Emanuela Mangione
Si può parlare oggi di una genesi sociale del narcisismo? Questa è una delle tematiche intorno a cui filosofi, psicoanalisti, ma anche economisti e politici si stanno interrogando; essenzialmente la questione riguarda le possibili connessioni tra l’attuale sistema sociale ed economico e certe patologie di tipo prevalentemente narcisistico, con aree sintomatiche in cui il protagonista risulta essere sempre più il corpo e le scissioni corpo mente.
A tale proposito mi sembra calzante l’espressione“liquidità del soggetto in una società liquida”(Garella,congresso SPI 2012). Una società, quella della postmodernità, che sembra porre l’individuo all’interno di una accelerazione costante alla ricerca di scommesse continue in cui impegnare il proprio futuro, in una sorta di surf dettato dall’imperativo etico di tenersi sempre sulla cresta dell’onda. Un narcisismo individuale imperante spinge la macchina del mondo umano a funzionare non tanto per realizzare un progetto, bensì per produrre una perpetuazione di se stessa attraverso un investimento asettico e senza fine che corrode i caratteri individuali, consumando le potenzialità della propria vita.
Da un punto di vista psicoanalitico è come se si configurasse un assetto simile a quello di una “patologia narcisistica da difetto” contraddistinta dalla carenza di quel “narcisismo minimo vitale” o “necessario” (Bolognini, 2008) le cui carenze possono limitare la capacità di accettare ed amare il proprio sé, sia nei riguardi di se stessi, che degli altri.
Il soggetto si trova calato in un individualismo disperato, in cui la natura, il sociale, l’alterità vengono percepiti come meri oggetti da consumare, realtà neglette, feticci, una sorta di nostre emanazioni simili agli “pseudopodi” di nota memoria freudiana (Freud 1914), vere e proprie protesi, come gli strumenti elettronici di cui ci circondiamo.
“Nulla di più inquietante dell’uomo” diceva Heidegger,(1969) “che supplisce con la techne all’angoscia del limite, della mancanza di senso, della incompiutezza originaria”. Un corpo prepotentemente al centro della scena nelle sue forme più estreme, come in molte espressioni dell’arte contemporanea (si pensi al body worlds di Ghunther Von Hagens), alla ricerca di uno schok percettivo più che cognitivo.
Oggetti reali e oggetti mentali
Gli oggetti vengono vissuti così, sul piano psichico, come oggetti sempre più bizzarri lanciati nell’esperienza nella loro irriducibilità. Presenti nella mente non più come elementi che fanno parte della nostra vita, ma come una sorta di precipitati di residui mnestici dell’esterno, nuclei basici che non possono essere metabolizzati, e tanto meno pensati, determinando in alcuni casi veri e propri stati dissociativi. In essi sia la realtà del mondo esterno, vale a dire gli altri, che la realtà del corpo non sono riconosciute ed entrambe sono sottomesse ad una follia interna. Ciò accade in certe patologie, quali i disturbi del comportamento alimentare, in cui “il nucleo di follia sembra consistere proprio nella pretesa di trattare il corpo, che è un oggetto reale, come un oggetto interno, vale a dire un oggetto mentale e quindi creazione o prodotto della attività mentale stessa”(Ciocca 1995) e perciò controllabile, manipolabile, sino a comportamenti di tirannia e di abuso verso se stessi e la formazione di quella che Meltzer definì “banda interna” (Meltzer 1977) che impedisce il contatto con le parti inermi e sofferenti di sé.
Il grande contenitore dell’infanzia in cui il bambino è al centro, come nel presepe, si è rotto e l’individuo si trova a affrontare il pensiero adulto. In questo passaggio il corpo può essere vissuto come il luogo di una mutilazione originaria che ostacola l’identificazione sessuale. Là dove doveva essere il seno accogliente dell’infanzia ora c’è la non cosa, un’area vuota e, tratto distintivo dei nostri tempi, l’identità sembra soggiacere ad uno stato di vergogna.
Dissociazione mente-corpo
Il corpo può diventare allora in modo difensivo una realtà allucinata, separata, attraverso la quale esprimere quel “nucleo di verità storica”, come lo definiva Freud, ovvero il desiderio delirante di un corpo staminale, che si identifica adesivamente con una immagine di bisessualità psichica, di fusione con l’altro, funzionando quale schermo antistimolo e sbarramento del bisogno.
Elementi che comportano una riduzione della patologia strutturata da una parte, e, dall’altra, ad una crescita della combinazione di psicopatologie che si esprimono attraverso una pluralità di sintomi e di meccanismi di difesa.Ciò si traduce in difetti dello sviluppo dell’Io, sino all’inibizione di quelle sensazioni corporee che sono alla base di quello che molti autori designano come “sentimento di vitalità”, come accade nei fenomeni di dissociazione che caratterizzano il rapporto mente-corpo. Pazienti che hanno difficoltà a muoversi nella vita, che lamentano stasi psicofisiche, disturbi alimentari, attacchi di panico, blocchi nell’ emancipazione, sino alle forme più o meno acute di depersonalizzazione e derealizzazione.
Come è possibile allora per l’individuo ricomporre la propria identità di soggetto? L’impegno che la psicoanalisi si trova ad affrontare in questi tempi di crisi riguarda allora la possibilità di rilanciare un’etica della cura che cerchi di fronteggiare le difficoltà dei pazienti lungo due linee prevalenti:sostenere la struttura e la natura del trattamento psicoanalitico, e rilanciare le potenzialità creative dell’individuo e la sua capacità di investire sugli altri, alimentando nella relazione terapeutica il narcisismo sano. L’intento di questo percorso è quello di tessere i legami che ognuno può costruire con i propri oggetti interni e mentali, riattivando una percezione della realtà nel suo significato profondo, che consenta l’uscita dall’impasto confusionale in cui mondo interno ed esterno si sono mescolati.
Quali modelli psicoanalitici abbiamo?
Quali strumenti e quali teorie abbiamo?
Molti tentativi teorici si orientano verso la possibilità di riformulare la visione dell’io, nello sforzo di giungere ad una concezione della dinamica psichica che contempli aspetti intersoggettivi e intrasoggettivi, riportando in primo piano la necessità, per l’analista, di interrogarsi sulla propria incertezza, per capire l’incertezza d’essere dell’altro.
Un primo problema che mi sembra emergere riguarda i modelli. Che uso fare dei modelli e come utilizzare il “fatto”della seduta analitica con pazienti che presentano un uso spesso massiccio di difese primitive, quali scissioni mente/corpo, idealizzazioni, o anche di difese più evolute, ma che ricalcano pur sempre un nucleo patologico primitivo, e che sono di natura reattiva,quali l’intellettualizzazione e l’isolamento?
Molti autori, penso a Bollas, Steiner, Fedidà, concordano nel ritenere che, con questo tipo di pazienti, può risultare inefficace la nostra attrezzatura analitica di coattori e registi di un mondo interno animato da personaggi e ruoli certamente conflittuali, ma delineati.
L’approccio classico governato, usando la consueta metafora freudiana,dalla regola fondamentale della libera associazione del paziente e dalla attenzione fluttuante dell’analista è difficilmente percorribile. Di fronte a nuclei particolarmente primitivi del paziente può essere difficile anche l’attivazione, nella mente dell’analista, di quello stato suggerito da Freud di rilassamento psichico e autoosservazione, che può attivare,a sua volta, quelle “idee incidentali che cadono nella mente”,così preziose nell’avviare processi trasformativi.
Proporrei questa breve presentazione clinica con l’intento di iniziare un percorso aperto in cui,all’interno dei sentieri che sono stati tracciati e di altri che avrebbero potuto esserlo, l’attenzione si possa focalizzare sul modo, le soluzioni, i problemi relativi alle difficoltà in cui l’analista si imbatte nel trattamento con pazienti, quali la paziente a cui accennerò, con disturbi incentrati sul corpo.
Caso clinico
Carla ha chiesto un colloquio per un problema di anoressia, complicato da tendenze suicidarie e da comportamenti autolesivi e ossessivo-compulsivi,che la tiranneggiavano gran parte della giornata, riducendole drasticamente il tempo della vita, delle relazioni, del lavoro:”quando sto in macchina mi viene l’idea di andarmi a schiantare contro un albero. Non ne posso più di questi pensieri perché sento che lo potrei fare. Vedo una situazione chiusa.” Si obbligava ad estenuanti allenamenti per smaltire le zucchine lesse che costituivano il suo pranzo e, quando le sembrava di aver mangiato qualcosa in più, vomitava. La persona che vedo di fronte a me è una giovane donna alle soglie dei trent’anni, di non più di kg.35 di peso, ossa sporgenti che delineavano un volto scarno che lasciava trapelare tracce di bellezza. All’inizio era spaventata dalle idee fisse di suicidio e rimaneva silenziosa
Le sedute si svolgevano tra silenzi e lapidarie risposte alle mie domande, e le scarne notizie sulla sua vita sono emerse faticosamente nel corso del tempo. Coccolata dalla madre sino a quando il suo posto di principessa venne spodestato dalla nascita di una sorella, che acuì la sua dipendenza morbosa dalla madre, con attacchi d’angoscia ad ogni suo allontanamento.
Non trapelava alcuno stato d’animo, o dolore, o fatica relativa a quegli esercizi fisici estenuanti a cui la sua compulsione coatta la obbligava. Diceva che pensava solo a quando avrebbe fatto i suoi chilometri di corsa, che sembravano costituire un rifugio simile ad un incapsulamento cistico in cui si dovevano annidare paure inesprimibili di dolore e di morte relative a separazioni precoci non mentalizzate,e che sembrava tagliare fuori la paziente da una parte della propria personalità e dall’analista
Diceva Bion che con pazienti che mostrano il dolore nel corpo, e trasformano la realtà percettiva in allucinazione di realtà, come il vedere il proprio corpo di kg.35 grasso, non è possibile non ritrovarsi spaventati. Ma questo pensiero non mi aiutava nel metabolizzare lo stato di paura che la paziente mi metteva a vivere. Né mi aiutava il pensiero di quanto doveva essere spaventata la paziente per esser costretta ad allucinare così lo stato del suo corpo. Spavento che poteva ricollegarsi alla sensazione che mi ha spesso accompagnato sin dai primi incontri, per il senso di deanimazione che percepivo attraverso la maschera di imperturbabilità del suo volto.
Una frattura, nei primissimi mesi di vita, di una situazione di unità della coppia madre-bambino, può configurare l’esperienza di un apparire improvviso e prematuro di un sé che, per vari motivi, fa precocemente cadere e lascia precocemente da soli a gestire dosi di angoscia intollerabile. Penso all’angoscia senza nome di Bion, alle agonie primitive di Winnicott, alla angoscia di perdita di sé di Gaddini che possono rendere difficoltosa la formazione di un nucleo di fiducia in sé.
Un’esperienza di controtransfert
La perdita dell’armonia corpo-mente comportava nella paziente una scissione in cui, da una parte, il corpo diventava un insieme di sensazioni fisiche e persecutorie, che, come i suoi allenamenti, agivano da super io arcaico e distruttivo,e, dall’altra, la mente perdeva il legame con l’esperienza e la realtà. Scissione che, sia si ricolleghi all’origine ad un atto di onnipotenza, o di impotenza, o a tutti e due, non permetteva alla paziente di essere se stessa. Ciò sembrava comportare una sorta di bipolarità autismo-narcisismo in cui vita e morte sembravano mescolarsi nell’estremo tentativo di ritornare, come unica speranza di vita, all’inorganico di cui parla Freud quando, in Al di là del principio di piacere(1920), introduce la pulsione di morte.
E l’analista in tutto ciò? Le sensazioni di controtransfert che la paziente evocava in me sono state intense. La disposizione mentale di accoglimento si ribaltava in rifiuto. Avvertivo quasi somaticamente la necessità di tenermi ad una distanza difensiva dal suo pallore e dall’aria di sfida che mi trasmetteva: “mi dicono a casa di ridurre la corsa, ma tanto non lo faccio.”
Come se temessi fisicamente un contagio. Un senso quasi di non esistenza, di pericolo. Come se le mie parti più fragili registrassero la paura di soccombere. Un opaco e diffuso stato psicosomatico, come se le situazioni di transfert-controtransfert mi portassero a registrare gli stati più primordiali e persecutori del sé della paziente.. La scissione ne metteva in evidenza, come nel cristallo di cui parla Freud nel Compendio(1938), tutte le linee di fragilità che si presentavano scardinate, scisse appunto in configurazioni inaccostabili.
Stati in cui la riflessione, il pensiero, la libertà dell’analista, risultavano compromesse.
Il problema si poneva in modo impellente: trovare gli strumenti per far sì che il setting potesse funzionare da organizzatore della scissione della paziente in nuove configurazioni creative di esistenza e di vita.
Il processo analitico sembrava imbrigliato tra difese, rifiuti, tirannia. L’affetto presente era sotto forma di vomito, quale disperato tentativo di liberarsi fisicamente delle sensazioni inaccettabili. Che per la paziente doveva risultare più efficace della identificazione proiettiva come meccanismo di liberare la mente.
Vomito che esprimeva però un bisogno vitale: il bisogno vitale di base di essere vista da una persona viva. “Se il volto della madre è poco responsivo” ci ricorda Winnicott,”allora uno specchio sarà una cosa da guardare, ma non una cosa in cui guardare.”
I capelli come segnale di vita
Appena ho potuto ristabilire quella equidistanza che mi permetteva di vedere quello che la paziente tendeva a collocare dentro di me, ho visto una madre preoccupata per una figlia vittima di una sofferenza inesprimibile se non con un corpo mortificato ed ho provato, per la prima volta, un gran senso di pena. Questo mi ha permesso di guardarla con occhi che la vedessero.
Così in una seduta vidi qualcosa che sembrava diverso in lei. I capelli. La paziente quel giorno appariva pettinata. Portava in seduta qualcosa di diverso dal vomito.
Un segnale di vita. “Oggi si è pettinata” dico,” ed è la prima volta che incornicia così il suo viso”. Sì, si era pettinata, rispose, ma non ci aveva fatto caso. Cominciò a prendere vita la possibilità di vedersi. Parlammo dei capelli, e poi del vestito che indossava, dei colori, del modo in cui entrava o si sedeva, dei rumori della sua pancia. Cercavo di cogliere, quando li percepivo, i movimenti dell’inconscio, gli eventuali lapsus, le oscillazioni dell’orario, interrogandomi anche sull’effetto che facevano a me. Da allora ho cercato di osservare e conservare e, quando era possibile, comunicare a Carla le tracce di quei segnali di vita che lei stessa conservava e che aveva potuto mantenere vive, valorizzando analiticamente le percezioni di sensorialità che rappresentavano in quel momento per lei il tentativo di massima integrazione possibile.
Astenendomi, almeno in questa prima fase dell’ analisi, da interpretazioni sulla difesa narcisistica, sul sadismo orale, sull’invidia. Ho usato molta cautela nelle interpretazioni di transfert, cercando di introdurre nella scena analitica quegli alimenti e quelle dosi che, progressivamente, mi sembrava lei riuscisse ad assumere e a digerire.
Così anche il suo tagliarsi poteva essere avvicinato al suo significato vitale: alleviamento dell’angoscia, difesa dalla dissociazione, generatore di sensazioni e stati d’animo, ricerca di contatto con il corpo; un modo non di fuggirlo ma di farne esperienza.”Il taglio come non rottura, come qualcosa che si inserisce e che entra dentro, quasi a riempire un vuoto, stabilire un contatto tra quello che si sente e che si prova, sensazione e sentimenti”.(Ciocca2012) Il vedere l’immagine dei capelli, dei vestiti, così come quella del sangue, ma anche i rumori, gli odori, come ci ricorda Bion, è un primo modo per contenere e riconoscere un’esperienza.
Commento
Nell’esperienza vissuta con la paziente ho cercato di valorizzare analiticamente la percezione della sensorialità, necessaria, data la sua costellazione psichica, per accogliere e tollerare le sensazioni che le si presentavano come inaccostabili. Importante è stato il riferimento alle teorie psicoanalitiche che, a partire da Freud , sino alla griglia di Bion, considerano in ugual misura sia gli elementi più evoluti della mente, quali il pensiero, sia quelli sensoriali del corpo e delle sue percezioni ed emozioni più basiche.
Nel pensare a questo lavoro ho trovato molto utili le considerazioni di Bromberg in “Standing in the Spaces” (2001), e,in particolar modo, l’idea di un modello non lineare della mente. Evocativa è la descrizione che egli fa del funzionamento mentale come capacità di “restare negli spazi” tra aspetti multipli del sé.
Questo vertice può servire a focalizzare quanto, nell’esperienza clinica, un analista si trovi ad incontrare aree di esperienza dissociate che hanno dei collegamenti deboli con l’esperienza del “sé”. Aree che, quindi, difficilmente possono diventare oggetto di pensiero e di comunicazione linguistica. Sono stati che sembrerebbero conservare ciascuno la propria “verità esperienziale incapsulata”(Bromberg 2001), non rendendo possibile nessun movimento, né sul piano della rimozione, né su quello del conflitto. La relazione terapeutica diviene allora una condizione fondamentale per favorire l’ingresso di questi nuclei nel piano della pensabilità. Ho cercato così di descrivere come, sul piano clinico, tra paziente e analista si sia sviluppata, accanto al “racconto” della seduta, un’altra storia che si è svolta prevalentemente su piani somatici.
Ho altresì cercato di mettere in rilievo quanto la vividezza della dinamica transfert-controtranfert abbia potuto determinare nella paziente un accrescimento della percezione che le ha permesso l’accesso ad una maggiore consapevolezza. Per usare le parole di Bromberg “l’esperienza diventa simbolizzata non per mezzo delle parole, ma per mezzo del nuovo contesto percettivo che le parole giungono a rappresentare”. Solo quando, diceva Bion, analista e paziente diventano effettivamente l’oggetto l’uno dell’altro, può attivarsi quel passaggio da una esperienza primordiale, presimbolica di un corpo a un significato che può essere pensato da una mente. Quel passaggio da O a K che solo può muovere quel processo di significazione che produce cambiamento.
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