Eleonora Piromalli
Abstract: This article focuses on Axel Honneth’s latest book, “Das Recht der Freiheit”: I briefly describe Honneth’s critique to constructivism, which introduces his proposal of elaborating a theory of justice through the device of «normative reconstruction». With respect to this point, I argue that, in choosing the basic principle from which to reconstruct the normative configuration of modern societies, Honneth should have accorded to the ideal of equality (at least) the same importance as to the principle of freedom. I then outline the three spheres of negative, reflexive and social freedom, and the internal articulations of this latter sphere: affective relationships, market economy, democracy. While recognising several new elements which bring Honneth’s proposal to a very high level of inclusiveness and theoretical refinement, I object to the author’s overly-irenic depiction of the sphere of family relations and point out some inconsistencies in the sphere of market economy: it is sometimes unclear, to me, if this should be understood as an intrinsically normative sphere (as in the tradition of the «moral economy»), or, on the contrary, as a sphere essentially made of systemic and supra-individual dynamics, in need of being normatively regulated “from the outside”.
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Das Recht der Freiheit, il nuovo libro di Axel Honneth, fin dalle sue prime pagine si rivela essere un testo dagli obiettivi ambiziosi. Analisi storico-sociale ed elaborazione filosofica procedono di pari passo in questo volume, uscito nel giugno del 2011 per le edizioni Suhrkamp: in esso Honneth si propone di «sviluppare i principi della giustizia sociale direttamente nella forma di un’analisi della società»[1], attraverso una specifica metodologia che egli denomina «ricostruzione normativa». Quest’ultima consiste nell’enucleare i principi normativi già incarnati nella prassi sociale per mezzo dell’esame delle istituzioni e delle pratiche che si sono sviluppate nella storia delle nostre società e che ne caratterizzano il presente, allo scopo di ricavare, a partire da tali principi, una teoria della giustizia che rifletta in sé le forme che la normatività già presenta nell’esperienza concreta e nelle convinzioni morali dei soggetti sociali. Ciò a cui Honneth mira è quindi una concezione filosofico-politica che, a differenza degli approcci che egli denomina «costruttivisti», non recida il suo legame con la concreta prassi sociale: il bersaglio polemico delle riflessioni che l’autore svolge nell’introdurre la sua metodologia, all’inizio di Das Recht der Freiheit, è quell’insieme di teorie, come il paradigma liberale sviluppato da Rawls ma anche, sotto alcuni aspetti, l’etica discorsiva di Apel e Habermas, che si basano su principi elaborati in forma ideale o (quasi-)trascendentale. Tali concezioni, afferma Honneth, «vengono sviluppate in isolamento dalle pratiche e dalle istituzioni che si danno nell’eticità, e a partire da questo, in un secondo passaggio, “applicate” alla realtà sociale», andando così a configurare una contrapposizione tra «essere e dover-essere» o, ancora, un «distacco» tra la normatività concretamente esistente e i puri principi morali della teoria[2]. In tal modo, da una parte, la teoria perde di acume descrittivo ed esplicativo: i soggetti sociali vengono considerati unicamente nel riduttivo ruolo di «destinatari» di principi ricavati a livello filosofico, ignorando le loro prestazioni di elaborazione normativa e le forme concrete della loro contrapposizione all’ingiustizia; dall’altra parte, si manca spesso di interrogarsi sui presupposti sociali, sulle condizioni di possibilità e di applicazione alla realtà dei principi normativi sviluppati in maniera puramente filosofico-razionale, pregiudicando in tal modo la portata e l’effettività pratica della teoria.
La metodologia della ricostruzione normativa era già stata messa a tema nel saggio del 2000 Rekonstruktive Gesellschaftskritik unter genealogischem Vorbehalt[3], in cui Honneth si riallacciava al concetto di «trascendenza nell’immanenza»[4] sviluppato nella tradizione della teoria critica per sostenere come la critica sociale potesse assumere a proprie risorse legittime, pena il distacco dalla concretezza normativa della realtà fattuale, «solo quei principi o ideali che in un dato ordine sociale hanno già preso forma in qualche modo»[5]. In Das Recht der Freiheit Honneth risale indietro fino a Hegel, ad affermare come la finalità da questi perseguita nella Filosofia del diritto, ossia di «delineare la realtà istituzionale come già contraddistinta da razionalità sotto determinanti aspetti, e, di converso, la razionalità normativa come già realizzata nelle istituzioni fondamentali della modernità»[6], possa ancora oggi costituire il nucleo metodologico di una teoria della giustizia adeguata alle società contemporanee. Seguendo la metodologia della ricostruzione normativa, gli elementi di normatività che si evidenziano nella fattualità sociale possono essere riconosciuti dalla teoria e ricondotti a un certo numero di principi, i quali costituiscono la «grammatica morale» sottostante all’azione dei soggetti e alle istituzioni che, attraverso questa, i soggetti riproducono. È indirizzando le proprie rivendicazioni di giustizia nello spazio ancora non coperto da questa normatività intrinseca al sociale che individui e gruppi rendono possibile l’evoluzione morale delle società: il progresso normativo è la graduale attuazione del contenuto di universalismo dei principi normativi che, per quanto ancora realizzati solo in forma incompleta, permeano la prassi delle società moderne.
Il principio di libertà individuale
Una volta delineata la struttura metodologica di base, Honneth passa a mostrare come sia possibile ricavare una teoria della giustizia a partire dalle istituzioni già presenti nella società e come essa si articoli. L’analisi sociale condotta da Honneth in Das Recht der Freiheit prende le mosse dall’enucleazione del principio di giustizia che, come egli sostiene in questo testo, ha più di ogni altro ideale normativo contraddistinto la storia delle rivendicazioni, delle realizzazioni e delle pratiche normative delle società moderne, e al quale un’ampia famiglia di altri principi normativi incarnati nelle istituzioni della modernità può essere ricondotta: il principio della libertà, o dell’autodeterminazione, individuale. Esso costituisce l’ideale sovraordinato, il metaprincipio del quale gli altri valori e ideali realizzati nelle società moderne rappresentano diverse sfaccettature. Prima di passare all’insieme di principi che Honneth riconduce a quello di libertà, vediamo come egli giunga a enucleare proprio quest’ultimo come «principio cardine» della modernità normativa. Per Honneth, infatti, non si tratta di dare una «fondazione» distinta dall’«applicazione» di quanto fondato a livello puramente concettuale, bensì di far gradualmente emergere, attraverso una dettagliata e documentata analisi della prassi normativa delle società moderne, i principi che in questa stessa prassi, e da questa stessa prassi, ricevono legittimazione. Ma in che modo ci si può prefiggere di enucleare un singolo principio normativo fondante la modernità a partire dall’esame di un complesso di fonti storiche, filosofiche, letterarie, di un insieme di istituzioni passate e presenti, e di pratiche sociali, che intuitivamente appare pressoché sconfinato e assolutamente variegato, senza disporre di un criterio che almeno provvisoriamente orienti l’indagine, delimiti gli oggetti da prendere in esame, e che quindi, in qualche modo, pur sempre pre-determini e pre-definisca in maniera più specifica l’obiettivo della ricerca nel fattuale?
Per quanto riguarda il fondamentale aspetto di come e in base a quali criteri vada ricostruita la realtà sociale, Hegel può essere di guida solo in una certa misura: la sua Filosofia del diritto, radicata nella «metafisica della ragione» della Scienza della logica, non può costituire un modello in base al quale ripercorrere oggi il reale e ravvisare in esso la «razionalità», termine con cui Honneth indica gli elementi di normatività incarnati nel fattuale. Seguendo lo stesso metodo che caratterizzava Il dolore dell’indeterminato, l’autore cerca quindi di estrarre dal riferimento a Hegel gli aspetti che di esso possono essere mantenuti e di ricomporli a formare un proprio approccio, di stampo hegelianizzante, il quale, essendo ispirato da diverse intenzioni, mal si presta ad analisi che intendano valutarlo in base al solo criterio della coerenza filologica con l’opera hegeliana. Il procedimento che Honneth adotta consiste in una prima, preliminare determinazione, a livello «puramente concettuale»[7] (livello che quindi, pur se in forma di base provvisoria, non pare poter essere eluso), degli obiettivi normativi che è probabile che soggetti razionali si pongano e cerchino di realizzare nella prassi; a partire da queste finalità normative ipotizzate a livello teorico, che aiutano a circoscrivere il campo della ricerca, si può poi passare all’analisi sociale, in cui tale ipotesi (nello specifico, l’idea che il principio normativo principale che i soggetti abbiano perseguito e realizzato nella modernità sia la libertà individuale) va dimostrata in stretto riferimento a fonti storiche, sociologiche e alla teoria sociale; in base a questa analisi delle istituzioni contemporanee e delle fonti storiche è possibile confermare o precisare l’ipotesi di partenza, fino a ottenere, come risultato, una determinazione documentata e plausibile, ma sempre presentata in chiave fallibilista, di quali siano i principi generali che orientano la normatività delle società moderne[8].
Honneth presenta quindi le argomentazioni che lo hanno portato a ipotizzare che proprio l’autodeterminazione individuale rappresenti il principio chiave della modernità; che, in altre parole, si possa plausibilmente ritenere che i soggetti si siano razionalmente orientati ad esso nelle proprie rivendicazioni e realizzazioni normative. La libertà ha questo ruolo, afferma Honneth nelle sue considerazioni introduttive a tale principio, poiché «la capacità individuale di mettere in discussione gli ordinamenti sociali e di esigere la loro legittimazione dal punto di vista morale è un portato del medium in cui si origina la struttura stessa della prospettiva della giustizia»[9]: essa è cioè alla base dell’idea moderna di giustizia, in quanto fondamento della possibilità dei soggetti sociali di contribuire a definire a quali regole normative la comune vita associata dovrebbe conformarsi. A livello concettuale preliminare, quindi, il principio cardine della teoria viene identificato nella libertà individuale come capacità e possibilità di avere voce sui problemi collettivi e di esigere giustificazioni riguardo alle decisioni di interesse comune. Questa definizione – dai toni habermasiani –, se viene considerata in isolamento dal modo in cui il concetto di libertà è stato teorizzato, rivendicato e realizzato nel corso della storia e della contemporaneità, rimane però, nota Honneth, puramente vuota e formale: sarà compito della ricostruzione normativa specificare in base a quali articolazioni concrete e secondo quali condizioni di possibilità tale idea è stata e può essere perseguita nella prassi.
Qui l’autore deve compiere un’altra importante precisazione, che sembra tuttavia mettere allo scoperto un’aporia nel percorso argomentativo seguito finora: una simile definizione di libertà individuale, infatti, richiama a partire da sé un altro principio, quello di eguaglianza (anche Honneth parla di «validità universale» dell’idea di autodeterminazione individuale[10]); essa può venir formulata e avere un contenuto normativo solo in quanto ciascun soggetto ha eguale diritto all’autodeterminazione così intesa, altrimenti si tratterebbe di mero privilegio. E allora, se va enucleato il principio chiave della modernità, perché la libertà, e non (anche) l’eguaglianza? Che lo stesso Honneth sia consapevole del problema relativo alla collocazione dell’eguaglianza ce lo rivela un chiarimento che egli inserisce in nota: «in quanto segue, io considero l’idea di ‘eguaglianza’ […] come un valore non dotato di esistenza indipendente; essa infatti può essere compresa solo nei termini di una precisazione al valore della libertà individuale: ossia che il godimento di quest’ultima spetta nella stessa misura a tutti gli appartenenti alle società moderne»[11]. L’argomentazione di Honneth può tuttavia facilmente essere rovesciata: anche la libertà individuale, se considerata in quanto principio normativo (quindi dal necessario contenuto universalistico), non può fare a meno dell’eguaglianza – e non rappresenta quindi un principio indipendente. Egli, non potendo seguire Hegel sul terreno metafisico, non esplicita il proprio evidente riferimento al principio di libertà che si trova alla base della Filosofia del diritto hegeliana, il quale richiamerebbe la fondazione che di esso viene data nella Scienza della logica; al contempo non compare nessun’altra argomentazione, al di là del riferimento alla prassi sociale, che possa motivare la scelta relativa al principio fondamentale della teoria o chiarire le implicazioni di esso.
A rendere la scelta di Honneth più solidamente motivata non contribuisce neanche ciò che egli, portando avanti il successivo passaggio del metodo della ricostruzione normativa, afferma riguardo all’esistenza fattuale del principio normativo della libertà individuale. Certamente è sotto gli occhi di tutti come, nella storia della modernità, il principio della libertà spesso stato al centro delle rivendicazioni dei soggetti e dei movimenti sociali[12]; tuttavia, almeno a partire dalla rivoluzione francese, sul piano politico lo stesso può dirsi per il principio di eguaglianza; e quando Honneth formula questa stessa argomentazione in riferimento alle teorizzazioni filosofico-concettuali dell’idea di libertà individuale che, nella moderna storia delle idee, hanno fatto di tale principio un elemento centrale nell’autocomprensione normativa della modernità[13], difficilmente ciò che egli afferma può non essere ritenuto valido anche per l’ideale di eguaglianza[14]; nella loro triangolazione con l’idea di giustizia, i due principi sembrano insomma richiamarsi a vicenda. Va detto che, anche se Honneth attribuisce alla libertà il ruolo sovraordinato nella sua teoria, ciò non significa che tale principio sia considerato in disgiunzione da quello di eguaglianza; tutt’altro, e anzi nelle forme della «libertà sociale», come vedremo, tale legame sarà particolarmente stretto. Nell’ambito di un discorso relativo all’architettura del sistema teorico honnethiano va però notato come, già a partire dalla delineazione del principio fondamentale, non sempre le basi della teoria presentata in Das Recht der Freiheit sembrino poter vantare un fondato carattere di univocità[15].
Una volta posto il principio di libertà Honneth passa a esaminare, attraverso il riferimento alla storia della società e delle idee della modernità, in che modo tale principio sia andato articolandosi nel corso dei secoli e quali altri valori incarnati nelle pratiche e nelle istituzioni sociali ad esso facciano capo. Il filo conduttore di questa indagine ricostruttiva è il «diritto della libertà»: come già ne Il dolore dell’indeterminato, la tesi di Honneth è che con il concetto di «diritto», definito al § 29 della Filosofia del diritto come «esserci della libera volontà», Hegel indicasse la legittima pretesa d’esistenza, il «diritto all’esserci» spettante alle istituzioni che realizzano la normatività nella prassi[16]. Se quindi Honneth, nell’attribuire all’idea di libertà il ruolo di valore sovraordinato alle diverse sfere della sua teoria, non faceva direttamente riferimento a Hegel, bensì unicamente alle lotte e alle rivendicazioni normative dell’era moderna, la determinazione delle sfere avviene invece sul modello della Filosofia del diritto. Esse si articolano in: I. libertà giuridica (o libertà negativa del diritto astratto); II. libertà morale (o libertà riflessiva della moralità), III. libertà sociale (o eticità). Quest’ultimo ambito si differenzia a sua volta in tre sfere, sempre secondo l’esempio hegeliano di famiglia, società civile e Stato: il «noi» delle relazioni affettive personali, il «noi» dell’azione economica, il «noi» della democrazia. Mentre nella prima sezione del testo Honneth traccia una descrizione idealtipico-concettuale di queste sfere, anche in riferimento alle teorizzazioni filosofiche datene da coloro che, nel pensiero occidentale, possono essere considerati i capostipiti intellettuali di esse, nella seconda sezione l’analisi viene calata nelle istituzioni attraverso cui tali sfere hanno storicamente preso forma e nella ricostruzione del «diritto di esistenza» di esse, che, per quanto riguarda le prime due sfere della libertà (diritto e moralità), è di ambito limitato e insidiato dal possibile determinarsi di «patologie sociali».
La libertà negativa
La prima sfera della libertà, che coincide con la libertà negativa e si incarna a livello storico-istituzionale nei diritti di libertà individuale di origine liberale, viene ricostruita da Honneth, nelle sue linee principali, attraverso il riferimento a colui che per primo l’ha teorizzata, Thomas Hobbes. La caratteristica fondamentale di questa tipologia di libertà è il suo identificarsi con l’assenza di impedimenti esterni che ostacolino un soggetto nel perseguire la sua azione: essa permette quindi di delimitare una sfera di non-interferenza in cui il singolo possa agire a suo piacimento. Già a partire da questo punto emerge il carattere individualistico di tale forma di libertà: essa si basa sulla coesistenza, nella società, di ambiti di particolarità individuale la disposizione sui quali è rimessa alla scelta del singolo, fintantoché quest’ultima non vada a ledere la libertà di un altro soggetto. I fini che l’individuo può perseguire nel suo campo di non-interferenza non vengono, in questa forma di libertà, messi a tema: essa non prescrive né specifica alcunché sul contenuto degli obiettivi la cui realizzazione può aver luogo nelle sfere di non-impedimento. Nonostante il suo carattere «limitato» e «incompleto», essa può però vantare una ben definita «pretesa d’esistenza» nella prassi sociale: costituisce cioè, sotto forma di diritti soggettivi, una parte irrinunciabile del diritto moderno[17]. Questa sfera sottintende anche uno specifico tipo di riconoscimento intersoggettivo: ciascuno deve essere riconosciuto da ogni altro come persona giuridica avente diritto a un proprio spazio di azione autonoma, forma di riconoscimento che Honneth denomina «rispetto personale»[18]. Vi sono vari aspetti di questa sfera che per la concezione complessiva tracciata da Honneth si rivelano di notevole importanza: in prima istanza, la tutela di uno spazio individuale sottratto a interferenze esterne che questa sfera garantisce fa sì che possa determinarsi una società pluralistica, la quale, a sua volta, implica per il soggetto la possibilità di un più ampio orizzonte di modelli di autodefinizione e autorealizzazione. Come già ne Il dolore dell’indeterminato, inoltre, Honneth interpreta questa sfera come «uno spazio di autointerrogazione etica»: ossia come un ambito in cui il singolo può temporaneamente ritirarsi, distogliendosi dalla sua prassi abituale e quotidiana, per riflettere su di essa e sulle alternative di autorealizzazione disponibili nella società. La sfera della libertà negativa, tuttavia, fornisce unicamente lo spazio di non-interferenza e di ritiro dalla prassi comunicativa in cui tale autointerrogazione può essere condotta, e non anche i requisiti di riflessività e di relazionalità che solo le altre due sfere di libertà possono provvedere. Per potersi porre dei fini che non siano puramente monologici e razionali rispetto allo scopo, ogni soggetto deve prospettarsi il contesto relazionale e comunicativo in cui andrà a realizzare tali fini, e fare quindi uso di condizioni che, a partire da sé, la sfera della libertà negativa non è in grado di fornire. Essa non è quindi autosufficiente, ma richiede di collocata in un più ampio sistema di libertà; a quest’ultimo oltretutto, in base alla sua stessa natura di sfera di non-interferenza da parte dell’esterno, essa deve il proprio diritto di esistenza[19]. Non si tratta, perciò, di una sfera che possa essere assolutizzata, cioè considerata dai soggetti come l’unico ambito di agire sociale, trascurando le limitazioni che la rimandano al suo necessario rapporto con le altre sfere. Quando ciò viene fatto si generano quelle che Honneth, già ne Il dolore dell’indeterminato, definiva «patologie sociali»: «irrigidimenti del comportamento sociale»[20] che hanno luogo quando le pratiche e i principi di un determinato sistema d’azione, conosciuti intuitivamente dai soggetti, vengono interpretati e praticati in maniera unilateralizzata, a discapito di ogni altra forma di agire[21].
La libertà riflessiva
La sfera della libertà negativa rimanda dunque implicitamente a un altro ambito d’azione, quello della libertà riflessiva. A livello di ricostruzione concettuale, Honneth traccia un percorso che da Rousseau, primo teorico della libertà riflessiva in quanto basata sulla distinzione tra azione autonoma e azione eteronoma, tra ragione e passioni, porta da un lato a Kant, capostipite del modello di libertà morale come autolegislazione della volontà, e dall’altro ai romantici, propositori di una libertà riflessiva concepita come autoscoperta, da parte del soggetto, dei suoi desideri autentici. Filosoficamente si evidenziano quindi due correnti principali in questa forma di libertà: una, kantiana, incentrata sui concetti di autodeterminazione, autolegislazione e autonomia, e l’altra, che Honneth riferisce principalmente a Herder, basata sulle idee di autenticità, autorealizzazione e scoperta di sé. La linea di pensiero kantiana viene portata avanti in particolare, in senso intersoggettivistico, nell’approccio discorsivista sviluppato da Jürgen Habermas e Karl-Otto Apel: in esso, alla libertà riflessiva compresa da Kant in senso monologico e trascendentale viene data una determinazione comunicativa, ancorandola fattualmente nel mondo della vita, e «l’‘io’ dell’autolegislazione viene così ampliato al ‘noi’»[22] della deliberazione discorsiva. Questa concezione, afferma Honneth, si situa in una posizione intermedia tra la libertà riflessiva e la libertà sociale: da una parte essa mantiene il contatto con l’esistenza concreta delle pratiche discorsive fattuali, rimettendo i contenuti sostanziali di giustizia al risultato dei processi deliberativi, e si configura così come una concezione il cui nucleo normativo, la deliberazione democratica, ha esistenza fattuale e sociale; d’altra parte, però, non solo la fondazione di essa viene compiuta a livello (quasi-)trascendentale, e la teoria viene quindi disgiunta dal piano della realtà concreta, ma oltretutto, in alcune formulazioni di Habermas, l’istanza del discorso sembra essere considerata una metaistituzione anch’essa di carattere trascendentale[23], un principio astorico e puramente razionale, configurante un modello ideale e formale di simmetria e reciprocità normativa[24]. In ultima istanza, quindi, per Honneth anche l’etica del discorso presenta le caratteristiche e le limitazioni che egli associa alla libertà riflessiva, coerentemente con le critiche che, fin dai suoi primi saggi, l’autore aveva rivolto a Habermas[25].
La più notevole delle caratteristiche della libertà riflessiva, che configura un superamento della libertà negativa – nella quale gli obiettivi dell’azione del soggetto restavano non indagati – è l’idea dell’orientamento delle finalità dei soggetti in base alla riflessione della volontà autonoma e razionale, non eterodiretta. Non basta, però, che le finalità della nostra azione siano ritenute morali in base a criteri personali e soggettivi: esse devono poter essere giustificate, almeno in via di principio, di fronte ad ogni altro individuo, che ciò avvenga per via monologico-razionale (Kant) o attraverso un requisito di universalizzabilità effettivamente calato nella prassi (Apel e Habermas). La libertà riflessiva quindi, in base a questa seconda caratteristica, rende possibile il processo di «autointerrogazione etica» per il quale la libertà negativa forniva unicamente uno spazio di temporaneo ritiro dalla prassi intersoggettiva: il soggetto può, in caso di dilemmi morali, fare un passo indietro rispetto alla sua quotidiana prassi sociale e ai suoi legami etici per considerare la questione in oggetto solo in rapporto al principio di universalizzabilità. Come la libertà negativa, anche questa sfera implica pratiche di riconoscimento; essa infatti costituisce un ambito di riflessione morale intersoggettivamente garantito, nel quale a ogni soggetto viene attribuito lo status di «autonoma persona morale»: ossia di persona capace di prendere decisioni che, ricavate in un contesto monologico o collettivo, si orientino a tenere paritariamente conto, secondo il principio di universalizzabilità, dell’interesse di ogni altro partner dell’interazione.
Il limite principale che Honneth attribuisce alla libertà riflessiva è che le concezioni elaborate nell’ambito di essa prima definiscono l’idea di libertà come giudizio morale autonomo e imparziale, e solo in seguito considerano le condizioni di realizzazione e l’ambito concreto di applicazione di tale pura autonomia morale. Il mondo ideale dell’azione morale va quindi a scontrarsi con l’oggettività del reale, concepita come eteronoma da parte di una teoria che, non volendo vedere le forme di normatività già incarnate nella fattualità, dalle quali la sua applicazione è pur sempre immancabilmente condizionata, si autocomprende come l’unica origine di moralità. Da queste limitazioni intrinseche alla libertà riflessiva discende la necessità, che valeva anche per la libertà negativa, di non assolutizzare tale modello: nel caso ciò venga fatto, si generano patologie sociali la cui origine è radicata nel non comprendere, da parte del soggetto, in che misura la determinazione morale dei suoi orientamenti d’azione sia legata a fondamenti di normatività già esistenti nel sociale; essi hanno realtà concreta in norme d’azione collettive e informali sulle quali il singolo individuo, a partire da sé, non ha il potere di disporre, e da cui, in ogni sua azione sociale, è costantemente confrontato.
La libertà sociale
Con le sfere della libertà negativa e della libertà riflessiva abbiamo due ambiti d’azione (il primo positivamente garantito a livello giuridico, il secondo riconosciuto a livello intersoggettivo informale attraverso la considerazione di ogni soggetto come autonoma persona morale) dotati di esistenza concreta nelle istituzioni e nelle pratiche delle società occidentali. Essi però, precisa Honneth, rappresentano unicamente la «possibilità della libertà», e non già il «compimento [Wirklichkeit] della libertà»: la libertà negativa e quella riflessiva, cioè, trovano la loro condizione di esistenza in un’ulteriore forma di libertà, la libertà sociale, rispetto alla quale si pongono, «in un certo senso, in maniera parassitaria»[26]. Con questa formulazione così netta Honneth intende dire che l’una e l’altra possono essere concepite ed esercitate solo in relazione alla più ampia sfera dell’eticità: solo in rapporto a quest’ultima, infatti, la libertà negativa può costituire uno spazio di monologica presa di distanza protetto da interferenze esterne; anche la libertà riflessiva, riguardante la possibilità di formulare giudizi morali e di prendere decisioni in base al criterio di universalizzabilità, richiede necessariamente una più vasta prassi sociale da cui trarre l’oggetto dei giudizi morali e nella quale realizzare i corsi d’azione da questi derivanti. Se da una parte queste due sfere, quindi, possiedono un loro «diritto d’esistenza» in quanto condizioni necessarie al «compimento della libertà», esse non costituiscono già questa realtà, né possono vantare un diritto d’esistenza autonomo. A differenza delle due sfere precedenti, in cui l’agire può svilupparsi su base monologica (pur implicando necessariamente una prassi sociale a esse esterna), la sfera dell’eticità è l’unica in cui le finalità del singolo soggetto richiedono, per loro stessa essenza, l’azione intersoggettiva e la relazione con l’altro in quanto aspetto immanente alla prassi stessa che il soggetto intende realizzare. Per Honneth solo le azioni portate avanti nella sfera della libertà sociale sono autenticamente e completamente libere: solo in essa, infatti, tanto gli altri soggetti quanto l’oggettività complessiva del reale non rappresentano, per il singolo, ostacoli o elementi di estraneità al proprio agire, bensì tale agire ottiene valore e realizzazione unicamente nello «spirito oggettivo» del reciproco riconoscimento, dando luogo a una «conciliazione non solo tra i soggetti, ma anche tra la libertà soggettiva e l’oggettività»[27].
La preliminare determinazione concettuale dell’ambito della libertà sociale è una delle parti, nell’economia complessiva della nuova opera di Honneth, in cui è più frequente e costante il riferimento a Hegel ed a Il dolore dell’indeterminato. Ogni individuo è veramente libero quando trova i propri desideri e obiettivi confermati nell’oggettività sociale e nell’azione dell’altro, e può riconoscere se stesso nel desiderio dell’altro soggetto di realizzare le proprie finalità, le quali necessitano anch’esse dell’integrazione [Ergänzungsbedürftigkeit][28] da parte dell’azione cooperativa altrui. Ciascuno è veramente libero, dunque, nelle pratiche di riconoscimento, in quanto solo in esse ogni soggetto è «presso di sé nell’altro». Le sfere di riconoscimento si identificano con ambiti di libertà poiché la cooperazione che in esse avviene è spontanea, non implica tensione tra il soggetto e l’esterno né forme di costrizione. In Das Recht der Freiheit Honneth ritorna sul legame tra prassi di riconoscimento, autorealizzazione e Bildung che aveva precedentemente messo a tema ne Il dolore dell’indeterminato: nel corso del loro processo di socializzazione all’interno delle principali istituzioni della società i soggetti imparano a realizzare le finalità cooperative che costituiscono necessarie condizioni di realizzazione dei loro piani individuali, e, allo stesso tempo, prendono parte a pratiche sociali che danno loro modo di godere del bene del reciproco riconoscimento[29].
Un modello di cooperazione sociale riconoscitiva, in cui ogni individuo possa autorealizzarsi esprimendo la propria individualità nel rapporto con gli altri soggetti mentre al contempo collabora alla riproduzione dell’universale, è presente non solo in Hegel, ma anche in Marx. È Marx, pertanto, il secondo riferimento teorico in base al quale Honneth traccia il suo concetto di libertà sociale. Questo aspetto è particolarmente interessante in quanto l’autore di Das Recht der Freiheit torna qui a sostenere alcune tesi che egli, riguardo alla sua interpretazione del pensiero marxiano, aveva svolto nei suoi primi scritti e successivamente, a partire da Lotta per il riconoscimento, rigettato – al punto che Marx, nei volumi posteriori a quest’ultimo, era uscito dal novero dei principali riferimenti che andavano a concorrere all’elaborazione della teoria del riconoscimento di Honneth. Nelle sue prime opere, ricordiamo tra di esse l’articolo Geschichte und Interaktionsverhältnisse (1977) e il volume Soziales Handeln und menschliche Natur (1980), Honneth analizzava la filosofia del giovane Marx al fine di mettere in luce, in essa, gli aspetti riconoscitivi connessi alla produzione materiale. Come poi avrebbe fatto in Das Recht der Freiheit, egli concentrava la propria attenzione sul concetto marxiano di lavoro non-alienato: nella propria attività lavorativa il soggetto è libero di esprimere le sue capacità trovandole riconosciute all’esterno e potendole egli stesso riconoscere nel prodotto del suo lavoro, realizzato a partire dalla considerazione per i bisogni dei suoi partner nell’interazione. Nei suoi primi testi Honneth sosteneva che questo modello, basato su un’idea di interazione riconoscitiva realizzantesi attraverso la produzione materiale e fondato in una concezione antropologica, rimanesse presente fin nei più tardi scritti marxiani di critica dell’economia politica; in tali opere, sebbene questo modello sembri esser stato messo da parte e l’attenzione di Marx paia essere rivolta unicamente a delineare le condizioni del lavoro alienato e la dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione, esso permarrebbe implicitamente sullo sfondo, come concezione normativa contro la quale far risaltare la realtà oppressiva e alienata dei rapporti capitalistici.
Pochi anni più tardi, nei quali però Honneth va in misura crescente avvicinandosi alla proposta teorica di Habermas, l’interpretazione dell’opera marxiana cambia in maniera piuttosto radicale. In Lotta per il riconoscimento, infatti, egli sostiene che Marx, nei suoi scritti della maturità, abbandonerebbe la «concezione estetizzante dell’attività produttiva»[30] che caratterizzava le prime opere, recidendo così il legame precedentemente stipulato tra lavoro sociale e riconoscimento: nei testi di critica dell’economia politica di Marx «l’autorealizzazione individuale nel lavoro non implica più automaticamente il riferimento riconoscitivo ad altri soggetti»[31] e, lasciato da parte il tema del riconoscimento, il filosofo di Treviri «nell’analisi del capitale illustra la legge dinamica dello scontro fra le diverse classi [esclusivamente] mediante l’antagonismo degli interessi economici». In questo modo, lo scontro di classe non è più pensato da Marx sul modello della lotta per il riconoscimento, come avveniva in precedenza, ma solo come «una lotta per l’autoaffermazione (economica)»[32]. Questo, unito al fatto che Honneth, in Lotta per il riconoscimento, sulla scorta dell’interpretazione di Marx presentata da Habermas in Conoscenza e interesse, avesse iniziato a considerare il paradigma marxiano della produzione come una concezione teorica riduzionistica, faceva sì che pressoché ogni riferimento in positivo all’opera di Marx venisse meno nella teoria honnethiana. In Das Recht der Freiheit Honneth sembra però essere tornato sui suoi passi: non solo egli ripropone il modello marxiano della produzione come un esempio di concezione fondata sulla libertà sociale, ma oltretutto va nuovamente a sostenere che le implicazioni di essa relative al riconoscimento vengono conservate fin nei più tardi scritti di Marx, rimanendo «fondamentalmente intatte»[33], come elemento di sfondo, anche nel Capitale. Trattando la sfera di riconoscimento corrispondente alla cooperazione lavorativa, inoltre, Honneth riprenderà un tema tipicamente marxiano che, collocato in posizione centrale nei suoi primi scritti, era poi scivolato in secondo piano dietro alla questione del riconoscimento del merito individuale: quello della possibilità, per i soggetti, di vedersi garantito il diritto a un’esecuzione materiale non-alienata della propria attività lavorativa[34].
La sfera delle relazioni affettive personali
Conformemente a quanto già avveniva a partire da Lotta per il riconoscimento (1992), la prima sfera dell’«eticità» è ravvisata da Honneth nelle relazioni affettive personali. In Das Recht der Freiheit essa viene ulteriormente suddivisa dall’autore in tre partizioni, corrispondenti all’ambito dell’amicizia, del legame di coppia e della famiglia. Come sarà anche il caso della sfera del mercato e di quella della democrazia, questa sfera viene delineata da Honneth attraverso una ricostruzione storica mirante a definire il percorso evolutivo da essa attraversato nella modernità e la sua conformazione attuale, sulla base dei quali l’autore conduce poi riflessioni e valutazioni di carattere più strettamente filosofico e concettuale.
Honneth inizia la sua ricostruzione dell’ambito relazionale dell’amicizia affermando che solo per quanto riguarda la modernità, e non per il mondo antico o per il medioevo, è possibile parlare di una reale diffusione di rapporti di «amicizia» nel senso in cui oggi intendiamo questa espressione: ossia a significare un legame tra soggetti basato unicamente sull’affinità personale e sull’affetto che essi provano gli uni per gli altri, e non, per sua stessa definizione, cementato in prima istanza da interessi politici o d’affari. Honneth qui si distanzia piuttosto nettamente da Hegel, tanto nel riferire la modalità relazionale dell’amicizia principalmente alla modernità piuttosto che al mondo antico, quanto nel considerarla come un’istituzione, ancorché informale. L’autore ripercorre poi le evoluzioni interne a questo ambito, che si sono concretizzate, fino ad oggi, in una sempre maggiore importanza della comunicazione, interna al rapporto di amicizia, di stati emotivi e aspetti della vita personale; egli nota come l’istituzione informale dell’amicizia sia ancora oggi un aspetto fondamentale della vita degli individui nelle società, nonostante nel mondo del lavoro vadano imponendosi tendenze che, sfocando il confine tra vita professionale e vita privata, promuovono una concezione strumentale di essa. Nel complesso, tali tendenze rimangono senza grande seguito, e l’amicizia, intesa come un rapporto in cui «l’altro non costituisce un ostacolo, bensì una condizione della libertà individuale», rappresenta ancora oggi «la base più elementare di tutta l’eticità democratica»[35].
La trattazione honnethiana della sfera delle relazioni personali prosegue poi con l’analisi dell’ambito dei rapporti di coppia; come già in Lotta per il riconoscimento, a livello di categorizzazione concettuale Honneth evidenzia come il principio dell’amore, relativo a questo ambito, non implichi solo un’affinità di tipo mentale e una dedizione affettiva all’altra persona, come può essere nel caso dell’amicizia, ma anche un’attrazione di tipo corporeo. L’ambito dei rapporti di coppia viene ricostruito dall’autore innanzitutto delineando la sua forma moderna di legame non più determinato o condizionato da considerazioni d’interesse materiale, ma solo dalla propensione affettiva per l’altra persona, mentre, per quanto riguarda le evoluzioni e i mutamenti che la concezione e la realtà fattuale dei legami di coppia ha attraversato nella modernità, Honneth concentra la sua attenzione in particolare sul processo di «democratizzazione», tanto a livello di pratiche informali quanto in senso giuridico positivo, che a partire dagli anni ’60 e ’70 del XX secolo ha modificato in maniera radicale la precedente conformazione di questa sfera: dalla parificazione giuridica delle donne, associata alla loro sempre maggiore integrazione del mondo del lavoro, che modifica gradualmente anche la precedente ripartizione dei compiti domestici nella coppia, alla minore rigidità dei comportamenti e dei ruoli associali all’appartenenza di genere, alla legalizzazione del divorzio e della contraccezione, al mutamento in senso meno autoritario degli stili educativi nella famiglia e nella scuola. La trattazione di questo ambito viene da Honneth conclusa su toni piuttosto ottimistici: nel complesso, nella storia recente dell’ambito delle relazioni di coppia si evidenzia un’evoluzione verso una sempre più completa attuazione dei contenuti di universalismo del principio di amore e di un approfondimento nell’interpretazione di esso.
La famiglia, che costituisce l’ultimo ambito in cui si articola la sfera delle relazioni affettive personali, è definita da Honneth innanzitutto come relazione a tre (o più) termini: i partner (che possono essere sposati o meno, eterosessuali od omosessuali) e almeno un figlio (loro figlio biologico o adottato). È chiaro che si tratta di una determinazione della famiglia connotata in senso normativo, che in quanto tale sopravanza il corrente stato del diritto matrimoniale e di famiglia in molte società occidentali. Honneth ricostruisce quindi, in maniera dettagliata, il lungo processo di democratizzazione di questa istituzione, mettendo in luce come essa abbia preso la forma che oggi possiede a partire dall’intreccio di molteplici istanze emancipative: la lotta per la condizione femminile, il mutamento dei metodi educativi applicati nei confronti dei figli, la perdita di rigidità nei ruoli familiari, il recedere delle idee naturalistiche su di essi, e, nel complesso, una maggiore libertà nell’espressione e nell’articolazione dei sentimenti reciproci e dei bisogni personali. La conclusione di Honneth è che, nell’ambito della famiglia, l’istituzionalizzazione di stili relazionali improntati al reciproco riconoscimento sia sostanzialmente compiuta. Essa è quindi una sfera in cui è oggi possibile vedere realizzata la «promessa di libertà» del principio normativo alla sua base; i conflitti interni ed esterni che la hanno caratterizzata sembrano giunti a positiva conclusione. I rapporti e gli stili di comunicazione tra genitori e figli si orientano all’ascolto e alla reciproca dimostrazione di affetto, e, venuto meno il tradizionale modello patriarcale-autoritario, il figlio è considerato come un componente della famiglia i cui bisogni ed esigenze contano quanto quelli dei genitori, i quali reputano loro compito principale garantire il benessere del figlio[36]. Anche i rapporti tra i due partner per quanto riguarda la divisione dei compiti e dei doveri domestici si stanno orientando a criteri di parità; i legami affettivi che caratterizzano la famiglia, grazie all’aumento dell’aspettativa di vita, si articolano adesso attraverso più generazioni, senza che essi perdano di intensità.
La disamina di questo ambito svolta da Honneth acquista in portata critica là dove egli nota che il sostegno dato dallo Stato alle famiglie è spesso insufficiente[37]; se, come Honneth, si prende le mosse dal presupposto che ricevere adeguato riconoscimento all’interno della propria famiglia è una condizione necessaria di vita buona e costituisce inoltre la base di una società democratica, una società «giusta e buona» (anche se facilmente vulnerabile dalle obiezioni antipaternaliste del liberalismo e dal femminismo antifamilista) sarà quella in cui a tutti i soggetti vengano garantiti i servizi e le risorse, in termini materiali e di tempo libero dal lavoro, per poter progettare una famiglia e per poter crescere i figli. Ai fini dell’enucleazione di una teoria della giustizia come quella che l’autore intende delineare, è proprio questo aspetto di critica e determinazione normativa che, a nostro parere, avrebbe dovuto essere ulteriormente approfondito e prevalere sulla fenomenologia che Honneth traccia dei rapporti affettivi da persona a persona nella famiglia (la quale ha invece il sopravvento nella trattazione honnethiana): quello che normativamente può essere garantito nella società, infatti, sono le condizioni sociali, culturali, materiali e giuridiche più complete possibile affinché ogni soggetto possa sviluppare un’identità personale non vulnerata e sia in grado di svolgere al meglio il proprio ruolo nella coppia e nella famiglia; ciò che nel saggio del 2004 Giustizia e libertà comunicativa Honneth determina, insomma, come «la garanzia statuale dei presupposti sociali del reciproco riconoscimento»[38]. Se non si pone l’accento su questo aspetto, le appassionate descrizioni compiute da Honneth riguardo a una fenomenologia dell’amore, della reciproca considerazione e dell’affettuoso rispetto per l’individualità dell’altro all’interno di questa sfera restano limitate al livello dell’interazione tra un «io» e un «tu» particolari e idealizzati, senza che vengano adeguatamente sottolineate le condizioni sociali, istituzionali e formalmente garantite di tale normatività relazionale. Come già ne Il dolore dell’indeterminato, la famiglia sembra inoltre, per Honneth, rispondere a una logica d’azione immancabilmente e invariabilmente affettiva e oblativa; non viene quindi dato spazio a tutte quelle istanze, di carattere informale ma soprattutto giuridico-positivo, miranti alla protezione dell’individuo all’interno di essa e alla garanzia della possibilità, per il singolo componente, di distanziarsi temporaneamente dalla logica d’azione improntata alla cura e all’altruistica dedizione, che caratterizza la famiglia in senso idealtipico, per curare e tutelare la propria singolarità[39].
In relazione a quest’ultimo punto, un altro aspetto rilevante che è possibile notare nella teorizzazione honnethiana della famiglia è il modo in cui essa, nella sua forma contemporanea, viene dipinta come un ambito al suo interno perfettamente irenico e conciliato. Il raggiungimento in essa di una sostanziale realizzazione del principio del riconoscimento sembra comportare l’assenza di ogni conflitto o tensione – per quanto, va notato, sono più d’uno i passaggi in cui non è chiaro se Honneth stia descrivendo l’attuale situazione dell’istituzione della famiglia o prescrivendo come essa dovrebbe articolarsi a partire dagli elementi di normatività già realizzati nel reale. In Lotta per il riconoscimento, comunque, la delineazione concettuale dei rapporti di riconoscimento relativi a questa sfera si presentava più ricca di sfumature e più rispondente alla realtà empirica rispetto a quella svolta in Das Recht der Freiheit. La sfera delle relazioni personali, nel volume del 1992, attraverso il riferimento alla teoria delle relazioni oggettuali e ai lavori di Jessica Benjamin[40], era descritta come un ambito intrinsecamente attraversato da ambivalenze, da conflitti e dalla tensione tra il desiderio di fusione e quello di autoaffermazione che sempre caratterizza i rapporti affettivi umani. In Lotta per il riconoscimento il conflitto aveva un ruolo positivo, o comunque fisiologico, non solo in quanto lotta per il riconoscimento, ma anche come tensione interna ai rapporti di riconoscimento; esso agiva sempre da elemento di ulteriore progresso normativo, poiché permetteva la scoperta, da parte dei soggetti, di nuove dimensioni della propria individualizzazione o universalizzazione ancora non riconosciute.
Questo mutamento nella prospettiva di Honneth è evidente non solo in relazione alla prima sfera, bensì caratterizza la visione teorica complessiva che egli traccia in Das Recht der Freiheit[41]: esso, come possiamo notare (seppure con necessaria brevità), è riflesso anche nei diversi riferimenti testuali hegeliani di cui l’autore fa adesso uso nel delineare la propria teoria. Se prima, infatti, il modello principale per Honneth era stato lo Hegel del Sistema dell’eticità e della prima Filosofia dello spirito jenese, il riferimento principale diviene ora la più tarda Filosofia del diritto. In base al modello dell’Hegel jenese, il riconoscimento veniva concepito come «un processo di successivi stadi di conciliazione e conflitto»: esso, come spiegava lo stesso Honneth, poteva ottenere questa configurazione in quanto i soggetti, «nel quadro di un rapporto di reciproco riconoscimento stabilito eticamente, apprendono sempre qualcosa di più sulla loro propria particolare identità, vedendo in ciò di volta in volta confermata una nuova dimensione del loro Sé», e per questo motivo essi ogni volta «devono abbandonare, anche in modo conflittuale, lo stadio di eticità già raggiunto, per addivenire in certo qual modo al riconoscimento di una più esigente configurazione della propria identità»[42]. Hegel si faceva in questo modo portatore di «un’idea del sociale a cui è costitutivamente connessa una tensione interna»[43], e Honneth, sulla base di questa prospettiva, poteva affermare che le lotte per il riconoscimento non avrebbero mai avuto fine e con esse le potenzialità di evoluzione morale della società. In Das Recht der Freiheit, invece, l’idea di un incessante conflitto normativo come elemento costitutivo della società viene sostituita da quella di una finale Versöhnung (conciliazione) sul modello dell’eticità delineata da Hegel nella Filosofia del diritto. Il «compimento della libertà» ha luogo quando si perviene alla conciliazione tra i soggetti e di essi con l’oggettività; la sfera della famiglia, così come essa viene dipinta da Honneth, è l’esempio concreto del massimo avvicinamento che ad oggi sia stato compiuto a questo stato di conciliazione.
La sfera dell’economia capitalistica
Coerentemente con il modello hegeliano della Filosofia del diritto, in Das Recht der Freiheit la seconda sfera di riconoscimento viene da Honneth individuata nelle pratiche di interazione legate all’azione economica nel sistema capitalistico. Questa rappresenta una prima, grande differenza rispetto a Redistribuzione o riconoscimento? e alle precedenti versioni della teoria honnethiana: in esse la seconda sfera coincideva con l’ambito del riconoscimento giuridico, mentre la cooperazione lavorativa costituiva la terza sfera. L’altra differenza che può essere immediatamente notata è che tale ambito viene ora da Honneth riferito non più al principio del merito, come avveniva in Redistribuzione o riconoscimento?, bensì a quello della cooperazione solidale tra soggetti, in una sorta di più approfondita riproposizione del principio di solidarietà già associato a questa sfera in Lotta per il riconoscimento. L’abbandono del principio del merito, a causa del carattere ideologico da esso assunto, viene da Honneth esplicitato in un suo recente scritto dal titolo Verwilderungen des sozialen Konflikts: «il principio di prestazione, che per Parsons era la garanzia normativa di un’equa concorrenza per il riconoscimento professionale e per lo status sociale, è stato, per mezzo dell’usurpazione da parte dei ceti giunti rapidamente al successo nel sistema di mercato capitalistico, distorto ideologicamente fino all’irriconoscibilità»[44].
Le esigenze che dal punto di vista morale risultano adesso porsi in primo piano sono quelle di una ri-regolazione e vincolamento dei processi economici in strutture normative e dispositivi giuridici; tali esigenze avevano un ruolo centrale già nella trattazione che dell’ambito economico veniva svolta in Redistribuzione e riconoscimento?, ma ora, attraverso l’assegnazione del principio di cooperazione solidale alla sfera del mercato capitalistico, esse vengono più profondamente integrate nella teoria. È vero che il principio del merito comprendeva comunque questo tipo di istanze, a livello implicito, come condizioni di possibilità di una sua determinazione in senso normativo; in Das Recht der Freiheit, attraverso la riproposizione del principio di solidarietà, viene però esplicitamente in primo piano l’idea che «gli attori economici devono essersi preliminarmente riconosciuti come componenti di una comunità di cooperazione prima che essi possano reciprocamente accordarsi il diritto alla massimizzazione dell’utile individuale sul mercato»[45]. In tal modo, sparisce finalmente dal quadro teorico il problema messo in luce da Fraser riguardo all’indeterminatezza del principio del merito. Dal punto di vista della sua teoria della giustizia, che egli intende elaborare a partire dalle forme di normatività realizzate nella prassi, Honneth si propone di far risaltare la struttura morale implicita nel sistema dell’economia capitalistica: la sua ricostruzione normativa di questa sfera, come già avveniva nella teorizzazione presentata in Redistribuzione o riconoscimento?, si concentra pertanto «sui meccanismi discorsivi e riforme giuridiche»[46] che hanno dato corpo al principio di solidarietà cooperativa nella prassi. Le rivendicazioni e le lotte compiute in base all’idea normativa della solidarietà vengono da Honneth ripercorse, tanto in relazione alla sfera dei consumi quanto a quella del lavoro, tracciando una panoramica storica che va dalle rivolte per il pane alle proteste contro gli incettatori, dagli scioperi di fabbrica agli appelli morali delle istituzioni caritatevoli in favore delle classi più povere, all’istituzione delle prime cooperative di consumatori, delle prime associazioni di mutuo soccorso e dei primi sindacati, alle lotte per la rivendicazione dei diritti sul lavoro e per lo Stato sociale.
Nella sua ricostruzione della «grammatica morale di fondo»[47] delle società capitalistiche moderne, Honneth considera sia l’elemento degli orientamenti normativi interni all’azione quotidiana dei soggetti, sia quello dei vincoli morali posti, in maniera giuridico-positiva o informale, ai meccanismi economici di tipo sistemico e all’interesse privato acquisitivo. Il doppio binario su cui questa trattazione viene condotta cela però un aspetto che, in Das Recht der Freiheit, non risulta del tutto chiaro: la realizzazione del principio di cooperazione solidale sembra infatti essere prospettata da Honneth secondo due modalità diverse, non reciprocamente compatibili fino in fondo. Dalla ricostruzione storica, nella quale l’elemento più evidente è la continua lotta dei movimenti sociali su base normativa contro le dinamiche sistemiche e le tendenze individualistiche che ostacolano il principio di cooperazione, emerge un modello secondo il quale una società che sia riuscita a realizzare tale principio normativo sarà innanzitutto una società che abbia efficacemente vincolato il mercato[48]: l’integrazione sistemica è suscettibile di controllo tramite l’integrazione sociale, ma affinché questo avvenga è necessario un sistema di vincoli che impediscano ai meccanismi sistemici del mercato di travalicare gli argini della loro legittimità. Il mercato appare quindi come un ambito costitutivamente caratterizzato anche da componenti non normative, bisognose di regolazione. A fianco di questo modello basato sui vincoli (in particolare giuridici) al mercato, trova posto nella trattazione di Honneth un secondo modello, nel quale il mercato capitalistico sembra inteso come un’istituzione che, nella sua più interna struttura, segue la logica normativa della cooperazione solidale: esso non sarebbe più, quindi, un ambito da sottoporre a costante regolazione a causa del costitutivo operare in esso non solo di aspetti normativi, ma anche di dinamiche estranee al riconoscimento, bensì verrebbe considerato innanzitutto come una sfera intrinsecamente e propriamente riconoscitivo-normativa. Le lotte sociali rappresentano qui il fattore che, sgrossando tale sfera dagli elementi di egoismo particolaristico (concepiti come concrezioni estranee alla sua logica profonda) e facendo venire in primo piano la sottostante moralità della reciproca, paritaria e spontanea soddisfazione dei bisogni dei soggetti cooperanti, dovrebbero portare alla luce il nucleo morale di essa. Secondo questa visione l’ambito del mercato dei consumi capitalistico «può essere concepito, nella tradizione dell’economia morale, come una relazione istituzionalizzata di reciproco riconoscimento, in cui gli imprenditori offerenti e i consumatori sono legati gli uni agli altri nel senso che essi contribuiscono, in maniera complementare, alla realizzazione degli interessi legittimi dell’altra parte»[49]. In un modello, quindi, a venire in primo piano sono gli aspetti sistemici sovraindividuali e le tendenze acquisitive che, contrapponendosi al principio della cooperazione solidale, paiono però anch’essi inerire a questa sfera, e vanno dunque regolati e vincolati dal punto di vista normativo; nel secondo, ad essere evidenziata è invece l’intrinseca normatività di essa, fondata nell’azione individuale quotidiana dei soggetti e teorizzata, sul modello di una società/comunità di cooperazione, come internamente trasparente ai soggetti stessi, i quali attraverso il loro agire routinario potrebbero scegliere se continuare a riprodurre le istituzioni dell’economia capitalistica o meno.
Nel primo caso, che sembra meglio cogliere come l’economia globale contemporanea sia contraddistinta in misura sempre maggiore da processi di carattere sovraindividuale e sistemico, e come in essa il margine d’azione dei singoli soggetti spesso non comprenda l’immediata possibilità di cessare la riproduzione di istituzioni considerate illegittime, una pur ampia realizzazione del principio di cooperazione solidale non eliminerebbe la tensione tra orientamenti normativi e processi di mercato sistemici: questi ultimi potrebbero essere efficacemente vincolati, ma continuerebbero a porsi come elemento antagonistico rispetto alla normatività. Nel secondo caso, invece, a un’ipotetica (e vedremo quanto, a parere dello stesso Honneth, difficile) realizzazione del riconoscimento in questa sfera corrisponderebbe un’irrealistica cessazione dei conflitti e degli attriti, tanto di quelli tra concezioni normative e interesse individualistico quanto di quelli tra integrazione sistemica e integrazione sociale; con l’emergere, per mezzo di evoluzioni normative, del nucleo normativo profondo dell’agire economico, si giungerebbe a realizzare un’armonica comunità di cooperazione. In riferimento al modello armonicistico che emerge da alcuni passi dell’ultima opera di Honneth (e che era già presente in alcuni passaggi di Redistribuzione o riconoscimento?, volume nel quale questa tensione già si manifestava), ci si può domandare quanto la prospettiva di una simile comunità di cooperazione possa essere ritenuta praticabile in relazione alle condizioni strutturali del capitalismo nelle società contemporanee.
Lo stesso Honneth sembra, paradossalmente, nutrire ben poche speranze riguardo alle potenzialità di sviluppo della normatività in ambito economico: che il prendere piede di un modello di cooperazione riconoscitiva comunque inteso, o più semplicemente un miglioramento generalizzato nello stato fattuale di questa sfera, siano oggi obiettivi di difficile, quasi impossibile realizzazione, è ciò che emerge con più chiarezza dalla trattazione honnethiana. Egli nota infatti come, da una parte, le istituzioni statali abbiano in larga misura abdicato alla loro funzione di intervento normativo sull’economia, la quale, tra gli altri aspetti, era tesa a una regolazione dei prezzi dei beni di prima necessità e all’assicurazione di servizi di carattere pubblico accessibili a tutti. Dall’altra parte Honneth afferma ora che, nel complesso, non è ormai più riscontrabile alcuna visibile indignazione e disposizione oppositiva dei lavoratori. A causa del diffondersi di una mentalità individualistica, mirante al perseguimento dell’utile personale e fondata sulla concorrenza, associata all’indebolirsi delle strutture istituzionali che assicuravano la coesione e la solidarietà sociale, negli ultimi anni sarebbe infatti venuta a cambiare la concezione comune della responsabilità del singolo soggetto sul lavoro: il mercato capitalistico non viene più visto come un’istituzione che debba conformarsi a quantomeno basilari criteri di reciprocità, bensì come una lotta tra singoli per il perseguimento del proprio profitto individuale, nella quale ognuno è l’unico artefice del proprio successo o fallimento. All’indignazione per condizioni di lavoro normativamente inadeguate si sarebbero quindi sostituite, in tutte le fasce di lavoratori, forme di autocolpevolizzazione per quelli che vengono interpretati come fallimenti personali nell’ambito della carriera lavorativa, nonché dinamiche di automercificazione e di reificazione di proprie qualità personali. Honneth ha ben chiaro che, con l’affermazione secondo cui in questa sfera le spinte emancipative sarebbero andate ad esaurirsi, la concezione di «eticità democratica» che costituisce al contempo la base di immanenza e l’obiettivo ideale della teoria proposta in Das Recht der Freiheit «viene a mancare di uno dei suoi elementi fondamentali»[50]. Le conseguenze di questa pessimistica diagnosi, però, vanno anche oltre: se, in base alle premesse tracciate dallo stesso Honneth, a costituire l’edificio teorico delineato in Das Recht der Freiheit devono essere le sfere di normatività ravvisabili nella prassi, con che diritto l’ambito dell’economia capitalistica, che in base alla ricostruzione effettuata da Honneth sembra ormai denormativizzato – nonché privo di qualsivoglia forma di opposizione morale da parte dei soggetti – rientra nella teoria[51]?
Che nell’attuale mondo del lavoro i soggetti siano portati a mettere in atto forme di automercificazione e ad autocolpevolizzarsi per insuccessi nei quali hanno ben poca responsabilità diretta è stato dimostrato da più parti, e anche lo stesso Honneth ha dedicato alcuni scritti a questi temi[52]. In Das Recht der Freiheit, però, quelle che in precedenza venivano descritte come tendenze negative e da arginare, ma comunque limitate, vengono elevate a norma dell’azione sociale nella sfera economica. La conseguenza di ciò, che Honneth trae coerentemente (per quanto dopo alcune oscillazioni), è che nella quotidianità delle società contemporanee non vi sia più alcuna significativa opposizione su basi morali per quanto riguarda il mondo del lavoro.
Di certo, la resistenza sociale a dinamiche economiche miranti unicamente al profitto di pochi è andata scemando rispetto a pochi decenni fa, e rispetto ad allora necessita oltretutto di cambiare linguaggio e forme, così come è andato cambiando il sistema capitalistico. Essa, però, contrariamente a quanto Honneth afferma, non si è esaurita: la privazione di diritti e la deregolamentazione dell’economia vengono ancora percepite correttamente come tali, e non cessano di suscitare nei diretti interessati disapprovazione morale e atti di opposizione. Honneth manca di notare un aspetto verso il quale, precedentemente, aveva al contrario mostrato grande sensibilità teorica[53]: come, cioè, nella vita quotidiana dei soggetti sia ancora presente una coscienza oppositiva nell’ambito dell’economia capitalistica, che talvolta permane sotto la soglia dell’espressione articolata ma che spesso si esplicita in coraggiose forme di aperta protesta e contrapposizione[54].
Egli, così, passa a riporre ogni sua speranza nei movimenti sociali transnazionali. Nelle ultime due pagine della sua trattazione della sfera del mercato, Honneth afferma infatti che una via d’uscita dalla situazione apparentemente senza sbocchi delineata poco prima può oggi essere ravvisata nei movimenti sociali che operano a livello transnazionale. Egli sembra quindi scartare il livello locale, quotidiano, dell’opposizione normativa dei soggetti alle attuali dinamiche del mondo del lavoro, la quale sarebbe ormai stata completamente battuta, per rivolgere lo sguardo ai grandi network di protesta, i quali riescono in specifiche occasioni a catalizzare una notevole quantità di attenzione pubblica[55]. Da una parte, è sotto gli occhi di tutti come, negli ultimi anni, il volto del capitalismo sia cambiato con grande rapidità: forme di opposizione significativa non possono prescindere dal livello globale e sovranazionale, a partire dal quale si determinano gli «imperativi» della nuova concorrenza economica mondiale le cui ripercussioni vengono poi esperite dai soggetti sociali sotto forma di instabilità occupazionale, compressione dei diritti e dei servizi sociali, deregolamentazione del mercato del lavoro. In Das Recht der Freiheit il riferimento finale ai movimenti transnazionali sembra però servire quasi come un deus ex machina che debba trarre fuori la teoria dall’impasse derivante dall’aver, fino a quel momento, escluso l’esistenza di ogni opposizione normativa nella quotidianità dei soggetti per quanto riguarda la sfera economica. Se davvero non vi fosse nessuna forma di quotidiana e situata coscienza oppositiva e alcun appiglio a livello locale, nemmeno l’azione degli attivisti che operano a livello transnazionale potrebbe portare a risultati significativi: essa rimarrebbe scissa sia dalle esperienze di negazione dei diritti che i soggetti vivono sul luogo di lavoro, sia dalle possibilità di opposizione che ancora rimangono per quanto concerne le politiche economiche nazionali. Si tratterebbe insomma di un’azione destinata a cadere nel vuoto, che, in Honneth, sembra oltretutto sorgere dal nulla.
La sfera della democrazia
La terza e ultima sfera della «teoria della giustizia come analisi della società» che Honneth delinea in Das Recht der Freiheit è quella relativa allo Stato democratico. Anche questo ambito viene descritto da Honneth come internamente suddiviso: esso include tanto l’istituzione della sfera pubblica informale quanto ciò che Honneth indica con l’espressione «Stato di diritto democratico», ossia il complesso istituzionale della politica formalizzata, basato sulla separazione dei poteri e comprendente l’ambito del diritto positivo, statualmente tutelato e garantito. La sfera pubblica democratica viene ricostruita da Honneth a partire dal XVIII secolo. Egli specifica che, sebbene allora non si potesse parlare in senso proprio di sfera pubblica, in quanto – essendo ancora lontani i sistemi parlamentari nazionali – mancavano i diritti democratici che sono alla sua base, proprio in quel periodo presso i ceti borghesi delle società occidentali cominciano però a diffondersi pratiche informali di discussione pubblica fondate sullo scambio di opinioni personali e riguardanti problemi di attualità, di cultura e di politica. È verso la metà del XIX secolo, con il conferimento dei diritti politici di voto, unione, associazione ed espressione, che si può datare la nascita della sfera pubblica democratica, intesa come ambito ideale di discussione politica che esercita costitutivamente un peso e un’influenza sullo Stato[56].
Grande rilevanza assume, nell’analisi honnethiana degli attuali problemi della sfera pubblica, la questione del ruolo dei media nelle nostre società: in particolare egli si riferisce al problema della costruzione mediatica della realtà, della proposizione di temi scelti unicamente in base alla loro capacità di impatto sull’audience, dell’uso strumentale dell’informazione e della carenza di approfondimento, associata alla sottrazione di spazi alle voci critiche. Alcune affermazioni e riflessioni che Honneth compie trattando questo ambito, a differenza di quanto avveniva per la sfera del mercato capitalistico, sono però cautamente ottimistiche: in particolare le considerazioni che egli svolge in relazione al ruolo di internet come mezzo di organizzazione politica e fonte di informazione alternativa e decentralizzata[57], nonché le osservazioni relative all’emergere di nuovi attori collettivi, come i già ricordati movimenti transnazionali. Nella tematizzazione honnethiana dello Stato di diritto viene invece in primo piano il problema della disaffezione dei cittadini dalla politica: nella sfera democratica, complessivamente, si nota uno scollamento tra il sistema politico e il principio di autolegislazione collettiva, il che non può non avere effetti sulla vitalità della sfera pubblica informale. Al di là, quindi, del comunque misurato ottimismo con cui si riferiva ad alcuni degli sviluppi democratici degli ultimi anni, l’autore di Das Recht der Freiheit giunge a parlare apertamente di «crisi dello Stato di diritto democratico». Una possibile via d’uscita da questa situazione viene ravvisata da Honneth «nelle associazioni, nei movimenti sociali e nelle organizzazioni civili»[58], i quali dovrebbero unire le proprie forze per esercitare pressione sugli organi legislativi al fine di una più stringente regolamentazione degli interessi che minano la libertà sociale, in prima istanza quelli del capitale.
Che questo auspicio di Honneth si concili con il deserto di normatività e di opposizione sociale che egli denunciava rispetto alla sfera della cooperazione lavorativa appare, però, quantomeno problematico. Sembra che nella teoria presentata da Honneth in Das Recht der Freiheit tanto la sfera della famiglia, quanto (sebbene in misura minore) quella della democrazia abbiano in sé elementi di «eticità democratica», ma che il filo che collega queste due sfere si interrompa nel mezzo, in corrispondenza dell’ambito dell’economia. Ma se è davvero così, come pensare che anche le potenzialità di evoluzione normativa presenti nella famiglia e nello Stato democratico non escano vanificate, al contatto con la sfera del lavoro, nella loro possibilità di produrre il compiuto sviluppo dell’«eticità democratica» auspicato da Honneth? Quanto la prospettiva di Honneth sia negli anni andata cambiando, per ciò che riguarda l’ambito economico e il suo legame con la democrazia, ce lo rivela un rapido confronto con il saggio del 1998 Democrazia come cooperazione riflessiva. In esso, ricollegandosi al pensiero di Dewey, Honneth affermava che
le procedure democratiche per la formazione della volontà e la giusta organizzazione del lavoro si richiedono a vicenda: solo una forma della divisione del lavoro che assicuri a ogni membro della società, a misura delle sue doti e talenti autonomamente scoperti, un’equa opportunità nell’assunzione di attività socialmente desiderate, fa sorgere quel senso individuale di cooperazione comunitaria, alla luce del quale le procedure democratiche acquistano valore, in quanto rappresentano lo strumento migliore per la soluzione razionale di problemi condivisi[59].
L’idea di una democrazia che non sia solo un ideale politico, ma anche e soprattutto un ideale sociale, permane anche in Das Recht der Freiheit; sono le risorse attraverso cui ciò potrebbe venire realizzato, in particolare per quanto riguarda le possibilità di resistenza e contrapposizione normativa, a non essere più dall’autore ritenute disponibili. Da qui deriva probabilmente il fatto che, nell’ultimo volume di Honneth, l’ambito della democrazia viene fatto confluire nella stessa sfera di quello del diritto, che nelle precedenti opere era a sé stante, e non, come l’articolo appena citato lasciava presagire, in quello della cooperazione lavorativa. Il collegamento stabilito nel 1998 tra le due sfere, tuttavia, con le argomentazioni che in favore di esso Honneth aveva prodotto, lascia intendere alla perfezione come il progetto di un’eticità democratica non possa prescindere dalla necessità, per i soggetti, di vivere concrete esperienze di carattere riconoscitivo e normativo nell’ambito della cooperazione lavorativa, che questa sia connessa alla sfera del diritto o a quella della democrazia; la prospettiva di una raggiunta eticità democratica, a meno di non essere ritenuta irrealizzabile (e in questo caso il tentativo di Honneth di enucleare una teoria della giustizia a partire dagli elementi di normatività presenti nella prassi sociale perderebbe ogni significato), per poter essere coerentemente affermata dovrebbe quindi poggiare su una diagnosi meno pessimistica circa le rimanenti potenzialità di resistenza dei soggetti sociali nella sfera economica, e porre più attenzione nel ravvisare dette potenzialità anche al livello in cui ha luogo l’azione sociale quotidiana di essi.
Tracciare un giudizio complessivo su Das Recht der Freiheit non è operazione semplice. Poiché si tratta di un testo dagli obiettivi complessi, in cui l’autore opta oltretutto per la coraggiosa scelta di apportare significative rideterminazioni a un paradigma che poteva ormai dirsi consolidato, in esso acquisizioni teoriche notevoli si affiancano ad aspetti che necessiterebbero di un’ulteriore messa a punto. Al di là, però, delle aporie che abbiamo notato nel presente articolo, l’impresa che Honneth si proponeva, quella di ricavare una teoria della giustizia a partire da un’analisi della società, risulta in Das Recht der Freiheit sostanzialmente compiuta, e la metodologia della ricostruzione normativa si rivela quindi, nel complesso, un valido dispositivo teorico. Al contempo, inoltre, diversi elementi del sistema filosofico-politico che Honneth è venuto tracciando nel corso degli anni vengono, in questo testo, dotati di più solidità e articolazione: a partire dalla maggiore ampiezza che la teoria guadagna grazie all’inserimento delle sfere della libertà negativa e riflessiva, fino alla chiara determinazione del contenuto della terza sfera di riconoscimento, senza dimenticare l’importanza dell’ampio riferimento alla storia e alla sociologia che Honneth compie nelle ricostruzioni storiche svolte nella terza sezione del volume, le quali permettono di rendere più documentate le affermazioni riguardanti l’idea di evoluzione normativa delle società moderne che l’autore compie fin da Lotta per il riconoscimento. Complessivamente l’ultimo libro di Honneth risulta quindi un testo non privo di punti di forza, che, per quanto forse non rappresenti un punto d’arrivo definitivo e in sé compiuto all’interno dell’itinerario teorico dell’autore, ne costituisce però sicuramente una tappa importante e meritevole, nei suoi elementi fondamentali, di ulteriori sviluppi.
[1] A. Honneth, Das Recht der Freiheit. Grundriß einer demokratischen Sittlichkeit, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2011, p. 9.
[2] Ivi, p. 14.
[3] In A. Honneth, Pathologien der Vernunft. Geschichte und Gegenwart der kritischen Theorie, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2007, pp. 57-69.
[4] Cfr. anche N. Fraser, A. Honneth, Redistribuzione o riconoscimento? Una controversia politico-filosofica, trad. it. Meltemi, Roma 2007, pp. 283-293.
[5] A. Honneth, Rekonstruktive Gesellschaftskritik unter genealogischem Vorbehalt, cit., p. 61.
[6] A. Honneth, Das Recht der Freiheit, cit., p. 16. Questa idea della modernità come epoca di più completa realizzazione, rispetto a quelle precedenti, della razionalità normativa, è una costante del pensiero di Honneth fin dal volume del 1992 Lotta per il riconoscimento: le lotte per il riconoscimento costituiscono, per Honneth, il fattore di evoluzione morale della società, a partire dal quale (e riferendosi, sul piano teorico-sociale, alle ricerche empiriche relative ai mutamenti verificatisi nelle sfere di cui si compone la sua teoria) egli definisce la modernità come epoca maggiormente caratterizzata da razionalità rispetto alle precedenti, in quanto in essa, mediante il conflitto, i rapporti di riconoscimento sono giunti a una maggiore estensione e profondità. Per ragioni di spazio non possiamo mettere criticamente a tema, nel presente articolo, questo fondamentale aspetto della teoria honnethiana. Basti notare che esso è stato criticato da più autori sulla base della considerazione di ricerche teorico-sociali differenti da quelle richiamate da Honneth, che evidenziano come nella modernità siano all’opera tendenze di segno opposto: non, cioè, normativamente progressive, bensì regressive. La concezione honnethiana, poiché riguardo a questo aspetto non fa riferimento a un piano di fondazione più filosoficamente argomentato e meno controverso di quello costituito dal riferimento agli studi storici, sociologici ed empirici, risulta a nostro parere vulnerabile a queste obiezioni.
[7] Ivi, p. 107.
[8] Ibid.
[9] Ivi, p. 39.
[10] Ivi, p. 40.
[11] Ivi, p. 35, nota.
[12] Ivi, pp. 37-38.
[13] Ivi, p. 37.
[14] In Redistribuzione o riconoscimento? era, per di più, lo stesso Honneth a porre l’eguaglianza come principio normativo fondamentale della modernità, a farne discendere l’idea di autonomia individuale. Lì Honneth affermava infatti: «sia Fraser che io procediamo dall’idea che, nelle condizioni delle società moderne, ogni concezione della giustizia debba possedere sin dall’inizio un carattere egualitario, nel senso che tutti i membri della società si considerano reciprocamente come portatori di eguali diritti, garantendo perciò a ognuno eguale autonomia» (N. Fraser, A. Honneth, Redistribuzione o riconoscimento?, cit., p. 214). Anche nel saggio del 2004 Giustizia e libertà comunicativa, che può essere considerato, quanto a contenuti, il più diretto precursore di Das Recht der Freiheit, al principio dell’«autonomia individuale» è affiancato quello dell’eguaglianza (trad. it. in Etica del plurale. Giustizia, riconoscimento, responsabilità, a cura di E. Bonan, C. Vigna, Vita e pensiero, Milano 2004, pp. 51-68: 52).
[15] Questo problema si riproporrà in relazione alla sfera dell’economia capitalistica, che analizzeremo in seguito.
[16] A. Honneth, Das Recht der Freiheit, cit., p. 16.
[17] Ivi, p. 129.
[18] Ivi, p. 149.
[19] Ivi, p. 221.
[20] Ivi, p. 158.
[21] Cfr. Ch. Zurn, Social Pathologies as Second-Order Disorders, in Axel Honneth: Critical Essays, a cura di D. Petherbridge, Brill, Leiden-Boston 2011, pp. 345-370.
[22] A. Honneth, Das Recht der Freiheit, cit., p. 69.
[23] Cfr. anche N. Fraser, A. Honneth, Redistribuzione o riconoscimento?, cit., p. 292.
[24] Cfr. A. Honneth, Das Recht der Freiheit, cit., p. 82.
[25] Ci riferiamo in particolare agli scritti Coscienza morale e dominio di classe e Etica del discorso e concetto implicito di giustizia (entrambi inclusi in A. Honneth, Riconoscimento e conflitto di classe, cit., ma anche all’introduzione del 1995 a The Fragmented World of the Social (A. Honneth, The Fragmented World of the Social, a cura di Ch. W. Wright, State University of New York Press, Albany 1995, pp. VI-XXV).
[26] Ivi, p. 221.
[27] Ivi, p. 91.
[28] Ivi, p. 86.
[29] Su questo aspetto, cfr. anche A. Honneth, Giustizia e libertà comunicativa, cit.
[30] A. Honneth, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, trad. it. Il Saggiatore, Milano 2002., p. 174.
[31] Ivi, p. 175.
[32] Ibid.
[33] A. Honneth, Das Recht der Freiheit, cit., p. 97.
[34] Cfr. ivi, p. 439.
[35] Ivi, p. 252.
[36] Ivi, p. 296.
[37] Ivi, p. 311.
[38] A. Honneth, Giustizia e libertà comunicativa, cit., p. 62; cfr. anche p. 63.
[39] In controtendenza a questo, cfr. Lotta per il riconoscimento, cit., p. 207, e l’articolo del 1995 La famiglia tra giustizia e legame affettivo, trad. it. in «La società degli individui», II (1999), n. 5, pp. 5-24.
[40] Cfr. in particolare J. Benjamin, Legami d’amore. I rapporti di potere nelle relazioni amorose, trad. it. Rosenberg & Sellier, Torino 1991, e D. W. Winnicott, Gioco e realtà, trad. it. Armando, Roma 1997.
[41] Cfr. anche L. Siep, recensione a Das Recht der Freiheit: Wir sind dreifach frei, in «Die Zeit», 18.08.2011.
[42] A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, cit., p. 27.
[43] Ivi, p. 28.
[44] A. Honneth, Verwilderungen des sozialen Konflikts: Anerkennungskämpfe zu Beginn des 21. Jahrhunderts, in «Max-Planck-Institut für Gesellschaftsforschung – Working Papers», 2011, n. 4, p. 11.
[45] A. Honneth, Das Recht der Freiheit, cit., p. 349.
[46] Ivi, p. 360.
[47] Ivi, p. 421.
[48] Per questo modello, cfr. ad es. le pp. 348 e 371 di Das Recht der Freiheit.
[49] Ivi, p. 380.
[50] Ivi, p. 468.
[51] Per una più approfondita trattazione di questo punto, nonché per altre questioni riguardanti la fondazione e l’architettura complessiva del sistema tracciato in Das Recht der Freiheit, devo rinviare al mio articolo La contrastata promessa di libertà del moderno. Considerazioni su «Das Recht der Freiheit» di Axel Honneth, in «La Cultura», L (2012), n. 1, pp. 133-156.
[52] Cfr. A. Honneth, Autorealizzazione organizzata (2002); Paradossi del capitalismo (con M. Hartmann) (2004), e Riconoscimento come ideologia (2004).
[53] Cfr. anche la recensione a Das Recht der Freiheit, dal titolo Respekt muss sein, di Angelika Brauer; in «Der Tagesspiel», 30.07.2011.
[54] Questo tema contraddistingue tutto il primo periodo dell’attività filosofica di Honneth; è inoltre proprio nell’ambito delle sue ricerche sulle forme della moralità pre-politica che egli ha posto i primi fondamenti del suo concetto di riconoscimento. Cfr. A. Honneth, Riconoscimento e conflitto di classe. Scritti 1979-1989, a cura di E. Piromalli, Mimesis, Milano 2011.
[55] Questa mossa di Honneth è paradossale, in quanto egli sembra adesso riproporre, nella sua teoria, lo stesso modo di procedere che in Redistribuzione o riconoscimento? criticava in Fraser, la quale avrebbe focalizzato la sua attenzione unicamente sui «nuovi movimenti sociali», trascurando il livello dei conflitti su base normativa quotidiani e situati. Cfr. N. Fraser, A. Honneth, Redistribuzione o riconoscimento?, cit., pp. 151-152.
[56] Cfr. A. Honneth, Das Recht der Freiheit, cit., p. 483.
[57] Cfr. ivi, pp. 561-566.
[58] Ivi, p. 608.
[59] A. Honneth, Democrazia come cooperazione riflessiva, trad. it. in «Fenomenologia e Società», XXI (1998), pp. 4-27: 23.