Recensione a Carla Maria Fabiani, Aporie del moderno. Riconoscimento e plebe nella Filosofia del diritto di G.W.F. Hegel, Pensa Multimedia, Lecce 2011
Antonio Carnevale
Nella poliedrica costellazione degli studi hegeliani e soprattutto fra quelli che – come nel caso particolare di questo libro – pongono a proprio oggetto d’indagine la Filosofia del diritto, il lavoro di Carla Maria Fabiani possiede l’indubbio e meritato pregio di occuparsi di due figure filosofiche che assai di rado vengono considerate interconnesse da un punto di vista concettuale. Per la prima di esse, la «plebe» (Pöbel), si tratta di una vera e propria formazione socio-antropologica che ha ricadute direttamente politiche e istituzionali; mentre per la seconda, ci troviamo più che altro di fronte a una linea di pensiero, quella stessa che forse tra tutte maggiormente caratterizza nel profondo la dialettica hegeliana (dalla giovinezza alla maturità) quale movimento capace insieme di fissarsi e sfuggire: parliamo ovviamente del «riconoscimento» (Anerkennung).
Pur rimanendo ferma l’immediatezza di novità rappresentata dalla scelta tematica, il tentativo dell’autrice non risulta affatto un azzardo. Al contrario, l’argomentazione puntuale e mirata è volta a mostrare al lettore l’efficacia della propria tesi aiutandosi con una giusta dose di ricostruzione filologica e propria proposta interpretativa. A testimoniare questo sforzo, vorrei qui menzionare le due sezioni che aprono e chiudono il libro: la Nota Filologica (pagg. 15-17) e l’appendice Il tema della plebe nella più recente letteratura critica. Una rassegna ragionata (161-192). Nella prima viene ricomposto il quadro dei termini che formano il lessico della «plebe» presente sia nella Grundlinien der Philosophie des Rechts che nelle diverse Vorlesungen di filosofia del diritto. Emerge così che Hegel distinguerebbe per consapevole presa di posizione filosofica tra Armut (povertà) – con la quale intende la miseria materiale presente nelle società premoderne e precapitalistiche che non hanno ancora conosciuto l’istituzione del mercato e della divisione capitalistica del lavoro – e Pöbel che sarebbe il segno inconfondibile e tutto moderno dell’emergere di uno scarto irrecuperabile di umanità generato dal processo economico-sociale del capitalismo. Nell’appendice l’autrice, invece, ripercorre per grandi tappe gli studi di letteratura critica che a ragione possono essere considerati componenti di un’esegesi moderna del concetto hegeliano di «plebe», a cominciare a E. Weil e continuando con M. Rossi, K.H. Ilting, J. Ritter, F. Valentini, P. Salvucci, D. Losurdo, R. Finelli.
Ma se queste sono le sezioni che si trovano agli estremi opposti del libro, nel mezzo trovano spazio i due corposi capitoli che ne costituiscono l’ossatura e la sostanza. In quanto segue, proverò in un primo e più lungo passaggio a illustrare quali sono, a mio parere, i tratti concettuali più stimolanti e filosoficamente pregnanti che emergono nei due capitoli. Successivamente, con un passaggio assai più breve, cercherò di tracciare alcuni motivi di perplessità riguardanti la proposta dell’autrice. Si tratta, comunque, di perplessità dettate non certo da una qualche distanza assiologica, quanto piuttosto da un’esigenza di riflessione critico-sociale che si situa in medias res rispetto all’approccio proprio di questo libro, convinto come sono, al pari dell’autrice, della significativa modernità del «tratto caratteristico della specifica attitudine hegeliana, la capacità cioè di individuare nella ragione ineliminabili persistenze di irrazionalità» (24).
1.
Capitolo 1 (25-105): Il mondo economico a Jena (1803-1806)
La Filosofie dello spirito del 1803-04 prende avvio dalla «semplice, essenziale molteplicità» della natura che accomuna il soggetto al mondo. La natura contiene “in sé” l’interconnessione concettuale tra l’io e il mondo, ma in una maniera tale che essa appare nascosta, non portata a manifestazione poiché «impotente» (27) di fronte alle forze dello spirito. Nella natura non esiste nessuna potenza in grado di darsi da sé sola una determinazione individuale. Anche quando la natura viene concettualizzata, rimane comunque unità astratta, estrinseca, estromessa dalla possibilità di riconoscersi concretamente proprio perché, in quanto astratta, disattende qualsiasi possibilità di fare esperienza della propria alterità, non essendoci difatti rapporto tra l’in sé che essa è ed ogni alterità fuori dal proprio campo d’esistenza – alterità che, di conseguenza, rimane una non-esperienza, un orizzonte fuori portata; senso assoluto e indeterminato. È qui che natura e cultura trovano il modo di correre paralleli senza mai sfiorarsi, destinandosi a un cammino cieco verso ogni possibile scambio.
È proprio contro questo stare placido e nascosto, nella natura, di particolarità e universalità che la coscienza reagisce facendosi attività spirituale, «negazione del dato naturale fino all’autonomizzazione dal naturale» (28). Dapprima portandosi a un livello coscienziale elementare, che Fabiani definisce un concetto «debole» (31) di coscienza, nel quale la coscienza si sa in quanto sapere immediato, in quanto rappresentazione di opposizioni: da una parte, essa sa qualcosa del mondo e, dall’altra, sa di non coincidere del tutto con questo sapere (è una prima modalità di conoscenza di se stessa, di soggettività). In un secondo momento, la coscienza prende vigore facendo esperienza del «per noi» (für Uns). Nella dimensione etica della vita sociale, nello spirito di un popolo (Volksgeist) e nella lotta per il riconoscimento (Kampf um Anerkennung), la coscienza attraverso le varie potenze (potenza del linguaggio, dello strumento, del possesso e della famiglia) diviene «mediazione» (37) con la quale finalmente può togliere l’opposizione naturalistica tra natura e spirito e riprodurla in forma di scissione concettuale tra coscienza e storia, ossia tra progettualità pratica di tipo individuale e progettualità politica di tipo collettivo. È questa la cosiddetta «seconda natura» dello spirito, un circolo natura-spirito-natura (50) che a ben vedere, secondo l’autrice, costituisce un’arma a doppio taglio.
Se, per un verso, un tale circolo ha per lo spirito la funzione logica e trascendentale di riprodurre ex post, nel mondo reale e storico, la socievolezza ex ante della natura umana, per il verso opposto, proprio una tale spiritualizzazione della natura – che diviene quindi pseudo-natura –, fa emergere nel cuore della modernità una forma tutta nuova di socialità che sfugge alla mediazione etica, irrigidendosi al contrario sul valore astratto (denaro) prodotto da una cultura dello strumento, del lavoro, dell’economico. È in questa sede che viene ad aprirsi, perciò, una ferita irricucibile tra manifestazioni intellettuali e logiche dell’eticità vs. vissuti storici e incarnati di despiritualizzazione e ottundimento. In altri termini, lo spirito della modernità, nel suo tentativo di considerare la scienza economica quale base epistemologica per immortalare la natura nella storia, così da universalizzare la libertà naturale in termini di autodeterminazione di un popolo, alla fine non riesce più a controllare la razionalità organizzativa del momento economico. È in questo modo che diventano componenti importanti della sfera etica la meccanizzazione e la standardizzazione del possesso e del lavoro, con gli effetti devastanti di: (a) un aumento della produzione complessiva di beni che comporta però una perdita di valore del lavoro come mezzo universale di conquista di autonomia e dignità di vita; (b) un aumento di ore di lavoro per il singolo, il quale, con la diminuzione del valore del lavoro, per acquistare lo stesso numero di beni deve lavorare di più; (c) una diversificazione di bisogni per via che la crescita economica induce a un miglioramento “per il tutto”, ma un “peggioramento per il singolo” «ovvero il crescente impoverimento dei lavoratori e la riallocazione dei processi produttivi verso produzioni che soddisfano la domanda di beni di lusso» (57). Si determina in questo modo una separazione tra singolo in quanto persona e il possesso in quanto cosa in relazione a cose, tra il piano politico-giuridico di protezione delle persone e il piano economico di produzione delle cose.
È la consistenza di questa scissura moderna tra economico e politico anche alla base della Filosofia dello spirito del 1805-06. Tuttavia, Fabiani non manca di registrare una novità importante nell’economia del suo discorso: mentre nella precedente Vorlesung il passaggio dalla natura alla cultura è più automatico, Hegel nel biennio successivo dà segno di maturità fenomenologica, concependo il rapporto tra due entità come il farsi cosa di una relazione sillogistica, che conduce alla produzione di un terzo termine che «mediando i rapporti fra i primi due, si autonomizza dalla mediazione intersoggettiva e diviene oggetto indipendente dal movimento sillogistico» (71).
In altre parole, la libertà che ci viene riconosciuta nelle istituzioni moderne non esprime un semplice allontanamento dallo stato di natura e dalla necessità, bensì essa incarna l’oggettivazione delle relazioni etiche della comunità culturale all’interno dello stato di diritto (76). Questo significa che esiste una sorta di evoluzione storico-formativa di livelli diversi di riconoscimento. Fabiani ne individua tre: un primo pratico-morale, poi la lotta per il riconoscimento e infine l’essere conosciuto. Se per il primo tipo l’autrice non fornisce una spiegazione esauriente, molto più significativa risulta, invece, la distinzione tra gli ultimi due. La «lotta per il riconoscimento» è un tipo di riconoscimento che non porta ad alcun esito positivo di reciprocità e che può essere ricondotto al conflitto premoderno dei “capi famiglia” per farsi riconoscere come proprietari delle terre possedute. L’«essere riconosciuto», al contrario, è il rapporto riconoscitivo moderno, l’esito positivizzato e legalizzato dei conflitti unilaterali premoderni; esso è includente, garantito da una presa di coscienza e una modificazione intra-coscienziale, insomma mette assieme bisogni e valori. L’architettura che lo tiene in piedi è sillogistica: per essere riconosciuto devo essere disposto a riconoscere, il che vuol dire che l’Io non raggiunge mai un pieno riferimento con se stesso se prima non si pone nella disposizione pisco-sociale di ammettere una serie di differenze: tra sé e sé, tra sé e l’altro, tra sé e l’altro in quanto un Io che egualmente vive della stessa necessità di relazionarsi. Io e Altro non sono due posizioni autonome ma due dinamiche che si incrociano, partono perciò da una quadruplice situazione esistenziale (Io=Io; Io≠Io; Altro=Altro; Altro≠Altro) e nel loro incrociarsi chiasmico oggettivano la relazione di riconoscimento reciproco (Io=Altro). Ne risulta un’impossibilità di fondo a conservare una stabile identità egoica: ogni identità che cerca di auto-centrarsi è destinata ontologicamente a ribaltarsi nell’altro (80). Qui si inserisce l’aporia della plebe.
Capitolo 2 (107-159): Il problema della plebe nella Filosofia del diritto
Mentre per il riconoscimento l’autrice vede operare nella relazione tra l’Io e l’Altro una forma di sillogismo, nel caso delle plebe non c’è figura chiasmica o simmetrica che tenga; il riconoscimento della presenza della plebe nella moderna società è un riconoscimento non lineare, è una cattiva infinità (schlecht Unendliche) generata dalla medesima struttura economica, è dunque riconoscimento irriconoscibile, ciò che Fabiani più volte nel libro chiama «forclusione»: «[la plebe] rappresenta un caso di forculsione in campo etico e sociale. Il riconoscimento le è precluso all’atto stesso del suo concepimento. Addirittura la plebe non parla, cioè non ha un linguaggio suo proprio; essa ha solo il “sentimento del proprio torto”» (155).
La plebe in quanto forclusione, dunque, rappresenta l’inconscio incrinarsi del parallelo scorrere della logica dell’intelletto astratto contrapposto alla logica del concreto e dell’essenza. Il suo ruolo nei Grundlinien è appunto quello di essere testimone muto delle ingiustizie subite, soggetto politico inconsapevole poiché è stato privato della capacità discorsiva di avanzare e difendere proprie ragioni. La sua presenza segnala l’ontologica stortura della società fondata sul mercato capitalistico, già a partire dalla formazione di una società civile quale sfera sociale che – come si legga al § 185 – ottiene il soddisfacimento del proprio sistema dei bisogni appagando i desideri più smodati e raffinati, fino a prodursi appunto in una cattiva infinità.
Stando a queste sue qualità epistemiche, la plebe pone in questione la stessa relazione di riconoscimento intersoggettivo. Il suo manifestarsi antropologico nega del tutto il tipo di civiltà che la modernità ha cercato di istituire tramite la realizzazione di un livello etico-politico di socializzazione basato sul riconoscimento giuridico dei bisogni fondamentali del soggetto. È questa la funzione dei componenti della Sittlichkeit che disegnano la società civile hegeliana: le corporazioni, il sistema degli «stati», la polizia. La civiltà di una società fondata sul riconoscimento paritetico, simmetrico, pienamente autodefinentesi nel giuridico, è una civiltà che porta ad espressione unicamente una rappresentazione (Vorstellung) dell’umano e non il suo concetto (114). Una simile rappresentazione, difatti, non riesce e non può tener conto del sorgere di antagonismi sociali. Concependo le relazioni sociali come suddivise tra un soggetto-cittadino universalmente riconosciuto quale detentore di diritti e un soggetto-consumatore membro di un sistema economico di gestione dei bisogni, il lato spirituale della vita viene così mortificato che genera un dover essere morale (116) che spinge verso insoddisfazione e malcontento. Questo passaggio è chiaro nella trasformazione della povertà in plebe (121-124): il sistema capitalistico dei bisogni genera disuguaglianza di risorse, ciò conduce a una divisione sociale e tecnica del processo lavorativo che, a sua volta, genera ciò che Fabiani chiama la «disoccupazione tecnologica», che scaturisce sostanzialmente dalla sostituzione dell’uomo con la macchina e che fa insorgere crisi di sproporzione (tra beni di lusso e salario) e di sovrapproduzione (tra l’offerta e la domanda). Un tale genere di disoccupazione non è più un semplice esito accidentalmente provocato da un processo economico che smithianamente è in grado di darsi delle regole di autogoverno – la nota tesi della mano invisibile. Non si tratta cioè di povertà sic et simpliciter; piuttosto, fenomeni come la disoccupazione tecnologica sono manifestazioni strutturali di una povertà diremmo cognitiva che comincia a essere avvertita nei termini di un sentimento di ingiustizia (§§ 240, 241, 244).
Eppure, nella plebe non si compie esclusivamente il momento negativo della società civile («stato della necessità e dell’intelletto»). Dal momento che l’etica moderna non è riuscita a trovare una sintesi morale tra il momento politico e il momento economico, la soggettività della plebe eccede il negativo della società civile e investe anche le istituzioni, ergendosi – senza costituire però né una classe sociale, né un partito – a momento di disorganicità sovversiva dello Stato e acquisendo un proprio «diritto del bisogno estremo» (Notrecht) (§ 127), il quale, sebbene non vada confuso né con uno ius resistentiae né con uno ius necessitatis, rimane comunque una ribellione alle ingiustizie sociali compiute da una società strutturalmente distorta. A questo proposito, risulta emblematico che Hegel collochi il suo Notrecht proprio in quel nesso che intercorre tra, da una parte, la morale intesa come giustificazione (parziale) dell’attualizzazione della libertà e, dall’altra, l’esigenza ben più profonda di una giustificazione maggiormente comprensiva della libertà, che parta cioè dal bisogno di trovare una propria soddisfazione relazionale (riconoscimento) nell’attualizzare una qualsiasi forma di libertà.
La plebe, in definitiva, non risulta essere il semplice scarto di un processo normativo che asetticamente espunge ciò che non riesce a smaltire; Fabiani, piuttosto, le ascrive una Gesinnung (131), un proprio atteggiamento filosofico-concettuale, una linea di pensiero, rinvenibile nella modalità di un rapporto di negazione che la plebe istaura tra sé e l’intelletto astratto costruttore della moderna società, sia nel mondo economico che in quello etico-politico. Pur essendo la plebe un fenomeno prettamente moderno (e pur producendo la modernità forme mutuali di riconoscimento), tuttavia in essa si mostra quell’aporia del moderno capace di alterare l’intersoggettività trasfigurandola in disgregatezza (138). Di ritorno, tutto ciò porta ad annullare la logica della contraddizione tipica del riconoscimento che ha fin qui dominato nella storia. In primis, la plebe è la negazione di quel riconoscimento asimmetrico contenuto nella dialettica del servo-signore (secondo Fabiani la lotta premoderna dei “capi famiglia” per il riconoscimento della terra); successivamente e molto più significativamente, essa mette in crisi anche la simmetria dell’essere riconosciuto, cioè la forma di relazione all’altro che ad esempio troviamo esposta nel sesto capitolo della Fenomenologia dello spirito (riconoscimento come moderna riconciliazione, perdono del male e inclusione egualitaria di tutti i soggetti nella società).
2.
A fronte del fitto e più che condivisibile intreccio concettuale che Fabiani colloca tra la povertà e il riconoscimento, vorrei in conclusione sollevare alcune brevi perplessità sulla proposta dell’autrice. Nello specifico, a non convincermi fino in fondo sono due aspetti, probabilmente tra loro correlati, che a mio parere necessiterebbero di un ulteriore sviluppo: (a) il rapporto tra il piano economico e quello giuridico-politico, (b) il rapporto tra forclusione, diritti e lotta.
(a) Concordo sull’assunto che ci sia uno scarto tutto moderno tramite cui si può differenziare tra povertà intesa in termini classici (penuria di risorse materiali) e una visione contemporanea della povertà molto più soggettivizzata (plebe), centrata cioè sull’immaterialità e sul “sentimento interiore” (Gesinnung) della propria condizione di ingiustizia e torto subito. Ciò detto, proprio a ragione di questo filone storico-concettuale e di teoria sociale, mi pare che in questo libro le sorgenti della diseguaglianza sociale, su cui si innesta la forclusione della plebe, si vadano, tuttavia, a situare all’interno di un sistema economico le cui discrasie vengono marxianamente interpretate ancora come egemoniche rispetto a tutte le altre sfere sociali di legittimazione del potere politico. In questa correzione reciproca tra l’Hegel maturo e il Marx del materialismo storico – per così dire – la plebe diverrebbe una sorta di alter ego post-moderno del proletariato: abbandonerebbe l’idea di coscienza di classe, ma acquisirebbe il carattere di segno del disequilibrio tra piano economico e piano giuridico-politico. Insomma, perdere in funzionalismo sociologico, per farsi ermeneutica sociale.
Se quanto dico corrispondesse al vero, penso con Charles Taylor (Hegel e la società moderna, Bologna 1979) e recentemente con Axel Honneth (Das Recht der Freiheit: Grundriß einer demokratischen Sittlichkeit, Berlino 2011) che così sfuggirebbe la possibilità di vedere nei Grundlinien la bozza di un’etica post-industriale che non cerca di superare la razionalità del lavoro tramite la trascendentalità del discorso (Habermas), bensì, diversamente, intende l’ingiustizia, la sofferenza sociale, la Gesinnung di chi è strutturalmente estromesso dalla razionalità sociale, nei termini di un’alienazione che giunge allorché «gli scopi, le norme o i fini che informano e definiscono le pratiche e le istituzioni di una comunità smarriscono per gli uomini la loro sostanzialità o appaiono addirittura destituiti di senso» (C. Taylor, cit., p. 192). In questa nuova cornice, la plebe potrebbe conseguire un ulteriore ritorno di immagine di rapporti distorti e torti subiti, affiancando infatti al piano economico anche altri ambiti di vita vulnerabili a forme di oppressione e reificazione, ad esempio la sessualità e il rapporto tra i generi, i processi culturali, le procedure di accesso alla deliberazione democratica.
(b) La subalternità dei vari aspetti di vita e dei gruppi umani che rimangono non casualmente fuori dai meccanismi di socializzazione e istituzionalizzazione (cfr. i risultati raggiunti negli anni dai Subaltern Studies) dovrebbe condurre, inoltre, a un ampliamento del nesso che in questo lavoro lega la forculsione con i temi politici dei diritti e della lotta. Jacques Lacan con «forclusione» distingueva nella Verwerfung freudiana un’accezione supplementare rispetto alla rimozione nevrotica. Rimozione e forclusione sono entrambe esperienze sottratte all’esperienza della parola e del linguaggio, ma mentre la rimozione si gioca esclusivamente nell’ordine del simbolico (rimuovere come un “non volerne sapere”, un fare come se ciò che non si vuole considerare non esistesse, non avesse una sua consistenza significativa), la forclusione non si oppone a ciò che non si vuol vedere e riconoscere, quanto piuttosto al significante di ciò che ci si rifiuta di riconoscere. Rispetto, dunque, alla rimozione, la forclusione fa un passo avanti verso il linguaggio e di questo ne segnala il limite, il buco e l’apertura, l’aporia. Il significante di una forclusione non è l’oggetto di un’angoscia che rimuoviamo per non riconoscerci in quella paura, bensì ha a che fare con la funzione simbolica che quell’oggetto assurge, e non può perciò che manifestarsi nel linguaggio.
Traslando questo a livello filosofico-politico, la compresenza nella forclusione di simbolico e linguaggio, di intra- e intersoggettività, probabilmente richiederebbe una revisione del rapporto che Fabiani istaura tra «essere riconosciuto» e «lotta per il riconoscimento». È vero che la lotta per il riconoscimento nasce nella pre-modernità come lotta per il riconoscimento della proprietà della terra; tuttavia, questo non vuol dire che quel genere di lotta storicizzandosi abbia dato vita a forme di riconoscimento che siano finite con l’esaurirsi della stagione politica dei gruppi socio-culturali che l’hanno sostenuta. Le lotte pre-moderne per la proprietà della terra, le lotte illuministiche delle borghesia per l’universalizzazione dei diritti dell’uomo, le lotte comuniste per l’emancipazione della classe operaia, le lotte per la conquista di libertà civili e politiche degli afro-americani, delle donne, dei gay e delle lesbiche, immettono tutte nuova linfa di criticità nella definizione degli status giuridico-politici – è per questo che oggi possiamo parlare di “generazioni” di diritti umani (politici economici, sociali, culturali). Se, per un verso, ogni nuovo diritto aggiunge qualcosa alla struttura universale di giustificazione della razionalità istituzionale, per altro verso, esso apre un buco in quella stessa giustificazione, una forclusione appunto. E non può essere, mi chiedo, proprio questa differenziazione di legittimità nel linguaggio dei diritti a restituirci un’immagine più debole dell’autorità e delle istituzioni, ossia un quadro normativo passibile di trasformazione di senso e significato a partire dal mutarsi dei bisogni individuali e sociali?