo spinto ad uscire. Questa peculiare ‘felicità’ della «società nascente» viene poi detta risiedere precisamente in ciò, nel suo rappresentare quella «vera giovinezza del mondo» rispetto alla quale «tutti i progressi ulteriori sono stati in apparenza altrettanti passi verso la perfezione dell’individuo, ma in realtà verso la decrepitezza della specie»[170]. Ciò che il «funeste hazard» infrange, cioè, è il legame che nella società nascente tiene particolare e generale spontaneamente uniti[171]. Il fine irraggiungibile della politica, si sa, è in generale per Rousseau proprio quello di rendersi superflua, rendendo le dinamiche sociali in grado svolgersi in piena autonomia da ogni intervento esterno. Se allora solo nel caso eccezionale della Sparta repubblicana Licurgo riuscì a stabilire –attraverso l’uso delle leggi e dell’educazione pubblica– dei «costumi che rendevano quasi superfluo l’aggiungervi delle leggi»[172], è solo nella società nascente che nel Discorso il telos della politica, prima dell’insorgere della politica, si trova compiutamente attuato: è qui (e forse solo qui) che la felicità, con la stima che la rende possibile, è inseparabile dal rispetto dei diritti e dei doveri, e l’affermarsi delle individualità, nelle loro differenze, può essere tutt’uno con il prodursi della coesione sociale, l’emulazione e il conflitto generati dall’amore e dall’amor-proprio portare le «facoltà umane» a svilupparsi, i singoli a «perfezionarsi ed illuminarsi a vicenda».

(questo articolo è comparso per la prima volta in «Post-filosofie. Rivista di pratica filosofica e di scienze umane», n. 4, 2007, pp. 129-158)


[1] P. Burgelin, La philosophie de l’existence de J.-J. Rousseau, Paris, 1952, p. 227

[2] H. Gouhier, Les méditations métaphysiques de J.-J. Rousseau, Paris, 1970, p. 72

[3] J.-J. Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, Milano, 1972 (abbrev. Disc.), p. 49

[4] J.-J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, Paris, 1969, (abbrev. Discours), p. 71

[5] Disc., p. 47

[6] Cfr. Discours, p. 68

[7] J. Starobinski, La trasparenza e l’ostacolo, Bologna, 1982, p. 338

[8] Ibid., p. 319

[9] cfr. R. Derathé, Le rationalisme de J.-J. Rousseau, Paris, 1948, pp. 13-14

[10] Discours, p. 122

[11] Disc., p. 106

[12] P. Burgelin, op. cit., p. 198

[13] A. Philonenko, J.-J. Rousseau et la pensée du malheur, vol. I, Le traité du mal, Paris, 1984, p. 213

[14] cfr. J. Derrida, Della grammatologia, Milano, 1998, p. 243

[15] cfr. Disc., pp. 62-3

[16] Discours, p. 87

[17] «Le passioni» infatti, e tra queste anche l’amore, «derivano la loro origine dai bisogni e il loro progresso dalle conoscenze» (Disc., p. 49); l’abisso che separa «le pure sensazioni», ancora prive di ogni valore cognitivo, anche «dalla più semplice delle conoscenze» (Disc., p. 50) è però tale da poter essere colmato solo dall’attivo intervento di entendement e réflexion, attraverso i quali soltanto una molteplicità di sensazioni può essere riunita sotto un’«idea astratta», dando luogo così alla conoscenza che rende possibile la préférence in cui le passioni consistono.

[18] cfr. Discours, p. 83

[19] cfr. Disc., p. 65-6

[20] cfr. J. Derrida, op. cit., p. 243

[21] Discours, p. 88

[22] S. Freud, “Il disagio della civiltà”, in Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino, 1971, p. 203. Contrariamente a quanto accade in Freud, però, parlare di questa conservazione dell’originario accanto al derivato ha senso solo a partire dall’integrazione dei due lati in una struttura pulsionale che li comprende entrambi, impedendone il conflitto: la generalità ed occasionalità del mero désir non riesce ad opporsi alla determinazione, alla costanza dell’amour, o viceversa.

[23] P. Burgelin, op. cit., p. 373

[24] R. Polin, La politique de la solitude. Essai sur J.-J. Rousseau, Paris, 1971, p. 43.

[25] Discours, p. 53

[26] P. Burgelin, op. cit., p. 227

[27] cfr. Disc., p. 27: «ciò che le circostanze e i suoi progressi hanno aggiunto o modificato nel suo stato primitivo»

[28] Disc., p. 33

[29] Disc., p. 66

[30] cfr. J.-J. Rousseau, Emile, ou de l’education, a cura di P. Burgelin, Paris, 1969 (abbrev. Emile), p. 493

[31] Cfr. Discours, p. 81

[32] cfr. Disc., pp. 94-5. Al proposito vedi anche L. Strauss, Diritto naturale e storia, Venezia, 1957, che riconosce perfettamente come «in Rousseau la libertà sia un bene più grande della vita» (p. 270), e che proprio in questa priorità individua la differenza fondamentale tra la concezione russoiana ed hobbesiana del diritto naturale (p. 273).

[33] R. Polin, op. cit., p. 35

[34] Disc., p. 88

[35] Disc., p. 77

[36] Disc., p. 76

[37] J.-J. Rousseau, Emilio o dell’educazione, Milano, 1997 (abbrev. Emilio),  p. 447

[38] B. Carnevali, Romanticismo e riconoscimento. Figure della coscienza in Rousseau, Bologna, 2004, p. 97

[39] cfr. G. Della Volpe, Rousseau e Marx, Roma, 19975, pp. 11-4, e Id., La libertà comunista, Bologna, 19632, pp. 17-9

[40] Disc., p. 67

[41] Emilio, p. 282

[42] R. Polin, op. cit., p. 93

[43] B. Baczko, J.-J. Rousseau. Solitude et communauté, Paris-La Haye, 1974, p. 70

[44] V. Goldschmidt, op. cit., p. 450

[45] B. Carnevali, op. cit., p. 17

[46] Disc., p. 78

[47] J. Starobinski, op. cit., p. 61

[48] E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Torino, 2001, p. 94

[49] A. Philonenko, op. cit., p. 212

[50] P. Burgelin, op. cit., p. 257

[51] M. Viroli, J.-J. Rousseau e la teoria della società ben ordinata, Bologna, 1993, p. 78

[52] J.-J. Rousseau, “Lettera a d’Alembert”, in Opere, Firenze, 1972 (abbrev. O.), p. 269

[53] J. Starobinski, op. cit., p. 55

[54] J. Starobinski, op. cit., p. 52

[55] O., p. 274

[56] cfr. L. Althusser, L’impensato di J.-J. Rousseau, Milano, 2003, pp. 62-3

[57] Disc., p. 103

[58] Disc., p. 102; al furore di distinguersi si devono infatti «virtù» e «vizi», «scienze» ed «errori». Si noti come questo passo ricalchi quasi alla lettera quello sulla perfettibilità (Disc., p. 48), identicamente definita anch’essa come fonte di lumi ed errori, vizi e virtù. In questo modo l’amour-propre, che inizialmente poteva sembrare ridotto ad un ruolo puramente negativo, viene a partecipare della stessa strutturale duplicità propria dalla perfettibilità, la quale rivela a sua volta l’identità tra la propria «forza», che è la stessa «del tempo», e quella della passione.

[59] cfr. J.-J. Rousseau, “L’influenza dei climi sulla civiltà”, in Opere politiche, Roma-Bari, 1971 (abbrev. O.P.), vol. II p. 281

[60] B. Carnevali, op. cit., p. 97

[61] Cfr. Disc., p. 106

[62] Disc., p. 78

[63] A. Honneth, Riconoscimento e disprezzo. Sui fondamnti di un’etica post-tradizionale, Roma, 1993, p. 25

[64] A. Honneth, Patologie del sociale. Tradizione e attualità della filosofia sociale, in « Iride », 1996, n. 18, p. 303

[65] Discours, p. 148

[66] Burgelin, op. cit., p. 252

[67] P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, Milano, 2005, p. 212

[68], A. Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, Milano, 2002, p. 40

[69] cfr. A. Honneth, Riconoscimento… cit., p. 18, dove si afferma che «i soggetti […] pervengono a costituirsi come individui solo se imparano a riferirsi a sé stessi in quanto esseri ai quali, nella prospettiva di altri che approvano, appartengono determinate qualità e capacità».

[70] M. Viroli, op. cit., p. 77

[71] V. Goldschmidt, op. cit, p. 378

[72] Si può dire infatti ( cfr. J. Butler, Critica della violenza etica, Milano, 2006) che neanche per Rousseau «l’Io ha una storia che non sia anche storia di una relazione […] con un quadro di norme». Da una parte, infatti, l’Io sarebbe incomprensibile come «assolutamente separato dalle proprie condizioni sociali, come pura immediatezza»: in questo senso, allora, l’Io è costituzionalmente «espropriato delle condizioni sociali del suo stesso emergere», impossibilitato, dunque, a costituirsi nel senso di una autopoiesi riflessiva (pp. 16-17). D’altra parte, però, queste «condizioni sociale» dell’emergenza dell’Io non sono altro che quelle «norme» dalle quali l’individuo si trova pre-orientato alla/nella propria «costruzione di sé» (p. 28).

[73] A. Honneth, Lotta… cit., p. 41

[74] M. Viroli, op. cit., p. 78

[75] R. Finelli, “Una libertà post liberale e post-comunista”, in Tra moderno e postmoderno. Saggi di filosofia sociale e di etica del riconoscimento, Lecce, 2005, p. 327

[76] M. Viroli, op. cit., p. 79

[77] Disc., p. 106

[78] P. Ricoeur, op. cit., p. 212

[79] cfr. Disc., p. 66

[80] Disc., p. 77

[81] cfr. Disc., p. 64, dove, per un verso, il fatto che gli uomini, «non avessero tra loro alcuna specie di commercio», viene reputato sufficiente a garantire la loro ignoranza di «vanità», «considerazione», «stima» e «disprezzo», e per altro verso è solo l’inattività di queste passioni ad impedire che il meccanismo della vendetta si inneschi, facendo deflagrare conflitto. Cfr. anche Discours., pp. 149-50, dove l’amore di sé porta l’uomo tanto a «strappare la preda al più debole» quanto a «cederla al più forte»: anche qui, ad impedire che le «grandi violenze» che gli uomini si infliggevano degenerino in uno stato di guerra generalizzato è non la pietà, che non viene neanche nominata, ma l’assenza dell’amor-proprio: l’incapacità di quelle violenze, tra uomini che «non potevano apprezzarsi o compararsi», di costituire un’offesa, la violazione di una qualche pretesa.

[82] Disc., p. 65

[83] cfr. Disc., p. 25.

[84] B. Carnevali, p. 107

[85] Disc., p. 78

[86] C. Taylor, “La politica del riconoscimento”, in C. Taylor – J. Habermas, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, 1998, p. 35

[87] Disc., p. 30

[88] Disc., p. 64

[89] Disc., p. 74

[90] Disc., p. 32

[91] Discours, p. 95

[92] Disc., p. 60

[93] Discours, p. 55

[94] Disc., p. 104

[95] Disc., p. 36

[96] V. Goldschmidt, op. cit., 353

[97] J. Starobinski, op. cit., 57

[98] L. Pezzillo, Rousseau e Hobbes. Fondamenti razionali per una democrazia politica, Genève-Paris, 1984, p. 58

[99] R. D. Masters, The political philosophy of Rousseau, Princeton, 1968, p. 163

[100] R. D. Masters, op. cit., p. 161

[101] Discours, pp. 149-50

[102] cfr. Disc., p. 74

[103] Nessun preteso diritto di A verso B potrebbe del resto ottenere il riconoscimento di B, se B non potesse riconoscerlo come un proprio diritto, tale cioè da istituire, tra lui ed A, una situazione di reciprocità nella quale, per il fatto stesso di essere portatore di un diritto verso B, A diventa anche portatore del dovere di rispettare il medesimo diritto di B. La dinamica giuridica del riconoscimento, come si vede, è intrinsecamente universalizzante: pretendere che l’altro riconosca a noi un diritto significa anche essere pronti a riconoscerglielo, di modo che l’altro, riconoscendoci un diritto, lo riconosca in realtà anche a sé stesso. Nonostante il piano sia quello della relazione non tra singolo e collettività, ma tra singolo e singolo, è difficile non riconoscere, già qui, la stessa struttura concettuale che sarà propria della “volonté générale”.

[104] Disc., p. 64

[105] è ancora in una prospettiva ‘prudenziale’, per non subirne la vendetta e l’umiliazione ad essa connessa, e per non incorrere nella pubblica disapprovazione, che l’altro deve essere rispettato.

[106] A. Honneth, Lotta… cit., p. 28

[107] Disc., p. 74

[108] M. Viroli, op. cit., p. 79

[109] V. Goldschmidt, op. cit., p. 450

[110] Disc., p. 79

[111] J.-J. Rousseau, Contratto Sociale, Roma-Bari, 1997, p. 79

[112] Disc., p. 65

[113] Stabilendo criteri pubblici per la distinzione di un gesto come un gesto di disprezzo, la comunità sottrae al singolo la possibilità ed il diritto di porsi quale arbitro del gesto stesso: se infatti il singolo si vendica di un gesto che non merita vendetta, va incontro proprio a quel disprezzo che tramite la vendetta pretende di evitare. In quanto impediscono le offese attraverso la minaccia del pubblico disprezzo, i costumi possono esser detti un meccanismo di prevenzione del ciclo delle vendette.

[114] della quale si legge infatti che “nello stato di natura tiene il luogo di legge, di costume e di virtù” (Disc., p. 64)

[115] Disc., p. 79

[116] Discours, p. 120

[117] Disc., p. 25

[118] Disc., p. 24

[119] cfr. V. Goldschmidt, op. cit., p. 449

[120] A. Honneth, Lotta… cit, p. 22

[121] I. Kant, Critica della facoltà di giudicare, Torino, 1999, pp. 130-1

[122] A. Honneth, Lotta… cit, p. 24

[123] L. Luporini, L’ottimismo di J.-J. Rousseau, Firenze, 1982, p. 75

[124] Disc., p. 77

[125] Anche qualora non sia sufficiente né il timore del pubblico disprezzo, né il desiderio di quell’amore che è il premio della pubblica stima, il sempre desto «terrore delle vendette», la sempre attuale minaccia del «sacrificio di sangue umano» si stagliano comunque sullo sfondo della raggiunta coesione come una sua garanzia esterna. La possibilità del conflitto, del tornare a scorrere del sangue, del disordine, si impongono così come la forza deterrente che rende superfluo l’intervento sistematico della violenza e consente ai costumi di regolare e dirimere efficacemente gli eventuali conflitti interni alla “società cominciata”

[126] cfr. E. Weil, “Rousseau et sa politique”, in Essai et conférences, vol. II, Paris, 1970, pp. 135-6

[127] Disc., p. 74

[128] Disc, p. 23

[129] È precisamente in questo punto di indifferenza, in cui generale e particolare, pubblico e privato, non sono l’uno null’altro che l’altro, che la comunità trova la forma immediata della propria unione: un’immediatezza, per così dire, che è però solo il prodotto della mediazione della lotta.

[130] Cfr. Disc., pp. 51-2

[131] Discours, p. 55

[132] Disc., p. 52

[133] A. Loche, Immagini dello stato di natura in J.-J. Rousseau, Milano, 2003, p. 79

[134] A. Honneth, Lotta… cit., p. 33

[135] ibid., p. 36

[136] Disc., p. 84

[137] L. Strauss, op. cit., p. 269

[138] Discours, p. 61

[139] Disc., p. 35

[140] Disc., p. 101

[141] A. Burgio, Uguaglianza, interesse, unanimità. La politica di Rousseau, Napoli, 1989, p. 31

[142] G. Della Volpe, Rousseau… cit., p. 30

[143] Sappiamo come la «disuguaglianza naturale o fisica» consista nella «differenza di età, di salute, di forze corporee e qualità dello spirito e dell’anima» (Disc., p. 35). Queste «différences qui distinguent les hommes», però, «non possono ancora costituire, in senso proprio, una disuguaglianza»: non hanno «nessuna influenza», «non vengono nemmeno percepite» (V. Goldschmidt, op. cit., p. 377), e non impediscano che gli uomini siano «per natura altrettanto uguali fra loro quanto lo erano gli animali delle altre specie» (Disc., p. 28), privi cioè, come ogni altro animale, di una vera e propria identità individuale distinta da quella di specie. L’uguaglianza naturale è un’«uguaglianza biologica», tale che l’identità dei singoli finisce per risolversi, essenzialmente, in questa «appartenenza allo stesso tipo biologico» (R. Polin, “Le sens de l’égalité et de l’inégalité chez Rousseau”, in « Etudes sur le Contract Social de J.-J. Rousseau », Paris, 1964, p. 144). Da quando però «il più bello, il più forte, il più destro, il più eloquente divenne quello che era più tenuto in considerazione» (Disc., p. 78), e queste qualità divennero «le sole che potessero destare la stima», divenne anche «necessario o averle o simularle» (Disc., p. 84): l’uomo, col  suo «furore di distinguersi», deve coltivare ‘artificialmente’ le proprie originarie disposizioni, e giungere in questo modo, attraverso il proprio sviluppo competitivo, che a sua volta deve stimolare lo sviluppo altrui, ad un più alto grado di individuazione.

[144] Disc., p. 35

[145] C. Taylor, op. cit., p. 31

[146] E. Pulcini, op. cit., p. 91

[147] ibid. p. 94

[148] J. Starobinski, op. cit., p. 55

[149] E. Pulcini, op. cit., p. 97

[150] B. Carnevali, op. cit., p. 115

[151] E. Pulcini, op. cit., p. 95

[152] ibid, p. 100

[153] R. Esposito, op. cit., p. 40

[154] J. Starobinski, op. cit., p. 50

[155] cfr. K. Barth, La teologia protestante del XIX secolo, Milano, 1975, pp. 268-9

[156] H. Gouhier, op. cit., p. 12

[157] A. Honneth, Il dolore dell’indeterminato. Una attualizzazionie della filosofia politica di Hegel, Roma, 2003, p. 106

[158] ibid., p. 68

[159] Nonostante l’opinione corrente, occorre ridimensionare –o comunque specificarne il senso– la portata della critica russoiana all’idea tradizionale di una naturale socievolezza dell’uomo. È infatti vero, da una parte, che la sociabilité non è un dato originario, ma un prodotto storico: solo dove la società si sia già affermata l’uomo può divenire socievole, perché non solo tutti i suoi bisogni diventano bisogni sociali, ma è inoltre la società stessa a divenire in questo modo necessaria, oggetto di un bisogno. Un prodotto storico, in questo senso, è l’umanità stessa dell’uomo. Laddove però è lo stesso esser-uomo dell’uomo, la sua differenza dagli altri animali, ad essere pensata non come un semplice dato biologico, ma come prodotto storico della socializzazione, è l’opposizione stessa di storia e natura ad essere revocata in causa, costringendo a ritenere o che innaturale sia, in realtà, la natura stessa dell’uomo, il passare all’atto di quelle «facoltà che aveva ricevuto in potenza» –la ragione, il linguaggio–, o che neanche alla socievolezza e all’associazione, pur nelle loro forme controverse e conflittuali,  possa esser negata una qualche naturalità. Come può essere innaturale la condizione alla quale soltanto la natura umana può svilupparsi? La posizione del Discorso è già, allora, quella dell’Emilio, nel quale l’uomo verrà definito socievole per natura, o almeno fatto per diventarlo.

[160] P. Burgelin, op. cit., p. 239

[161] P. Burgelin, op. cit., p. 275

[162] S. Freud, op. cit., p. 250

[163] ibid., p. 233

[164] ibid., p. 247

[165] ibid., p. 231

[166] J.-J. Rousseau, “Sull’economia politica”, in O. P., vol. II, p. 298

[167] ibid., p. 297

[168] ibid., p. 289

[169] Cfr. A. Schinz, La pensée de J.-J. Rousseau, Paris, 1929, cap. II

[170] cfr. Disc., p. 80

[171] Nel puro stato di natura, dove gli «uomini, sparsi nei boschi tra gli animali, […] si incontravano forse a mala pena due volte nella loro vita», non potesse esserci «né educazione né progresso», perché gli uomini non potevano «perfezionarsi ed illuminarsi a vicenda», e nei loro progressi individuali si trovavano a partire tutti «dallo stesso punto». Istituita la società, invece, ciò che riguarda un membro non può non riguardare, direttamente o meno, anche tutti gli altri, perché esperienze, aspirazioni, paure, vengono esse stesse ‘socializzate’, diffuse come per ‘contagio’ cosicché ogni «passo verso la perfezione dell’individuo» rappresenta al tempo stesso un progresso della specie. La proprietà privata, ponendo in essere un una sostanziale opposizione degli interessi, interrompe –o quanto meno complica– questo legame tra particolare e generale.

[172] Disc., p. 100

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