Roberto Finelli
Il concetto di «negazione» nell’opera di Hegel appare centrale ma anche polisemico, composto di vari significati e di varie utilizzazioni. Secondo quanto afferma Hegel stesso in un passo sulla religione egizia delle Vorlesungen über die Philosophie der Religion, «il negativo [das Negative], questa astratta espressione, ha molte determinazioni»[1]. Ne consegue che provarsi a comprendere la filosofia di Hegel significa saper chiarire la diversità delle varie determinazioni del concetto e delle funzioni della negazione: così come saperle distinguere e sciogliere tra loro, soprattutto quando si dia il caso di un loro intreccio talora indebito e sovrapposto.
In queste pagine cercherò di presentare tre diversi luoghi della filosofia hegeliana – appartenenti rispettivamente al manoscritto giovanile di Der Geist des Christentums und sein Schiksal, alla Logik di Jena, alla Wissenschaft der Logik – per esemplificare usi e significati distinti della negazione in Hegel, senza rinunciare nello stesso tempo a svolgere qualche considerazione sulla Entwicklungsgeschichte del pensiero di Hegel, visto appunto alla luce delle trasformazioni e delle complicazioni di senso del significato del «negativo».
1.1. La negazione come destino
La prima figura della negazione in Hegel, che qui prendo in considerazione, è di carattere metaforico, nel senso che non viene tematizzata come un qualche atto di un negare logico-apofantico – nella forma cioè di un giudizio negativo -, bensì sotto la forma, del tutto peculiare e originale, di un rapporto tra di opposti stretto ed unificato dal nesso del destino. Siamo, come è noto, nel manoscritto giovanile Lo spirito del cristianesimo e il suo destino[2], dove Hegel per la prima volta mette a tema una fenomenologia dell’agire delle diverse facoltà dell’essere umano, che è in pari tempo una fenomenologia di forme della civilizzazione religiosa e filosofica, basata appunto su una costituzione strutturale di opposizione e di rovesciamento.
Accade infatti per lo Hegel di questo scritto che la scelta da parte di una qualsivoglia soggettività di atteggiarsi nei confronti del mondo secondo il privilegio e l’esclusività di una propria facoltà, la quale venga resa impropriamente assoluta a scapito delle altre, produca inevitabilmente una condizione antropologico-esistenziale di scissione, che struttura l’esperienza secondo il modulo dell’alternanza di opposti. Secondo cui la pretesa di un determinato di valere come irrelato e astrattamente per sé, tale da negare ogni valore all’esistenza dell’altro fuori di sé, conduce al drammatico destino che quel primo termine, la cui identità presume di costituirsi nella negazione e nel dominio dell’altro da sé, finisca paradossalmente nel capovolgersi proprio nella realtà di ciò che ha escluso, essendo costretto a cedere all’invasività e alla superiorità della sua forza.
L’esemplificazione storica più esplicita a tal riguardo, è, nell’ambito delle religioni, quella della cultura e della religiosità dell’ebraismo, che secondo un’iconografia consolidata della tradizione cristiana, anche Hegel vede come originariamente istituita su una disposizione alla scissione e allo spirito di contrapposizione. L’antropologia ebraica ha infatti come eroe eponimo e fondatore Abramo che “volle non amare, e per ciò essere libero”[3], guidato in tutta la sua vita di peregrinazione e di separazione dagli altri popoli dallo “spirito di mantenersi in rigorosa opposizione verso tutto, il pensato elevato a unità dominante sulla natura infinita e ostile”. La spiritualità ebraica è quella per Hegel di un popolo chiuso nell’orizzonte di una riproduzione solo fisica e naturalistica del proprio sé ed è perciò connotata da un’autorappresentazione dell’essere umano dominata da quella facoltà che già in altri luoghi Hegel ha cominciato a definire come intelletto, quale facoltà dell’astrazione, che separa dai vincoli e dalla socievolezza dell’amore e dell’incontro con gli altri, per concentrarsi unicamente sulla propria egotica individualità. Ed è per lo Hegel delle Jugenschriften un’umanità, quella ebraica, così versata e costretta nell’univocità di una facoltà solo intellettualistico-astraente e in un atteggiamento solo calcolante-utilitaristico-manipolativo nei confronti del mondo esterno, da procacciarsi il dominio sull’esistente proprio attraverso il concepimento di una religione intrinsecamente conforme al valore e alla tipologia di un universale astratto. E’ il concepimento del monoteismo infatti che conduce, al di là del politeismo pagano e delle sue molteplici identificazioni tra divinità e natura, all’idea di un unico Dio che, nella sua unicità di universale, è irriducibile a qualsiasi luogo, sempre particolare e determinato, della natura, tanto da costituirsi anzi come a quest’ultima del tutto superiore e fattore incondizionato di dominio. Superiorità e dominio, di cui partecipa in vero anche l’ebreo, purchè si faccia servo di quella signoria, riconoscendola, unico tra tutti i popoli, nella sua unicità, e godendo, per tale scelta elettiva, della sua protezione e dei suoi favori: “In quanto Abramo non poteva realizzare da sé la padronanza sul mondo, il solo rapporto per lui possibile con il mondo infinito e contrapposto, questo rimaneva in cessione al suo ideale; anche egli era sotto il suo dominio, ma nel suo spirito vi era l’idea; a questa egli serviva e perciò godeva del favore dell’ideale; e giacché la sua divinità aveva alla sua radice il disprezzo per tutto il mondo, così egli restava l’unico favorito”[4].
E’ una dialettica, com’è evidente, di signore e servo anticipata e assai diversa, rispetto alle pagine celebri della Fenomenologia dello spirito, e nella quale l’ebreo si fa servo del signore per affermarsi a sua volta come signore incontrastato del mondo, ma pagando questo presunto dominio esterno con l’asservimento delle altre sue facoltà, prima fra tutte quella dell’amore, al dominio incontrastato ed interiore della propria intellettualità. “[Abramo] solo per mezzo di Dio entrava in relazione immediata con il mondo, unico genere di legame a lui possibile. Il suo ideale gli assoggettava il mondo e gli offriva di esso quanto gli abbisognava, ponendolo verso il resto in uno stato di sicurezza. Solo che non poteva amare nulla. Anche il solo amore che egli ebbe, quello per suo figlio e la speranza di discendenza […] a tal punto poterono opprimerlo o turbare il suo cuore estraniatosi da tutto e ridurlo in tale stato di inquietudine, che egli volle distruggere anche quest’amore e si placò solo quando ebbe sentimento certo che questo amore non era così forte da renderlo incapace di colpire il figlio amato con la sua propria mano”.
Ma tale costituirsi del soggetto, attraverso i movimenti della scissione-opposizione, dell’autoasservimento e del dominio, che fondono l’identità patologica di un sé, e, insieme, la natura patologica dell’universale d’intelletto, non può – proprio per la sua natura di un campo costretto e coatto di forze, per il suo carattere di vita parzializzata e rimossa dall’intero della vita – permanere nella coincidenza con sé. Così il destino, il percorso di vita, del popolo ebraico è proprio quello di essere invaso dall’opposto che pretendeva tener lungi e separato da sé. Quello cioè, di vedere rovesciata, per tutta la sua storia, la sua pretesa di separatezza e di autonomia nella subalternità e nella dipendenza proprio da quell’umanità altra che deve essere esclusa dal circolo della sua identità. «Il destino del popolo ebraico è il destino di Macbeth, che si staccò dalla natura stessa, si legò ad essenze estranee, e per servirle dovette uccidere e disperdere ogni cosa sacra della natura umana, dovette alla fine essere abbandonato dai suoi propri déi (giacché questi erano oggetti, ed egli il loro servo) ed essere nella sua stessa fede stritolato»[5].
Del resto tale patologia di un umano che, per paura della vita, s’impedisce una sua possibile pienezza di relazioni e di affetti, chiudendosi in una falsa rassicurazione e in una identità astratta e povera di sé, e si consegna così al destino del cadere e del rovesciarsi nell’opposto, è quanto affetta anche il cristianesimo. Valutato e considerato qui, come già l’ebraismo con Abramo, nella figura e nell’antropologia fondativa di Gesù: ma alla luce di una modalità dell’astrarre che, anziché attraverso l’intelletto astratto, separa e scinde attraverso l’amore,
La religione dell’amore sembra infatti proporre un vettore di unificazione assai meno astratto dell’universale d’intelletto inaugurato e messo in atto dalla cultura ebraica, in quanto il sentimento appare porre in essere un legame d’unificazione tra soggetto e mondo, che supera ogni persistenza individualistica dell’io. Cristo è l’anima bella che si ritrae da ogni possesso, da ogni proprietà, da ogni uso egoistico del mondo, per fare di ogni esistente non un’entità separata ma solo un’organo e una determinazione coerente ed armoniosa di quel tutto che è l’intero della vita. Eppure, come testimonia, il destino tragico e drammatico di Gesù, è proprio tale purezza ad essere essa stessa ancora di nuovo unità astratta, in quanto, forzando e assolutizzando ciò che è solo una disposizione parziale dell’umano, lascia al mondo che non riesce a includere nel suo circolo una realtà così impenetrabilmente dura e non-amorosa, da esserne a sua volta travolta e annientata. «La libertà suprema è l’attributo negativo della bellezza, la possibilità cioè di rinunciare a tutto per conservar se stessi. Ma ‘chi vorrà salvare la sua vita, la perderà’. Ed infatti la suprema colpa può coincidere con la suprema innocenza, l’estremo e più infelice destino con l’elevazione al di sopra di ogni destino»[6]. Così se Abramo, capostipite di una religione d’intelletto, è colui che sceglie, per una sovradeterminazione del proprio Io, di non amare e di non dipendere dall’altro, Cristo, fondatore della religione dell’amore, è il prototipo di tutte le anime belle, che in un’analoga idealizzazione della purezza del proprio sentire, finiscono, invece che in un’intensità di vita, coll’escludersi e col separarsi dalla vita. «Da ogni cosa in cui venga contrastato egli se ne ritrae e abbandona all’altro solo ciò che al momento dell’assalto egli ha reso a sé estraneo […]. Per salvarsi l’uomo si uccide, per non vedere ciò che è suo in potere altrui non lo chiama più suo e così, volendo conservarsi, si annulla, poiché ciò che è in potere altrui non è più lui stesso, e nulla vi è in lui che possa essere attaccato e sacrificato. L’infelicità può divenire così grande che il suo destino, questa autoeliminazione, lo spinge verso la rinuncia della vita, tanto che egli deve ritrarsi interamente nel vuoto»[7]. Cristo infatti non ha potuto amare una moglie, non ha potuto generare dei figli, non è potuto «divenire un padre di famiglia o un concittadino che godesse con gli altri la vita in comune»[8].
Per cui anche l’amore, a ben vedere, anziché unificare, astrae e separa, ed è costretto, a motivo della sua esaltazione di purezza, dalla sua «fantasticheria che disprezza la vita»[9], ad essere invaso e dominato, appunto, da quello «smisurato campo di oggettività»[10], dal regno cioè della ricchezza, della proprietà privata, della codificazione giuridica dei beni e del potere dello Stato, che pretende di lasciar cadere fuori di sé, nel suo univoco ed estremo soggettivismo. Come accade per altro a una coppia di amanti, secondo quanto scrive Hegel nel frammento Die Liebe, che credono di superare attraverso il sentimento ogni forma di riflessione propria dell’intelletto, ogni separazione tra loro. «Unificazione vera, amore vero e proprio ha luogo solo fra viventi che sono uguali in potenza, e che quindi sono viventi l’uno per l’altro nel modo più completo, e per nessun lato l’uno è morto rispetto all’altro. L’amore esclude ogni opposizione; esso non è intelletto»[11]. Ma anche qui il «positivo», il «morto» – ossia oggetti e beni di proprietà privata che impediscono l’unificazione e l’universalizzazione di entrambi – tornano a prevalere e a non consentire il toglimento delle differenze. «Ma oltre a ciò gli amanti sono ancora legati con molti elementi morti; a ciascuno appartengono molte cose, cioè ciascuno è in relazione con opposti che anche per colui che vi si rapporta sono ancora opposti, ancora oggetti; così gli amanti sono ancora capaci di una molteplice opposizione nel loro molteplice acquisto e possesso di proprietà e diritti»[12].
La dialettica come destino introduce dunque nel manoscritto di Der Geist des Cristenthums la negazione nella forma di una rimozione-scissione messa in atto da un vivente rispetto a se stesso e alla totalità della vita di cui è parte: negazione che struttura ed organizza l’intero campo della realtà secondo la polarizzazione di estremi, cioè secondo una relazione di esclusione-opposizione. E che si esprime, nel testo hegeliano, non solo come un’opposizione orizzontale tra viventi ma anche come un’opposizione verticale e interiore tra facoltà di uno stesso essere vivente, per il quale il rifiuto dell’altro fuori di sé si accompagna sempre al dominio-repressione di una facoltà sull’altra. Come si fa evidente nella critica che Hegel muove ora al Kant pratico, vedendo nella legge morale sì l’autonomia da ogni autorità esterna ma, in pari tempo, l’asservimento a un autoritarismo interiore: «le pure leggi morali determinano i limiti dell’opposizione in un medesimo essere vivente; in tal modo una facoltà di questo essere domina su un’altra sua facoltà»[13]
Del resto nello Hegel dello scritto di Francoforte lo strutturarsi ed esaurirsi dell’intero della realtà, sia intersoggettiva che intrasoggettiva, nella trama dell’opposizione è ben lontano anche dal tema kantiano dell’«opposizione reale». Perché in Hegel i due opposti non preesistono all’opposizione stessa, in una possibile reciproca indifferenza, com’è nel caso dell’«opposizione reale» di Kant. Anzi non hanno alcun altro senso o determinazione possibile all’infuori del loro reciproco rapportarsi. Il loro nesso di opposizione circoscrive e definisce l’intera realtà, e prefigura con ciò – ma si ripete nei termini, non concettuali, ma narrativo-figurativi di un’analisi comparata delle religioni – la definizione dell’opposizione dello Hegel maturo, la cui natura, essendo l’identità di ogni opposto istituita proprio sull’alterità dell’altro che nega, è fondata su un “escludere quel che pur si contiene o sul contenere quello che si esclude”.
Ad ogni modo, s’è detto, per Hegel a tale iniziale negazione-scissione che forza l’intero della vita, producendo una soggettività patologica e supponente che presume coincidere solo con sé, segue necessariamente una catastrofe identitaria e un rovesciamento di un opposto nell’altro (cioè, nei termini della concettualizzazione futura, la negazione della negazione). Rovesciamento e invasività da parte dell’opposto, che per lo Hegel narratologico di queste pagine consente al sentimento, alla conclusione del processo, di sentire in fine l’unità e la compenetrazione degli opposti e perciò al riconoscimento, da parte della soggettività iniziale dogmatica e astratta, della totalità della vita. Come appunto accade nelle pagine hegeliane con la forma per eccellenza del destino, il «fato» della tragedia greca, dove la vita nemica ed ostile che punisce il colpevole non è mai una forza astratta e impersonale (come avverrà invece con la sanzione giuridica) ma sempre una figura concreta, umana o mitica che sia, nell’individualità della quale, chi si è voluto separare dalla vita può riconoscere la sua medesima umanità. «La punizione rappresentata come destino è di genere interamente diverso. Nel destino la punizione è una forza ostile, un individuale in cui l’universale e il particolare sono uniti anche nel senso che il dovere e la sua realizzazione non sono separati come nella legge, la quale è solo una regola, un pensato […]. In questa forza ostile l’universale inoltre non è separato dal particolare come la legge in quanto universale è opposta all’uomo e alle sue inclinazioni in quanto particolari. Il destino è solo il nemico e l’uomo gli sta ben di contro come forza che lo combatte. Al contrario la legge in quanto universale domina il particolare, tiene quest’uomo in sua ubbidienza»[14]. Attraverso il destino colui che è colpevole di separazione e di scissione avverte che la vita che ha lacerato ed offeso è la sua stessa vita e toglie perciò il negare della sua azione delittuosa, non attraverso un negare esterno, come avviene con la coercizione punitiva della legge, ma attraverso il negare interiore del rimorso: sottraendosi così da sé stesso a un’individuazione patogena e volgendosi invece a un’esistenza priva di lacerazioni e di dominio. «Dal momento in cui il colpevole avverte la distruzione della sua propria vita (patisce la punizione) o si riconosce (nella cattiva coscienza) come distrutto, incomincia l’effetto del suo destino, e questo sentimento di una vita distrutta deve divenire nostalgia per quel che è stato perduto. Ciò che manca il colpevole lo riconosce come parte di sé, come ciò che doveva essere in lui e non lo è […]. Nel destino l’uomo riconosce […] la sua propria vita, e la supplica che egli rivolge non è la supplica rivolta a un padrone ma un ritorno e un avvicinamento a se stesso […]. Questo sentimento della vita che ritrova se stessa è l’amore, ed in esso si riconcilia il destino»[15].
1.2 . Vereinigungsphilosophie e aporie dell’amore
Soprattutto dopo il grande lavoro filologico ed esegetico fatto dalla Hegelforschung di lingua tedesca nell’ultimo mezzo secolo[16], è ben noto come tale prima formulazione hegeliana della dialettica come destino debba la sua origine al fecondissimo incontro del giovane Hegel, di ritorno da Berna, con la Vereinigungsphilosophie di Hölderlin. Questi movendo dalla tesi fondamentale di Fichte che la coscienza si comprende, non kantianamente come sintesi del molteplice, ma solo a muovere dall’opposizione, rielabora la Wissenschaftslehre fichtiana attraverso una tradizione di pensiero che vede come suoi rappresentanti Shaftesbury, Hemsterhuis, Herder, Schiller, per giungere ad una concezione dell’unitarietà dell’Essere, dell’Essere come Uno, il quale proprio e solo attraverso la scissione e l’opposizione riesce ad esibire e a dar prova della sua unità[17]. L’ontologia dell’unificazione di Hölderlin, che coincide con l’ideale di un’armonizzazione estetica, rifiuta ogni possibile configurarsi della realtà secondo asimmetrie e polarità dominanti e critica perciò l’asimmetria dell’Io fichtiano, che vede il prevalere del soggetto sull’oggetto, dell’Io sul mondo. Soggetto e oggetto, teoretico e pratico, io e mondo possono essere compresi solo a muovere da un principio ulteriore che li comprende entrambi, l’Uno originario, l’Essere supremo, il quale non è sostanza immota ma divenire e potenza di unificazione in atto, che opera attraverso le scissioni, volgendo l’opposizione e la discordanza verso l’unità.
Ma la differenza teorica di fondo tra Hölderlin e Hegel all’interno della comune Vereinigungsphilosophie è che il primo volge molto più l’attenzione verso l’alternanza nella vita e nella storia tra il tempo della scissione/povertà e quello della pienezza/bellezza: alternanza che si traduce in un sentimento e in una poesia drammaticamente nostalgica dell’Essere originario. Laddove ciò che preme essenzialmente ad Hegel è indagare e mostrare come gli opposti, a partire dalla loro relazione stessa di opposizione, e non da un’unità presupposta, producano la loro unificazione. Ossia, l’interesse di Hegel è concentrato sul tema della vera infinità, in quanto infinito del tutto immanente, che non definisce un essere/ente, per quanto supremo, o un suo attributo, bensì che definisce una prassi o funzione: quale modo e processo attraverso il quale un finito si rapporta alla sua negazione, sottraendosi a un sua iniziale e dogmatica identità. Come scrive lucidamente a tal proposito D. Henrich: ““ E questo è ora il pensiero peculiare di Hegel: che i termini in relazione [Relata] nell’opposizione [Entgegensetzung] devono certamente essere compresi a partire da un intero, tuttavia che questo intero non li precede come essere [Sein] o intuizione intellettuale, ma è soltanto il concetto sviluppato della relazione stessa […] La stessa struttura si ritrova nel pensiero della vera infinità: questa è unicamente il modo della relazione del finito al suo termine negativo, la vuota infinità, e dunque non è, come voleva Hölderlin, origine comune e meta di due tendenze”[18].
E’ parimenti noto come per altro Hegel non giunga impari all’incontro con Hölderlin. Come anzi l’originalità del suo percorso etico-politico precedente stia in una problematizzazione peculiare del kantismo, che pone la questione di come generalizzare ai più l’illuminismo dei pochi, di come universalizzare cioè e rendere accessibile alla sensibilità e al sapere comuni l’elevatezza e le difficoltà dell’astrazione concettuale della Critica della ragion pratica di Kant. Come superare la scissione tra la verità, minoritaria, dei filosofi e l’opinione dei più, è infatti il problema originario e fondativo da cui sgorga la tematica dominante dei primi manoscritti hegeliani, avanzando un tema quale quello di una religione civile-popolare (Volksreligion) che possa valere come strumento cardine di tale conciliazione e, criticamente, quello dell’autoritarismo intrinseco della religione cristiana («positività» in termini hegeliani) e della sua conseguente inadeguatezza a risolvere tale problema della modernità.
Per dire cioè che l’interesse dominante di Hegel, fin dalle prime configurazioni originali del suo pensare, è stato quello di concepire, non tanto come dall’uno si generasse il due, quanto viceversa come dal due si generasse l’uno: intendere cioè come riunificazione e conciliazione si possano dare a muovere da una condizione di separatezza e di scissione. E non secondo il modo di un’unificazione che implichi per qualche verso l’uso della forza e della costrizione, secondo la tipologia di una polarità dominante che dall’esterno piega la resistenza della polarità opposta, rendendola a sé coerente attraverso un nesso di subalternità. Giacché è proprio tale modalità di un’unificazione attraverso dominio che spinge il giovane Hegel ad abbandonare il paradigma kantiano della sua prima identità filosofica e a volgersi al paradigma hoelderliniano di una unità che viva della compresenza e della pari dignità degli opposti. Infatti la preminenza come estremizzazione asimmetrica del razionale che Hegel, dopo Berna, sottolinea nell’imperativo categorico kantiano di contro all’inclinazione sensibile («nella concezione kantiana della virtù rimane questa opposizione e il primo termine diviene dominante, l’altro dominato»[19]) – la permanenza cioè del kantismo in un orizzonte del dominio – impedisce ormai quell’uso etico-politico del kantismo pratico, nella cui generalizzazione in comportamento dei più il giovane Hegel aveva ritenuto di trovare la soluzione al problema aperto strutturalmente, a suo avviso, dalla Rivoluzione francese e dal Terrore che n’era seguito: quale appunto quello di emanciparsi dall’autoritarismo, dalla «positività» in tutte le sue forme possibili, dell’Ancien Regime, ma senza mettere in campo una pratica rivoluzionaria che riproponesse a sua volta positività e terrore !
Eppure neanche il paradigma schilleriano-hölderliniano della Vereinungsphilosophie come unificazione nell’armonico e nel bello in quanto toglimento di ogni possibile asimmetria tra gli opposti e dunque senza nessuna estremizzazione e privilegiamento di polarità, mette effettivamente in campo la produzione dell’uno a partire dal due. Perché o lamenta tragicamente il dolore del due o canta la pienezza dell’uno nell’immanenza organica di tutte le cose. E si affida inoltre fondamentalmente a quell’amore che non solo per Hegel lascia comunque fuori di sé un enorme campo di oggettività ma che, anche quando viene privilegiato come vettore di sintesi di contro alle unificazioni forzate dell’universale concettuale dell’astrazione kantiana o dell’universale giuridico della legge, come accade in alcuni frammenti hegeliani del 1797 connessi al manoscritto di Der Geist des Christenthum, è valorizzato come fattore di unità non a partire da un uno presupposto ma nel suo essere unificazione in atto.
Anche qui, di nuovo, valgano le osservazioni acute di D. Henrich, a proposito dell’«abbreviazione»[Verkürzung] che Hegel compirebbe della Vereinigungsphilosophie di Hölderlin, rinunciando appunto alla tematizzazione nostalgica di un’unità primigenia: «Per Hölderlin ‘amore’ significava unificazione di direzioni del tendere, di cui una si dirigeva verso l’infinito, l’altra verso la passione e la dedizione [al finito]. Comprendeva l’una a muovere dalla relazione con l’origine, l’altra dalla relazione con ciò che, al pari di noi, ha perduto l’unitarietà dell’Essere. Nel concetto di amore di Hegel non v’è da trovare alcunché di tale duplicazione di senso. ‘Amore’ è concepito null’altro che come unificazione di soggetto ed oggetto. In questa autosufficienza esso ha formalmente ripreso una caratteristica della kantiana autonomia del volere: non mette in gioco nulla che sia ad esso presupposto e non sollecita a produrre qualcosa che si lasci ancora distinguere dalla forza di unificazione. Né si lascia pensare come ‘Tutto in tutto’. Ciò che pur presuppone è che vi sia una molteplicità del separato, in riferimento alla quale esso possa farsi reale. […] In modo assai astratto si può dire così: col tempo Hegel dovette intendere tutte le strutture, che Hölderlin concepiva a muovere dall’essere originario, come modi dell’essere rapportato dei termini che si unificano. L’accadere stesso dell’unificazione, non un fondamento dal quale esso dovrebbe essere derivato, è il vero assoluto, il ‘Tutto in tutto’»[20].
Presupporre l’Essere implica concepire l’unificazione come un qualcosa di dato, di anticipato a sé stessa. E questo ne fa l’oggetto, non contraddittorio, di una rappresentazione, di un pensato, della religione positiva, la quale ha fede e pensa per autorità. «La fede è il modo in cui ciò che è unificato, ciò in cui un’antinomia è unificata, è presente nella nostra rappresentazione. L’unificazione è l’attività che, riflessa come oggetto, è il creduto»[21]. Laddove per Hegel «unificazione ed essere sono sinonimi»[22], nel senso che l’assoluto che attribuisce l’essere come esistenza è appunto l’atto stesso attraverso cui un opposto si mostra, incapace di coincidere e di permanere con sé, e di assegnarsi e di garantirsi l’esistenza: «l’unificazione è il criterio secondo cui avviene il confronto e nel quale gli opposti appaiono, come tali, come insoddisfatti»[23].
Perciò l’unificazione hegeliana, come abbiamo visto già nella dialettica come destino, si dà, non attraverso una negazione e una forza di sintesi esteriore, che rimanda a un assoluto presupposto, bensì solo attraverso il togliersi di ciascun opposto, che è costretto per forza interiore a disconoscersi come assoluto irrelato e a riconoscersi e ad assolutizzarsi in quanto intrinsecamente connesso all’altro da sé. «Se ora vien mostrato che gli opposti limitati non potrebbero sussistere come tali, che dovrebbero togliersi, che dunque per essere possibili presuppongono un’unificazione (già per poter mostrare che sono opposti è presupposta l’unificazione), viene così dimostrato che essi devono essere uniti, che deve esserci l’unificazione»[24]. Ciò che presuppongono gli opposti non è un Uno che li preceda, ma la forza unificante d’implicazione reciproca che è già presente nel loro essere opposti, nel loro escludersi: dato che appunto ogni escludersi è un implicarsi («quel che è contraddittorio può essere riconosciuto come tale solo per il fatto che è già stato unificato»[25]).
Ma l’autoconfutazione del finito attraverso destino – attraverso cioè rovesciamento nell’opposto e riconoscimento dell’unità degli opposti – per lo Hegel degli Scritti giovanili è solo una prima tappa del concepimento della dialettica. E’ una tappa emblematica, che già ha colto la configurazione e la destinazione di fondo – intrinsecamente antiautoritaria e non-violenta – della dialettica, ma che pure, nella sua esemplificazione e collocazione solo drammatico-letteraria, mostra un campo d’applicabilità assai limitato rispetto all’intero arco dell’esperienza umana. Il suo pregio – operare la conciliazione degli opposti non attraverso l’universale astratto di una legge ma attraverso la concretezza di un destino personificato sempre in una singolarità – è contemporaneamente il suo limite. Giacché la conciliazione catartica attraverso un auto/riconoscimento emozionale sembra esser possibile solo in un contesto storico-antropologico concreto come quello antico, non ancora attraversato e strutturato dalla presenza dell’astratto e dell’impersonale, come si dà nel moderno.
Anche perché l’unificazione degli opposti messa in scena dal destino si compie, come s’è visto, attraverso quel sentimento dell’amore, che è rapporto e conciliazione possibile unicamente tra singolarità e singolarità. E, torno a dire, l’amore negli Scritti giovanili di Hegel, per quanto molti interpreti l’abbiano voluto vedere come prefigurazione, nel modo irriflesso del sentimento, del futuro concetto speculativo, ha un ambito di senso e una valorizzazione ontologica che non è quella che gli attribuisce Hölderlin[26]. Certo è indubbio che nel frammento su Liebe und Religion Hegel possa scrivere: «L’amato non è opposto a noi, è uno con la nostra essenza; in lui vediamo solo noi stessi, e tuttavia non è noi stessi stessi: miracolo che non siamo in grado di capire»[27]. Nel senso che l’amore è per Hegel il sentimento dell’unità e della conciliazione con l’altro, senza che venga meno il sentimento e la coscienza del sé. E’ il sentire, da parte di sé e di un differente altro da sé, che la loro differenza si toglie nell’unità della loro dedizione reciproca e assoluta. «Nell’amore rimane ancora il separato, ma non più come separato bensì come unito; ed il vivente sente il vivente»[28]. Come è indubbio che a proposito dell’amore romantico Hegel continuerà ad affermare nelle più tarde Lezioni di Estetica che l’amore è appunto proprio il sentimento della compresenza dell’identità e della differenza, di tale unificarsi del sé con l’altro da sé. «Questo perdersi della propria coscienza nell’altro, questa parvenza di abnegazione e di disinteresse con cui soltanto il soggetto ritrova se stesso e diviene un Sé, questa dimenticanza di sé, di modo che l’amante non esiste per sé, non si cura, né vive per sé, ma trova in un altro le radici della propria esistenza e pur tuttavia in quest’altro gode interamente se stesso, costituisce l’infinità dell’amore»[29]. Per cui l’amore anche allo Hegel della maturità continuerà ad apparire come un sentire in cui il soggetto singolo sente e possiede intensamente se stesso solo attraverso la rinuncia a sé e la dedizione all’altro da sé . “La vera essenza dell’amore consiste nel rinunciare alla coscienza di sé, nell’obliarsi in un altro sé, ma tuttavia nell’avere e possedere se stesso soltanto in questo perire e dimenticarsi”[30].
Ma l’amore per lo Hegel di Francoforte – va ben ricordato, diversamente da una larga schiera d’interpreti che a cominciare da Dilthey hanno voluto vedere un giovane Hegel romantico e mistico[31] – ha una valenza d’universalizzazione intrinsecamente limitata. E’ ulteriore alla legge morale di Kant, ma non è in grado di unificare fino in fondo le opposizioni. «La moralità toglie la signoria nelle sfere di ciò che è giunto a coscienza; l’amore toglie i confini della sfera della moralità. Ma l’amore stesso è ancora natura incompleta: nei momenti di amore felice non vi è nessun posto per l’oggettività, ma ogni riflessione elimina l’amore, ristabilisce l’oggettività e con questa ricomincia l’ambito delle limitazioni»[32].
L’amore perciò non sembra risolvere i problemi di un’unificazione immanente ed esaustiva degli opposti che la tematica del «destino» ha sollevato. Si palesa coincidere ancora con uno solo dei termini dell’opposizione e non con la totalità delle relazioni che istituiscono l’ambito oppositivo. Lo svolgimento del pensiero hegeliano dovrà, dunque, continuare e concepire altri fattori d’unificazione e di toglimento degli opposti.
2. La negazione come negazione autonoma
Nella Logica e metafisica di Jena, in cui la struttura della dialettica presenta già una forma di elaborazione definitiva[33], l’esigenza della Vereinigungsphilosophie si realizza attraverso l’uso esplicito, ormai, da parte di Hegel, della categoria della «negazione», nel peculiare senso logico-ontologico che Hegel, vedremo subito, le attribuisce. Il negare qui infatti nel suo significato più originalmente hegeliano non rimanda all’escludere bensì al legare e al rapportare, in una torsione radicale di significato nell’orizzonte del quale la funzione e l‘operazione più propria della negazione coincidono con la infinitizzazione del finito.
L’equivalere del negare con il totalizzare, con l’infinitizzare sollecita, per altro, a mio avviso, a sottrarre l’intero impianto hegeliano a una possibile fondazione logico-discorsiva, valendo come critica generale di ogni interpretazione della dialettica e della filosofia di Hegel che usi paradigmi essenzialmente ermeneutico-comunicativi e che muova dal presunto primato del linguaggio. Il significato tradizionale della negazione quale espressione linguistica del giudizio negativo di logica formale, per cui da un determinato soggetto vengono escluse determinati predicati o proprietà, che Hegel trovava codificato ad es. nella tradizione di logica formale della scuola wolffiana, viene infatti fortemente intrecciato e interpolato nei primi anni jenesi con la valenza dinamico-energetica che il concetto di esclusione aveva, s’è visto, acquisito negli scritti di Francoforte, secondo cui l’esclusione dell’altro era l’altra faccia della medaglia dell’esclusione autoriflessiva del sé. Così la trasformazione della negazione da espressione linguistica del giudizio di esclusione tra soggetto e predicato – la απόφασις definita da Aristotele come «enunciato che divide qualcosa da qualcosa»[34] – in vero e proprio principio ontologico nella filosofia di Hegel viene a darsi verosimilmente in base alla radicalizzazione francofortese, nel verso di una dinamica interiore e psichica, del concetto di esclusione. L’assolutizzazione della funzione linguistica del giudizio negativo si accompagnerà e s’intreccierà, d’ora in poi nella logica ontologica di Hegel, con l’assolutizzazione di un’escludere che, introvertito su se medesimo, è, prima che esclusione dell’altro, “autoesclusione”: in una dinamica e in una caratterizzazione ontologica di forze che non è riducibile, appunto, alla funzione linguistica di logica predicativa.
Ora concettualizzare come si dia nella Logica di Jena il processo di unificazione degli opposti – la vera infinità quale accadere in atto dell’unificazione – significa per Hegel, com’è noto, esporre le filosofie e le logiche della cattiva infinitizzazione, in modo tale da condurle intrinsecamente ad autocritica e a toglimento. E in tale ambito, una cattiva interpretazione del processo d’infinitizzazione è quanto Hegel ritrova nella teorizzazione fichtiana dell’opposizione tra «Io» e «non-Io» e del suo preteso superamento attraverso il concetto di «limite»: «[…] la cosiddetta costruzione dell’idea da attività opposte, quella ideale e quella reale, ha prodotto semplicemente solo il limite. […] Perciò la costruzione da attività opposte, che si chiama idealismo,è essa stessa nient’altro che la logica dell’intelletto, in quanto i gradi della costruzione sorgono all’interno di questo principio»[35]. Per Hegel il limite fichtiano mostra come l’infinito opera solo dall’esterno sul finito e mette perciò in scena un’unità degli opposti, a ben vedere paradossale, perché l’unità, l’infinito, che dovrebbe essere l’intero, e dunque entrambi gli opposti, è in effetti, solo uno degli opposti. «L’uno degli opposti è necessariamente l’unità stessa».[36] Tale condizione paradossale, per la quale l’infinito è l’unità degli opposti e in pari tempo solo uno degli opposti della medesima unità (cioè è il tutto e, contemporaneamente, solo una parte) fa sì che l’infinito fichtiano s’istituisca, attraverso il limite, come un dover-essere e come una forzatura esteriore: come un infinito reso finito ed entificato dal limite e come tale da porre l’unificazione solo come esigenza e mai come realtà. «[…] l’attività ideale, l’unità, che come inizio è affatto indeterminata ed è nell’ambiguità di essere vera unità o unità come qualità, è soltanto quest’ultima, perché l’assoluto divenire-uno rimane solo un dover-essere, cioè rimane un al di là di contro all’unità del limite ed entrambi cadono l’uno fuori dell’altro»[37].
L’idealismo di Fiche, identificando il limite col concetto dell’unità, rimane in una logica del finito, in una Verstandeslogik, che non attinge mai l’immanenza di quella che per Hegel deve caratterizzare una logica dell’infinità. E a distinguere logica del finito dalla nuova logica dell’infinito che Hegel sta concependo, al di là della logica trascendentale di Kant e di Fichte, deve valere il nuovo criterio che egli pone per accertare se in una logica della sintesi e dell’unificazione si dia vera o falsa unità. «Il giudicare se l’unità <sia> solo limite oppure assoluta unità risulta immediatamente da ciò: se i posti in essa come uno, non importa se al di fuori o dopo l’unità, siano ancora per se stanti»[38]. Vale a dire se gli opposti abbiano un qualche senso autonomo, al di fuori e indipendentemente dalla loro relazione, oppure se essi trovino ed esauriscano integralmente il loro senso proprio nell’unità del loro nesso di opposizione.
Nella logica intellettualistica di Fichte gli opposti pre-esistono al limite, tanto che in esso non fanno che trovare la conferma della loro reciproca estraneità. Significando ciò, che tra Io e non-Io il limite giunge a costituirsi, non come unità, bensì solo come un terzo, la cui alterità ed estrinsecità ad entrambi, lascia cadere gli opposti l’uno fuori dell’altro. Cosicché il concetto idealistico-fichtiano di limite, come discrimine che tiene separati due opposti, dà luogo a una logica della cattiva infinità, in cui i due opposti rimangono non unificati. O al contrario, se nel limite gli opposti vengono unificati, cessano in esso completamente di esistere. Motivo per il quale il nulla del loro essere-uno si colloca del tutto al di fuori del loro essere. «Nel limite è posto il nulla della realtà e della negazione e l’essere loro al di fuori di questo nulla; in questo modo la qualità è realizzata essa stessa in esso <limite>; poiché il limite esprime il concetto di qualità come l’essere per sé delle determinatezze in modo tale che le due determinatezze sono poste in esso ognuna per sé, indifferente l’una di contro all’altra[39]
La nuova Logica e metafisica di Hegel abbandona invece questa concezione spaziale e finita del limite, ancora incentrata sulla coppia dentro-fuori, e propone una infinitizzazione-universalizzazione del limite – o di autonomizzazione della negazione -, che, attraverso un processo autoriflessivo, conduce il limite a farsi appunto «la totalità o vera realtà»[40]. In questa prospettiva la negazione messa in atto dal limite è vista, anziché nella funzione del separare e dell’irrelativo sussistere di determinatezze, quale funzione del connettere e del legare. Per cui propriamente la negazione non è ciò che esclude ma ciò che rapporta e lega. «Questo sussistere indifferente del nulla e dell’essere delle qualità non esaurisce però l’e del limite; ossia il limite non è soltanto quest’unico lato della realtà [Realität] dell’essere per sé delle qualità contenute in esso; esso sorge dalla negazione e questa consiste soltanto nell’essere fuori di lei della realtà, ma insieme nel rapporto ad essa […]. Il rapporto del nulla delle qualità al loro sussistere è tuttavia tale da escludere quest’essere; cioè non un indifferente sussistere d’entrambi, ma una negazione che si rapporta a se stessa e che in questo rapporto a se stessa, o in questo rapporto positivo, non toglie l’essere come tale, ma lo toglie soltanto in rapporto a se stessa, cioè <è> un rapporto negativo»[41].
Il limite si fa dinamico[42] e si autonomizza e in tale suo autonomizzarsi appare la categoria centrale della nuova Logica e metafisica hegeliana: la negazione della negazione, «una negazione che si rapporta a se stessa […] un rapporto negativo»[43]. Cioè un negare, che nell’infinità e nell’autonomia del rapportare, prima o piuttosto che un negare l’altro da sé – ciò che è fuori di sé – nega se stesso, sottraendo a sé medesimo qualsiasi fissità e permanenza strutturale che lo consegni a una qualche identità strutturale con sé e di conseguenza all’esclusione di altro. Ossia, per dir meglio, una negazione, in cui il connettere prevale sull’escludere attraverso una paradossale radicalizzazione dell’escludere, il quale escludendo se stesso, e ogni sua possibile codificazione permanente, priva di fondamento la pensabilità medesima del «limite».
Così il nulla del limite fichtiano si radicalizza nell’infinità di un nullificare che ha la proprietà peculiare del riferimento a sé, cioè di una negatività autoriflessa, la quale, anziché avere l’altro fuori di sé, lo ha dentro di sé, giacché, proprio nel suo rapportarsi a sé medesima, esclude ogni traccia di alterità dentro di sé[44]. «Il limite è solo vera qualità in quanto è rapporto a se stesso e lo è solo come negazione, che nega l’altro solo in rapporto a se stesso»[45]. Il limite come negazione autoriflessa è la capacità della negazione di dissolvere il limite, ovvero di negare se stessa e, in tale dissoluzione del limite, di valere come forza che unifica e infinitizza.
Tale autonomizzarsi della negazione in quanto doppia negazione dà prova del resto del suo costituirsi a metacategoria fondamentale del processo ontologico-logico, dando subito inizio alla serie dialettica delle categorie e fondando il passaggio dalla sezione «Rapporto semplice» alla sezione «Quantità». La quantità è infatti per Hegel esplicitamente e immediatamente il negativo che assume se stesso a termine del suo negare: «la quantità secondo il suo concetto è immediatamente un riferimento negante a sé»[46]. L’uno numerico, la prima categoria della quantità, è il precipitato, il posto dalla dinamicizzazione del limite. Giacché l’assolutizzazione del limite in quanto negatività autoriflessa, è il superamento della qualità, in quanto sussistere di determinazioni eterogenee reciprocamente indifferenti. Dal superamento del molteplice qualitativo nasce così l’uno numerico, quale assoluto riferimento a sé e quale esclusione dei molti. L’uno numerico esclude da sé «il sussistere delle qualità come differenti, l’esser molto. Questa semplice unità che si rapporta puramente a se stessa, che esclude da sé tutto il molto, lo nega da sé, è l’uno numerico»[47].
Il passaggio dalla Qualità alla Quantità attraverso la concettualizzazione del limite quale intensificazione e radicalizzazione del rapportare fa comprendere per altro come la struttura logica della «riflessione» si sia venuta complicando e differenziando nello Hegel jenese nel passaggio dalla Differenzschrift del 1801 al Systementwurf II del 1804. Essa infatti ora non è più solo ciò che pone in atto la separazione e la fissazione degli opposti, non è più solo la riflessione estrinseca che si contrappone alla speculazione razionale [Spekulation], ma è anche riflessione intrinseca, come riflessività immanente alle determinazioni logiche e all’agire del concetto stesso[48]. E tale complicazione di senso, nel verso di un modo di concettualizzare che non rimane all’esterno dei suoi contenuti di pensiero ma è ad essi intrinseco, corrisponde all’affrancamento della filosofia dall’orizzonte angusto dell’autocoscienza soggettiva e al suo proporsi invece come struttura onto-logica del reale medesimo. Il passaggio dalla riflessione esterna a quella intrinseca – ossia la struttura logica della negatività immanente come negazione della negazione – è infatti la liberazione del pensare dall’atto mentale del singolo, filosofo o meno che sia, che presume di riflettere ancora dall’esterno sulla realtà. E’, in tale liberazione dal soggettivo, si compie il passaggio dalla autocoscienza al logos, ossia dal pensiero del singolo all’autoconsapersi della realtà medesima.
Così l’intero svolgimento della Logica di Jena si può comprendere a seconda del diverso grado di co-presenza e di co-funzionamento delle due funzioni e dei due modelli della riflessione: quello coscienzialistico e quello ontologico. A una insufficienza di riflessione immanente corrisponde sempre un eccesso di riflessione estrinseca, ossia una cattiva infinità, in cui l’insufficiente confronto con il proprio intrinseco alterarsi conduce ad una identità necessariamente astratta e destinata al superamento. Quale ad es. quella dell’uno, che viene definito come numerico proprio perché ha escluso radicalmente da sé il mondo variopinto e differenziato della qualità, ha escluso da sé l’altro, «ed è posto assolutamente senza difetto, e come qualcosa d’indistruttibile»[49]. Ossia, a ben vedere, ad una figura dell’identità che, per un deficit di riflessività, torna ad essere immediata, avendo espulso la differenza e la mediazione nel mondo dei molti uno che lascia fuori di sé. E dove, appunto, la differenza può essere esperita solo come esteriore, nel verso della variazione numerico-quantitativa o di grado.
3. Il Nulla
Ovviamente anche la Wissenschaft del Logik, né potrebbe essere diversamente, utilizza e concettualizza significati diversi di negazione. Ma che la negazione possa essere «il veracemente reale e l’essere-in-sé [das wahrhaft Reale und Ansichsein]», «il fondamento astratto di tutte le idee filosofiche», «di cui si può dire che solo essa ha cominciato ad afferrare il tempo moderno nella sua verità»[50] – nel senso specifico di cui s’è appena discusso, quale doppia negazione o negazione della negazione – viene argomentato da Hegel in senso fondativo specificamente all’inizio della Scienza della logica.
La discussione sul Nulla assoluto della prima triade è infatti il luogo teoretico per eccellenza dove Hegel si prova a fondare la negazione, non come relazione all’altro, ossia come negazione dell’altro, bensì come negazione absoluta, ossia come relazione a se stessa. Ma proprio perché luogo fondativo per eccellenza, questo del «Nichts» del primo capitolo del primo libro della Logica di Norimberga, in grado, qualora la sua argomentazione dimostrativa si esponesse a un alto grado di aporeticità, di inficiare l’intero processo di svolgimento categoriale della Wissenschaft der Logik, visto che la triade di Sein-Nichts-Werden costituisce la messa in moto, senza l’accensione della quale la dialettica dell’intera opera non ha possibilità di decorso. E che appunto in tale triade la funzione autonoma e peculiare della negazione assoluta è centrale, giacchè la possibilità del Non-essere di esistere e consistere in un’autonomia ontologica di fronte all’Essere è la condizione affinché si diano quei passaggi, rispettivamente della vita (dal Non-essere all’Essere) e della morte (dall’Essere al Non-essere), di cui propriamente si compone il Divenire.
L’anacoluto con cui comincia la Scienza della logica, «Essere, puro essere, – senza nessun’altra determinazione»[51] è reso necessario dall’assenza di ogni riferimento al determinato che connota l’Essere. Anche l’eventuale articolo infatti, das Sein, introdurrebbe un carattere di determinatezza in questo luogo aurorale dell’esposizione categoriale in cui deve essere assente ogni possibile riferimento al mondo del determinato. L’Essere è «indeterminata immediatezza», assoluta coincidenza con sé, senza alcun riferimento al determinato, alla differenza, all’alterità. Una «unbestimmte [c.m.] Unmittelbarkeit» esclude da sè qualsiasi dimensione di riflessività, perfino la consapevolezza della propria indeterminatezza, giacché l’affermazione, l’attribuzione all’Essere della Bestimmung, della determinazione, della Unmittelbarkeit, contro la Vermittlung, contro la mediazione, ne farebbe già un concetto della riflessione. Come dice Hegel nella sezione «Con che si deve incominciare la scienza?», il «puro Essere» coincide con «il puro sapere», risultato della Fenomenologia dello spirito, dove è stata superata qualsiasi differenza tra soggetto ed oggetto. Ed appunto questa assoluta assenza della differenza è l’Essere, «non dissimile di fronte ad altro; non ha alcuna diversità né dentro di sé, né all’esterno. Con qualche determinazione o contenuto, che fosse diverso in lui, o per cui esso fosse posto come diverso da un altro, l’Essere non sarebbe fissato nella sua purezza. Esso è la pura indeterminatezza e il puro vuoto[52]».
Ma proprio per tale assenza di ogni determinatezza l’Essere, a ben vedere, è del tutto contraddittorio con se stesso: giacché, non riuscendo a permanere in una qualche cornice e definizione che lo identifichi, scivola a se medesimo, si sottrae a se stesso, passando in altro. Anzi, poiché questo divenir altro non è da lui gestito intenzionalmente e consapevolmente bensì gli è imposto a motivo della sua strutturale impotenza a padroneggiare il proprio sé, più che passare si trova ad esser passato nel Non-essere, nel Nulla. «Nell’Essere non v’è nulla da intuire, se qui si può parlar d’intuire, ovvero esso è questo puro, vuoto intuire stesso. Così non vi è nemmeno qualcosa da pensare. L’Essere, l’indeterminato Immediato, nel fatto è Nulla, né più né meno che Nulla»[53]. L’Essere è così la categoria ontologicamente più povera, meno fondativa quanto a presenza a sé, della Wissenschaft der Logik di Hegel, tanto che tutte le figure onto/logiche successive del Libro primo, in quanto categorie che si svolgono in un orizzonte ancora prevalentemente caratterizzate dall’Essere, dovranno subire lo scacco di un divenire consistente in un trovarsi a saltare, senza mediazioni, nel proprio opposto, a «scomparire» [Verschwinden], come dice Hegel, nel proprio opposto[54]. E proprio questo divenire che si dà attraverso il precipitare nell’opposto – attraverso una messa in scacco della propria precedente determinazione – è la testimonianza più chiara che il passaggio dall’Essere al Nulla è un movimento immanente, in cui non interviene dall’esterno alcuna riflessione soggettiva, alcuna äußere Reflexion. E’ inscritto nella natura intrinsecamente dialettica dell’Essere il suo passaggio obbligato nel Nulla.
Solo che il divenire, il «Werden», della prima triade è composto com’è noto, in quanto insieme del nascere e del perire, di un duplice scomparire, dell’Essere nel Nulla e del Nulla nell’Essere. In particolare questa seconda sezione del movimento del divenire (dal Nulla all’Essere) impone che il Nulla debba e possa consistere in sé, anche se solo per un momento, di fronte all’Essere. Si possa e si debba cioè, anche se per un attimo, differenziarsi e mantenersi in uno spessore d’esistenza autonoma, e distinta dall’Essere, affinché appunto ci possa essere passaggio dal Nulla all’Essere.
Ma è proprio in questo passaggio decisivo che appare aprirsi un’aporia insormontabile nella Darstellung hegeliana. Infatti per giustificare la distinzione e l’eterogeneità del Nulla di fronte all’Essere, per assegnare un possibile contenuto d’esistenza e un significato autonomo all’espressione «Nulla», Hegel fa intervenire la categoria dell’«etwas», del qualcosa. «Per quanto si può qui parlare di un intuire o di un pensare, si considera come differente, che s’intuisca o si pensi qualcosa [etwas] oppur nulla [nichts]».
Ma così la distinzione, anziché essere posta tra Nulla ed Essere, è posta tra Nulla e qualcosa. Vale a dire che Hegel qui introduce una categoria che non è stata ancora dedotta dallo sviluppo immanente della dialettica e che appartiene infatti all’ambito categoriale successivo del capitolo secondo del Libro dell’Essere, quello dell’«essere determinato» o Dasein. Hegel cita solo il «qualcosa», senza averlo sistematicamente dedotto[55], e fa dunque intervenire un eterogeneo al contesto ontologico in questione, cadendo in una riflessione esteriore. Tanto più che nella prima delle quattro Anmerkungen che seguono l’esposizione della prima triade si mostra di nuovo all’altezza della sua concettualizzazione più rigorosa, scrivendo: «Nulla si suol contrapporre al Qualcosa. Ma qualcosa è già un ente determinato, che si distingue da un altro qualcosa, e così anche il nulla contrapposto al qualcosa è il nulla di un certo qualcosa, un nulla determinato»[56].
Ciò che fa difetto all’avvio del movimento dialettico è quindi proprio la fondazione-deduzione della negazione assunta come Nulla assoluto, come «Nulla preso puramente per sé». Non come negazione dell’altro da se, bensì come beziehunglose Verneigung, negazione irrelativa, che si potrebbe esprimere, come dice Hegel, anche attraverso la semplice assolutezza del «Non». Ossia ciò che è principio d’aporia nel processo iniziale della Scienza della logica è la possibilità ontologica proprio di quella negazione che, nella sua assoluta irrelatività, dovrebbe essere principio fondativo di quella negazione della negazione, o negazione a sé riferita, quale annichilimento di ogni possibile traccia di Essere o di permanenza in un’identità strutturata, nella quale consiste la chiave di volta della dialettica hegeliana. L’intero movimento categoriale della Wissenschaft der Logik dovrebbe tendere a ricomporre e a richiudere, attraverso una mediazione sempre più riavvicinata e intrinseca, la spaccatura radicale, l’eterogeneità assoluta che dall’inizio si apre tra Essere e Nulla e il loro rispettivo saltare e scomparire m’uno nell’altro. Ma il non accendersi a realtà del Nulla, differenziato e autonomo rispetto all’Essere, appare impedire l’innescarsi e l’avviarsi dell’intero processo.
Sembra, insomma, di poter dire che l’intreccio e la sovrapposizione di senso tra la negazione come assolutizzazione dell’espressione linguistica del giudizio apofantico e la negazione come esclusione e scarto rispetto al proprio sé, almeno in questo esempio e passaggio cruciale della Logica, non diano buoni frutti. Ma appunto, secondo quanto ricordavo all’inizio di questo scritto, l’indicazione che ne deve trarre il lettore e l’interprete paziente è quella d’impegnarsi a individuare, di volta in volta, e non solo nella Logica, i diversi significati e usi della funzione della negazione, nella cui multiversa complessità giace il secretum della filosofia hegeliana.
Il tema del mio intervento è una riflessione sul concetto di negazione di Hegel, specificamente nel suo passaggio dal senso degli scritti giovanili al senso delle opere della maturità, considerando in particolare soprattutto la Scienza della logica. La mia tesi è che il concetto di negazione in Hegel ha un’originaria fondazione in un contesto psicologico-antropologico di senso e che solo successivamente, con la messa a tema della categoria di Non-Essere o di Negazione Assoluta nella prima triade della Scienza della logica, assume una valenza ontologica, di matrice logico-apofantica. Ma con la considerazione da fare che assai spesso il secondo significato si sovrappone e s’intreccia con il primo, per cui le forme della negazione in Hegel non solo solo diverse e molteplici, ma assai frequentemente implicate tra loro in un’intreccio di significati, che, se spiega da un lato l’oscurità del testo hegeliano, impone all’interprete, quando ci riesca, di volta in volta una paziente opera di distinzione e di esegesi. E cercherò appunto qui di spiegare, schematicamente, i due significati più significativi, e più distinti tra loro, della forma hegeliana della negazione.
[1] G.W.F. Gegel, Lezioni sulla filosofia della religione, tr. it. a cura di E.Oberti e G.Borruso, Laterza, Roma-Bari 1983, II, p. 181.
[2] Com’è noto il titolo di Der Geist des Christentums und sein Schiksal è stato attribuito allo scritto in questione del giovane Hegel dal suo primo editore H.Nohl. Sulla discussione dell’appropriatezza o meno di questo titolo cfr. la Prefazione di E. Mirri alla sua edizione italiana del testo, in G.G.F. Hegel, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, tr. e comm. Da E. Mirri, Japadre, L’Aquila 1970.
[3] G.W.F. Hegel, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Id., Scritti teologici giovanili, tr. it. a cura di N. Vaccaro e E.Mirri, Guida, Napoli 1977, II, p. 355.
[4] Ivi, p. 357.
[5] Ivi, p. 372.
[6] Ivi, p. 399
[7] Ivi, pp. 398-399.
[8] Ivi, p. 442.
[9] Ivi, p. 444.
[10] Ivi, p. 437.
[11] G.W.F. Hegel, «L’amore» [frammento], tr. it. in Id., Scritti teologici giovanili, op. cit., II, p. 529.
[12] Ivi, p. 531.
[13] Ivi, p. 376.
[14] Ivi, pp. 392-93.
[15] Ivi, pp. 394-95.
[16] Qui si fa riferimento in particolare all’opera di Dieter Henrich. A proposito del tema affrontato in questa prima parte del mio saggio, si rimanda ai saggi di D. Henrich raccolti nel volume, Hegel im Kontext, vierte, veränderte Auflage, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1988 e al testo, Der Grund im Bewuβtsein. Untersuchungen zu Hölderlins Denken (1794-1795), Klett-Cotta, Stuttgart 1992.
[17] «Come discordie di amanti – scrive Hölderlin nelll’Hyperion – sono le dissonanze del mondo. Conciliazione sta in mezzo al contrasto e tutto ciò che è stato diviso si ritrova. Si dipartono e ritornano nel cuore le vene» (F. Hölderlin, Iperione o l’eremita in Grecia, tr. it. di G. Scimoniello, Pordenone 1989, p. 177.
[18] D.Henrich, Hegel und Hölderlin, in Id., Hegel im Kontext, op. cit., pp. 36-37.
[19]G.W.F. Hegel, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, op. cit., p. 380.
[20] D. Henrich, Hegel und Hölderlin, op. cit., pp. 28-29.
[21] Questo passo non appartiene al manoscritto dello Spirito del cristianesimo ma al frammento Glauben und Sein, che Nohl e la maggioranza degli interpreti assegnano ad una serie di abbozzi e frammenti che precederebbero il manoscritto principale. Cfr. la traduzione italiana in G.W.F. Hegel, Scritti teologici giovanili, op, cit., p. 532.
[22] Ibidem.
[23] Ivi.
[24] Ivi.
[25] Ibidem
[26] Su ciò mi permetto di rinviare al mio testo Mito e critica delle forme. La giovinezza di Hegel. 1770-1801, Editori Riuniti, Roma 1996.
[27] G.W.F. Hegel, Amore e religione [frammento], in Scritti teologici giovanili, op. cit., II, p. 528.
[28] G.W.F. Hegel, L’amore [frammento], in Scritti teologici giovanili, op. cit., II, p. 528.
[29] G.W.F. Hegel, Estetica, tr. it. di N. Merker e di N. Vaccaro, Einaudi, Torino, p. 631.
[30] Ibid., pp. 605-606. Cfr. C. De Bortoli, Amore romantico e matrimonio etico nella filosofia di Hegel, in «Diritto e cultura», gennaio-giugno 2001, anno XI°, n.1, pp. 75-90.
[31] Cfr. su ciò l’Introduzione di E. Mirri a Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, op. cit., II, pp. 335-351.
[32] G.W.F. Hegel, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, op. cit., p. 415.
[33] Cfr. M.Baum, Die Entstehung der Hegelschen Dialektik, Bonn, Bouvier, 1986, p.236. Dello stesso autore cfr. anche “Zur Methode der Logik und Metaphysik beim Jenaer Hegel“, in D.Henrich-K.Düsing ( a cura di), Hegel in Jena. Die Entwicklung des Systems und die Zusammenarbeit mit Schelling, Bonn, Bouvier, 1980 («Hegel-Studien», Beiheft 20), pp.236 sgg.
[34] Aristotele, De Interpretazione, 17 a 26.
[35] G.W.F.Hegel, Logica e metafisica di Jena (1804/05) , tr. it. a cura di F.Chiereghin, verifiche, Trento 1982, p. 9
[36] Ibidem
[37] Ivi, pp. 9-10 (trad. parzialmente modificata).
[38]Ivi, p. 9.
[39] Iv, p. 11.
[40] Ivi, p. 12 [die Grenze ist hiemit die Totalität oder wahrhafte Realität].
[41] Ivi, p. 11.
[42] Nel suo Commento a questa sezione della Logica di Jena A. Moretto ricorda a proposito di questo passaggio da una concezione statica a una dinamica del limite, le riflessioni svolte da Hegel sull’infinitesimale nelle Geometriche Studien (1800) e nella Dissertatio philosophica de orbitis planetarum (1801). Cfr. ivi, pp. 276-77.
[43] Ivi, p. 11.
[44] Su questo concetto della negazione come «das Andere seiner selbst» cfr. D.Henrich, Formen der Negation in Hegels Logik, in Seminar: Dialektik in der Philosophie Hegels, hrsg. Von R.-P. Horstmann, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1989, pp. 213-229.
[45] Ibidem
[46] G.W.F. Hegel, Logica e metafisica di Jena (1804-1805), op. cit., p. 12.
[47] Ivi, pp. 12-13.
[48] Cfr. W.Jaeschke, Äusserliche Reflexion und immanente Reflexion. Eine Skizze der systematischen Geschichte der Reflexionsbegriff in Hegels Logik-Entwürfen, in «Hegel-Studien», 13, 1978, pp. 85-117.
[49] G.W.F. Hegel, Logica e metafisica di Jena (1804-1805), op. cit., p. 15.
[50] G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, Erster Band (1812/1813) , hrsg. von F. Hogemann und W. Jaeschke, in Gesammelte Werke, Felix Meiner, Hamburg 1978, Bd. 11, p. 77.
[51] G.W.F. Hegel, Scienza della logica, tr. it. di A. Moni, Laterza, Bari 1968, p. 70.
[52] Ibidem,
[53] Ibidem.
[54] «La loro verità [dell’Essere e del Nulla] è dunque questo movimento dell’immediato scomparire dell’uno nell’altro», ivi, p. 71.
[55] Cfr. A.Ilchmann, Kritik der Übergänge zu den ersten Kategorien in Hegels Wissenschaft der Logik, in «Hegel-Studien», 27, 1992, pp. 11-25.
[56] G.F.W. Hegel, Scienza della logica, op. cit., p. 71.