Sergio Alloggio
This article is the first part of a two-part essay that approaches Lyotard’s masterpiece Le différend aiming at a structural reconfiguration of the book itself. The second part of the essay will appear in the next issue of Consecutio temporum. As a general introduction to the Lyotardian emphasis on judgment, I use a self-absolutory confession made by Derrida in his Before the Law, a confession on the decisive role played by judging in Derrida’s own deconstructive enterprise as a whole. The Differend is then genealogically analyzed to show how a specific ontology, epistemology and politics characterises what can be called the phrasal dispositif of the book. This dispositif is more extensively investigated in its elemental composition, that is triangulation, agonistic atomism and vengeance of the names. It is only at this final point that most of the book’s concepts (differend, wrong and litigation) can be rearranged in order to prove that Lyotard’s phrasal agonistics relies on a politics of delegitimation.
Parte I
“Questa testa di Medusa dentro”[1]
Persino gli avversari sono utili solo se chiamati col loro nome. E chiamarli ci dichiara.
Franco Fortini, Nuovi saggi italiani 2
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L’essenza della politica è di volgersi al gruppo che detiene il potere. […] I bianchi non solo sono stati colpevoli di essere sempre all’offensiva ma, con alcune abili manovre, sono riusciti a controllare le risposte dei neri alle provocazioni. Non solo hanno preso a calci il nero ma gli hanno anche detto come reagire ai calci. Per molto tempo il nero ha ascoltato pazientemente i consigli ricevuti su come meglio rispondere ai calci, con dolorosa lentezza sta ora cominciando a mostrare segnali che è suo diritto e dovere rispondere ai calci nel modo in cui lui ritiene opportuno. […] Se però vuoi combattere il tuo nemico non accetti da lui fra le due pistole quella scarica e poi lo sfidi a duello.
Stephen Bantu Biko, I write what I like
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Eh, perché te li dobbiamo strappare coi denti, questi bocconi e boccate d’abboccamenti?
Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca
L’ingiunzione a giudicare (la confessione autoassolutoria di Jacques Derrida)
Che hai risoluto di fare, non potendo né fuggire, né adattarti a questi costumi?
Luciano, Nigrino, o dei costume d’un filosofo
Si tratta di giudicare ciò che permette di giudicare, ciò di cui si avvale il giudizio.
Derrida, Forza di legge
Nel cominciare questo mio affresco e close reading de Il dissidio, l’opera più importante di Jean-Francois Lyotard (1924-1998) e che, per stessa ammissione, è l’unico libro filosofico scritto, desidero partire da Jacques Derrida (1930-2004).[2] Da quello che per Derrida Lyotard significa in una precisa scansione storica, l’inizio degli anni Ottanta del Novecento. Per Lyotard, incidentalmente, i primi anni Ottanta sono sia gli anni immediatamente successivi alla pubblicazione, nel 1979, del suo celebre pamphlet La condition postmoderne, che quelli dell’intensa gestazione, durata ben dieci anni, di Le différend, libro poi pubblicato nel 1983. Lyotard è il punto di svolta in Derrida per ciò che riguarda la presa di coscienza della filosofia d’avanti all’istanza giudicativa, dell’impossibilità di non giudicare e, quindi, dell’inizio della fase etico-politica nella riflessione derridiana. In breve, Lyotard è il turning point in Derrida per quanto riguarda giudizio e responsabilità, e questo lo si evince chiaramente nel suo lungo articolo del 1982 intitolato Préjudés – Davant la loi (Pre-giudicati. Davanti alla legge).[3] Leggo parte di questo articolo come una confessione filosofica, il momento in cui Derrida, discutendo del suo rapporto filosofico con Lyotard, prende coscienza della propria traiettoria speculativa e anche di come intenderà proseguire nell’immediato futuro. In Pre-giudicati Derrida storicizza se stesso attraverso il confronto critico con Lyotard e il fulcro intorno al quale ruota questo meccanismo confessionale è l’interrogazione della facoltà del giudizio, ovvero quella che è per Derrida la domanda lyotardiana fondamentale: «come giudicare?». Tale domanda ricorre ossessivamente in tutto l’articolo e, quando Derrida la pone non solo in generale ma anche a se stesso in quanto filosofo e nei confronti di Lyotard, essa lo scuote al punto da impegnarlo per ben un anno nella stesura dell’articolo. Lo scuotimento lyotardiano permette però a Derrida con Préjudés di comprendere come e perché egli stesso si sia sempre tenuto a distanza dal giudizio come argomento filosofico pregnante. E la manciata di pagine dell’articolo derridiano che tratteggiano le ragioni di questa personalissima Verwerfung del giudicare sono sia il bilancio genealogico di quasi un secolo di filosofia, il Novecento francese, che un esempio di confessione filosofica e autoanalisi di valore indiscutibile.
Nell’intricata trama della personale resa dei conti interiore inserita in Préjudés, ravviso in Derrida fondamentalmente tre motivi che lo hanno portato a fermarsi e a indietreggiare, fino a quel momento, d’avanti al problema del giudizio. Il primo è di ordine filosofico: la filosofia della différance o decostruzione, scrive Derrida, la «si può considerare come un dispositivo di riserva riguardo al giudizio in tutte le sue forme (predicative, descrittive, sempre decisive)».[4] Il secondo motivo, che di per sé comporta un’aderenza quasi silenziosa all’inammissibilità filosofica della questione del giudizio, è di ordine storico e riguarda l’«epoca» filosofica del Novecento. Per Derrida il secolo scorso è attraversato da tre grandi movimenti che degradano la questione del giudicare a un rango inferiore, indiscutibilmente inferiore rispetto a ciò che sincronicamente emerge in essi come primario e primordiale: la fenomelogia husserliana con il prelogico, l’heideggerismo con la sua coppia velamento/disvelamento e, infine, la psicoanalisi con la relativa tematizzazione dell’inconscio. Derrida non nasconde affatto come questi tre movimenti costituiscano il suo stesso DNA filosofico. Il punto è che nella ricostruzione del filosofo di El-Biar, la fenomenologia, Heidegger e Freud giudicano il giudizio come secondario o sempre originato da evidenze e forze maggiormente fondamentali e fondanti. In tal senso, scrive Derrida: «se questa epoca ha fatto epoca, epoca di giudizio, si poteva dunque credere di averla fatta finita con quest’imperio del giudizio che è stato insomma quasi tutta la filosofia».[5] Infine, il terzo e ultimo motivo è espressamente personale ma non è difficile capire come ogni ragione richiami qui le altre due nell’essere parte attiva per ciò che riguarda la forclusione del giudizio. Quest’ultimo motivo riguarda la comprensione derridiana della propria resistenza interna ed esterna al giudicare, inteso questo come argomento filosofico autonomo: «a questo punto, quando ho visto annunciarsi questo processo, ho rinunciato a parlare di me, mi trovavo accusato con tutta l’epoca, e avevo voglia di difendermi».[6] Derrida, attraverso questa quanto mai ambigua seduta di autoanalisi, mostra a se stesso di essere finalmente degno di ventriloquare Lyotard e di cominciare a fronteggiare il suo stesso ordine di problemi – anche se il Derrida degli anni Ottanta e Novanta proseguirà naturalmente su strade molto diverse da quelle lyotardiane:
“Ora in questa scena della nostra epoca, questa scena della modernità che crede di averla fatta finita con l’epoca classica del giudizio, quella in cui la filosofia del giudizio fa autorità, da Platone a Hegel, Jean-François Lyotard ci verrebbe a dire: attenzione, vi fermo; c’è paradosso, e questa è la firma della post-modernità; in effetti il giudizio non è né fondatore né fondato, è forse secondario, ma è soprattutto per ciò stesso che non è questione di sbarazzarsene; e, se voi pensate di disfarvene, non vi lascierà in pace così presto. Voi siete da lui pre-giudicati (pré-jugés), e a suo proposito nel pre-giudizio (pré-jugé). È perché non poggia su nulla, non si presenta, soprattutto con i suoi titoli filosofici, i suoi criteri e la sua ragione, vale a dire con la sua carta di identità, che il giudizio è paradossalmente ineluttabile. Ecco ciò che dice forse Lyotard, in quest’arringa da predicatore pagano, da sofista che non conosce né la legge né i profeti perché li conosce troppo. […] È di ciò che bisognerebbe sempre parlare, voi sapete che è l’essenziale e che ciò si legge solo fra le righe, che è quello un testo di una complessità folle – e dico folle perché ne va della follia, e di una follia categorica, poiché ogni minuscolo istante di questa follia è, certamente, infinitamente divisibile, ma vi si ritroverebbe sempre giudizio. Non si finirebbe mai con il giudizio, o piuttosto con ciò che fa chiedere «come giudicare». Ed è ciò che intendo dirmi attraverso Jean-François Lyotard.”[7]
Il dispositivo frasale del Dissidio: triangolazione, vendetta dei nomi e atomismo agonistico
E non potrebbe [la divinità] trasformarsi e alterarsi da sola?
Platone, Repubblica
S’è infatti definito esser bene ciò che le cose, se acquistassero saggezza, sceglierebbero ciascuna per sé.
Aristotele, Retorica
L’atomo non è altro che la forma naturale dell’autocoscienza individuale astratta.
Marx, Differenza fra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro
Bisogna andare cauti con le categorie filosofiche prese una per una, perché ciò che decide della loro “natura” non è tanto il loro nome quanto la loro funzione nel dispositivo teorico in cui esse entrano in gioco.
Althusser, Risposta a John Lewis
Le différend, il capolavoro irripetuto di Lyotard, si presenta come un’opera filosoficamente densa, certamente la più complessa di tutto l’opus lyotardiano, il suo magnum opus, e racchiude al suo interno tutta una serie di stratificazioni formali e contenutistiche che la rendeno ancora più difficoltosa di quanto già non sia – quella sorta di «complessità folle» che non a caso Derrida attribuisce indirettamente a Lyotard. Nelle pagine che seguono proverò a elencare le principali di tali stratificazioni prima di passare, nella parte seconda del saggio, a un’analisi critica di questo ambizioso libro di filosofia del linguaggio. Innanzitutto la forma, che ricalca le Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein nella divisione in brevi paragrafi numerati. Vi sono poi le Notizie, veri e propri articoli specialistici, dedicate quasi tutte ad alcuni dei maggiori filosofi occidentali e tra le quali spiccano per l’indubbia consistenza quelle su Protagora, Platone, Antistene, Aristotele, Hegel ma soprattutto Kant, oggetto quest’ultimo di ben quattro Notizie che, se sommate, formano un vero e proprio libro nel libro.[8] L’intero testo è inoltre suddiviso in sette capitoli che raggruppano paragrafi, Notizie e altri excursus. I capitoli non sono numerati e possono essere letti in modo autonomo l’uno dall’altro per via della loro compiutezza strutturale; eccone i titoli: Il dissidio; Il referente, il nome; La presentazione; Il risultato; L’obbligo; Il genere, la norma e, infine, Il segno di storia. All’interno di un paragrafo molto spesso Lyotard rimanda ad altri paragrafi o Notizie, rendendo la struttura reticolare del Dissidio un corpo visibile e mobile sin nelle sue nervature più interne. Infine l’ultimo paragrafo, il 264, richiama il primo evidenziando la struttura da ouroboros dell’intero libro.
L’ossatura metodologica impiegata nel testo, che poi è l’oggetto di questa prima parte, porta a compimento la pragmatica filosofica messa in opera sul sapere qualche anno prima ne La condizione postmoderna – ma anche il termine pragmatica, accettato come etichetta nel celebre pamphlet del 1979, viene ora, nel testo del 1983, criticata e rigettata.[9]L’obiettivo di Lyotard nel Dissidio è doppio. Da un lato egli cerca di comprendere il funzionamento dei «generi di discorso» e dei «regimi di frasi» e, a tal fine, il filosofo di Versailles studia in modo scrupoloso sia la fisica delle frasi (gli unici oggetti «indubitabili») che le cinetiche più o meno visibili delle quattro «istanze» fondamentali che ogni frase presenta. In concreto, ogni «universo di frase» presuppone e presenta un «destinatore», un «destinatario», un «senso» e un «referente» – ecco le quattro istanze. L’altro obiettivo fondamentale del Dissidio è quello di arrivare a delineare una «politique philosophique» contro e al di là di quella degli «“intellettuali” e politici»; Lyotard vuole cioè redigere una «politica filosofica» in opposizione alla grandi narrazioni speculative e deliberative che ancora gli sembrano legittimare in modo teologico le pratiche della società postmoderna.[10]
Le quattro istanze dell’universo di frase appena menzionate entrano sempre in gioco, in modo diretto o indiretto, nel «concatenarsi di una frase sull’altra». Il complesso meccano che ogni volta si attiva fra frasi, istanze, regimi di frasi e generi di discorso costituisce quello che chiamo il dispositivo frasale di Lyotard – ed è appunto questo dispositivo che lavora dall’interno ogni Notizia ed excursus e, a ben vedere, ogni altro tema affrontato nel Dissidio.[11] È soltanto quando ogni filosofo e ogni questione viene finalmente «phrasé» dal proprio dispostivo frasale che Lyotard sembra appagato e ritiene di aver raggiunto una certa tranquillità filosofica – può cioè spostarsi su altre questioni, paradossi o illusioni trascendentali della storia della filosofia
Ma in cosa consiste concretamente questo dispositivo frasale, e che cos’è la «frasatura»? Innanzitutto va compreso cosa sono le frasi, come si presentano e cosa esse comportano nel Dissidio, e una buona esposizione è la sequenza §§94-103, le pagine che in pratica definiscono l’ontologia frasale lyotardiana. Prima del dubbio universale non c’è io o soggetto, c’è solo frase e tempo nel loro coacervo indistricabile. L’ego cogito non è la prima frase e non tanto per il presupposto di una formazione identitaria e linguisticamente strutturata, oggetti questi di definizioni storiche, quanto per la presupposizione di una catena cronologica e ricorsiva fra le frasi che presentano la prima, che la citano e che in seguito la mettono in dubbio. Nell’ego cogito scampato al dubbio iperbolico e ritenuto fondante, per Lyotard «è la successione stessa che è già presupposta», una presupposizione sempre operante in ogni «passaggio», anche in quello che si azionerebbe nella purezza di un inizio adamantino. Il paradosso della successione seriale è uno degli assi portanti, forse il maggiore, che articola il dispositivo frasale del Dissidio:
“Ma la frase che formula la formula generale dell’operazione di passaggio da una frase all’altra può essere presupposta come un a priori per la formazione della serie, eppure essa ha luogo dopo la frase che formula il passaggio. […] Come può ciò che è presupposto venire dopo?”[12]
L’“io vivo” avviene come prima frase, l’“io dubito” per seconda predicando la prima e, banalmente, la scetticismo (come terza frase) va a porre le sue verifiche sulla prima e magari anche sulla seconda. Ma Lyotard si chiede: come si è posta la prima frase come prima? E non è il contenuto della stessa a porre problemi quanto, invece, «il cronismo» che risulta implicato come premessa nella frase che presenta se stessa come prima. Discutendo velocemente dello stesso problema in Wittgenstein, Kant e usando alcuni termini della fenomenologia, Lyotard si chiede: «ma è possibile ammettere delle facoltà quando l’idea di esse presuppone un soggetto di cui sono gli organi?»[13]. La questione dell’accavallamento paradossale dell’idea di serialità ordinata, ciò che permette la comprensione della prima posizione e «il passaggio», all’idea di inizio libero porta Lyotard ad affermare che la stessa nozione razionale di prima e ultima frase sono di per sé impossibili. Se la frase della serie ordinata delle frasi deve essere presupposta prima della prima frase per permettere il passaggio, se il presupposto deve essere sempre posto prima dell’inizio, allora la prima frase non è la prima e parimenti la dichiarazione dell’ultima ne aggiunge sempre un’altra alla serie appena definita come conchiusa. Qual è la prima frase, il presupposto imposto o la prima?[14] Questa aporia del presupposto imposto che è il tempo è tale da inficiare ogni serie logico-cognitiva e pone comunque “la frase”, a prescindere dal suo contenuto filosofico, come l’unica fibra ontologica che nel Dissidio resiste allo scorticamento del dubbio iperbolico. Tale dimensione extrascettica e ontologica della frase-evento viene definita da Lyotard come «occorrenza» (occurrence). L’accadere di una frase al di là della sua corretta formazione logico-razionale è cioè il Faktum che la frase conviva con i paradossi argomentativi poiché «le frasi non sono le proposizioni» logico-cognitive che devono essere sempre «bien formées» per poter produrre verità. La frase è solo «un che cosa». Contro il cronismo logico-cognitivo che non riesce mai a venire a capo del proprio inizio, Lyotard privilegia esclusivamente il collante paratattico tra una frase e l’altra, «il passaggio» come a priori indubitabile:
“Né il senso di una frase né la sua realtà sono indubitabili. Il senso perché è sospeso al suo concatenamento su un’altra frase che lo spiegherà. La realtà perché la sua asserzione è sottoposta alle regole dello stabilimento della realtà che comporta la prova del dubbio. Ma che non ci sia frase è impossibile. […] Occorre concatenare. Questo non è un obbligo, un Sollen, ma una necessità, un Müssen. Concatenare è necessario, come concatenare non lo è”.[15]
La questione ontologica prende una piega alquanto interessante quando Lyotard spiega come questa necessità frasale non sia fondata su alcuna prova irrefutabile, anzi è la stessa nozione di prova irrefutabile ad essere rigettata poiché essa, nel caso dell’«occurrence» necessaria, implicherebbe innanzitutto un «testimone assoluto» sempre presente e onniscente e, inoltre, la nozione di «evidenza» irrefutabile trasformerebbe l’evento dell’occorrenza di frase in frase dell’evento dell’occorrenza. Nel Novecento postheideggeriano anche Lyotard accetta questa permutazione filosofica, il fatto cioè che non si possa afferrare l’essere dell’ente senza polverizzarlo negli enti, seppur egli sia estremamente critico nei confronti di Martin Heidegger.[16] Va comunque sottolineato come nel Dissidio entificare significhi frasare e quindi decidere quale genere di discorso impiegare, ovvero giudicare quale politica di concatenamento praticare. Comunque, nelle prossime pagine si farà più chiaro il tentativo di Lyotard di spostare l’asse ontologico del Sein heideggeriano verso un atomismo politicizzato e, al contempo, di imbrigliarlo nell’impossibilità epistemica di qualsiasi possibile predicazione dell’Essere. Qui di seguito un’esposizione ancora troppo descrittiva ma che illustra efficacemente l’ontologia lyotardiana:
“Che la frase si sottragga alla prova del dubbio universale non dipende né dal fatto che essa è reale né dal fatto che è vera ma dal suo essere soltanto ciò che accade, what is occurring, das Fallende. Non si può dubitare che qualcosa accade quando si dubita: accade che si dubiti. E se accade che si dubiti è una frase diversa da Si dubiti, allora accade una frase. E se si trova che questo non accade, ma è accaduta, allora accade che si trova questo. È sempre troppo tardi per dubitare del che cosa. La domanda ha già la sua risposta, un’altra domanda.”[17]
La «presentazione» di una frase, foss’anche quella ritenuta prima, comporta necessariamente la sua messa in «situazione» e, questo atto, implica immediatamente l’arrivo delle quattro istanze di destinatore, destinatario, senso e referente come aspetti fondamentali dell’«universo di frase». Nel dispositivo frasale lyotardiano le quattro istanze sono il blocco che congiungono l’ontologia all’epistemologia e, pertanto, esse configurano gli agganci strutturali delle frasi fra loro nelle cinetiche paratattiche. In altri termini, «le istanze sono valenze di concatenamento» e «marcano» (marque) le forme della situazione che ogni frase mette in campo nel suo seguire e anticiparne un’altra.[18] Lyotard definisce le quattro istanze in tal modo: il referente di una frase è «ciò di cui si tratta, il caso, ta pragmata»; il senso è «il significato del caso»; il destinatore è «in nome di cui ciò è significato del caso», mentre il destinatario sarebbe il polo al quale si rivolge la significazione. L’«universo di frase» è infine la forma situazionale dei reciproci rapporti fra le istanze.[19] In Lyotard, è la frase a evocare le quattro istanze e non viceversa: l’antiumanismo è l’ideale regolativo che sorregge tutto Il dissidio ed esso comincia a emergere già dalle semplici definizioni delle quattro istanze. Nella permutazione lyotardiana dell’antiumanismo heideggeriano, è la frase, meglio, sono le frasi che prendono il posto del Sein.[20]
Il meccano istanziale emerge nella sua configurazione più efficace all’interno del capitolo Il referente, il nome, vera e propria sede della reference theory del Dissidio.[21] È in questo capitolo, probabilmente il capitolo più complesso dell’intero libro, che viene discussa l’epistemologia lyotardiana e il ruolo teorico di termini come referente, ostensione, deittici, nomi propri e definizione. Nell’epistemologia del Dissidio, l’operazione che meglio descrive il dispositivo frasale lyotardiana è cio che chiamo la triangolazione fra senso, ostensione e nominazione; in breve, la triangolazione fra la frase cognitiva, ostensiva e nominativa. Il fulcro dell’epistemologia del Dissidio risiede nella volontà di capovolgere il significato di ciò che è ritenuto reale e, da qui, slegare tale contenuto sia dal sé e che dall’esperienza. Cerchiamo di capire il primo momento legato alla triangolazione. Tutto il capitolo Il referente, il nome è un’articolata risposta alla domanda posta inapertura: «come è possible subordinare la realtà del referente all’attuazione delle procedure di verifica, o almeno alle istruzioni che permettono a chiunque lo desideri di attuare queste procedure?».[22] Questa verifica, la triangolazione, è ciò che caratterizza il logos occidentale, ovvero per Lyotard ciò che riteniamo reale «dai tempi di Parmenide e Gorgia».[23] Gli storici negazionisti, uno dei bersagli critici del Dissidio, si comportano solo in modo più realista del cogito rappresentazionale e, in questo senso, osserviamo Lyotard comportarsi in modo più realista degli stessi realisti: «a Faurisson si risponde che nessuno può vedere la propria morte. Ad ogni realismo si risponde che nessuno può vedere “la realtà” propriamente detta. Ciò presuppone che essa abbia un nome proprio, e il nome proprio non si vede. Nominare non è mostrare».[24] Seguendo e svilippando in modo originale le riflessioni che il filosofo analitico Saul Kripke sviluppa nel suo seminale Name and Necessity (1980), Lyotard, nella Notizia Antistene, avanza un’innovativa e articolata lettura delle formulazioni antisteniche su contraddizione e definizione e, come sempre, il fulcro della sua analisi è la cinetica del presupposto imposto.[25] È l’atto di nominazione che ritaglia degli enti come determinati nel flusso indistinto dell’esistente, flusso, questo, che Lyotard ci dice essere l’unico presupposto che non può aggirare. Tuttavia, ciò che qui va sottolineato è come anche nella prima operazione della triangolazione, operazione che riguarda la designazione del referente (cioè ciò che è oggetto di percezione), non sia possible sfuggire alla logica del presupposto imposto, al pre-giudicare. Riassumendo, il nome proprio è un «designatore» che non varia nelle frasi; quello che può cambiare sono i suoi sensi e i suoi referenti nel tempo e nel venir citato. E questo perché nel rovesciamento del Dissidio «il nome designa la stessa cosa perché resta lo stesso».[26] Il nome proprio, permanendo nella sua forma lessicografica, porta con sé, nei vari mondi possibili, tutta la rete di descrizioni, storie tramandate e politiche grazie alle quali è stato forgiato, inserito e quindi conservato – il nome (proprio) è il rigid designator kripkeano. Nella Notizia Antistene Lyotard spiega come non sia possibile designare la materia primordiale di ogni referente senza prima pre-giudicarla, senza imporgli un presupposto qualsiasi:
“‘Prima’ di sapere se ciò che se ne dice o se ne dirà è vero o falso, occorre sapere di cosa si parla. Ma come sapere di quale referente si parla senza attribuirgli delle proprietà, in altre parole senza dirne già qualcosa? […] La designazione non è affatto, ne può essere, l’adeguazione del logos all’essere dell’ente. […] La nominazione è una designazione attiva, un poiein che isola delle singolarità nel “né essere né non essere” indeterminato.”[27]
Il meccanismo del presupposto imposto del pre-giudicare risiede nell’impossibilità di designare in modo neutrale i nomi primordiali che dovrebbero svolgere il ruolo fondante di raccordo fra linguaggio e realtà: «i nomi semplici non si definiscono, si nominano». E, ancora, poco più in là Lyotard conclude:
“si può forse dire il “che cos’era essere” di un referente, ma intanto si è dovuto nominare quest’ultimo “prima” di ogni predicazione a riguardo. Il semplice, l’elementare non è una componente dell’oggetto, è il suo nome, che verrà a collocarsi in situazione di referente nell’universo della frase definizionale”.[29]
La Notizia Antistene definisce sia termini del nominalismo lyotardiano che la «tesi della nominazione» come scelta consapevole, come «designazione attiva». Sullo sfondo del nominalismo di Lyotard vi sono le estremizzazioni di Kripke e Wittgenstein. La nominazione, nell’universo lyotardiano, designa un referente esclusivo solo perché nell’atto nominativo è assegnato un nome specifico e immutabile a «singolarità» che, in questa modo, vengono estratte da una sorta di conglomerato fatto di «né essere né non essere indeterminato». Il magma anonimo di una materia non ancora nominata non impone nulla agli umani né questi devono adeguare il loro intelletto a quello – questa tesi verrà impiegata a fondo nella prima Notizia Kant dove Lyotard, discutendo la Critica della ragion pura, frasa l’atto ricettivo della sensibilità in modo chirurgico. Gli atomi definizionali, i nomi primordiali o quelli più attuali dei referenti sottostanno tutti al pregiudizio attivo, e non solo passivo e iniziale come vuole l’ermeneutica, di chi li definisce nell’atto stesso di definirli. È inoltre la permanenza vuota delle forme lessicografiche dei nomi, anche nel caso dei nomi propri di persona, che, nei vari slittamenti delle istanze, cementifica l’ostensione con i deittici. A tal proposito Lyotard parla di «posizione di cerniera» per quanto riguarda i nomi propri.[30] In tal senso, i nomi (propri) non definiscono nulla quando vengono emessi, non sono definizionali, nominano qualcosa di cui solo in seguito se ne potrà dare una definizione. I deittici, i marcatori spazio-temporali delle istanze (per es. io, qui, allora ecc.), aiutano a situare in modo sempre più ripetibile le posizioni del referente, ovvero le varie posizioni delle singolarità esistenti nel tempo. I deittici permettono così di riferirsi a un determinato referente in quanto permanente nel mutare dello spazio e del tempo. Come in Kripke, anche in Lyotard un nome (proprio) permane nella stessa forma in tutti i mondi possibili: «la sua rigidità è questa invariabilità».[31] Ed è questa ragione che il nome proprio trascina con sé e concretizza le metamorfosi dei deittici: «i nomi trasformano ora in data, qui in luogo, io, tu, egli in Giovanni, Pietro, Luigi».[32]
Accanto ai nomi però c’è bisogno di un mostrare qualcosa tramite una frase ostensiva e, quindi, di significare attravero una frase descrittiva il qualcosa appena mostrato e nominato. Solo in questo modo, con la triangolazione di nominativa, ostenstiva e descrittiva è possibile promuovere qualcosa al rango di reale – l’assenza dell’ostensiva è proprio il punto su cui ossessivamente battono i negazionisti. Né la frase nominativa, né l’ostensiva o la descrittiva, se prese unilateralmente, possono attestare che qualcosa esista, che il loro referente sia reale e quindi indipendente dal rispettivo universo di frase. Mostrare qualcosa di per sé non basta, nominarlo soltanto neppure e non è sufficiente neanche una spiegazione o descrizione senza nome né presentazione per produrre realtà in Lyotard. Solo una procedura pubblicamente iterabile che congiunga queste tre frasi – ecco la triangolazione – riesce a produrre temporaneamente un accordo sui predicati reali in quel campo di forze contrastanti che nel Dissidio gli umani chiamano realtà.[33] In modo più specifico, la congiunzione delle tre frasi triangolate è una quarta frase, di solito una dichiarativa che collega e quindi conferma le altre tre. Nel nominalismo lyotardiano, la triangolazione risulta vera soltanto quando accade, soltanto nel momento in cui la dichiarativa viene emessa immediatamente dopo la procedura di triangolazione: la dichiativa richiede le altre tre «chaque fois» per essere ritenuta stabile e credibile. La ragione di ciò è che il senso e la descrizione emessi dopo la dichiarativa possono riferirsi a un referente che intanto è cambiato. Lyotard chiarifica che una ostensione unilaterale risulta vera solo se continuamente attestata da un «terzo infallibile» e chiosa: «a questo proposito c’è poca differenza tra il Dio dei cartesiani e il cogito antipredicativo dei fenomenologi».[34] Il lavoro sporco di unire un’ostensiva a un senso specifico descritto è compiuto dai nomi propri che possono farlo poiché, come abbiamo visto, non variano nel tempo e nascono vuoti. Questo dirty work è il loro «operare da cerniera» (office de cheville). Stiamo toccando qui il punto sorgivo del processo di politicizzazione dell’epistemologia lyotardiana e, non a caso, esso è situato nel cuore del capitolo. Inoltre, a questo punto osserviamo Lyotard fornire una risposta a un’obiezione immaginaria su ciò che egli presupporrebbe nel dedurre l’«office de cheville» dei nomi:
“Qui io indubbiamente deduco la funzione di nomi a partire dall’asserzione di realtà, ma non posso dedurre la loro singolarità: Roma, Auschwitz, Hitler… Posso solo apprenderla. Imparare i nomi equivale a situarli in rapporto ad altri nomi per mezzo di frasi? […] Un sistema di nomi presenta un mondo, gli universi presentati dalle frasi che raggruppano dei nomi sono dei frammenti significati di questo mondo. L’apprendimento di un nome si effettua grazie ad altri nomi cui aderiscono già dei sensi e dei quali si sa come i referenti possano essere mostrati da frasi ostensive”.[35]
Lyotard afferma qui che l’unico presupposto per lui inaggirabile risulta essere il suddetto magma indistinto di «né essere né non essere» che abbiamo visto emergere nella Notizia Antistene – e che qui viene elevato al rango di «asserzione di realtà» indiscutibile. È come se Lyotard ci stesse dicendo che l’unico presupposto imposto del Dissidio sia questa massa indistita su cui i nomi ritagliano entità singole. L’origine del reale non è una posizione del concetto.
Come già accennato, il secondo bersaglio non dichiarato dell’epistemologia del Dissidio è la coppia sé-esperienza. I §§69-74 provano a espellere la nozione di esperienza dalla triangolazione; una nozione di esperienza intesa da Lyotard nella sua derivazione agostiniano-cartesiana, che assume nella logica speculativa hegeliana la propria migliore articolazione cumulativa e che trova, infine, nella fenomenologia husserliana la compilazione definitiva. L’incedere argomentativo lyotardiano qui si fa complesso perché egli cerca appunto di combattere una battaglia su più fronti. Un’«istanza percipiente» immutabile, il destinatore, deve essere l’altro lato di un oggetto, il referente, che a sua volta racchiude in sé «lateralità» solo presupposte («un champ de visibilité plein de latéralités entrevues»).[36] In tal senso, la testimonianza della realtà è sempre fallibile perché riposa su un presupposto che sintetizza sincronicamente queste lateralità fenomenologiche. È solo successivamente che l’io ha da lavorare diacronicamente su queste funzionalità percettive dell’esperienza per porle in serie. Ma le serie fenomenologiche, ovvero i flussi percettivo-esperienziali, rimangono stabili nell’attesa del loro recupero – ecco l’argomento di Lyotard – solo perché riposano e vengono serializzati dal nome proprio del soggetto che li attua: o l’io, scarnificato fino all’osso come di consuento nello scetticismo moderno, attua le varie percezioni, oppure compie le loro serializzazioni:
“Ma, da un’occasione all’altra, non c’è alcuna garanzia che io sia lo stesso. La sintesi di evidenze (ostensioni) attuali esige a sua volta, secondo il principio di questa filosofia, un’evidenza attuale che va sintetizzata con le altre. Un soggetto non è quindi l’unità della “sua” esperienza. L’asserzione di realtà non può sottrarsi all’uso di un nome almeno. È attraverso di esso, anello vuoto, che io nell’istante t e io nell’istante t + 1 possono formare una catena tra loro e con Eccomi (ostensione). La possibilità della realtà, compresa quella del soggetto, è fissata in una rete di nomi “prima” che la realtà si mostri e si significhi in una esperienza”.[37]
Nella argomentazione appena citata, l’avverbio «“prima”», che non a caso Lyotard pone fra virgolette, racchiude l’imposizione del presupposto e di quel pre-giudicare che ho già evidenziato. L’avverbio esprime una logica argomentativa che ricompare in quasi ogni colonna speculativa del Dissidio per dimostrare, sempre, come il misconoscimento del presupporre sia sempre l’elemento principale, nascosto e represso di ciò che in filosofia si ritiene razionale o naturale. È come se Lyotard ci stesse dicendo che, prima di esperire la realtà e di esperirsi in quanto realtà, il soggetto deve presupporsi paradossalmente attraverso il proprio nome.[38] È quindi al nome, con la sua rigidità vuota e il suo riempimento significante (ostensiva più descrittiva), che Lyotard attribuisce il rapporto fondamentale con l’«asserzione di realtà». Ma, d’altro canto, i significati e le descrizioni dei nomi richiedono un costante processo di raffinamento storico-scientifico per far fronte a quell’«inflazione dei sensi» che ogni nome produce in virtù della propria vuotezza essenziale: il nome permette sì di rendere materialmente stabile un referente, ma ne lascia strutturalmente instabile il senso. E se le discipline storiche possono erigere barriere cognitive alla «inflation des sens», ma barriere sempre mobili per via del loro connaturata storicità dato che le procedure di verificazione cognitiva seguono il progresso scientifico, «l’inflazione dei sensi» rimane per definizione inarginabile poiché le frasi cognitive che regolano il vero e il falso «non hanno il monopolio del senso».
Qui tocchiamo un altro punto nevralgico della filosofia lyotardiana in generale. Le différend si apre con l’asserzione che fra i generi di discorso «ciò che manca in generale è una regola universale di giudizio».[39] Nel libro tale assenza generale di legittimità del giudicare assume sempre il volto dello scontro tra genere cognitivo e genere prescrittivo, cioè tra la coppia vero/falso e quella giusto/ingiusto. Non esiste una gerarchia metafisico-naturale tra i generi di discorso perché il senso di una frase può esser veicolato anche da proposizioni malformate, ovvero da proposizioni che non rispettano il genere cognitivo o logico ma che, nondimeno, producono sensi come per esempio le frasi prescrittive del genere etico o quelle sul bello del genere estetico. Senza una gerarchia che la legittimi in modo indiscutibile i vari generi di discorso, senza le legittimità delle grand récits, l’incontro tra gli universi di frasi cognitive ed etiche rimane un problema insolubile, specialmente quando si tratta di decidere quale senso attribuire ai nomi propri:
“il senso pertitente per il criterio di giustizia e il senso pertitente per il criterio di verità sono eterogenei. L’applicazione delle regole di convalida a sensi che non sono pertinenti per il criterio di verità non permette quindi di temperare l’attrazione di questi sensi da parte dei nomi”.[40]
Il fondo vuoto di quell’abisso ontologico dal quale provengono le frasi non lascia trasparire nessuna traccia di una loro articolazione comune – le celebri nervature dei processi definizionali platonici. Quando delle frasi che sono state formate seguendo regimi eterogenei o generi di discorso incommensurabili si incontrano, esse cozzano fra loro come atomi di diversa natura e producono per questo conflitti insanabili. E, in termini lyotardiani, questo significa che «frasi che obbediscono a regimi differenti sono intraducibili le une nelle altre».[41] Il principio di intraducibilità, fra i maggiori del Lyotard maturo, non riguarda la possibilità di tradurre frasi da una lingua all’altra, una possibilità sempre attuabile. L’impossibilità della traduzione risiede invece nel modo in cui, da un genere all’altro, le quattro istanze di frase (destinatore, destinatario, senso e referente) sono obbligate a cambiare posizioni per rendere le traduzioni o le trascrizioni possibili – e possibili anche solo in linea di principio. Se a questa «permutazione» silenziosa delle istanze non corrisponde una mutazione del regime o del genere della frase tradotta, ecco la tesi di Lyotard, allora si traduce solo in modo surrettizio. Tradurre, «nel senso forte del termine», presuppone che che da una lingua all’altra i rapporti di forza fra i generi e regimi siano talmente simili da specchiarsi senza mutare il senso della frase tradotta. Se però tale presupposizione si rivela manifestamente scorretta, allora si retrocede nella trascrizione: «Lei deve uscire è una trascrizione valida di: Esca!».[42] Ma, di nuovo, trascrivere presuppone che da un genere e regime all’altro, i rapporti di forza fra le istanze siano talmente simili da dimenticare di menzionare come e perchè gli «universi di frase» (le posizioni delle istanze) siano cambiati. Scavando nelle argomentazioni lyotardiane si scopre che ciò che sostanzia il principio di intraducibilità frasale è la modificazione coatta degli «universi di frasi», ovvero delle reciproche relazioni fra le varie istanze. È questa la modificazione che è sempre all’opera nelle traduzioni e trascrizioni. Non solo il senso di una o più istanze viene mutato quando si traduce o trascrive, anche le restanti istanze subiscono cambi di posizione quando si tratta è in gioco la possibilità della traduzione delle trascrizione:
“Ora, il destinatore di un’esclamativa non è situato, rispetto al senso, come quello di una descrittiva, il destinatario di un’ordine non è situato, nei confronti del destinatore e del referente, come quello d’un invito o d’una informazione. (…) Frasi appartenenti a famiglie eterogenee possono attribuire al referente uno stesso nome proprio e possono situarlo su istanze differenti negli universi che presentano”.[43]
Se poi, all’intraducibilità strutturale delle frasi che sottostanno a regimi e generi incommensurabili ed eterogenei, da un lato colleghiamo la questione del supposto «monopolio del senso» del regime cognitivo e, dall’altro, la nominazione come designazione attiva, diviene allora possibile comprendere cosa Lyotard intenda con la metafora della vendetta dei nomi. È con questa figura retorica, applicata al nome “Auschwitz”, che si chiude il capitolo Il referente, il nome. Nel Dissidio ogni nome è abitato da una quantità di sensi possibili che è virtualmente infinita e il regime cognitivo, attraverso il lavoro (del) logico e (dello) storico, ne reprime la continua «inflazione» solo in modo negativo. Ogni nome è abitato da uno «sciame» di realtà possibili che vorticosamente attende nel «cavo» (creux) di ogni un referente la propria attualità.[44] Se un genere non ha maggiore legittimità rispetto agli altri nel veicolare il senso di un nome, cosa accade quando viene scelta una specifica definizione, quando una frase di un determinato genere di discorso occupa tutto «il cavo» di un nome?
“La realtà comporta il dissidio. È Stalin, eccolo qui. Tutti d’accordo. Ma Stalin cosa vuol dire? A questo nome vengono a connettersi delle frasi che non soltanto descrivono sensi differenti (tutto ciò si può ancora discutere in un dialogo), non soltanto pongono il nome su istanze differenti, ma obbediscono anche a dei regimi e/o dei generi eterogenei. Questa eterogeneità rende impossibile un consenso, in mancanza di un idioma comune. L’attribuzione di una definizione a Stalin fa necessariamente torto alle frasi non definizionali relative a Stalin che questa definizione, per un momento almeno, ignora o tradisce. Intorno ai nomi, s’aggira la vendetta [Autour des noms, la vengeance rôde]. Questo per sempre?”[45]
Non è difficile leggere Il dissidio come un gigantesco atto di guerra contro le filosofie dell’argomentazione che puntano al consenso come proprio orizzonte finale. Lo attestano indiscutibilmente le querelles che Lyotard ha prima con Jürgen Habermas sull’universalità consensuale e, poi, più o meno negli stessi anni, con Richard Rorty sui presupposti dialogici.[46] E a questo proposito, l’ontologia e l’epistemologia che sorreggono Il dissidio esplicitano il principio che Lyotard avanza quattro anni prima ne La condizione postomoderna: «parlare è combattere (…) e gli atti linguistici dipendono da una agonistica generale».[47] È finalmente in Le différend che quell’«agonistique générale» de La condition postmoderne, un’agonistica qui ancora troppo debitrice alla filosofia dei giochi linguistici del secondo Wittgenstein, può trovare un’articolazione indipendente e, talmente indipendente, da permettere a Lyotard di erigerci intorno sia un’ontologia che un’epistemologia.[48]
Il concetto di dissidio apre Le différend e Lyotard lo definisce in tal modo: «rispetto a una lite [litige], un dissidio [différend] sarebbe piuttosto un conflitto fra almeno due parti, impossibile da dirimere equamente in mancanza di una regola di giudizio applicabile a entrambe le argomentazioni».[49] Una «lite», nell’universo lyotardiano, può sempre esser risolta poiché entrambe le parti assumono le reciproche richieste come legittime: il «danno» (dommage) di una lite può essere quantificato e giudicato grazie alla condivisione delle regole di giudizio accettate da entrambe le parti. Di conseguenza, il dialogo è la figura filosofica che meglio esprime i presupposti del riconoscimento reciproco in atto nella «lite» lyotardiana. Il «torto» (tort), che invece sostanziana un «dissidio», nasce o quando si utilizzano uno o più generi di discorso che non sono quelli del giudicato, oppure quando quest’ultimo è sprovvisto o privato di ciò che d’avanti al giudice proverebbe l’ingiustizia subita. La tesi che apre il libro, e che ne dà il tono tragico, recita che nel decidere della legittimità fra due o più parti in causa «ciò che manca in generale è una regola universale di giudizio fra generei eterogenei».[50] I fini che determinano i generi di discorso, che ordinano le regole dei regimi di frase e che le posizionano, siano questi fini etici, cognitivi, logici o narrativi, imbastiscono le proprie catene argomentative impiegando frasi che si collegano facilmente fra loro perché nascono e rimangono sempre all’interno del genere in uso. In uno stesso genere, il conflitto fra come collegare le frasi è stemperato dal loro servire il medesimo fine e quindi lo stesso padrone. Ma una frase, e questo solo per venir collegata a una precendente, porta dentro di sé la potenza del dissidio poiché l’arbitrarietà della paratassi è la cifra portante dell’atomismo agonistico lyotardiano:
“In mancanza di un regime di frasi o di un genere di discorso che goda di un’autorità universale in grado di svolgere una funzione dirimente, non sarà forse necessario che il concatenamento, quale che sia, faccia un torto ai regimi o ai generi le cui possibili frasi rimangono inutilizzate?”[51]
I generi di discorso non sono altro che delle politiche di concatenamento e, allora, la politica diviene il conflitto problematico di come le frasi sono (state) unite, di come farlo.[52] La necessità ontologica del concatenare comporta una politica agonistica come sua conseguenza irrescindibile [53] E, nell’atomismo agonistico lyotardiano, se anche si volesse provare la legittimità normativa di una frase, bisognerebbe per questo abbandonare il genere della frase in questione e usare quello della convalida:
“La convalida è un genere di discorso, non un regime di frasi. Nessuna frase è convalidabile all’interno del proprio regime: una descrittiva viene convalidata cognitivamente solo ricorrendo a un’ostensiva (È questo il caso). Una prescrittiva si convalida giuridicamente o politicamente solo con una normativa (È una norma che…), eticamente con un sentimento (legato al: Tu devi), ecc”.[54]
La convalida, ovvero il giudizio normante o, meglio, quello di legittimità, al posto di riappacificare la contesa politica moltiplica il conflitto che dovrebbe neutralizzare poiché agisce sfruttando un potere che non proviene dalla frase precedente, men che meno dal genere di cui questa fa parte.[55] Lo spazio vuoto e sordo tra le frasi è il terreno dal quale proviene il dissidio perchè nel dispostivo frasale lyotardiano ogni frase, stagliandosi su quel nulla dal quale proviene, «presenta» il proprio universo frasale. Ogni atomo frasale produce il proprio universo e quindi, immediatamente, il proprio dissidio. Lyotard fonda la sincronicità universale e permanente del proprio atomismo agonistico su un paradosso trascendentale: gli atomi frasali non sopraggiungono a un universo linguistico antecedente al loro accadere – ecco qui l’inconfutabilità ontologico-frasale diventare il corollario di un accadere linguistico che proviene ogni volta dal nulla. Tale paradosso si accolla pertanto il ruolo in Lyotard di rendere permanente l’agonistica generale fra gli atomi-frase, nel senso che l’agone atomistico risulta inaggirabile anche tra frasi il cui conflitto di legittimazione, il dissidio, venisse stemperato in virtù del loro esser concatenate all’interno del proprio genere di riferimento. Il filosofo di Vincennes non può fare altrimenti visto che è solo grazie a questo paradosso (riassumibile qui con la formula “un atomo-frase, un universo”) che il dissidio rimane l’orizzonte intrascendibile nella sua filosofia. È infatti questa mossa trascendentale, altamente paradossale ma parimenti prolifica, che permette a Lyotard di ricusare l’obiezione che vedrebbe il dissidio di un particolare atomo-frase stemperarsi facilmente in lite qualora esso accadesse all’interno del proprio genere di discorso. Tale obiezione, in termini lyotardiani, si illude di neutralizzare la mancanza strutturale di legittimità di ogni concatenamento solo perchè si accontenta della frizione operativa che i generi e i regimi svolgono sulle frasi che raggruppano:
“I generi di discorso determinano degli obiettivi, sottopongono frasi di regimi differenti a una finalità unica (…). Ciò non implica che i dissidi fra le frasi siano eliminati. Un altro genere di discorso può inscrivere ognuna di esse in un’altra finalità. I generi di discorso si limitano a respingere il dissidio dal livello dei regimi a quello dei fini. – Ma il fatto che siano possibili più concatenamenti non implica che si verifichi un dissidio fra di essi? – Proprio così, perché ne può accadere (essere “attualizzato”) solo uno alla volta”.[56]
La disputa sulla legittimità del genere di discorso impiegato o da impiegare per collegare gli atomi-frase segue la stessa dinamica già enucleata per i nomi propri. L’accadere chiama alla decisione nel presente su quale nome o genere usare per concatenare e, quando effettuata, tale decisione compie necessariamente un torto a ciò che essa esclude dal campo dell’«attualità». La delegittimazione è la lateralità non visibile della decisione politica su quale nome usare e su quale genere attuare per dare volto e direzione agli atomi-frase.[57] Alla luce della loro sempre possibile delegittimazione in ogni connessione, la politica diviene il problema dell’«enchaînement» degli atomi-frase. Inoltre, l’atomismo agonistico non sarebbe atomistico senza essere l’intrascendibile terreno di scontro fra delle frasi che emergono dal nulla: «“frasare” ha luogo nel vuoto d’essere di ciò di cui si dà frase».[58] Un atomismo, questo, che presenta toujours déjà lo scontro a ogni singola emergenza di frase:
“l’“incontro” (…) è la frase che presenta. E lo presenta come essente-là prima di ogni frase. (…) La condizione di questo incontro non è questo universo ma la sua frase che lo presenta. (…) Questo universo, si può dire che esso è l’effetto dell’incontro sia che ne è la condizione. […] Che E una frase sia necessario significa che l’assenza di frase (il silenzio, ecc.) o l’assenza di concatenamento (l’inizio, la fine, il disordine, il niente, ecc.) sono anch’esse delle frasi. Cos’è che distingue queste frasi dalle altre? Equivocità, sentimento, “desideri” (esclamazione), ecc”. [59]
E, d’altro canto, l’atomismo agonistico non sarebbe agonistico senza un conflitto frasale di per sé inaggirabile: «il contatto è necessario (…), concatenare è necessario (anche solo con un silenzio, che è sempre una frase). (…) Come concatenare è contingente».[60] Di una frase, dell’indubitabile, si sa di certo solo che presenta uno o più universi, mentre le istanze che essa attiva sono sempre soggette invece all’equivocità e quindi all’agonismo del loro ordinamento secondo i generi più svariati. Il metalinguaggio, anche quello dello stesso Dissidio, lavora sulle frasi prese come definizioni o «occorrenze» di per sé già neutralizzate nel loro esser accadute in quanto frasi. La prima «présentation» o «occorrenza» originaria necessita sempre, come abbiamo visto, di un altra frase per venire isolata, spiegata o definita. E quest’atto linguistico è la privazione della sua «actualité» in quanto frase-evento che, per accadere, ha eclissato tutte le altre possibili. La richiesta metalinguistica di leggere una frase secondo la definizione è legittima ma essa ordina, per questo motivo, i regimi logici e cognitivi come privilegiati. Spiega Lyotard: «lei ordina che io concateni su di essa attraverso una frase metalinguistica definizionale. Ne ha il diritto. Ma sappia che è un ordine».[61]
Quale genere impiegare per continuare a «encheîner»? Ecco la politica, intesa come giudizio di opportunità di uno specifico concatenamento contro tutti gli altri, un giudizio da avanzare nell’assenza generale di legittimità. Le decisioni su come concatenare e i fini che le ordinano le frasi possono seguire delle regole, ma tali decisioni riposano su un vuoto costante di legittimazione – come giudicare? Senza contare le frasi equivoche, quelle che cioè «co-presentano più universi»: «qual è il concatenamento pertinente?», domanda Lyotard.[62] Di nuovo la politica. Nessun genere rispecchia meglio degli altri una supposta essenza del linguaggio, nemmeno l’idioletto, visto che questo, in quanto linguaggio privato, sfugge ai requisiti della triangolazione per rendere reale ciò che proferisce o che cerca di esprimere con o senza l’aiuto delle frasi.[63] I generi di discorso sono «le poste in gioco» che ordinano quale regime concatenare, e lo fanno in modo opportuno o inopportuno. Il funzionamento dei generi, usando i regimi di frasi come mezzi, porta Lyotard ad affermare che «la teleologia comincia con i generi di discorso, non con le frasi».[64] Una frase-atomo la si può solo concatenare e, quindi, la si ordina in un regime, data l’impresentabilità del suo avvenimento primigenio. La frasatura significa concatenare secondo le regole di uno specifico regime di frasi che viene manovrato secondo il genere di discorso scelto. È in virtù di tutto ciò che si produrrà inevitabilmente un dissidio. Ma, e questo va sottolineato in Lyotard, un regime di frase, che sia questo il cognitivo, il prescrittivo, quello valutativo, descrittivo ecc., è sempre incommensurabile rispetto a un altro. Ogni regime «presenta» un universo (di frase) in una modalità eterogenea e intraducibile rispetto a tutti gli altri regime non impiegati. Nell’«agonistica generalizzata» del Dissidio i generi, pur di raggiungere i propri scopi, accorpano e usano più regimi di frasi fra loro incommensurabili. In tal senso, i generi di discorso concatenano in ogni modo possibile pur di «“vincere”». È per questa ragione, per battare tutti gli altri generi in conflitto, che essi piegano, «seducono» e spostano continuamente non solo le frasi ma anche le quattri istanze secondo le tattiche migliori da seguire per raggiungere i propri scopi. Sempre più vorticosamente, l’antiumanismo di Lyotard sprigiona tutta la propria forza magnetica e strutturalista nel momento in cui articola il rapporto egemonico fra generi, regimi e frasi:
“Le nostre “intenzioni” sono le tensioni, da concatenare in un certo modo, che i generi esercitano sui destinatari e sui destinatori delle frasi, sui loro referenti e sul loro senso. Noi crediamo di voler persuardere, sedurre, convincere, essere retti, far credere, farci interrogare, ma il fatto è che un genere di discorso, dialettico, erotico, didattico, etico, retorico, “ironico”, impone alla “nostra” frase e “noi” stessi il suo modo di concatenamento. Non c’è nessuna ragione di dare a queste tensioni il nome di intenzioni e di volontà, nessuna se non la vanità di attribuire a noi ciò che spetta all’occorrenza e al dissidio che suscita fra i modi di concatenare su di essa”.[65]
La dinamica di esclusione politica vista all’opera nella scelta del nome ritorna anche nell’ultimo e più grande livello dell’atomismo agonistico, quello dei generi di discorso – e non era certo difficile prevederlo. Nell’ordinare le istanze, le frasi e i loro concatenamenti, la legittimità di un genere di discorso riposa sul dissidio dei generi, su un dissidio generale. Ogni concatemento avviene tramite l’esclusione di tutti gli altri possibili. Non vi è neutralità nel concatenare, mai.[66] I regimi frasali raggruppano le regole per creare e di conseguenza ordinare le frasi secondo i loro specifici modi. I generi di discorso sostanziano invece «i modi di concatenamento» al fine di portare a compimento le loro strategie, e questo a prescindere dal rispetto o meno dei confini regionali dei regimi di frase. Quello che va compreso, nell’ottica lyotardiana, è come la concezione prometeica-strumentale del linguaggio avvenga come seconda rispetto a ciò gemma e germina continuamente nel dispotivo frasale, ovvero le occorrenze di frase. È solo perché le frasi-atomo possono essere concatenate in modo pressocché infinito, ecco il loro clinamen, che in Lyotard gli umani si percepiscono in grado di forgiare frasu in modo soggettivo e di dominare, quindi, il linguaggio intendendolo come un unicum.[67]Il corollario al principio negativo dell’assenza di un «regola universale di giudizio fra generi eterogenei» è la conseguente mancanza di un genere dei generi o, detto altrimenti, di «un genere supremo». E per tale corollario negativo Lyotard si richiama esplicitamente alle analisi di Bertrand Russell sul metalinguaggio.[68]
La politica in Lyotard è il terreno di riproduzione del dissidio perché essa è il concatenamento e la decisione di legare le frasi-atomo tra loro. La politica è il giudicare ogni volta come attraversare il vuoto tra una frase-atomo e un’altra. Ogni concatenamento, per il fatto stesso di essere struttutato in un modo determinato, comporta il torto verso gli altri concatenamenti oscurati. Nell’atomismo agonistico lyotardiano qualsiasi concatenamento è frutto di una decisione, e quindi ogni concatenamento è mosso da un giudizio politico: «tutto è politica se la politica è la possibilità del dissidio in occasione del minimo concatenamento».[69]Il rovescio della medaglia risiede però nel fatto che in Lyotard la politica non è un genere. La politica non può arrogarsi il titolo di genere dei generi poiché è soltanto la dimensione funzionale di ogni concatenamento, un tipo di funzionalità agonistica dato che avviene già e sempre nel sociale. L’aspetto agonistico della politica in Lyotard è una conseguenza diretta della natura paradossale, e per questo intrascendibile, del sociale. Il nesso fra linguaggio, politica e socialità è la nervatura più importante del concetto di différend. Ogni frase-atomo, appena appare, è strutturalemente sociale per via delle sue quattro istanze, ovvero i suoi agganci. Il sociale è già da sempre implicato in ogni atomo-frase e nel relativo linkaggio. Ogni universe di frase è sociale ab initio in virtù dell’apertura al diverso che ogni istanza implica, e ciò non fa che attestare ogni volta una socialità di per sé intrascendibile. Di conseguenza, per Lyotard «una “deduzione” del sociale presuppone il sociale. (…) Il sociale è sempre presupposto perché è presentato o co-presentato nella minima frase».[70] Come giudicare ciò che permette di giudicare senza presupporlo, senza pre-giudicarlo? L’intrascendibilità della dimensione sociale epitoma sia il lavoro dei generi che il loro reciproco scontrarsi e, conseguentemente, la politica è il campo di articolazione dei giudizi per unire o slegare le frasi secondo gli scopi da perseguire. In tal senso, addentrarsi in questo specifico presupposto del sociale significa immergersi nell’oggetto e soggetto di una sorta di metadissidio:
“il sociale è un referente (l’universo di una frase anteriore preso come referente di una frase ulteriore) di un giudizio sempre da rifare. Esso è un “affare” contradditorriamente esposto di fronte a un tribunale. E, in questo “affare”, la natura del tribunale che deve pronunciarsi su di esso è essa stessa oggetto di un dissidio”.[71]
È qui, quando cioè Lyotard sente di essere obbligato a trasformare in socialità conflittuale ciò che ritiene il suo unico presupposto inaggirabile, quella già analizzata asserzione di realtà, il «né essere né non essere», è qui che assistiamo a una sorta di elevazione al quadrato della paradossalità della filosofia del Dissidio. Se la «presentazione» o «occorrenza» è sempre già «presentata», se questa situazionalità politica è l’unico modo di presentare il magma indistinto secondo i generi di discorso, allora il «né essere né non essere» è il conflitto perenne fra degli «sciami» di numero infinito e in costante dissidio (trascendentale) fra loro. È opinione di chi scrive che in questo passaggio della filosofia lyotardiana, in questa mossa obbligata di politicizzazione estrema di una realtà informe precedentemente assunta come unico presupposto – e invece ora trasformata in socialità caotica intrascendibile –, è in questo campo trascendentale che risiede il vero cuore pulsante dell’intero Dissidio.[72]
Il dissidio al quadrato del sociale, con la relativa delegittimazione permanente che esso comporta, è , non casualmente, il vero oggetto della Notizia Platone. La Notizia sul grande Ateniese si apre con i meccanismi filosofici messi in campo da Platone per neutralizzare il «logologos» dei sofisti che hanno trasformato l’ontologia parmenidea in un discorso confutatorio e quindi «empio». In termini lyotardiani, la prima generazione di sofisti ha frasato il discorso-rivelazione di Parmenide imponendo sia al destinatore che al destinatario di «argomentare» per provare la «realtà» dei referenti in gioco (l’essere, gli dei, la verità ecc.). In Platone prima e in Aristotele poi, la posta in gioco diviene quella di redigere un dispositivo normativo per raggiungere un consenso preliminare sui limiti del conoscibile. E questo per poi passare ad attestare i veri e vari referenti regionali. Lyotard legge i dialoghi platonici come tentativi di dimostrare la validità dell’«homologia» attraverso il «dialegesthai», per dimostrare quindi la possibilità e la praticabilità di un consenso attenuto attraverso il dare e chiedere ragioni fra due interlocutori. Ma al di là dei due dialoganti, il terzo, inteso questo come esterno alla discussione, nei dialoghi platonici viene escluso. Il terzo, inteso come il testimone esterno accettabile, non decide in Platone. Scrive Lyotard: «del referente non si ha testimonianza accettabile fuori di quella di coloro che, disputando del referente, passano al setaccio della confutazione tutte le testimonianze relative ad esso».[73] La prima mossa di screditamento del terzo in Platone, una mossa attuata per poi arrivare alla sua esclusione definitiva, è la delegittazione dell’agonistica sofistica, un genere di discorso dialettico che accade in pubblico e quindi sempre d’avanti a dei terzi – e non importa qui che siano questi dei politici, dei giudici o dei meri spettatori. Ecco uno dei presupposto imposti di Platone: bisogna essere preventivamente ammessi e accettati per partecipare al dialogo platonico e, per Lyotard, l’Accademia fondata da Platone è questo luogo (metaforico) d’ammissione e d’elezione. Se si viene ammessi nell’Accademia si fa allora parte del dialogo filosofico di matrice platonica. L’ammissione presuppone l’esser (parte) dello stesso genere:
“Alessandro di Afrodisia chiama il consenso sul metodo koinologia: se le tesi alla fine devono essere identiche, è necessario che almeno gli idiomi delle due parti e l’uso che ne fanno siano comuni sin dal principio. Provate a immaginare un candidato al dialogo che sia un tanghero scorbutico, o uno sciocco, o un mentitore, bisogna eliminarlo”.[74]
Ecco un secondo presupposto imposto per produrre l’homologia platonica: dopo l’esclusione del terzo, ecco la selezione dell’interlocutore. Ci può solo essere «litige» fra chi conversa, mai «différend». Come esempio di questa eugenetica platonica del consenso, Lyotard discute alcuni passaggi chiave del Sofista e delle Leggi in cui la necessità della selezione si fa ventriloquismo dell’impresentabile.[75] I materialisti, gli amici della terra, sono come i sofisti, gli amici dei discorsi doppi a pagamento, e quindi non possono entrare nell’Accademia o, in caso contrario, «si tratta prima di attirare e addomesticare». La «buona mimesis» del dialogo scritto serve appunto a questo, e la scrittura si fa arte della caccia, della cattura e del ventriloquismo. Lyotard collega questa tattica platonica di simulazione al concetto di «metalessi» eleborato dal narratologo Gérard Genette. La metalessi genettiana è il processo attraverso il quale un autore, mettendo in scena sempre più interlocutori fittizi nei vari piani diegetici della propria opera letteraria, riesce a creare un effetto di identificazione fra personaggi e pubblico allontanando in tal modo l’artificiosità della narrazione. Per Lyotard il Teeteto è l’apoteosi della metalessi platonica e lo schema ricorrente è il seguente: da Platone che materialmente scrive il dialogo si passa agli interlocutori iniziali del dialogo, in seguito uno di loro racconta il contenuto di una conversazione passata nel quale uno di personaggi evocati espone un ulteriore scambio dialogico e/o ventriloqua altri dialoganti. Quello che accade in questa matrioska della simulazione, in cui tra l’altro Platone non compare mai come primo concatenatore, è che nei vari livelli della metalessi il referente del dissidio iniziale tra agonistica e consenso si perde e si rarefà sempre di più al punto da diventare impercettibile – più esso si fa inavvertibile e meglio il meccanismo metalessico di Platone funziona, se vogliamo seguire qui la logica althusseriana dell’ideologia. Lyotard chiama inoltre i meccanismi della metalessi platonica degli «opertatori di distanziamento narrativo».[76] In pratica, il lettore platonico, di base, non viene mai ammesso nella disputa per l’«accordo sulle regole del dialogo, la prima delle quali vuole che l’accordo sul referente debba essere ottenuto soltanto da noi e attraverso noi».[77] La terza ed ultima esclusione del dispositivo omologico di Platone è, infine, quella del lettore, assimilato per tale ragione ai materialisti, ai sofisti, ai bambini, ai pazzi ecc. Nessun vero terzo è ammesso nel dialogo platonico per raggiungere il consenso sui mezzi per decidere come produrre il referente del dialogo stesso. In queste politiche platoniche dell’oblio, la delegittimazione fondante va dimenticata e rimossa per inscenare al meglio la prima autentica filosofia del dialogo. L’interlocutore, poi, quando accettato, è fittizio e costruito ad arte. Quello che tuttavia Platone non può nascondere nel proprio dispositivo omologico è il paradosso del sociale, quel dissidio al quadrato qui già evidenziato e che verte sia sulla natura del tribunale che sui protocolli da impiegare per dirimere la contesa fra agonistica e consenso, tra sofistica e filosofia. Su questo aspetto Lyotard è illuminante:
“Se ci si tiene a queste posizioni, il dissidio non fa che perpetuarsi e divenire una sorta di meta-dissidio, un dissidio relativo al modo di comporre il dissidio relativo al modi di stabilire la realtà. E quindi il principio dell’agonistica, invece di essere eliminato, finisce ancora una volta per prevalere. È per neutralizzare la minaccia di questa ricorrenza che “Platone” mette in scena la metalessi dell’interlocutore, che è forse il nocciolo della pedagogia”.[78]
In conclusione, Platone nel Dissidio viene mostrato nell’atto di oscurare il meta-dissidio dal quale parte e, per portare a compimento tale oblio, il grande Ateniese incapsula e inscena all’interno dei propri diaologhi l’agonistica generale trattandola come un’opzione tra le altre, una possibilità già superata perché preventivamente neutralizzata. Non siamo molto lontani qui dalla lettura derridiana della logica del pharmakon platonico, quel farmaco preparato nel retrobottega dei dialoghi di Platone per screditare la scrittura e che, per la ferrea legge derridiana del supplemento, non fa che amplificare diffusione della malattia che dovrebbe invece curare. In Lyotard, rispetto al trattamento che Platone riserva all’agonistica generale, accade esattamente il contrario dato che il «meta-dissidio» rimane l’orizzonte intrascendibile che sostanzia le politiche di delegittimazione operanti in ogni concatenamento.
Cape Town, Autunno 2012
Centre for Rhetoric Studies
University of Cape Town
sergio.alloggio@uct.ac.za
L’autore riconosce il supporto ricevuto dal Research Committee della University of Cape Town (URC Accredited Incentive Award).
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[1] Il presente articolo è la prima parte di un saggio di cui la seconda apparirà nel prossimo numero di Consecutio temporum. La prosopopea scelta qui come titolo è dello stesso Jean-François Lyotard, Heidegger et «le juifs», Galilée, Paris 1988, p. 41: «C’est ce silence terrible, furieux qui traîne en lui comme un nuage de matiére vaine et interdite, cette tête de Méduse en lui»; ed. it. Id., Heidegger e “gli ebrei”, trad. it. di G. Scibilia, Feltrinelli, Milano 1989, p. 30, traduzione italiana lievemente modificata. Dedico l’intero saggio a Giulia.
[2] J.-F. Lyotard, Le différend, Minuit, Paris 1983; ed. it. Id., Il dissidio, trad. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1983, d’ora in avanti citato con l’abbreviazione D, seguita dal numero della pagina. Jean-Claude Milner, aprendo un suo articolo dedicato alla filosofia lyotardiana, articolo di cui comunque non ne condividiamo la generale lettura lacaniana, ritiene che l’asse portante del Dissidio sia un «materialismo discorsivo» e, inoltre, discute a fondo la decisione di Lyotard di considerare Le différend come il suo unico e autentico libro di filosofia. Si veda J.-C. Milner “Dalla diagnosi all’intervento”, in Aa.Vv., Pensiero al presente. Omaggio a Jean-François Lyotard, a cura di Federica Sossi, Cronopio, Napoli 1999, pp. 179-92, p. 180.
[3] Jacques Derrida, Préjugés. Devant la loi, Minuit, Paris 1985; ed. it. Id., Pre-giudicati. Davanti alla legge, a cura di Francesco Garritano, trad. it. di F. Vercillo, Abramo, Catanzaro 1996. Non è un caso che il testo della lunga conferenza di Derrida sia il suo intervento al convegno annuale di filosofia francese presso Cerisy-la-Salle: il tema dell’incontro del 1982 è infatti la filosofia di Lyotard, il titolo del convegno “Comment Juger?” e gli atti relativi sono stati pubblicati in Aa.Vv., La faculté de juger, Paris, Minuit, 1985. Per una messa a fuoco introduttiva sul ruolo del giudizio e del giudicare tra Lyotard e Derrida si veda John D. Caputo, Against Ethics. Contributions to a Poetics of Obligation with Constant Reference to Deconstruction, Bloomington and Indianapolis, Indiana Univerisity Press 1993, in particolare il cap. 5, “The Epoch of Judgment”.
[4] Derrida, Pre-giudicati, cit., p. 63.
[5] Ivi, p. 64.
[6] Ivi, p. 65.
[7] Ivi, pp. 65-6. Andrebbe comunque analizzato, meglio e più a fondo, il movimento retorico di denegazione che precede, produce e indissolubilmente complica quella che in Préjudés chiamo la confessione autoassolutoria di Derrida. Eccolo: «Prima di cominciare, devo dirvi qualche parola di ciò che non dirò. Dopo una deliberazione un po’ confusa, avendo rinunciato ad impegnarmi in questa o quella via, ho giudicato che non dovrei rinunciarvi al punto di non lasciarvi neanche sapere a che cosa rinunciassi. E che, secondo la figura dell’ironia, dell’ipocrisia e della negazione che influenza ogni enunciato, dovrei lasciare dichiararsi ciò che dicevo, così facendo, di non volerlo dire. Ho dunque escluso tre ipotesi o, se preferite, è appena un’altra parola, tre argomenti. Ecco i tre argomenti di cui soprattutto non parlerò» (p. 63). Ma qual è l’obbligo, il «devo dirvi» che ha spinto Derrida all’impegno della confessione? È quello stesso obbligo che, inoltre, una volta messo a nudo nella sua ingiunzione a confessarsi, ha mostrato così tanto che richiede «ironia/ipocrisia/negazione» anche solo per venir trascritto? E trascritto sommariamente solo per (dimostrare di) non venir trascritto a fondo? Fino a che punto, allora, ciò che viene dichiarato può essere preso solo per ciò che Derrida pensa davvero? Almeno, e questo non è nulla, l’autore della confessione enuncia chiaramente i limiti del prioprio atto veritativo. Almeno, e questo è qualcosa, l’ingiunzione disciplinare (è autoingiunzione?) che impone al filosofo di dire sempre il vero sembra essere salva. Ma resta da chiedersi: quali sono i limiti della parrhesia nella confessione filosofica? È comunque dai suddetti tre argomenti, più generali e diversificati, che ho estratto e isolato le tre motivazioni dell’indietreggiamento derridiano nei confronti del giudizio fino al 1982. Non posso spingermi oltre perché non è certo Derrida l’oggetto di questo saggio, mi interessava soltanto introdurre indirettamente l’ingiunzione lyotardiana a giudicare attraverso la forte curvatura che essa produce nel pensiero derridiano. Qui però, come è facile intuire, si apre negli studi derridiani una prateria teorica ancora inesplorata e che andrebbe comunque percorsa in tutti i suoi meandri: perché Derrida, iniziamo a chiederci, non critica l’assenza di riflessione sull’istanza giudicativa nei momenti stessi in cui mette a punto e implementa, verso la fine degli anni Sessanta, i propri concetti cardine di différance, grammatologia e decostruzione? Si potrebbe proseguire in tutt’altra direzione lavorando anche sul lato confessionale di e in Derrida a partire dai suoi Glas (1974), La carte postale (1980), Résistances à la psychanalyse (1996) e dagli articoli del suo “libro statunitense” Without Alibi (2002) – questo per non delimitare l’analisi soltanto alla sua sin troppo esplicita Circonfession del 1991. La questione della veridicità e legittimità dell’idioletto ritornerà comunque nelle prossime pagine poiché la testimonianza è uno dei fiumi carsici che percorrono Il dissidio nella sua interezza. Per il secondo e ultimo articolo di Derrida su Lyotard, “Lyotard et nous”, scritto poco dopo la morte di questo e in cui Derrida sposta il fuoco della sua riflessione – finalmente può farlo – sulla legittimità del noi in Lyotard e sulla legittimità di un noi fra lui e Lyotard, oltre che su morte, testimonianza e fraternità nel Dissidio, e su questi stessi concetti nel suo rapporto con Lyotard (come sempre in Derrida il contenuto filosofico viene dispiegato sia attraverso il motivo che l’atto che lo articolano e questa congiunzione prosegue quasi sempre in una spirale fino alla decostruzione dei concetti esaminati e della stessa congiunzione), dicevo, “Lyotard e noi” di Derrida verrà discusso nella seconda parte di questo saggio.
[8] Su Kant, successivamente a Le différend, Lyotard ha pubblicato altri due libri, ovvero L’enthousiasme. La critique kantienne de l’historie, Galilée, Paris 1986 (ed. it. Id., L’entusiamo. La critica kantiana della storia, trad. it. di F. Mariani Zini, Guerini e Associati, Milano 1989) e le Leçons sur l’analytique du sublime, Galilée, Paris 1991 (ed. it. parziale Id., Anima minima, trad. it. di F. Sossi, Pratiche, Parma 1995). Entrambi questi testi ricalcano e sviluppano l’impianto interpretativo generale delle quattro Notizie Kant del Dissidio. Nella sua postfazione a L’entusiasmo, Fosca Mariani Zini chiama efficacemente le Notizie dei «medaglioni, molto amati dall’autore» e fa il punto sul cambio di stile e contenuto avvenuto in Lyotard a partire dal Dissidio: «non più le ansie, i neologismi, i rebus delle opere precedenti e soprattutto non più il tono acido, l’irruenza iconoclasta che avevano caratterizzato Socialisme ou barbarie, degli interventi sulla “economia libidinale” e sui meccanismi perversi del capitalismo, negli anni a cavallo fra il 1968 e il 1970. Alla causticità degli anni Settanta (…) subentra, negli scritti di Lyotard degli anni Ottanta, uno stile asciutto, una composizione argomentativa scevra dal libero gioco del fraintendimenti, delle contraddizioni ricercate come provocazione. Si tratta di un modo di scrivere in sintonia con il tentativo, già esplicito in Le différend (…). Sembra quasi un’autocritica, sicuramente indica un’esigenza di rigore sia nella ricerca sia nella stesura filosofica: il problema, fra l’altro, di come scrivere un libro di filosofia, quale ne sia lo stile, percorre tutta la riflessione di Lyotard dagli inizi alle ultime opere. Rispetto a Le différend, L’enthousiasme, anche per la sua origine “seminariale”, risulta più sobrio, non affetto da quell’urgenza di dire e di stupire che rende il primo, a tratti, ostico alla lettura lineare a causa del suo linguaggio ricco di suggestioni e di echi della tradizione filosofica» (pp. 87-8). In effetti difficilmente si sarebbe potuto supporre che l’autore di Economie libidinale (1974), che è tra le altre cose una spumeggiante quanto eretica e disperata lettura psicoanalitica di «quel desiderio chiamato Marx», pubblicasse dieci anni dopo un’opera sobriamente filosofica come Le différend.
[9] I due libri speculativamente più densi che Lyotard pubblica alla fine degli anni Settanta, Rudimenti pagani e La condizione postmoderna, orbitano ancora attorno a una pragmatica della filosofia di matrice narratologica e nella quale il principio della strumentalità del linguaggio, antropocentricamente inteso come oggetto esterno al soggetto, svolge il ruolo di legge di gravità. Questa sorta di umanismo pragmatico è uno dei maggiori bersagli del Dissidio: si vedano i §§ 32, 123 e 140, nei quali la critica alla concezione strumentale del linguaggio è esplicita e segue, anche se le fonti non vengono menzionate, argomentazioni di chiara provenienza nietzscheana e heideggeriana.
[10] Sui legami tra «il politico» e «il filosofico» si veda l’ultimo capito di Lyotard, L’entusiasmo, cit., intitolato “Ciò che si sprigiona nel nostro tempo”. Ne La condizione postmoderna Lyotard studia come le due grand récits del progresso speculativo e politico vengano delegittimate dalla torsione paralogica avvenuta nella produzione del sapere novecentesco. Il problema è che Lyotard delegittima le due metanarrazioni attraverso una generalizzazione degli approcci autocritici promossi dalle avanguardie del sapere scientifico nel Novecento. Quasi conscio di tale indebita quanto precaria generalizzazione, Lyotard celebra, sempre ne La condizione postmoderna, la funzione universale di collante sociale del sapere narrativo. Ciò che però non viene spiegato nel celebre pamphlet è, prima cosa, come effettuare tale generalizzazione avanguardista (narrativo più paralogia) in quel resto assai più prosaico ma conflittuale della produzione e trasmissione massificata del sapere. E, seconda questione altrettanto spinosa quanto la precedente, resta comunque da chiarire come portare a compimento la suddetta generalizzazione paralogica nell’articolare una diversa politica deliberativa. Sommare la paralogia delle avanguardie scientifiche, lette queste in chiave artistica, a quella insita nel sapere narrativo al fine di combattere la performatività economica postmoderna non mi sembra una strategia che possa tatticamente battere l’egemonia dell’economico nei suoi stessi campi. Tale prospettiva risulta essere, invece, una strategia antagonista mancante di una reale operatività socio-politica su larga scala. Non entro poi nemmeno nelle questioni di come abbattere dall’interno le mistificazioni dei vari apparati repressivi e ideologici per la riproduzione della forza-lavoro, questione che pongo qui nei termini di Louis Althusser. La lunga autocritica che, verso la fine della propria carriera, Lyotard sviluppa nella sua autobiografia filosofica scritta originariamente in inglese che è Peregrinations (1988), parrebbe attestare che il filosofo di Versailles abbia chiuso il proprio arco speculativo percependo in qualche modo la presenza di tale aporia. Si vedano specialmente gli ultimi due capitoli intitolati “Brecce” e “Memoriale per un marxismo” di J.-F. Lyotard, Peregrinazioni. Legge, forma, evento, trad. it. di A. Ceccaroni, il Mulino, Bologna 1992.
[11] Come spiega efficacemente Geoffrey Bennington, tra i più acuti commentatori e traduttori inglesi di Lyotard, il meccano delle istanze del Dissidio non proviene dal nulla. Nel suo Lyotard: Writing the Event, Manchester, Manchester Universirty Press 1988, Bennington spiega con precisione come Lyotard nei precedenti e più brevi Rudiments Païens (1977) e La condition postmoderne (1979), ponesse solo tre istanze (emissione, ricezione e referente) come poli del proprio meccanismo frasale. Nel suo studio Bennington spiega con chiarezza, inoltre, come il meccanismo istanziale lyotardiano passi negli anni da una configurazione pragmatica à la secondo Wittgenstein, a una forma assai più compiuta con la disposizione delle quattro istanze presentate dal Dissidio. Si veda per questo Bennington, Lyotard, cit., pp. 117-9.
[12] Ibidem, corsivi miei.
[13] D, p. 86. Lyotard dedica alla fenomenologia il suo primissimo libro, La phénoménologie, pubblicato nel 1954. La prima parte del libro discute l’opera del secondo Husserl mentre, nella seconda, vengono tematizzati i rapporti della fenomenologia con la psicologia, la sociologia e la storia. Non sorprende che il testo del giovane Lyotard risenta di una forte impostazione merleau-pontyana, e questo specialmente nel discutere sia i nessi tra fenomenologia, storia e marxismo, che nella sottolineatura della figura di Tran Duc Thao; tutto ciò non sorprende poiché a Parigi Lyotard studia proprio sotto la direzione di Merleau-Ponty.
[14] Ci rifacciamo qui alla formula del «presupposto-posto» che Roberto Finelli propone per tematizzare il compiersi del soggetto hegeliano nel suo Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Bollati Boringhieri, Torino 2004. Nella trasformazione della formula finelliana in presupposto imposto sottolineo la trasformazione in negativo di una circolarità che vede il soggetto pratico divenire vettore di forzature metafisiche. Queste imposizioni metafisiche sono ciò che in questo saggio riassumo con il termine pre-giudicare; forzature metafisiche chef anno ricadere il soggetto in ipostatizzazioni di natura fallace. Nel testo di Finelli si discutono anche i limiti e le aporie del rovesciamento acquisitivo della formula del «presupposto-posto» nel primo Marx, rovescimento eseguito attraverso la categoria decisiva di Formbestimmung. In Hegel per Finelli il «presupposto» sempre incompleto e deficitario che è la soggettività immediata deve trasformarsi, attraverso un continuo e doloroso processo dialettico di contrapposizione e incorporazione dell’alterità, in un «posto» che circolarmente torna alla posizione iniziale guadagnata infine in modo mediato. Il «circolo epistemologico del presupposto-posto (Vorgesetztes–Gesetztes)» è il modo in cui la teoria della verità in Hegel viene caratterizzata da Finelli: «ciò che si presenta all’inizio è in effetti solo un apparire, che rimanda alla struttura interiore che lo istituisce e lo produce appunto come un apparire. Per cui ciò che è principio può essere compreso nella sua vera natura solo come risultato» (pp. 27-8). La questione del «presupposto-posto», nel suo riguardare libertà, verità, soggetto e alterità, ovvero quel nesso complesso e instabile fra libertà moderna ed eticità comunitaria antica, è per Finelli uno dei grandi problemi antropologici che Hegel consegna alla filosofia.
[15] D, pp. 92-3. Nel testo parallelo al Dissidio e di origine seminariale che è L’entusiasmo, Lyotard scrive: «Questo mare è il concatenare, necessario e contingente al tempo stesso: non si può non concatenare, ma non si hanno regole prestabilite per farlo e allora bisogna, per stabilire la regola, concatenare». Lyotard, L’entusiasmo, cit., p. 83.
[16] Si veda specialmente la seconda parte di Lyotard, Heidegger e “gli ebrei”, cit., intitolata appunto “Heidegger” e nella quale il filosofo di Vincennes dimostra come il vero oblio in Heidegger, il celebre pensatore dell’oblio, risieda nella cassazione di ciò per cui il nome “gli ebrei” stanno, ovvero l’obliato di una legge/ingiunzione cieca e senza contenuti che viene prima dell’Essere, prima ancora del pensiero del Sein dello stesso Heidegger e di tutta la filosofia occidentale. Su queste tematiche si veda anche il bel carteggio fra Lyotard e Eberhard Gruber, Un trait d’union, Le Griffon d’argile, Sainte-Foy 1993. Mi permetto di rimandare qui a un mio breve articolo in cui spiego e applico alcune di queste tematiche di Heidegger e “gli ebrei” al Ritorno in Germania di Hannah Arendt, servendomi per questo anche di Judith Butler e Slavoj Žižek: “The melancholy of the forgotten: a Lyotardian affection”, in «African Yearbook of Rhetoric», 2011, vol. 2, n. 1, pp. 63-72.
[17] D, p. 93.
[18] D, pp. 104-5.
[19] D, p. 31.
[20] Rudi Visker cerca al contrario di riportare Il dissidio nell’ottica del secondo Heidegger enfatizzando a tal fine le radici levinasiane di Lyotard. In quest’operazione di riconversione, l’etico e la «passibility» neutralizzano il politico che, giacché posto come secondario, Visker può assimilare al simbolico di Lacan. Si veda l’ultimo capitolo di R. Visker, “Dissensus Communis. How to Keep Silent ‘After’ Lyotard”, contenuto nel suo The Inhuman Condition: Looking for Difference after Levinas and Heidegger, Kluwer, Dordrecht 2004.
[21] La reference theory, o teoria del riferimento, è il modo in cui la filosofia analitica epitoma il problema di come le parole si aggancino (nominalisticamente, intuitivamente ecc.) agli oggetti, di come il linguaggio si colleghi al mondo e quale forma debba prendere tale rapporto. La filosofia analitica, sia quella del linguaggio ordinario che quella logico-ideale, è sempre stata alla ricerca di una reference theory compiuta per fornire la chiave se non di tutti, almeno della maggior parte dei problemi filosofici tradizionali. A partire dagli anni Settanta del Novecento si è però registrato l’avvento di una generazione di filosofi, essi stessi anglosassoni (Sellars, Davidson, Putnam e Rorty per citare solo alcuni nomi), che ha posto tutta una serie di questioni alla generazione analitica precedente. I cosiddetti postanalitici hanno cariato dall’interno l’impresa analitica giudicando sia in maniera storica che filosofica le basi assiomatiche che la filosofia analitica deve assumere per date o ingiudicabili al fine di proseguire indisturbata nell’erezione e sbandieramento della propria neutralità epistemica. Dall’interno essendo la neutralità epistemica proprio uno di quei pregi che la filosofia analitica professa di vantare rispetto alla filosofia continentale. La vittoria postanalitica è tutt’altro che completa o definitiva ma, per fortuna, tutto ciò dall’altra sponda dell’Atlantico è almeno avvenuto: è assodato che la generazione postanalitica abbia posto il giudicare al cuore di ciò che la filosofia analitica difende come tesoro filosofico primo e indubitabile, ovvero l’astoricità naturale e quindi neutrale delle componenti del proprio realismo interno o esterno. Se è però vero che con i postanalitici Hegel sia finalmente tornato a esser letto nei dipartimenti statunitensi di filosofia, fatto che non avveniva in modo tanto diffuso dai tempi dei trascendentalisti e degli hegeliani di St. Luois, persiste però immutata l’amarezza nel constatare come esso venga concretamente studiato. Per una breve introduzione sui problemi della ricezione hegeliana in ambito analitico e poi postanalitico si veda Tom Rockmore, Hegel, Idealism, and Analytic Philosophy, Yale University Press, New Haven and London 2005. Comunque, la questione del giudizio che i postanalitici “riscoprono” è quella che viene più o meno colpevolmente dimenticata – e tale colpevolezza dipende ogni volta dai singoli casi e storie personali – nell’attuale dibattito sul nuovo realismo che così tanto sembra agitare la vecchia guardia della filosofia italiana. In questa querelle vengono infatti impiegate singole argomentazioni senza al contempo giudicarne né loro origine storica né il loro senso mutato nel riproporle oggi in un contesto differente. Sia il progetto della destra derridiana di Maurizio Ferraris che dell’autoproclamata sinistra heideggeriana di Gianni Vattimo marciano contrapposti senza addentrarsi nel fondo politico dei filosofemi impiegati. Non posso qui entrare nei dettagli ma, per quanto riguarda Ferraris e la sua positivizzazione del progetto grammatologico in «documentalità», intesa questa come «una teoria generale della realtà sociale» (M. Ferraris, Ricostruire la decostruzione. Cinque saggi a partire da Jacques Derrida, Bompiani, Milano 2010, p. 93), si potrebbe cominciare a mettere in discussione l’uso (impossibile) dell’intenzionalità searleiana all’interno di un’interiorità di stampo derridiano, un’operazione, questa, compiuta per correggerne i profondi esiti antisistemici di Derrida. Nella sua ricostruzione ontologica e realista della decostruzione derridiana, Ferraris omette la profonda polemica degli anni Settanta proprio fra Searle e Derrida su soggettività, intenzionalità e performatività. Perché? Senza contare che sia Rorty che Lyotard non negano quello che Ferraris racchiude nel termine «inemendabilità», e nelle loro opere vi sono molte pagine inemendabili che lo provano in modo indiscutibile. Vattimo, d’altro canto, seppur conscio del ruolo politico del giudicare in filosofia, non riesce a oltrepassare i domini interprativi di un’ermeneutica alla ricerca di un’emancipazione solo astratta. E questo perché l’«ontologia nichilista» vattimiana guadagna l’orizzonte marxiano di emancipazione collettiva sono nella sua fase finale, quando cioè il terreno argomentativo è stato già ampiamente mappato e quindi limitato da un heideggerismo che, a sua volta, non può accettare i rapporti sociali di produzione e il carattere ideologico del capitale come parole fondamentali dell’Essere. Tutto ciò che Vattimo può far valere, nella sua storicizzazione delle aperture ermeneutiche dell’Essere, è un richiamo individualista, astratto e quindi vuoto a staccarsi dalle trappole realiste della tradizione: «non si tratta di assumere la propria storicità in modo inautentico perché così le cose ci appaiano meglio in tutta la loro verità oggettiva. Si tratta di liberarle dalla falsa luce in cui le colloca la concezione obiettivante della metafisica». G. Vattimo, Della realtà. Fini della filosofia, Garzanti, Milano 2012, p. 53. Sempre Vattimo scrive che «l’affermazione della libertà ha un prezzo: quello della mortalità, che non tocca solo l’Esserci dell’uomo, ma caratterizza l’Essere stesso: per rendere conto e rendere possibile la libertà, l’Essere non può pensarsi come datità, struttura eterna, atto puro aristotelico o Essere parmenideo. È legittimo parlare per tutto questo di una vocazione nichilista dell’Essere, come se la sua storia fosse intimamente mossa da una paradossale teleologia asintoticamente diretta verso un niente che, ovviamente, non potrà mai realizzarsi come uno stato metafisico, come una realtà attuale del nulla». Ivi, p. 60, corsivi miei. Sarebbe utile capire dove Vattimo trovi la legittimità per produrre tale filosofema e farsi quindi portavoce delle verità delle varie aperture dell’Essere. Nel senso che non basta depotenziare la propria interpretazione, fattasi intanto rispecchiamento delle realtà della storia dell’Essere, anteponendo un «come se» alla argomentazione che dovrebbe fornire ragioni sufficienti per rendere plausibile la legittimità dell’intera impresa. Nessun heideggerismo, neanche uno di sinistra, può mai appagarsi di un’autofondazione analogica – Heidegger odia profondamente l’als ob, e Sein und Zeit, tra le altre cose, gli serve proprio per non tornare mai più a dare spiegazioni sulla legittimità del proprio rapporto privilegiato con l’Essere. In conclusione, qui posso solo abbozzare alcuni passaggi problematici in Ferraris e Vattimo, ma è comunque intenzione di chi scrive dedicare un articolo alle rimozioni, omissioni e limitazioni (ferrarissazioni) dell’attuale dibattito fra Ferraris e Vattimo, e questo anche per discutere a fondo e in modo sistematico il significato speculativo della loro querelle nell’attuale panorama filosofico italiano.
[22] D, p. 53.
[23] D, p. 54.
[24] Ibidem. L’aspro conflitto fra i negazionisti e i sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti è uno degli esempi, il maggiore, della nozione cardine di «dissidio». Il senso filosofico del nome metonimico Auschwitz verrà comunque esplicitato nella discussione della Notizia Hegel nella seconda parte del saggio.
[25] Per un veloce inquadramento di alcune tesi di Wittgenstien e Kripke in relazione al Dissidio si veda Peter Sedwick and Alessandra Tanesini, “Lyotard and Kripke: Essentialism in Dispute”, «American Philosophical Quarterly», July 1995, vol. 32, n. 3, pp. 271-8, in cui gli autori cercano di dimostrare come al cuore della nozione di différend vi sia «Lyotard’s essentialism», un’accusa che ritengono fondata poiché rimuovono totalmente dal Dissidio sia l’aspetto agonistico che la secondarietà del cognitivo. Non va dimenticato che una delle caratteristiche più peculiari di Le différend è la sua forma bastarda, il suo non essere a casa cioè né tra le mura della filosofia analitica (Kripke e Wittgenstein), né tra quelle della filosofia continentale (Hegel e Kant). Un altro esempio, tra i pochissimi menzionabili, di questo peculiare genere della filosofia contemporanea è il libro del 1979 di Richard M. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, rispetto al quale però Il dissidio è indiscutibilmente più bilanciato nella distribuizione degli elementi analitici e continentali. Limited Inc di Derrida, ascrivibile anch’esso a quest’esigua quanto affascinante famiglia testuale del secondo Novecento, non è un vero e proprio libro ma una collezione di articoli scritti in un arco di anni piuttosto ampio, dal 1967 al 1988 per la precisione.
[26] D, p. 61.
[27] D, p. 58.
[28] D, p. 59.
[29] Ibidem.
[30] D, pp. 66-7.
[31] D, p. 61.
[32] Ibid.
[33] In Lyotard anche le unità di misura spazio-temporali sono nomi, cioè presupposti imposti «anch’essi tramandati. Anch’essi non fornoscono alcuna conoscenza di ciò che nominano». D, p. 62.
[34] D, p. 64.
[35] D, p. 67.
[36] D, p. 68, ed. or., p. 74.
[37] D, p. 69.
[38] È nella discussione di questi temi che incidentalmente viene definite l’ufficio della filosofia per Lyotard: «la realtà non risulta da un’esperienza. Ciò non impedisce affatto di descriverla con le sembianze di un’esperienza. Le regole da rispettare per questa descrizione sono quelle della logica speculativa (Notizia Hegel) e anche quelle di una poetica romanzesca (osservando certe regole che determinano la persona e i modi narrativi). Ma questa descrizione non ha valore filosofico perché non mette in questione i suoi presupposti (l’io o il sé, le regole della logica speculativa)». D, p. 70.
[39] D, p. 11.
[40] D, p. 72.
[41] Ibidem. L’unico commentatore che a tutt’oggi abbia cercato di leggere la speculazione lyotardiana matura con riferimenti espliciti all’atomismo è Zbigniew Kotowics nel suo articolo intitolato “Notes on Lyotard’s Route to Atomism”, «Parallax», 2000, vol. 6, n. 4, pp. 114-26, numero dalla rivista interamente dedicato all’opera di Lyotard. Sebbene Kotowics affermi che «Il dissidio (…) sia nella filosofia contemporanea uno delle opere atomistiche più avvertite» (p. 116), la sua attenzione si concentra sulla torsione etica all’opera in Lyotard da Economia Libidinale a Il dissidio, con particolare interesse sul ruolo giocato dalla nozione di «intesità» nel passaggio da un testo all’altro. È il background da psicoanalista di Kotowics che lo porta a privilegiare questo passaggio. Comunque, la tesi di fondo dell’articolo è interpretare l’architrave del Dissidio come «atomismo temporale» nel quale le frasi svologono il ruolo di «atomi temporali» (p. 121)..
[42] D, p. 73.
[43] Ibidem.
[44] Ecco uno degli aspetti di questo creux: «La negazione è nel cuore della testimonianza. Non si mostra il senso, si mostra qualcosa, questo qualcosa è nominato e si dice: ciò almeno non vieta di ammettere il senso in questione. La “convalida” consiste nel mostrare dei casi di non-invalidazione provvisoria. (…) Non si ha evidenza, ma una sospensione inflitta allo scetticismo. (…) Nominando e mostrando, si elimina. La prova è negativa, nel senso di confutativa. Essa viene prodotta in un dibattito, agonistico, dialogico se si ha consenso sulle procedure della sua produzione. (…) La realtà è invocata dall’ostensione e dalla nominazione come l’interdizione di negare un senso. Essa permette di porre tutti i sensi contrari in posizione di possibili», D, p. 79.
[45] D, p. 81; ed. or., p. 90. Nella parte finale della “Prefazione alla seconda edizione” alla Critica della ragion pura, Kant discute le modifiche apportate alla «confutazione dell’idealismo psicologico» rispetto alla prima edizione. E, alla fine di una nota sul legame tra esperienza dell’esterno, senso dell’interno e autopercezione temporale, Kant raggiunge un punto di stallo trascendentale che letteralmente lo ammutolisce: «la rappresentazione di qualche cosa di permanente nell’esistenza non è tutt’uno con la rappresentazione permanente; giacché questa può essere mutevolissima e instabilissima, come le nostre rappresentazioni tutte, comprese quella di materia, e aver tuttavia rapporto con qualcosa di permanente, che perciò deve essere alcunché di esterno e di diverso da tutte le nostre rappresentazioni; la cui esistenza, compresa necessariamente nella determinazione della mia propria esistenza, costituisce con essa un’unica esperienza, che non vi sarebbe in nessun modo come interna, se a un tempo non fosse (in parte) anche esterna. Come? Noi qui non lo possiamo spiegare, come non ci è possibile pensare in generale ciò che nel tempo permane, e dalla cui simultaneità con ciò che cambia sorge il concetto del cangiamento». I. Kant, Critica della ragion pura, trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Laterza, Roma-Bari 1909 p. 29. Se ci fosse un buco, un’oscuramento generale inteso questo come temporanea mancanza di realtà nella serie delle percezioni esterne, tale evento creerebbe un’effetto a catena con esiti catastrofici nella strutturazione del nostro senso di realtà interiore. Se, e questo anche solo per una volta, il presupposto di permanenza della realtà scomparisse in modo pieno – la realtà che si fa opzione e il suo black out anche solo possibile – allora quella che Kant chiama qui «la rappresentazione permanente» non sarebbe più tale poiché essa avrebbe girato a vuoto, e questo anche solo per una volta. Kant lo presagisce e richiede quindi un collettore permanente di cui però non sa spiegarsene la provenienza, l’Ich denke. Se nulla in ambito empirico lascia presagire che la scomparsa della realtà non debba avvenire, non è altrettanto chiaro come questo collettore possa essere di origine squisitamente interiore. La mia ipotesi è che la nozione di nome proprio come esposta da Lyotard nel Dissidio svolge questa funzione kantiana di stabilizzazione permanente: l’Ich dell’Ich denke è il nome proprio che si riceve e, non a caso, Lyotard afferma che «forse ogni nome proprio deve essere ricevuto» (D, p. 55). Incidentalmente Jean-Luc Nancy, in un suo articolo dedicato a Lyotard e dal titolo Dies illa (d’una fine all’infinito o della creazione), in Pensiero al presente, cit., pp. 193-219, scrive: «L’esistenza in quanto tale è proprio ciò che non può essere presentato come oggetto nelle condizioni dell’esperienza possibile. Come spiegano le prime due Analogie dell’esperienza, la sostanza muta nel tempo, ma non vi nasce così come non vi muore. La substantia phanomenon è certo coestensiva al tempo e allo spazio che costituiscono il dispiegamento del fenomeno. Kant ricorda il principio Gigni de nihilo nihil, in nihilum nihil posse reverti. Questo principio enuncia esplicitamente la negazione di una creazione. Ed è sempre questo principio che, pur mantenendo l’oggetto nelle considerazioni dell’esperienza possibile, cioè del meccanismo, allontana in un’esperienza impossibile ogni considerazione del fine delle cose ed anche della provenienza della loro esistenza in quanto tale» (pp. 203-4, ma si veda anche e soprattutto p. 207). Cosa accadrebbe quando non si riuscisse più a cementificare la percezione con il nome proprio? Gli «sciami» lyotardiani, in questa ipotesi, non occuperebbero più solo il cavo ma anche la superficie del nome proprio poiché quest’ultimo, a causa di tale malfunzionalmento (ma è davvero tale?), lascierebbe loro campo libero dato che il nome proprio non collegherebbe più in modo unitario e identitario i flussi esperenziali. I buchi di realtà, di cui Kant ne presagisce la forza trascendentale negativa, e contro i quali esige il presupposto salvifico di una «rappresentazione permanente», distruggono dall’interno i nomi propri e la relativa funzione unificante. Davvero Kant indietreggia d’avanti a ciò che il suo realismo non può che percepire come funerea schizofrenia trascendatale? È come se nella filosofia kantiana non fosse possibile ammettere nessuna crepatura nell’essere poiché ne andrebbe dell’unità trascendentale del soggetto.
[46] Lyotard scrive La condizione postmoderna ritenendo Habermas il vero obiettivo critico del libro. Rorty è invece incontraro da Lyotard per la prima volta nel 1984 a Baltimora, in un convegno organizzato dalla Johns Hopkins University e di cui il numero 456 del 1985 della rivista «Critique», intitolato “La traversée de l’Atlantique”, ne è il resoconto fedele. Molto è stato scritto sulla querelle tra Habermas e Lyotard, qui mi limito ad azzardare un tesi storiografica sulle traiettorie di Lyotard e Rorty lette in forma chiasmatica. In questo incrocio filosofico-professionale, il grande punto di incontro/scontro fra Lyotard e Rorty è il significato da attribuire all’opera di Ludwig Wittgenstein, filosofo raggiunto in Lyotard nella convergenza tra pragmativa frasale e kantismo; in Rorty Wittgenstein è invece quello che fra i suoi heroes gli permette di superare molte delle impasses della filosofia analitica, il campo disciplinare nel quale Rorty muove i suoi primi passi filosofici. Data questa convergenza di base, Lyotard e il concetto cardine di différend incrociano Rorty e il relativo Grundbegriff di conversation a inizio anni Ottanta. Lyotard, rispondendo nel 1985 a Baltimora all’intervento di Rorty, dichiara: «Il y a entre Richard Rorty et moi un différend. Je crois qu’il n’y a entre nous aucun litige, car je pense que nous sommes presque d’accord. Mais il y a un différend. Mon genre de discours est tragique. Le sien est conversationnel. Où est le tribunal qui pourra dire lequel de ces deux de discours est le plus just?»; «Critique», art. cit., p. 581. Tre anni più tardi, in una intervista del 1988, Lyotard discute in modo profondo la filosofia rortyana criticandone con argomenti kantiani e levinasiani l’indebito trasferimento dei presupposti dialogici che Rorty compie in campo trascendentale. Questo trasferimento obbliga Rorty, agli occhi di Lyotard, ad aderire a un razionalismo di matrice «imperialista». Il copione di questa critica segue quello della critica lyotardiana alla «commutabilité» cognitiva fra alter ego interscambiabili che discuterò nella seconda parte del saggio. Riassumendo, contro la «commutabilità» cognitiva il filosofo di Vincennes fa valere il rapporto levinasiano tra un io e un tu incommensurabili, ovvero il rapporto con l’alterità che sostanzia il genere etico del Dissidio. Il fulcro della critica di Lyotard alla filosofia di Rorty, da lui denominata una «interlocuzione generalizzata», risiede nella caratterizzazione cognitiva della relazione «costitutiva» fra gli umani per mezzo del linguaggio. Secondo Lyotard questa relazione non si basa come in Rorty su un rapporto tra «uno Io e un tu» intercambiabili ma, al contrario, essa assume la forma di «presa in ostaggio» con «violenza» da parte di una «legge» che si attiva solo fra dei «tu». Presupponendo il «principio dell’interlocuzione» tra medesimi io che a livello trascendentale possono sempre formare un noi, Rorty, per Lyotard, risolve la «costituzione» dell’altro sulla base di un riflesso di quella dell’io – e Lyotard riferisce dell’incagliarsi sullo stesso problema per quanto rigurarda le Meditazioni cartesiane di Husserl. L’intervista di Lyotard si conclude così: «Qui Rorty tratta l’altro/i non come la singola figura trascendentale, dato che o solidarietà oppure l’invalidità della filosofia e, data la solidarietà, allora l’altro/i come interlocutore, ma rende la tesi, posta in questi termini, una questione già risolta: “noi” parliamo gli uni con gli altri. Penso che su questo punto la divergenza tra le nostre posizioni sia profonda. Sarebbe interessante capire se fosse possibile scrivere una Critica della ragione altruistica e sarebbe essenziale poiché a questo punto si discuterebbe, sia sotto forma del fondazionalismo di Apel che del comunicazionalismo di Habermas o della pragmatica non fondazionalista e prettamente interlocutoria di Rorty, finalmente dell’accettazione senza un’indagine approfondita – direi piuttosto, se me lo permetti, senza anamnesi – dell’idea degli altri come la figura principale del pensiero contemporaneo. Qui il problema è se si possa propriamente parlare degli altri come di una figura, così come è altrettanto problematica la “costituzione” di quest’ultima e, comunque, dubito davvero che questa sia la figura principale». Per questa intervista si veda “An Interview with Jean-François Lyotard”, by W. van Rejen and D. Veerman, «Theory, Culture & Society», 1988, vol. 5, pp. 277-307, p. 307. Purtroppo non mi è stato possibile reperire la versione originale francese di questa intervista (“Les lumières, le sublime. Un échange de paroles entre J.-F. Lyotard, W. van Reijen et D. Veerman”, in «Les Cahiers de Philosophie», numero dedicato a “Jean-François Lyotard: Réécrire la modernité”, 1988, n. 5, pp. 63-98), e sono quindi costretto a tradurre dalla versione inglese. Sul finire degli anni Novanta, ecco la parte finale del chiasmo storiografico qui proposto, Lyotard retrocede su posizioni liberali all’interno della cornice democratica (si veda l’articolo “Memoriale per il marxismo” nel suo Peregrinazioni), mentre Rorty, nell’articolo posto ad apertura del suo ultimo libro intitolato Philosophy as Cultural Politics (2007), curva su posizioni alquanto lyotardiane dato che il concetto di politica culturale in questo testo svolge il difficilissimo compito di regolare il conflitto agonistico fra pratiche sociali discordanti. Ecco alcuni passaggi di Rorty da Philosophy as Cultural Politics: «non c’è alcun spazio logico neutrale in cui la discussione fra persone che negano ed altre che affermano l’esistenza dell’entità in questione possa avvenire»(p. 20). E, in questo senso, «il disaccordo fra loro non è maggiormente risolvibile da una sentenza neutrale più di quanto non lo sia quello fra atei e teisti» (14). Ancora: «l’esperienza non ci fornisce nessun modo per separare in modo netto la questione politico-culturale su quello di cui dovremmo parlare dalla questione su ciò che esiste davvero. E questo perché ciò che si ritiene essere un resoconto accurato dell’esperienza è legato a quello che una comunità lascia passare senza problemi. (…) Pertanto, l’esperienza non può, di per sé, fare da giudice nelle dispute fra politici della cultura in conflitto» (p. 11). Sempre in questo senso, scrive il filosofo di New York: «la battaglia tra questi due gruppi è analoga agli argomenti presentati da avvocati avversari che presentano mozioni d’appello a una corte. Entrambi i gruppi di avvocati rivendicheranno di avere l’autorità della “legge” dalla loro parte. (…) Appellarsi a Dio, come appellarsi a “la legge” è inappropriato. Solo quando la comunità decide di adottare una fede piuttosto di un’altra, quando una corte decide in favore di una parte e non dell’altra o, ancora, quando la comunità scientifica decide in favore di una teoria e non di un’altra, è solo allora che l’idea di “autorità” diventa applicabile. La cosiddetta “autorità” di qualsiasi altra cosa che non sia la comunità (o di alcune persone, cose o esperti di culture “avanzate” autorizzati dalla comunità a prendere decisioni a suo nome) non è altro che un battere i pugni sul tavolo» (p. 9). La tesi fondamentale del Rorty di Philosophy as Cultural Politics è questa: «sostengo che la politica culturale debba prendere il posto dell’ontologia, e il fatto stesso se essa debba farlo o no è anch’essa, in sé, una questione di politica culturale» (p. 5). Nell’ultimo Rorty i bordi del suo concetto-chiave di conversation toccano e vengono inscritti nel ben più grande perimetro del dissidio agonistico: «le questioni su ciò che è troppo permissivo e troppo restrittivo sono esse stesse questioni di politica culturale» (p. 6). In conclusione, è legittimo affermare che la conversazione rortyana diviene la lite lyotardiana, e il concetto di politica culturale è il modo in cui l’ultimo Rorty cerca di trovare una soluzione provvisioria e di stampo pragmatista in un universo irremediabilmente crepato dal dissidio lyotardiano.
[47] Lyotard, La condizione postmoderna, cit., p. 23; ed. or., p. 23.
[48] Da La condizione postmoderna al Dissidio, alla progressiva decentralizzazione di Wittgenstein corrisponde in Lyotard la crescente importanza che acquista Kant, letto però come il pensatore del conflitto dei i generi e delle facoltà. Tale fase di maturità inzia a partire dagli anni Ottanta e l’ultimo testo della prima fase sarebbe Econonomia libidinale. Inoltre, la transizione si annuncia con Instructions païennes del 1977, uno breve scritto ancora imbevuto di narratologia, e si esprime sia nel libro-conversazione Au juste che ne La condition postmoderne, entrambi del 1979. Lo sfondo dell’atomismo agonistico lyotardiano è Friedrich Nietzsche (si veda La condizione postmoderna, cit., p. 23), mentre Il dissidio è un tentativo di far combaciare in una cornice nietzschieana Kant con Wittgenstein, letti entrambi come pensatori dell’eterogeneità. Ecco cosa scrive Lyotard verso la fine del suo L’entusiasmo, cit., p. 84: «L’idea di commensurabilità nel senso di affinità senza una regola che possa fungere da criterio stabile, è decisiva nel pensiero kantiano, in particolare rispetto allo storico-politico. Per noi oggi essa tempera fortemente, un po’ troppo fortemente, l’avvenimento della fissione. L’esplosione del linguaggio in famiglie di giochi di linguaggio eteronomi è il tema che Wittgenstein, lo si sappia o no, eredita da Kant e che prosegue andando oltre, più che può, nella direzione di una descrizione rigorosa». Sulla mossa lyotardiana di legare Wittgenstein a Kant si veda anche il brevissimo articolo del 1983 di Lyotard, “Wittgenstein, ‘après’”, in Id., Tombeau de l’intellectuel et autres papiers, Galilée, Paris 1984.
[49] D, p. 11.
[50] Ibidem.
[51] D, p. 13.
[52] Avendo presentato del Dissidio l’ontologia, l’epistemologia e ora la politica, rendo più chiaro l’appellativo che Lyotard ne ha dato come della sua unica opera filosofica. Nel suo articolo “Dalla diagnosi all’intervento”, art. cit., Milner segue un itinerario contenutistico differente dal nostro per poi comunque affermare: «L’essere, l’anima, il Mondo, Dio: non è sorprendente che il Dissidio venga presentato come libro di filosofia. Ma in ciascun punto viene inflitta una ferita. Ferita narcisistica direbbe Freud. Diciamo almeno che ogni nome dell’essere si rivela immediatamente anche un nome del mal-essere (malêtre). Il dissidio è un nome di ciò che è, in quanto ciò che è è, e in quanto ciò che è non è. Lyotard si situa nel punto di incrocio e di distacco dei due percorsi» (p. 185).
[53] A tale proposito sempre Milner, “Dalla diagnosi all’intervento”, cit., scrive: «Che questa necessità sia empirica o trascendentale, non è il caso di decidere; basta che si riconosca qui una figura classica della filosofia: il Mondo. In quanto nome dell’essere, il dissidio è quindi immediatamente anche un nome del Mondo. È il nome che prende il Mondo quando l’essere è chiamato dissidio» (p. 182).
[54] D, p. 50.
[55] Il conflitto tra prescrittiva e cognitiva è qui illuminante: «dal fatto che un referente è stabilito come reale non può seguire che si debba dire o fare qualcosa circa questo stesso referente». D, p. 51. Nel positivismo, inteso come apoteosi del cognitivo, e di cui i negazionisti ne sono i campioni più famosi ma non certo i soli, non ci sarebbe neanche spazio possibile per presentare un torto lyotardiano. Nel realismo rappresentazionale il dilemma del testimoniare un torto viene così spiegato da Lyotard: «Ammettiamo la sua ipotesi, che il torto stia nel fatto che il danno non si esprime nel linguaggio comune del tribunale e della parte avversa e che ciò dia luogo a un dissidio. Ma come può dire che c’è un dissidio quando, per ipotesi, il referente della frase della vittima non è oggetto di una conoscenza propriamente detta? Come può anzi affermare che una situazione del genere esiste? Perché ci sono dei testimoni? Ma perché Lei presta fede alla loro testimonianza se non possono, per ipotesi, stabilire la realtà di quanto affermano? O il dissidio ha per oggetto una realtà stabilita, e non è più dissidio ma una lite, o, se l’oggetto non ha alcuna realtà stabilita, il dissidio non ha oggetto, e non c’è più dissidio. Così parla il positivismo, confondendo realtà e referente. Ora, in molte famiglie di frasi il referente non viene in alcun modo presentato come reale: Su tutti i crinali / La pace, 2 x 2 = 4, Uscite, In quel momento, prese la via di…, È bellissimo. Ciò non impedisce che queste frasi abbiano luogo. (Ma aver luogo è la stessa cosa che essere reale?)». D, p. 48.
[56] D, p. 49.
[57] Nella sequenza §§42-5 Lyotard discute la cinetica frasale del concetto di vendetta e scrive: «Dal momento che non si può ottenere riparazione, si grida vendetta. In ogni caso, ciò significa ammettere senza discussione che un principio teleologico regge il passaggio da un genere di discorso (il cognitivo) all’altro (la frase d’Idea). Ora, quale prova abbiamo che ci sia un principio di compensazione fra i generi di discorso? Possiamo forse dire: giacché non riesco a dimostrare questo, allora devo poterlo raccontare? Tanto per cominciare, il referente non è lo stesso quando la frase che lo prende come riferimento non appartiene alla stessa famiglia. Il danno non è il torto, la proprietà da dimostrare non è l’evento da raccontare, e ciò, voglio dire, anche se portano lo stesso nome». D, pp. 50-1.
[58] D, p. 41.
[59] D, pp. 48-9 e p. 95. Sempre nello stesso paragrafo, il 39, viene specificato il doppio e paradossale statuto del concetto di «universo di frase»: «No, non dico che questo universo sia la realtà ma soltanto che è la condizione dell’incontro delle frasi e quindi la condizione dei dissidi. (…) È una condizione trascendentale, non empirica. Per quanto riguarda questo universo, si può dire che esso è l’effetto dell’incontro sia che ne è la condizione – le due espressioni sono equivalenti. Analogamente, la frase del linguista è la condizione trascendentale della lingua alla quale fa riferimento. Ciò non impedisce che la lingua sia la condizione empirica della frase del linguista. Trascendentale e empirico sono termini che si limitano a indicare due famiglie di frasi differenti: la frase filosofica critica (criticistica) e la frase cognitiva. E infine: le frasi del regime o del genere eterogeneo si “incontrano” sui nomi propri, nei mondi determinati dalle reti di nomi». D, pp. 48-9. Lyotard sembrerebbe qui prefigurare la nozione di transimmancence che Nancy conia e sviluppa in uno dei suoi testi filosofici più densi, Le sense du mond, Galilée, Paris 1993.
[60] D, p. 49.
[61] D, p. 96.
[62] D, p. 109.
[63] Discutere qui la lettura frasale e aporetica che di Freud Lyotard compie, visto che per lui l’idioletto è l’inconscio, mi porterebbe troppo lontano. Freud è l’unica vera figura che in modo costante accompagna Lyotard nell’intero arco della sua carriera. Anche la presenza di Marx è stabile dato che questi prima dirige gli anni della militanza lyotardiana per diventare, in seguito, il nemico silenzioso e inflessibile della restante carriera filosofica. In Peregrinazioni Lyotard scrive che è proprio per comprendere filosoficamente prima le scissioni interne di Socialisme ou barbarie e Pouvoir Ouvrier e, dopo, il proprio abbandono definitivo del marxismo che nasce in lui la nozione di différend. Comunque, tornando a Freud, il valore della psicoanalisi nel Dissidio, anche se menzionata sporadicamente, è sempre percepibile nel libro, specialmente in alcuni dei suoi passaggi chiave. Sono altri i luoghi in cui Lyotard affronta direttamente Freud o, almeno, ne frasa diverse questioni fondamentali. Si veda per esempio la sua tesi di dottorato Discours, figure (1971), scritta dopo l’esperienza del biennio d’insegnamento superiore (1952-‘54) a Constantine, nell’Algeria francese, e anche dopo la militanza in Socialisme ou barbarie. Su Freud in Lyotard si confronti anche Heidegger et “le juifs” e i lunghi articoli “Figure forclose”, “Emma” e “Voix”.
[64] D, p. 113.
[65] D, p. 173.
[66] D, pp. 173-4: «La molteplicità degli scopi, che va di pari passo con quella dei generi, fa sì che ogni concatenamento sia una sorta di “vittoria” di uno di essi sugli altri. Questi ultimi rimangono dei possibili trascurati, dimenticati, rimossi. Non c’è bisogno di addurre una volontà, un’intenzione per descrivere questo. Basta fare attenzione al fatto che c’è soltanto una frase “alla volta”. Molti concatenamenti possibili (o molti generi), ma una sola “volta” attuale».
[67] Nel suo articolo “Presenza sensibile”, centrato primariamente su estetica e processi primari in Lyotard, Clemens-Carl Härle considera «il factum loquendi» degli umani che «producono formazioni linguistiche» e, analizzandolo in Lyotard, ne ravvisa l’impossibile chiarificazione razionale: «Factum loquendi significa piuttosto che la filosofia non riesce a rendere conto del linguaggio mediante una deduzione trascendentale o una genesi fenomenologica». Si veda Pensiero al presente, cit., pp. 163-78, p. 163. Härle rifuta la facile accusa di idealismo linguistico in Lyotard, un’obiezione che non prendo in considerazione per il modo in cui ho tratteggiato fin qui lo statuto deliberativo e quindi politico della triangolazione: «si può partire dal factum loquendi, cioè dall’impossibilità di una deduzione della lingua o della frase, senza per questo essere costretti a cancellare la specificità del sensibile incorporandolo nell’ordine del dicibile» (p. 164). Härle sostiene inoltre che nel Dissidio «il contenuto materiale del factum loquendi non sarà più considerato dal punto di vista della lingua, ma della frase. La prospettiva della frase permette di liberare definitivamente la designazione dall’involucro fenomenologico, senza per questo cancellare la sua differenza con la significazione» (p. 167). Milner, “Dalla diagnosi all’intervento”, art. cit., chiama le frasi, di cui Lyotard si rifiuta di dare una definizione cognitiva (D, §§107-10), «il luogo dell’incommensurabile» (p. 185).
[68] È per questo motivo che la politica, nella filosofia lyotardiana, non è il genere primo: «O questo genere fa parte dell’insieme dei generi, e la posta in gioco che gli è propria è una fra le tante, quindi la sua risposta non è suprema. O non fa parte dell’insieme dei generi e quindi non ingloba tutte le poste, poichè eccettua la sua». D, p. 175.
[69] D, p. 176.
[70] D, p. 177.
[71] D, p. 178.
[72] Vi è un punto preciso in Louis Althusser che spiega la nascita dell’ideologia intesa nel suo senso generale. Questo punto sorgivo è l’impossibilità fisico-materiale per un soggetto di percepire in un’unica volta la totalità del modo di produzione e, quindi, delle condizioni di sfruttamento della società di cui fa parte. In breve, un individuo non può in un’unico istante essere presente in ogni singola industria, fabbrica e sede dei rapporti di produzione. Cito qui dall’articolo “Idéologie et appareils idéologiques d’État (Note por una recherché)” nella versione del 1971 e ora in Louis Althusser, Sur la reproduction, P.U.F., Paris 1995, pp. 297-8: «ce n’est pas leurs conditions d’existence réelles, leur monde reel, que les “hommes” “se représentent” dans l’idéologie, mais avaint tout leur rapport à ces conditions d’existence qui leur y est représenté. C’est ce rapport qui est au centre de toute representation idéologique, donc imaginaire du monde réel. C’est dans ce rapport que se trouve contenue la “cause” qui doint render compte de la deformation imaginaire de la représentation idéologique du monde reel. Ou plutôt, pour laisser en suspens le langage de la cause, il faut advancer la these que c’est la nature imaginaire de ce rapport qui soutient toute la déformation imaginaire qu’on peut observer (si on ne vit pas dans sa vérité) dans toute l’idéologie. (…) toute idéologie représente, dans sa deformation nécessairement imaginaire, non pas les rapports de production existant (et les autres rapports qui en dérivent), mais avaint tout le rapport (imaginaire) des individus aux rapports de production et aux rapports qui en dérivent. Dans l’idéologie est donc répresenté non pas le systéme des rapports réels qui gouvernent l’existence des individus, mais le rapport imaginaire de ces individus aux rapports réels sous lesquels ils vivent». L’ideologia, in quanto forma immaginaria tra il soggetto e la somma di tutte le forme di produzione all’opera in un dato momento, sarebbe la compensazione psichica per la mancanza di poter percepire direttamente e in un’unica esperienza ogni singolo elemento di tale somma. Gli «appareils idéologiques d’État» althusseriani sono le forme concrete che la suddetta compensazione assume per rendere naturale e impercettibile la riproduzione della forza-lavoro – maggiore la persuasione degli apparati ideologici e minore la necessità di quelli repressivi. In Althusser l’ideologia non è un prodotto esclusivo del modo di produzione capitalistico o di quelli precedenti a questo, nel senso che vi sarà ideologia anche nel comunismo perché anche in questa società per il singolo ci sarà sempre bisogno di compensare l’impossibilità fisica di percepire panotticamente e in un unico momento la totalità dei rapporti di produzione. Vi sarà pertanto compensazione immaginaria anche nel comunismo, solo che in questo stadio essa rifletterà l’assenza di sfruttamento – sarebbe comunque interessante comprendere il contenuto di questa rappresentazione vuota. Mi permetto qui di rinviare a un mio breve articolo, “The reproduction of control: notes on Althusser’s notion of ideological State apparatuses (ISAs) and the use of Machiavelli”, in «African Yearbook of Rhetoric», 2012, vol. 3, n. 1, pp. 79-88. In questo articolo discuto parte di questi temi cercando anche di contrastare la lettura del tema althusseriano dell’ideologia avanzata dei lacaniani di sinistra, un’interpretazione, la loro, che si preclude la possibilità anche solo di accostarsi a una soggettività politica collettiva e contro cui faccio valere la filosofia politica descritta dallo stesso Althusser nei suoi scritti raccolti sotto il titolo Machiavel et nous. Quello che tuttavia preme sottolineare qui in Althusser è come sia impossibile sfuggire, in questo processo compensativo, a qualsiasi posizione non politica e quindi non neutrale quando si tratta della rappresentazione immaginaria del singolo nei confronti della totalità delle relazioni di produzione. Tanto in Althusser non appena vi è società complessa c’è sempre rapporto compensativo- ideologico, e quindi un rapporto non neutrale tra singolo e società, allo stesso modo in Lyotard la politicizzazione del concetanamento dei nomi porta dentro di sè la repressione sempre in opera nell’isolare delle singolarità dal magma indistinto originario – senza contare che usare un particolare nome comporta delegittimare dall’attualità tutto ciò che non è stato portato alla nominazione.
[73] D, p. 42.
[74] D, p. 43.
[75] Ibidem: «E lo Straniero: “Con un interlocutore sereno e docile alla guida (euenios, da enia, il morso) il metodo che rende la cosa più agevole è quello di parlare con un altro, in caso contrario quello di fare da sé” (Soph., 217c-d). Si può dialogare per esempio con gli amici delle forme, sono più “mansueti” (domati, hemeroteroi) (ibid., 246c) dei materialisti che riducono tutto al corpo. Questi ultimi avrebbero davvero bisogno di essere “civilizzati” (nomimoteron) prima di essere ammessi a dialogare. Ma, di fatto (ergo) questo non è possibile. Si fa quindi come se (logo) lo fossero: si parla al loro posto, si reinterpretano (aphermene) le loro tesi (246d), le si rendono presentabili al dialogo».
[76] D, p. 45.
[77] Ibidem.
[78] Ibid. Per uno schizzo veloce sul significato retorico delle connessioni tra la filosofia di Lyotard e la sofistica si veda l’articolo di Eric White, “Lyotard’s Neo-Sophistic Philosophy of Phrases”, «Poetics Today», Fall 1994, vol. 15, n. 3, pp. 479-93. Un buono studio sulla presenza e sul ruolo del pensiero sofistico nella filosofia di Lyotard è la seconda parte del libro di Keith Crome, Lyotard and Greek Thought. Sophistry, Palgrave Macmillan, New York 2004, la parte del libro nella quale viene messo in risalto il profondo legame che sussiste, sin dalla fine degli anni Sessanta, tra sofistica e speculazione lyotardiana. Lo studio di Crome si sofferma in modo preciso anche sull’importanza del conflitto fra sofisti e filosofi nella creazione del concetto di dissidio ne Le différend. Sulla sofistica non più intesa secondo i presupposti platonico-aristotelici rimandiamo qui alla fondamentale opera di due filologi della filosofia antica, l’italiano Antonio Capizzi e la francese Barbara Cassin che, seppur da angolazioni diverse (il primo d’ascendenza marxista mentre la seconda segue traiettorie psicoanalitiche e femministe), avanzano un’innovativa lettura della sofistica greca che, è opinione di chi scrive, si incastrano fra loro in modo quasi perfetto. Capizzi e Cassin studiano in dettaglio le modalità pragmatiche delle politiche filosofiche antiche specialmente in Platone e Aristotele, e mostrano con estrema dovizia come la filosofia ad Atene produca se stessa attraverso la delegittimazione teorica e l’esclusione sociale della sofistica. Per cominciare si veda A. Capizzi, La repubblica cosmica. Appunti per una storia non peripatetica della nascita della filosofia in Grecia, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1982, e B. Cassin, L’effett sofistique, Gallimard Paris, 1995 (ed. it. Ead., L’effetto sofistico. Per un’altra storia della filosofia, trad. it. di C. Rognoni, Jaca Book, Milano 2002). Per una veloce messa a punto speculativa delle demarcazioni fra filosofia e sofistica all’opera nel Sofista platonico si veda il lungo articolo di J.-L. Nancy, Le ventriloque, in Aa. Vv., Mimesis des articulations, Aubier-Flammarion, Paris 1975 (ed. it. Id., Il ventriloquo. Sofista e filosofo, a cura di Fulvio F. Palese, Besa, Nardò 2003). Tra i contribuiti in ambito anglossassone sulla sofistica segnaliamo John Poulakos, Sophistical Rhetoric in Classical Greece, University of South Carolina Press, Columbia 1995; Edward Schiappa, Protagoras and Logos. A study in Greek Philosophy and Rhetoric, University of South Carolina Press, Columbia 2003; Susan C. Jarratt, Rereading the Sophists: Classical Rhetoric Refigured, Southern Illinois Press, Carbondale 1991.
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