L’attenzione di Kant per la corporeità: tra medicina e filosofia trascendentale

Chiara Fabbrizi

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Abstract: The purpose of this contribution is to demonstrate that Kant has not neglected the problem of the embodiment of reason. In fact, in order to understand Transcendental Philosophy we should bear in mind that the subject of knowledge is a human being. By focusing on the physiological aspects of the interaction between mind and body, and on the Kantian notes on medicine, I will show their general relevance for Transcendental Philosophy. Even if Kant denies that Transcendental Philosophy depends on human biology, he certainly sees the necessary connection between them. In particular, although the question concerning the relation between mind and body arises in Kant’s works on Anthropology and Medical Science, we can say that it is already implied in the whole of his Transcendental Philosophy. The Kantian Refutation of Idealism and his distinction between two Erkenntnisquellen irreducible to one source, are examples of that. Moreover, since Kant maintains that the science of his time may be unable to reach a physiological or medical explanation of the connection between mind and body, it is only in terms of Transcendental Philosophy that this undeniable relation can be explained.

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Lo scopo di questo articolo è mostrare che non solo Kant non ha trascurato il tema della corporeità, ma che per comprendere l’impostazione della filosofia trascendentale

può essere utile, se non necessario, tener conto del fatto che il soggetto che conosce è un uomo
Anche se ci soffermeremo sugli aspetti fisiologici dell’interazione tra mente e corpo e sulle annotazioni kantiane sulla medicina, lasceremo dunque intravedere il legame tra essi e la filosofia trascendentale, per rimarcare che per Kant non c’è una dipendenza della filosofia dalla biologia umana, ma sicuramente c’è una necessità di accordo tra le due. 1

Infatti sebbene il tema del rapporto tra mente e corpo emerga soprattutto negli scritti kantiani sull’antropologia e la medicina, è possibile vederlo in controluce sotteso all’intera filosofia trascendentale (basti pensare all’importanza della sensibilità per la conoscenza o all’irriducibilità delle due Erkenntnisquellen o ancora al ruolo fondamentale della confutazione dell’idealismo nella KrV). Anzi, poiché Kant ritiene che è difficile (se non impossibile, almeno per il suo tempo) giungere a una spiegazione del rapporto tra mente e corpo in ambito fisiologico e medico, è proprio sul piano della filosofia trascendentale che questo innegabile rapporto va giustificato. 2

1. Il tema del corpo negli scritti kantiani

Di fronte agli scritti kantiani è difficile trovare un campo scientifico che non vi sia trattato. Soprattutto se si tiene conto dell’insegnamento di Kant all’Albertina, e quindi della grande quantità di materiale offerto dagli appunti degli studenti che ci sono pervenuti, e ancor più dal lascito manoscritto kantiano (le cosiddette Reflexionen), è difficile non trovare argomenti per i settori più disparati. 3

Questo vale anche per il tema della corporeità, un argomento spesso negletto dalla critica, che solo recentemente si è soffermata con maggior interesse sull’argomento. 4

Se si esaminano approfonditamente le opere kantiane, è possibile notare che il tema del rapporto tra mente e corpo ha occupato sempre un posto nella riflessione kantiana e figura tra i problemi ancora aperti nelle pagine dell’Opus postumum. Non di rado infatti Kant si serve della coppia corpo-mente per delineare in parallelo e per differenziazione, ora ciò che è corpo, materia, ora ciò che è altro dal corpo e dalla materia. 5 Questo non stupisce se si pensa che nell’epoca in cui Kant vive il tema del rapporto tra mente e corpo è al centro dell’interesse di numerosi pensatori che Kant conosce bene. 6 Inoltre l’attenzione riservata da Kant alla corporeità rispecchia una direttiva illuminista. 7

A guidare l’interesse di Kant per la corporeità non è però la “moda” del momento, o una semplice mania per l’erudizione (è nota infatti l’avversione di Kant per il sapere fine a se stesso) 8 o il fatto che un uomo colto non deve trovarsi a dover pronunciare la frase: «quello che io so non si adatta, e ciò che si adatta, non lo so», 9 per cui è bene possedere in abbondanza conoscenze, sì da avere argomenti nella maggior parte delle occasioni di discussione.

Il tema della corporeità e del rapporto mente-corpo appare in alcuni snodi fondamentali del sistema kantiano (basti pensare che sono spesso collegate a esso le parti della KrV che subiscono una totale riscrittura nella seconda edizione, a cominciare dai Paralogismi della ragione riguardo la presunta sostanzialità dell’anima); tener conto della mente “incarnata”, inoltre, significa porre l’attenzione direttamente sull’uomo, obbedendo così a una direttiva kantiana, che vuole l’uomo come oggetto più importante cui applicare le conoscenze acquisite. 10  Infine, bisogna ricordare che data la sistematicità della filosofia kantiana tutti i temi che emergono nel corpus delle opere kantiane possono, anzi devono, essere inquadrati nell’orizzonte più ampio della sua filosofia. Proprio per questo, la trattazione fisiologica della corporeità, nonostante i limiti che presenta, è utile anche per gettare luce su queste parti della filosofia trascendentale e, viceversa, in assenza di sufficienti conoscenze fisiologiche, è dal punto di vista della filosofia trascendentale che va spiegata l’interazione tra mente e corpo (come interazione tra spontaneità e sensibilità).

2. Il corpo e il pensiero

Per sottolineare l’importanza accordata da Kant al ruolo della corporeità potremmo portare l’attenzione sul fatto che egli ritiene che la psicologia empirica deve essere riformulata come antropologia perché:

per le umane capacità di conoscere (für menschliche Einsichten) la psicologia non è, né può diventare, niente di più che antropologia, essa, cioè, in quanto conoscenza dell’uomo, è limitata alla condizione che egli conosca se stesso come oggetto del senso interno. Ma egli è anche cosciente di se stesso come oggetto dei sensi esterni, ossia del fatto di avere un corpo congiunto all’oggetto del senso interno che si chiama anima dell’uomo. 11

Infatti «può essere provato che ci è impossibile sapere se, mancando il corpo, il principio vitale che è nell’uomo (l’anima) può qualcosa sul pensiero e che cosa possa». 12

Nelle Vorlesungen logiche precritiche, più vicine a Meier e quindi a una logica legata alla psicologia, si legge che persino rispetto alla logica non possiamo prescindere dal fatto che abbiamo corpi. 13  In epoca critica Kant, avendo nettamente separato la logica dalla psicologia, non si spinge più a fare affermazioni del genere per la logica pura, tuttavia il punto resta valido per la logica applicata, che si serve degli insegnamenti dell’antropologia per dare massime utili all’«uso dell’intelletto sotto le condizioni empiriche soggettive». 14

Ma è l’intera filosofia che non deve dimenticare che il soggetto del pensiero è un uomo e non una mente disincarnata, come emerge con chiarezza dal saggio del 1796 Von einem neuerdings erhobenen vornehmen Ton in der Philosophie. In queste pagine Kant ricorda che Platone, secondo il quale la filosofia ha il «nobile compito» 15 di liberare l’uomo dalle catene del corpo, seppure incolpevole, fu «il padre di ogni fantasticare esaltato in filosofia». 16 Secondo Kant invece il corpo non deve essere considerato un impedimento per l’anima. 17 Piuttosto il corpo deve interagire con la mente (o anima) per la conoscenza, pertanto non il corpo in sé, ma solo un corpo non funzionante potrebbe essere di impedimento alla mente. 18

La spiegazione di questa inevitabile interazione, tuttavia, non può avvenire su una base meramente fisiologica. In una lettera a Marcus Herz della fine del 1773 scrive che va omessa «la sottile, e ai miei occhi sempre vana, indagine sul modo in cui gli organi del corpo stanno in collegamento con i pensieri». 19 Nel 1798, nella Anthropologie, ribadisce che una vera e propria trattazione fisiologica non porta a nessun progresso conoscitivo:

colui che investiga le cause naturali, sulle quali poggia, per esempio, il potere memorativo, può qua e là arzigogolare (hin und her vernünfteln) (come Cartesio) sopra le tracce lasciate nel cervello dalle impressioni, che seguono le sensazioni; ma deve ammettere che in questo gioco delle sue rappresentazioni egli è un puro spettatore e deve lasciar agire la natura, poiché non conosce i nervi cerebrali e le fibrille, né può servirsene per i suoi fini, onde ogni sottigliezza teoretica a questo riguardo è in pura perdita. 20

L’unica vera possibile spiegazione del commercio tra corpo e anima, dunque, è dal punto di vista trascendentale, come interazione tra recettività sensibile e spontaneità, una interazione che si osserva sul piano delle rappresentazioni e non della fisiologia. In tal senso, scrive Kant nella risposta a Eberhard, va intesa l’armonia prestabilita leibniziana:

Leibniz ha chiamato il fondamento di ciò (dell’armonia tra intelletto e sensibilità), soprattutto in relazione alla conoscenza dei corpi, e tra questi anzitutto il nostro, come fondamento mediatore di questo rapporto, un’armonia presta­bilita; con questo egli evidentemente non aveva spiegato, né voleva spiegare, quell’accordo, ma segnalava soltanto che per suo tramite dovremmo pensare una certa conformità a scopi nell’ordinamento da parte della causa suprema di noi stessi come delle cose fuori di noi, posta già nella creazione (prestabi­lita), ma non come predeterminazione di cose che si trovano l’una esterna all’altra, ma solo delle facoltà dell’animo (Gemütskräfte) in noi, della sensi­bilità e dell’intelletto, secondo la natura peculiare di ognuna l’una per l’altra, secondo quanto insegna la Critica. 21

Questo non impedisce a Kant di esporre, soprattutto in ambito antropologico, alcuni aspetti dell’interazione tra corpo e anima sia rispetto all’influsso del corpo sul pensiero, sia, viceversa, rispetto all’influsso del pensiero sul corpo, sia infine sulle patologie che possono intralciare l’interazione tra corpo e pensiero.

In questo quadro va dunque iscritto anche l’interesse di Kant per la medicina, che emerge soprattutto in Versuch über die Krankheiten des Kopfes (1764) e in Der Streit der Fakultäten, del 1798, e che è testimoniato anche dalle Reflexionen in proposito, nonché dal fatto che tra i corrispondenti abituali di Kant figurano dei medici, come J.B. Erhard, M. Herz e J.B. Jachmann (questi ultimi due furono allievi di Kant). 22

L’interesse di Kant per la medicina dunque non deve essere visto come episodico e slegato da interessi prettamente filosofici. Esso è invece del tutto coerente con la filosofia trascendentale e può offrire delucidazioni su temi particolarmente spinosi per l’esegesi kantiana. 23

A tutti questi argomenti dedicheremo ora la nostra attenzione, consapevoli del fatto che l’esame della fisiologia della conoscenza, rientra nell’osservazione teleologica della natura, e quindi ha solo un valore regolativo e non ha il carattere della necessità. Tuttavia, secondo Kant, sebbene non possiamo assumere che qualcosa sia intenzionalmente scopo della natura, in questo modo abbiamo almeno un principio in più per riguardarlo. 24

3. L’influsso del corpo sul pensiero

Dal punto di vista della filosofia trascendentale parlare dell’apporto del corpo per la conoscenza significherebbe soffermarsi sul contenuto dell’Estetica trascendentale.

È possibile però anche andare oltre l’Estetica trascendentale – o forse piuttosto di restare al di qua dell’Estetica trascendentale – per soffermarsi solo sull’osservazione dell’interazione tra corpo e pensiero dal punto di vista “fisiologico” per osservare come la sensibilità possa giovare, ostacolare o addirittura impedire la conoscenza.

La sensibilità in questo caso non è semplicemente la ricezione di stimoli dall’esterno secondo le due forme a priori dello spazio e del tempo, ma è declinata nei cinque sensi, a ciascuno dei quali può essere riconosciuto un preciso ruolo nella conoscenza, secondo quanto si legge nella Anthropologie, della quale seguiremo il dettato.

Secondo Kant, i cinque sensi sono nel loro insieme «sensi della sensazione organica, quasi altrettante finestre esterne apprestate dalla natura all’animale per distinguere gli oggetti». 25 Senza di essi, dunque, non avremmo una finestra sul mondo.

Tra di essi Kant fa una prima distinzione legata a soggettività e oggettività: tatto vista e udito sono più oggettivi che soggettivi, cioè «contribuiscono alla conoscenza dell’oggetto più di quanto non scuotano la coscienza dell’organo interessato»; 26 gusto e olfatto invece «sono più soggettivi che oggettivi, cioè la rappresentazione che si ha per mezzo di essi è più quella del godimento (Genuß) che la conoscenza dell’oggetto esterno», 27 quindi sono riferibili solo alla percezione soggettiva di alcuni oggetti, e offrono una valutazione solo difficilmente condivisibile rispetto al modo in cui il soggetto subisce l’affezione. 28 I primi tre, invece, ci permettono di conoscere gli oggetti come cose fuori di noi, ovvero danno modo di riflettere sul nostro modo di percepire gli oggetti esterni, cioè sulla figura e sulla collocazione degli oggetti nello spazio, o offrono un tramite sensibile per i concetti, attraverso la comunicazione orale. 29

È interessante notare che in realtà secondo Kant è possibile considerare l’udito anche un senso vago rispetto all’oggetto, e in tal caso esso assume un valore del tutto particolare e importante rispetto alla conoscenza, in quanto il suono, percepito dall’udito, si rivela il mezzo migliore per accompagnare i concetti. 30 Questo però vale da un punto di vista che non è più semplicemente la percezione “animale” degli oggetti (cioè quella propria di tutti gli animali) ma solo da un punto di vista umano. Infatti, sebbene gli animali abbiano spesso un udito anche più sviluppato di quello umano e talvolta buone capacità fonatorie, solo umani sono i concetti ed è solo nell’essere animale e razionale che si compie il passo che porta all’articolazione dei suoni e alla loro connessione da parte dell’intelletto secondo una legge, con la creazione di un linguaggio. 31

I sensi tuttavia non hanno solo il ruolo di accompagnare il pensiero (parlare e udire) o di recepire l’esterno e offrire materiale al pensiero: a essi Kant attribuisce anche il ruolo di tenere sveglio un uomo che stia pensando, anche qualora, e forse soprattutto, se esso sia completamente assorto nei pensieri più astratti. Nella Anthropologie Kant specifica a tal proposito che le sensazioni hanno il ruolo di stimolare il soggetto, e a seconda di quanto riescono a farlo, a esse può essere attribuito un grado.

Si noti che questo non si allontana dal contenuto del principio delle anticipazioni della percezione nella KrV, secondo il quale «in tutti i fenomeni, il reale che è un oggetto della sensazione ha una quantità intensiva, ossia un grado». 32 Vale a dire che tutto ciò che è reale affetta in un certo grado la nostra sensibilità, cioè noi ne abbiamo grado di coscienza.

Tornando alla Anthropologie, più in particolare, le sensazioni crescono di grado per il contrasto, la novità, il cambiamento e l’intensità. 33 Tutte queste caratteristiche si oppongono alla caduta dell’attenzione nei primi tre casi, mentre nel caso dell’intensità, come vedremo meglio tra poco, si tratta di sapere o poter misurare il grado per non incorrere nell’impossibilità di avere le sensazioni.

Le rappresentazioni concomitanti nell’immaginazione, come le fiamme del caminetto o lo scorrere di un ruscello, avrebbero dunque la capacità di intrattenere e mantenere viva l’immaginazione. 34 D’altra parte, invece, il tabacco, da masticare o fumare, ha anch’esso la funzione di mantenere desta l’attenzione, tuttavia non rispetto al senso, ma piuttosto occupando il senso mentre si pone attenzione ai pensieri:

indipendentemente dall’utile o dal danno igienico che può produrre in ambedue gli organi (gusto e olfatto) la secrezione dell’umore, è, come semplice eccitamento della sensibilità in genere, simile a uno stimolo spesso ripetuto per destare l’attenzione sul corso dei propri pensieri, il quale altrimenti sonnecchierebbe o languirebbe per l’uniformità, mentre quel mezzo lo tiene, con sollecitazioni continue, sempre desto. Questa specie di conversazione dell’uomo con se stesso tiene luogo di una società, poiché riempie il vuoto del tempo, anziché con la conversazione, con sensazioni sempre fresche e stimoli fuggevoli, ma sempre rinnovati. 35

Non bisogna però confondere il flusso di rappresentazioni concomitanti e il ruolo delle sensazioni nel tenere sveglia l’attenzione del soggetto, con la mera ripetitività: quest’ultima è infatti piuttosto un impedimento per l’intelletto (e soprattutto per l’attenzione). Secondo Kant infatti l’abitudine e l’assuefazione alle sensazioni rimuove l’attenzione: «l’abituarsi (Gewohntwerden) (consuetudo) (…) si ha quando sensazioni della medesima natura con la loro lunga durata uniforme rimuovono l’attenzione dal senso e quasi ne tolgono la coscienza». 36

Un riflesso di ciò è che nel caso delle azioni l’abitudine permette con la pazienza di sopportare il male alleggerendone il peso, ma allo stesso tempo rende difficile la coscienza e la memoria del bene, causando l’ingratitudine: «l’assuefazione (Angewohneit) (…) (assuetudo) è una necessità fisica interna di condursi ulteriormente al medesimo modo, che si è tenuto prima», 37 che toglie il valore morale ad azioni ripetute senza il riferimento alla libertà dello spirito, tanto da condurre al ridicolo, e porta a ripetere formule che non sono più legate ai pensieri. Prosegue Kant:

i modi di dire abituali (formule rivolte a riempire solo il vuoto di pensieri) rendono l’ascoltatore continuamente preoccupato di sentirseli ripetere, e fanno di chi parla una macchina da parole. La causa della nausea che desta l’abitudine meccanica di altri sta in ciò, che troppo qui l’uomo lascia trapelare dell’animale, diretto istintivamente dalla regola della ripetizione come un’altra natura (non umana), e così si corre il rischio di essere accomunati con le bestie in una sola e medesima classe. (…) Di regola ogni abitudine meccanica è riprovevole. 38

L’uomo deve mostrare la propria libertà e razionalità, altrimenti appare non dissimile da un animale guidato meccanicamente dall’istinto. 39 La ripetizione di sensazioni tutte uguali si avvicina dunque all’assenza di sensazioni, che ha degli effetti negativi sul pensiero. Innanzitutto, perché è attraverso i sensi che si mantiene un contatto con la realtà: nelle osservazioni sul bello e il sublime Kant sottolinea, con un esempio tratto da un racconto, che una solitudine estrema, che comporti l’esclusione non solo dagli uomini, ma addirittura dall’intera creazione, apparirebbe come il peggiore degli incubi. A tal proposito Kant cita un racconto nel quale il protagonista sogna di essere stato punito con questo isolamento per la sua avarizia. Stordito e terrorizzato dall’immaginazione onirica di questo stato disumano, egli allunga poi le mani verso gli oggetti reali con tale veemenza, da esserne destato. 40

Sulla stessa linea, nel coevo saggio sulle malattie della testa, si legge che i sogni e le chimere in realtà sono sempre presenti nella mente dell’uomo e diventano preponderanti proprio quando i sensi – che in sé sono molto convincenti e vincono, per così dire, sulle chimere – tacciono. 41

Ancora nella Anthropologie Kant collega l’assenza di sensazioni a un sentimento di orrore: «il vuoto di sensazioni avvertito in sé desta orrore (horror vacui) e quasi il presentimento di una lunga morte, la quale viene considerata più penosa di quando il fato taglia netto il filo della vita». 42 Questo effetto prefigura quasi la possibilità di percepire la propria morte nel tempo (cosa in sé impossibile) con l’assenza di sensazioni, che in realtà, non mancano mai del tutto secondo Kant (semmai possiamo non essere del tutto coscienti delle sensazioni, qualora ne abbiamo un basso grado di coscienza a causa dell’assenza di contrasto, novità e cambiamento). 43

Rispetto all’indebolimento, all’inibizione e alla completa perdita della facoltà di sentire, Kant parla dell’ebbrezza, del sonno, dello svenimento, e della morte apparente e reale: chi è ubriaco non può ordinare le proprie rappresentazioni sensibili secondo le leggi dell’esperienza; lo svenimento è un preludio della morte, che dipende in genere dall’impossibilità di abbracciare sensazioni diverse che ritornano rapidamente le une sulle altre. 44 Ma il caso che più sembra interessare Kant è quello del sonno, che è «la condizione dell’uomo sano che non può divenire cosciente delle rappresentazioni provenienti dai sensi esterni (…) onde l’uomo appare a se stesso come un neonato nel mondo, e passa così una terza parte della propria vita in modo incosciente e senza rimpianti». 45

Nel caso del sonno si ha un «assopimento degli organi dei sensi, il quale ha per conseguenza un grado di attenzione sopra di sé minore che in uno stato normale». 46 Si può anche affermare che esso giunga quando l’animo diviene incosciente o non ragiona. 47

A parte ciò non c’è molto altro da dire. Anzi, come scrive Kant in una riflessione, a chi pretende di saper spiegare il sonno, bisognerebbe dire con Orazio che egli vuol mostrare di saper ciò che come me non sa. 48

D’altra parte, in base alla kantiana confutazione dell’idealismo, emerge una certa coerenza nel fatto che in ambito antropologico Kant sostenga che una minore attenzione su di sé consegue l’assopimento dei sensi: questo rifletterebbe infatti il fatto che i sensi sono coinvolti nell’attenzione portata a noi stessi.

Sempre nella Anthropologie Kant elenca anche altri impedimenti che sembrano dipendere da «un’inibizione dell’uso ordinario e abituale della facoltà di riflettere, onde si produce un arresto nel gioco delle rappresentazioni». 49 Anche esse, infatti, come il sonno, dipendono dall’assenza della stabilità che può venire solo dal contatto con l’esterno che passa attraverso i sensi. Accade così che si possa essere fuori di sé, ovvero di subire una momentanea perdita di senno, o a causa all’emozione improvvisa, o anche per una «intuizione che non è quella dei sensi», 50 e che determina l’estasi.

Tutti questi fenomeni sono accomunati dall’affievolimento o dall’assenza della facoltà di sentire, che provoca un conseguente “malfunzionamento” anche nel pensiero e nella riflessione, ma è possibile anche che un grado eccessivo nelle percezioni impedisca la riflessione, come a provare che è necessario un equilibrio nella determinazione della sensibilità umana da parte dell’esterno, affinché si possa riflettere utilmente sulla base di questo apporto.

Tatto, vista e udito, come abbiamo visto, grazie alla riflessione che possiamo operare sui dati che da essi ci giungono, ci informano dell’esterno da noi, tuttavia, sottolinea Kant, «se la sensazione diventa così forte, che la coscienza del moto dell’organo è maggiore di quella del rapporto con l’oggetto esterno, allora le rappresentazioni esterne vengono mutate in interne» 51 e l’attenzione è rivolta solamente alla rappresentazione soggettiva, al mutamento dell’organo, poiché «quanto più fortemente i sensi si sentono affetti da un medesimo grado dell’influsso che loro corrisponde, tanto meno ci informano. Viceversa, se devono informarci, devono colpirci moderatamente». 52 Se sono accecato dalla luce, o assordito da un suono troppo forte, propriamente non sento più e non vedo più, percepisco solo il mio stato di sofferenza, parimenti se tocco una superficie scottante, o se mi soffermo solo sulle qualità esteriori della superficie (calore, ruvidità), sento ancora solo il mio subire la presenza dell’oggetto nel senso, senza poter riflettere sugli oggetti che si offrono al senso né sulle peculiarità del percepire stesso.

La mente dunque sembra influenzata (positivamente e negativamente) dallo stato del corpo, come mostrano anche gli effetti conseguenti all’assunzione di sostanze eccitanti o calmanti che influiscono sull’immaginazione. E benché tutte queste osservazioni empiriche siano prive di necessità, esse sono perfettamente conformi al fatto che, come si legge nelle prime righe dell’Estetica trascendentale, senza l’apporto dei sensi non possiamo conoscere oggetti, e dunque se la sensibilità viene meno o è alterata, la nostra mente rischia di cadere preda di chimere.

Per così dire, se il sonno della ragione genera mostri, anche il sonno dei sensi può essere nocivo per la ragione.

4. L’influsso del pensiero sul corpo

In tema di influsso del pensiero sul corpo, viene naturale pensare alla volontà che spinge il corpo all’azione. 53 Tuttavia, così come per considerare l’influsso del corpo sul pensiero non abbiamo inteso soffermarci sull’Estetica trascendentale ma sulle annotazioni kantiane sulla fisiologia dei sensi, passando ora a considerare l’influsso del pensiero sul corpo non punteremo la nostra attenzione sulla volontà, l’arbitrio, o sull’implementazione di un’azione da parte del pensiero. Né ci soffermeremo sulla dottrina delle ideae materiales come riscontro sensibile che possa spiegare come entrino in contatto il pensiero e la componente fisica. 54 Piuttosto dedicheremo attenzione alle annotazioni kantiane sulle possibili ricadute sul corpo dell’attività del pensiero.

Fin dall’epoca precritica Kant rifiuta la possibilità di identificare la mente con il cervello, come abbiamo già detto, tuttavia lega con questo organo la nostra capacità di pensare, ad esempio riconoscendo l’affaticamento fisico prodotto dalla riflessione. 55 Nei Träume si legge che «da una forte riflessione si sente chiaramente che i nervi cerebrali sono affaticati». 56 Similmente nella Metaphysik L1 si legge che «il corpo subisce molti attacchi dalla riflessione e ne è molto impegnato. Quanto più l’anima è attiva, tanto più il corpo viene logorato (…). L’anima affetta moltissimo il cervello mediante il pensiero». 57 Pertanto, anche se non possiamo dire che sia il cervello a produrre il pensiero, l’anima utilizza il cervello, quando il corpo è mosso attraverso la volontà libera, o infine quando i sensi sono colpiti dagli oggetti esterni e ne trasmettono la sensazione all’anima. 58

Nella Reflexion 160, Kant ipotizza che il sonno abbia il ruolo di far riprendere dallo sforzo causato dall’attenzione, sia dalla fatica per l’attenzione rivolta al senso interno sia all’esterno, per esempio nel caso in cui si ponga attenzione a lungo «ad minima (…) per visum aut auditum», 59 e, allo stesso tempo, sostiene che se la mente è molto occupata, scompaiono sensazioni esterne, per esempio il dolore.

Ci sono poi reazioni fisiologiche come il mal di mare, che possono essere interpretate come effetto dell’immaginazione sul corpo. 60 Ma apparentemente anche i desideri vani, nel continuo tendere le forze mediante rappresentazioni, fanno dilatare e avvizzire il cuore e avvizzire l’animo in uno sforzo inane verso qualcosa di irrealizzabile. Eppure, nonostante gli effetti negativi che ne discendono, è comunque possibile pensare che se non ci fossero, e se non «fossimo determinati a esercitare la forza prima che ci si sia assicurati della sufficienza della nostra facoltà di produrre un oggetto, questa forza rimarrebbe in gran parte inutilizzata. Di solito infatti impariamo a conoscere le nostre forze solo perché innanzitutto le saggiamo». 61

Anche le emozioni possono essere considerate utili al fine di promuovere la salute del corpo, in quanto stimolano reazioni meccaniche nell’organismo. Kant ne parla nella KU a proposito del riso che «mediante l’oscillazione degli organi (…) favorisce il ristabilimento del loro equilibrio e ha un influsso benefico sulla salute», 62 e torna sull’argomento nella Anthropologie, sempre rispetto al riso. Ma il riferimento va anche al pianto e persino all’ira, che tuttavia, benché possa assicurare una buona digestione causando una rilassatezza della forza vitale nell’organismo, «non è senza pericolo, a causa della probabile resistenza» 63 della persone contro cui è rivolta. Quello che è benefico nel riso e nel pianto è il fatto che essi tendono a ristabilire la calma nell’animo poiché «sono modi di liberare da impedimenti la forza vitale per mezzo di sfoghi». 64 E si potrebbe continuare con il fatto che il grido nel dolore serve a sciogliere l’arresto del sangue al cuore, e così via. 65

Nell’ambito del possibile influsso della mente sul corpo rientra anche la trattazione kantiana dei sogni, un argomento che merita una attenzione particolare.

Nella Critica della facoltà teleologica di giudizio Kant avanza una ipotesi su una possibile interpretazione teleologica dell’attitudine a sognare e scrive:

mi domanderei se i sogni (di cui il sonno non è mai privo, anche se solo di rado ci si ricorda di essi) non possano essere un ordinamento della natura che è conforme a scopi, in quanto, nel rilassamento di tutte le forze motrici del corpo, servono a muovere internamente gli organi vitali per mezzo dell’immaginazione e della sua grande attività (che in quello stato arriva per lo più fino all’affetto), così come inoltre questa gioca di solito con tanta maggior vivacità nel sonno quando lo stomaco è troppo pieno e questo movimento è tanto più necessario, e di conseguenza, senza questa forza motrice interna e questa spossante inquietudine di cui accusiamo i sogni (che forse sono in realtà rimedi salutari), il sonno, perfino nello stato di salute, sarebbe una completa estinzione della vita. 66

Se ogni venir meno della percezione può essere considerato un grado di assenza della vita stessa, allora il sonno con una totale assenza di percezioni, comprese quelle illusorie generate dai sogni, potrebbe avvicinarsi all’estinzione della vita.

Secondo Kant invece non è lecito «fare appello allo stato di sonno profondo» per «provare la realtà di rappresentazioni oscure», come fanno «alcuni filosofi». 67 Il riferimento è qui a Leibniz e Wolff, i quali avevano sostenuto che bisogna ammettere delle rappresentazioni oscure, per esempio nel caso del sonno privo di sogni quando l’anima non è consapevole né di sé né delle cose percepite, e tuttavia non può non percepire anche in quel momento in quanto essa riproduce continuamente l’idea di tutto l’universo. Come scrive Leibniz nei Nouveaux Essais:

non si dorme mai così profondamente da non avere una qualche sensazione debole e confusa; e non si sarebbe mai risvegliati dal più grande rumore del mondo, se non avessimo qualche percezione del suo cominciamento, che è piccolo, allo stesso modo che non si potrebbe mai rompere una corda col più grande sforzo del mondo, se essa non fosse tesa e allungata un poco mediante sforzi di entità ridotta, nonostante che la piccola estensione che con essi si ottiene non sia manifesta (ovvero nonostante essa appartenga al regno delle piccole percezioni). 68

Secondo Kant non abbiamo un appiglio per presupporre queste rappresentazioni oscure nello stato di sonno profondo:

non si può dir con sicurezza più di questo, che, cioè, nella veglia non ci ricordiamo di nessuna di quelle rappresentazioni che possiamo aver avuto nel sonno profondo, e da ciò consegue soltanto che esse non sono state rappresentate chiaramente allo svegliarci, ma non che esse erano oscure anche quando dormivamo. 69

Anzi, se ci si dovesse sbilanciare in proposito, si dovrebbe supporre che le rappresentazioni dell’anima nel sonno siano ancor più chiare di quelle nella veglia, grazie al «completo riposo dei sensi esterni». 70 Ma se possiamo immaginare che questo riposo dei sensi renda particolarmente chiare le rappresentazioni nel sonno, è poi proprio il fatto che nei sogni non viene sentito contemporaneamente anche il corpo, che fa sì che al risveglio «manca l’idea concomitante di questo (del corpo), la quale poteva procurare la coscienza al precedente stato di pensieri, in quanto appartenente appunto alla stessa persona». 71

Nella saggio sulla Deutlichkeit si legge addirittura che, anche qualora non se ne sia più coscienti al risveglio, nulla esclude che le rappresentazioni del sogno fossero chiare durante il sogno (come dimostrano i sonnambuli). Anzi, forse è nel sonno profondo che l’anima attinge al massimo delle sue possibilità. A sostenere il contrario c’è infatti solo un argomento che non prova nulla, ovvero il fatto che al risveglio non ricordiamo. 72

Dunque così come se si vuole spiegare il sonno bisogna limitarsi a una spiegazione meccanica (il rilassamento delle forze motrici), allo stesso modo se ci fosse dato (all’epoca di Kant certamente non era dato) di sapere come meccanicamente alcuni stimoli sul cervello provocano le immagini dei sogni, questa sarebbe la spiegazione reale del sogno. In assenza di ciò, non ci resta che assumere una spiegazione teleologica secondo la quale il sonno e i sogni sono utili in qualche modo alla vita.

Da questa assunzione deriva che per coerenza si debba pensare che tutti gli animali sognino, e non solo l’uomo – e Kant effettivamente fa questa affermazione nello Streit der Fakultäten. Il sogno, si legge in quest’opera, è «una confusione di rappresentazioni, che annulla la nostra coscienza della posizione fisica (esterna)» nella quale:

subentra un ordine del tutto diverso, cioè un gioco involontario dell’immaginazione (che nello stato di salute è il sogno), in cui, per un mirabile artificio dell’organizzazione animale, il corpo è rilassato quanto ai moti animali, ma per il moto vitale è internamente agitato, e proprio per mezzo dei sogni, che (…) non sono potuti mancare: perché altrimenti, se fossero del tutto assenti, se la forza nervosa che parte dal cervello, sede delle rappresentazioni, non operasse unitamente a quella muscolare delle viscere, la vita non potrebbe conservarsi neppure un istante. Perciò è presumibile che tutti gli animali sognino quando dormono. 73

Ma come è possibile definire quello del sogno un “ordine del tutto diverso”?

Secondo Kant il sistema dei principi sintetici a priori esposti nella KrV, permettono di stabilire un punto certo in base al quale stabilire l’ordine che è allo stesso tempo l’unico modo sano di ragionare. 74 Esso è dunque una garanzia contro l’ipotesi di un sogno collettivo. 75 Il mondo fuori dal sogno è un mondo condiviso, mentre «quando di diversi uomini ciascuno ha il suo proprio mondo, è da presumere che essi sognino». 76 Questa condivisione passa anche per la sensibilità corporea. Nei Träume Kant spiega infatti che chi sta dormendo non ha «la rappresentazione sentita del suo corpo, e rimane soltanto quella autoimmaginata, verso la quale le altre chimere sono pensate come in rapporto esterno, e fintantoché si dorme, devono anche ingannare il dormiente, giacché non vi è sensazione, che, in confronto con quella rappresentazione, faccia distinguere l’originale dall’ombra, cioè l’esterno dall’interno». 77 È dunque proprio grazie alle sensazioni corporee che è possibile riconoscere un sogno (ordinario) dalla realtà.

Le cose stanno diversamente per i “sognatori della sensazione”: essi hanno presente la sensazione che viene dal loro corpo, ma la trascurano, causando così una errata considerazione di ciò che è nel loro interno e ciò che è esterno a loro. Le cose immaginate vengono proiettate dai sognatori veglianti fuori di sé e prese per immagini che giungono effettivamente dall’esterno. Secondo Kant si potrebbe ipotizzare una spiegazione di questo fenomeno riconducendolo a una qualche stortura negli organi del cervello di questi individui che finiscono per porre fuori di sé con un focus immaginarius rappresentazioni in realtà solo immaginate. 78

Le annotazioni kantiane sul sogno non sono semplicemente una curiosità: dietro di esse si può cogliere la perfetta coerenza con la confutazione dell’idealismo. Il cuore di tale confutazione è il fatto che «in realtà io sono cosciente della mia esistenza nel tempo (e quindi della determinabilità di essa nel tempo) attraverso un’esperienza esterna». 79 E quest’ultima non può che passare attraverso la sensibilità. Tanto la coscienza interna di sé deve essere legata all’esterno, che «chi sa raccontare molto di interne esperienze (…) nel suo viaggio di scoperta alla ricerca di se stesso approda sempre e soltanto ad Anticira», 80 come afferma Kant con sottinteso riferimento a Orazio, alludendo all’antica usanza di curare i disturbi mentali con l’elleboro, pianta molto comune ad Anticira. 81

All’esperienza è necessaria infatti la stabilità, prerogativa che manca alla coscienza interna di sé, legata al tempo e al suo flusso:

le esperienze interne non riguardano, come le esterne, oggetti nello spazio, in cui gli oggetti stessi appaiono gli uni accanto agli altri e come stabili. Il senso interno vede i rapporti delle sue determinazioni soltanto nel tempo e quindi in un fluire, in cui non è possibile nessuna stabilità della osservazione, che pure è necessaria all’esperienza. 82

Al fine di ristabilire l’ordine normale in chi ha tendenza all’esaltazione o alla visione, è dunque necessario il rapporto con l’esterno. Solo in questo modo chi ha creduto di trovare qualcosa nel suo animo, senza rendersi conto di aver trovato solo ciò che egli stesso vi aveva messo, può liberarsi dall’inganno dei propri sogni a occhi aperti:

a una tale inversione dello spirito non si può portare sufficiente rimedio con rappresentazioni razionali (perché, infatti, che cosa possono esse contro intuizioni immaginarie?). La tendenza a ripiegarsi in se stesso, con tutte le illusioni del senso interno che ne derivano, non può essere riportata nell’ordine normale che da un ritorno dell’uomo al mondo esterno, perciò all’ordine delle cose sottoposte ai sensi esterni. 83

Anche le aspirazioni vane, slegate dalla realtà, possono rendere malato l’uomo. Questo emerge nell’appendice alla Rechtslehre aggiunta nella seconda edizione della Metaphysik der Sitten, nella quale Kant risponde a una critica rivolta alla sua definizione della facoltà di desiderare, come «facoltà di essere, mediante le proprie rappresentazioni, causa degli oggetti di queste rappresentazioni». La critica alla quale Kant intende rispondere è quella di Bouterwerk, il quale, nella sua recensione all’opera, prendendo alla lettera la definizione aveva obiettato che la conseguenza del desiderio non ha sempre condizioni esterne, tanto che questa facoltà ha un significato per l’idealista, che giudica pari a nulla il mondo esterno. A tal proposito Kant aggiunge:

non esistono forse ugualmente delle aspirazioni vivissime seppure nello stesso tempo consapevolmente vane (per esempio un desiderio come questo: volesse Dio che quell’uomo vivesse ancora), le quali sono sì prive d’atti, e tuttavia non prive di conseguenze, ossia quantunque non abbiano nessuna azione sulle cose esterne, agiscono però potentemente nell’interno del soggetto stesso (rendendolo malato)? Una brama, in quanto sforzo (nisus) di essere causa per mezzo delle proprie rappresentazioni, è, quando anche il soggetto scorga l’insufficienza di questa causa relativamente all’effetto desiderato, pur sempre una specie di causalità, almeno nell’interno del soggetto. (…) non si tratta qui che del rapporto di una causa (la rappresentazione) con l’effetto (il sentimento) in genere, la causalità della rappresentazione (sia essa interna o esterna) in rapporto al suo oggetto deve essere necessariamente compresa nel concetto di facoltà di desiderare. 84

Seppure diventi consapevole della vanità di alcuni desideri, l’uomo non smette di subirne il potere, e se questi desideri vani non possono agire all’esterno, agiscono comunque all’interno dell’uomo, rendendolo vittima delle proprie rappresentazioni oscure. 85

Questo ci permette di passare a considerare l’ambito delle patologie della mente.

5. Le patologie della mente

Delle patologie che possono turbare la mente Kant offre una trattazione sistematica nella Anthropologie. Ciò che si evince è che la sanità – così come è emerso già nella trattazione dei sogni – sta nell’ordine del pensieri, un ordine condiviso da tutti gli uomini, e non solo privato. Per questo, scrive Kant nella Anthropologie, «l’unico segno generale della pazzia è la perdita del senso comune (sensus communis) e il subentrare invece del senso logico personale (sensus privatus)». 86

È su questa base che Kant può indicare quali siano le semplici deficienze e le malattie dell’animo rispetto alla facoltà di conoscere. E sempre su questa base è possibile affermare che l’esercizio di qualche piccola follia, controllata e voluta, e soprattutto ridotta all’ambito privato del divertimento, come gli hobby, può essere positivo, poiché tiene «sempre deste le forze vitali». 87

Le malattie dell’animo secondo Kant sono riassumibili in due gruppi: l’ipocondria (le chimere) e la perturbazione. Nel primo caso il corso dei pensieri non è dominabile, nel secondo, il corso dei pensieri si inserisce in un mondo che segue regole private. 88

1)    L’ipocondria, connessa alle chimere, è un disturbo nel quale l’ammalato è consapevole del malfunzionamento del corso dei propri pensieri «perché la ragione non ha sufficiente dominio su di sé per poter raddrizzare o trattenere o sospingere il corso dei pensieri». 89 La malattia degli ipocondriaci è data dal fatto che per essi «certe sensazioni corporee interne non tanto rivelano un male reale esistente nel corpo, quanto piuttosto lo fanno solo temere». 90 Se l’ipocondriaco pone la propria attenzione su questo timore, e soprattutto se consulta egli stesso libri di medicina (per cui finisce per sentirsi tutte le malattie che vi vede descritte) benché sia consapevole del fatto che sta solo immaginando queste malattie, ne resta succube. Non riuscendo a liberarsi dalle proprie immaginazioni, si rivolge al medico, che «non lo può quietare altrimenti che come un bambino (con pallottole di pane invece di medicine)». 91

Ancora a tal proposito, in una riflessione Kant annota che «innanzitutto è svantaggiosa al corpo l’attenzione diretta a se stesso, specialmente al corpo, mantiene le malattie, soprattutto gli spasmi. L’attenzione diretta all’animo indebolisce il corpo. Diarium observatoris sui ipsus». 92

Per usare un termine che sarà coniato solo successivamente, potremmo parlare dunque di una vera e propria origine psicosomatica dei (presunti) disturbi dell’ipocondriaco.

2)    La mania, ovvero la perturbazione dell’animo, intesa come corso volontario dei pensieri che segue una regola soggettiva e va contro le regole oggettive conformi alle leggi dell’esperienza. Si tratta qui di un completo disordine, pertanto, sostiene Kant, è difficile anche darne una classificazione, ed è impossibile da curare:

è difficile fare una divisione sistematica di ciò che essenzialmente e inguaribilmente è disordine. C’è anche poca utilità a occuparsene, perché, siccome le forze del soggetto non cooperano (come accade nelle malattie del corpo) alla guarigione, e tuttavia questo scopo può essere raggiunto solo per mezzo dell’uso dell’intelletto, allora ogni metodo di cura deve riuscire vano. 93

Poiché le malattie dell’animo possono essere curate solo se l’animo collabora e ristabilisce l’ordine nel corso dei pensieri, quando il disordine è completo e il soggetto ignora completamente le leggi oggettive del pensiero, non c’è cura possibile. Kant si sforza comunque di dare una classificazione delle perturbazioni proprie della mania in tre specie: 94

a)    tumultuaria: la confusione mentale, rispetto alla rappresentazione sensibile, che impedisce di porre le rappresentazioni in un ordine necessario alla possibilità dell’esperienza;

b)    metodica: il delirio, in cui il racconto del malato è conforme alle leggi dell’esperienza ma si confonde tra rappresentazioni spontanee e vere, scambiando cose solo immaginate per cose percepite. In questo gruppo va posto anche il perturbamento metodico frammentario, cioè quello che riguarda la facoltà di giudizio, che porta a inseguire e costruire analogie realizzando connessioni fantasiose tra cose disparate;

c)    sistematica: la stravaganza, che riguarda la ragione, nella quale l’ammalato crede di comprendere l’incomprensibile (ad es. la quadratura del cerchio) allontanandosi dalla guida dell’esperienza. L’anima è in questo caso propriamente alienata, in quanto è come spostata rispetto al sensorium commune necessario per l’unità della vita animale. Nella stravaganza è come se l’anima non fosse più nella normale situazione in cui si trova in ogni animale, ovvero incarnata nel corpo attraverso il quale percepisce l’esterno. Essa sembra come collocarsi altrove, al di là dei limiti corporei:

pressappoco come accade di un paesaggio montano che, visto a volo d’uccello, dà un’impressione del tutto diversa di quando è considerato dal piano. In verità, l’anima non si sente o non si vede in un altro posto (poiché essa non può, senza cadere in contraddizione, percepirsi secondo un posto nello spazio, perché altrimenti si percepirebbe come oggetto del suo senso esterno, mentre essa è soltanto oggetto del senso interno); ma in questo modo si spiega nel miglior modo che si può la cosiddetta alienazione. 95

In questo gruppo vanno inseriti anche i visionari, che trascurano abitualmente il confronto con le leggi dell’esperienza, ovvero sognano a occhi aperti. 96

Oltre alla perturbazioni, ci sono le deficienze. Tra le perturbazioni dell’animo e le deficienze della facoltà di conoscere non c’è solo un grado differente, ma anche una diversa qualità dell’alterazione, qualora non ci sia coscienza (che Kant attribuisce all’ipocondriaco) né volontà (attribuibile a chi ha l’animo perturbato) rispetto al corso erroneo dei pensieri.

Alcune deficienze vengono considerate da Kant meno gravi, come la testa ottusa, che si ha quando manca lo spirito (Witz) ma l’intelletto e la ragione sono sani. O la stupidità (la deficienza della facoltà di giudizio). Quando si arriva invece alla totale deficienza di spirito, le persone che ne sono vittima vengono recluse in un luogo in cui «senza riguardo alla maturità e alla forza della loro età, devono essere tenuti in ordine nelle minime circostanze della vita da una ragione estranea». 97 In questi casi:

la deficienza totale di spirito che o non consente l’uso animale della forza vitale (…) o anche solo consente l’imitazione puramente meccanica delle azioni esterne possibili agli animali (…) si chiama imbecillità (Blödsinnigkeit), e può essere chiamata non tanto malattia dello spirito, quanto piuttosto assenza di spirito (Seelenlosigkeit). 98

Rientrano infine nelle malattie dell’animo anche i disturbi legati alla facoltà di desiderare, cioè le emozioni e la passioni, perché esse escludono il dominio della ragione. 99 Quando esse cadono nell’eccesso, sembra che l’azione sul corpo possa almeno placarne la violenza, se è volta a impedire un movimento che asseconda l’impeto, 100 ma sostanzialmente è l’animo che deve governarle, affinché non ci rendano ciechi. 101 Le emozioni infatti «sono in genere stati morbosi (sintomi)», 102 benché gli aspetti fisici che si legano a esse possono avere degli effetti positivi. 103

6. L’origine fisica dei disturbi mentali

Secondo Kant se si tiene conto dei fini dell’uomo è necessario coltivare tutte le facoltà, siano esse della mente o corporali, perché, se da una parte per la sopravvivenza dell’uomo come vivente sono di primaria importanza le ultime (cioè le corporali), dall’altra, il fine completo dell’esistenza dell’uomo comprende anche, se non soprattutto, le facoltà della mente. C’è dunque una piena e completa interazione tra la natura fisica, animale, dell’uomo, e la sua caratteristica razionalità (intesa come capacità di pensiero e moralità). 104

Di fronte alla malattia, peraltro, i sensi e l’intelletto devono necessariamente collaborare, poiché essa può essere solo “sentita” ma le cause devono essere indagate dall’intelletto:

riguardo alla salute (…) la faccenda è del tutto intricata. Ci si può sentire (fuhlen) sani (a giudicare dalla piacevole sensazione della propria vita) ma non si può mai sapere (wissen) di esserlo. – Ogni causa di morte naturale è una malattia: la si avverta o no. (…) Ma la causalità non si può sentire, per riconoscerla occorre l’intelletto, il cui giudizio può essere erroneo; il sentimento (Gefühl) invece è infallibile, ma possiamo parlare di sentimento solo se ci sentiamo malati; ma se anche quando non ci si sente così, tuttavia ugualmente (la malattia) può celarsi nell’uomo in maniera nascosta e pronta a un rapido sviluppo; perciò la mancanza del sentimento non consente all’uomo di dir altro del suo stato se non che egli è all’apparenza sano. 105

Poiché la salute è «l’equilibrio nell’antagonismo delle forze vitali del corpo animale. L’eccitabilità (incitabilitas) nel sistema nervoso e l’irritabilità (irritabilitas) nel sistema muscolare sono le forze motrici, dalle quali deriva la vita», 106 allora è lecito supporre che la medicina sia almeno simile per gli uomini e per gli animali (che secondo Kant, contro Cartesio, non devono essere considerati macchine).

La differenza è che per l’uomo la «conservazione di se stesso nella sua natura animale» 107 non è solo un istinto ma è un dovere, come si legge nella Tugendlehre:

il disporre di se stessi come di un puro strumento per un fine arbitrario, è un abbassare l’umanità nella propria persona (homo noumenon), alla quale invece la conservazione dell’uomo (homo phaenomenon) era affidata. 108

Sopprimere la propria vita organica significa estirpare l’esistenza dell’eticità nel mondo, ma anche non curare il corpo, che è condizione di possibilità della mente nel mondo, non è accettabile, né è lecito mutilare il corpo sfruttandolo per guadagno o per altri scopi. Viceversa, non può essere considerato un suicidio parziale «l’amputazione di un membro che, in quanto è cancrenoso o minaccia di diventarlo, mette la vita in pericolo». 109

Né estreme mortificazioni del corpo a maggior gloria dello spirito, né intangibilità del corpo, dunque. 110 Con il corpo si identifica l’esistenza fenomenica dell’uomo, senza la quale non si dà nel mondo l’umanità stessa (intesa come vita razionale e morale). Pertanto è cura della parte razionale “decidere” cosa sia meglio per il corpo: curare il male che mette a repentaglio l’esistenza fenomenica, anche a costo di una mutilazione, o curare che nessuna mutilazione o abbrutimento intervenga a lederla.

D’altra parte la cura del corpo potrebbe giovare anche rispetto alle patologie della mente. Alla luce dei continui rimandi all’interazione tra corpo e mente rispetto alle malattie, viene infatti da chiedersi se, secondo Kant, data la duplice natura (corporea e mentale) dell’uomo, le malattie dell’animo possano avere una origine fisica. In Versuch über die Krankheiten des Kopfes, dopo aver esposto tutte le possibili alterazioni della mente, Kant avanza proprio l’ipotesi che questi disturbi abbiano la loro origine nel corpo:

ho definito le infermità della capacità di conoscenza malattie della mente (Krankheiten des Kopfes), così come la corruzione della volontà si chiama malattia del cuore. Ho inoltre prestato attenzione solo alle loro manifestazioni nell’animo (Gemüt), senza voler indagare la radice di esse che certo risiede propriamente nel corpo e, più precisamente, può avere la sua sede principale nell’apparato digerente più che nel cervello (…). Non posso persuadermi in nessun modo che lo squilibrio dell’animo debba nascere, come comunemente si crede, da orgoglio, da amore, da eccessiva meditazione o da chissà quale abuso delle forze dell’anima. 111

Credere che le malattie della mente vengano da un abuso delle forze dell’anima, secondo Kant, è impietoso, poiché ciò offre l’occasione per rimproveri beffardi contro il malato, ed è basato su un errore comune che porta a invertire causa ed effetto. In realtà, scrive, il primo a soffrire è proprio il corpo, ma la primordiale manifestazione della malattia, ancora latente, causa nel malato dei capricci o dei comportamenti insoliti, che poi vengono presi come cause del successivo evidente squilibrio, mentre quest’ultimo, come i primi sintomi, dipende piuttosto da un’altra causa.

Anche nei Träume attribuendo ai visionari una attitudine a mischiare l’illusione con la verità, Kant sostiene che questo presuppone un cattivo equilibrio dei nervi, che vengono posti in moto dall’attività dell’anima senziente soltanto spiritualmente, e rappresenta una reale malattia (eine wirkliche Krankheit). 112

Nella Anthropologie Kant sostiene che deve essere attribuita una origine fisica alle malattie che comportano un disordine totale nella facoltà di conoscere. Innanzitutto, infatti, esse sono incurabili per mezzo dell’intervento dell’animo, come le malattie propriamente fisiche. 113 Inoltre Kant ne sottolinea l’ereditarietà, escludendo che si possa completamente impazzire se non si è ereditato il germe della pazzia. 114 A esse va unito il delirio che accompagna il febbricitante, che appare immediatamente come una malattia fisica che abbisogna di cure mediche, 115 e l’accesso di collera, cioè la rabbia, «che rende l’uomo insensibile a tutte le impressioni dell’esterno (…) e che, come il parossismo in una malattia acuta, non tanto ha radice nell’animo, quanto piuttosto viene suscitata da cause materiali, e spesso può scomparire con una medicina». 116

Quando invece l’origine di una malattia della mente non può essere considerata fisica, la cura potrebbe essere rivolta alla mente e non al corpo. In questo caso, la filosofia potrebbe svolgere un ruolo terapeutico.

7. La filosofia come cura

Nel 1786 Marcus Herz scriveva a Kant di essere felice di poter dare talvolta dei suggerimenti e contributi che fossero validi in entrambe le province, della filosofia e della medicina. 117 E Kant concordava certamente sull’affinità tra medicina e filosofia.

Secondo Kant:

Il medico è detentore di un’arte (Künstler), e tuttavia, poiché la sua arte non può che essere mutuata direttamente dalla natura e derivare perciò da una scienza della natura, come dotto egli è subordinato a qualche facoltà nella quale deve aver fatto i suoi studi e al cui giudizio resta sottoposto. 118

La facoltà di medicina, rispetto alla facoltà giuridica e teologica, riguardo al controllo da parte dello Stato è molto libera «ed è strettamente affine a quella filosofica». 119

Un esempio della possibile interazione tra medicina e filosofia, può essere tratto dal Versuch über die Krankheiten des Kopfes. In quest’opera Kant parla del normale fantasticare di tutti gli uomini, per esempio nel dormiveglia del mattino, o rispetto al fatto che gli uomini vedono quello che li porta a vedere la loro inclinazione, motivo per cui un collezionista scorge dei paesaggi nelle venature della pietra paesina, il devoto vede nel marmo macchiato la storia della Passione, o, ancora più significativamente, una dama vedrà nelle macchie della luna due innamorati e il suo parroco piuttosto due campanili. [120 Cfr. Versuch über die Krankheiten des Kopfes, AA II: 265-266; trad. it.: 68.] Specifica inoltre che questo normale fantasticare va distinto dall’attitudine a sognare durante la veglia, che è propria dell’allucinato: costui non considera le normali fantasie come chimere, ma le scambia per sensazioni reali, per cui, quando chi è sveglio non riesce più a distinguere l’elemento illusorio nell’immaginazione che lo inganna, e al normale fantasticare si aggiunge una passione, la debolezza d’animo sconfina nella fantasticheria (Phantasten). A questa esposizione Kant aggiunge:

questi tristi mali, a meno che non siano esclusivamente ereditari, lasciano ancora sperare in una felice guarigione, e in questi casi colui del quale principalmente si deve chiedere l’assistenza è il medico. Tuttavia, a titolo d’onore, non vorrei escludere il filosofo, che potrebbe descrivere la dieta dell’animo; ma solo a condizione che, per questo, come per la maggior parte delle sue altre occupazioni, egli non esiga alcun compenso. Per riconoscenza il medico non dovrebbe poi rifiutare la sua assistenza al filosofo, se questi talvolta tentasse la grande ma sempre vana cura della sciocchezza (Narrheit). 120

Secondo Kant, dunque, nella misura in cui il disturbo ha una base fisica, sta al medico curarlo, tuttavia il filosofo può avere un ruolo, intervenendo nella cura in parallelo dell’animo. Per contro, se solo fosse possibile curare la sciocchezza, che certo non ha origine fisica, la medicina potrebbe cercare di aiutare il compito del filosofo, per esempio suggerendo l’uso di catartici, per cercare di purificare il corpo, quale cura per l’abitudine a scrivere opere meschine e lambiccate, dal momento che – sostiene ironicamente Kant sulla scorta di Swift – anche questi scritti, come le cattive poesie, possono essere viste come risultato dell’eliminazione di umori nocivi per il sollievo dell’autore malato.

Proprio perché tutti i disturbi dell’anima rivelano una assenza di ordine, la filosofia è una forma di cura. L’ordine che tutti gli uomini possono condividere, fuori dal sogno, non è infatti altro che quello dato dall’insieme dei principi della filosofia trascendentale (cioè è l’ordine di leggi universali e necessarie che fondano e regolano la conoscenza).

Riconosciuta l’importanza dell’ordine, ne deriva che esso deve essere tenuto in gran conto anche dai sani. Ad esempio per ottenere una migliore comprensione e più attenzione dal proprio uditorio, chi parla deve stare attento a quello che dice nel momento, per essere chiaro, ma anche a quanto ha detto, e dirà, perché se si trascura questo ordine, si dà mostra di una testa confusa, per quanto buona, come spiega Kant nella Anthropologie. 121

La filosofia dunque non offre solo il punto di appoggio per stabilire l’ordine. Essa può anche prescrivere delle massime a favore del buon uso della mente e contro alcuni disturbi della mente – non senza conseguenze positive anche per il corpo.

In una lunga riflessione risalente al 1786, intitolata De Medicina Corporis, quae Philosophorum est, che rappresenta probabilmente il testo che Kant utilizzò per un discorso di chiusura del primo mandato rettorale, 122 Kant inizia sostenendo:

Curandum esse, ut sit Mens sana in Corpore sano. In hoc commercio medicorum est: (corpo) menti aegrotanti per curam corporis, philosophorum autem: corpori afflicto per mentis regimen opitulandi. 123

Qualora dunque la causa di un atteggiamento sbagliato sia fisica, i farmaci potranno intervenire per placare la reazione parimenti fisica che ne consegue. Al filosofo spetta invece di far sì che l’animo non diventi una causa di malattia e sofferenza per il corpo, e soprattutto di valutare l’origine di alcuni disturbi nel turbamento dell’animo, e su di essi intervenire come guida, affinché sia eliminato il disordine nei pensieri che causa il disturbo. 124

Il caso in cui la filosofia può risultare più utile sembra quello dell’ipocondria, rispetto alla quale Kant scrive nella Anthropologie:

La malattia degli ipocondriaci consiste solo in ciò: che certe sensazioni corporee interne non tanto rivelano un male reale esistente nel corpo, quanto piuttosto lo fanno solo temere; e la natura umana è così fatta (l’animale non lo è) da rinforzare con l’attenzione portata ad alcune impressioni locali il sentimento che se ne ha o anche da contenerle. Invece una astrazione o intenzionale o determinata da altre occupazioni fa indebolire quelle impressioni e, se essa diventa abituale, le fa totalmente scomparire. 125

L’animale non può avere disordine nell’ordine della conoscenza (poiché di fatto non arriva alla conoscenza), né può riflettere e concentrare così la propria attenzione sulle sensazioni che arrivano dal corpo, ricavandone erroneamente conclusioni circa il suo stato di salute (né tantomeno, ovviamente, può intervenire volontariamente a riportare all’ordine il flusso di pensieri che genera l’ipocondria con un ulteriore atto di riflessione e con la forza del proposito).

L’ipocondria è dunque solo umana così come la follia, e altrettanto solo umano – e legato alla filosofia, scienza discorsiva per eccellenza – è l’unico modo per controllare che non si sia folli, ovvero nella possibilità e necessità di comunicare i propri pensieri e condividerli. Solo in questo modo possiamo verificare di non aver preso per oggettivo ciò che è solo soggettivo.

Non a caso Kant nella Anthropologie, poco dopo aver classificato le malattie dell’animo, espone anche le tre massime che «per la classe dei pensatori possono valere come precetti invariabili», cioè il pensare da sé, mettersi (nella relazione con gli uomini) col pensiero al posto di ogni altro, e pensare in accordo con sé. 126

L’aspetto terapeutico della filosofia, dunque, è in gran parte l’esplicitazione di massime che andrebbero a comporre una “dietetica”.

8. Kant e la dietetica: tra filosofia e medicina

Alla fine degli anni novanta, Kant, poiché è arrivato alla vecchiaia in salute, vuole offrire il suo esempio agli altri, benché egli sia afflitto dai limiti che la vecchiaia impone al pensiero, e in particolare alla capacità di seguire i ragionamenti altrui, come confessa in una lettera a K.L. Reinhold del 28 marzo 1794. 127

Il 19 aprile 1797, annunciando la stesura di una risposta al saggio di Hufeland sulla longevità, Kant scrive:

credo che si tratti di un esperimento non disprezzabile e che meriti di essere accolto nella teoria medica, se non altro come rimedio di carattere psicologico. Poiché alla fine di questa settimana entrerò nel mio settantaquattresimo anno di età e finora ho felicemente tenuto lontane tutte le vere malattie (…), questo lavoro potrebbe magari ispirare fiducia e incontrare successo.128

Il 6 febbraio dell’anno successivo Kant invia il saggio a Hufeland, chiosando che «diventare vecchi è un grave peccato: per esso si è puniti con la morte, e senza nemmeno un briciolo di clemenza». 129

Innanzitutto, rispetto alla possibilità di curare in modo morale la fisicità dell’uomo, Kant scrive nel saggio che «la filosofia pratico morale serve anche da medicina universale, che certo non giova a tutti in tutto, ma che non può mancare in nessuna ricetta». 130 E sempre rispetto alla medicina universale specifica che essa «riguarda comunque solo la dietetica, opera cioè esclusivamente in modo negativo, come arte di prevenire le malattie. Ma un’arte di questo genere implica una capacità che può essere accordata solo dalla filosofia o dal suo spirito, quale presupposto assolutamente indispensabile». 131 Il saggio stesso che Kant scrive in risposta a Hufeland, riguardo al potere dell’animo umano di dominare con la sola fermezza del proposito le proprie sensazioni morbose, ovvero il compito stesso della dietetica, «si riferisce allo spirito della filosofia». 132

Per comprendere coma vada intesa la dietetica possiamo trarre degli esempi dal testo. Come dicevamo, Kant si sente nella possibilità di fare osservazioni sulla dietetica in virtù della propria longevità, seguendo il filo della ricostruzione delle sue abitudini in parallelo a quello della buona salute che l’ha condotto a vivere a lungo. Infatti, chi è arrivato alla vecchiaia «s’è conservato tanto a lungo da porsi d’esempio». 133 Un primo principio della dietetica che egli suggerisce porta a non tener conto della comodità:

questo risparmio dei propri sentimenti si risolve infatti in infiacchimento, ha cioè per conseguenza snervatezza e debolezza, e un graduale spegnersi della forza vitale per difetto d’esercizio; proprio come un esaurimento della forza vitale è causato da un uso troppo intenso e frequente. Lo stoicismo come principio della dietetica (sustine et abstine) è dunque parte non solo della filosofia pratica come dottrina della virtù, ma anche come scienza medica. 134

Lo stesso principio vale dunque per l’animo e per il corpo, in vista della virtù e in vista della salute.

Quando poi le forze vengono a mancare con la vecchiaia, il modo migliore di restare attivi è proprio quello di occuparsi di filosofia. Essa infatti pertiene «la totalità dello scopo finale della ragione (che è un’unità assoluta)» 135 e porta con sé un senso di forza che con l’apprezzamento razionale del valore della vita può essere di compenso alla debolezza della vecchiaia. E così tutte le nuove prospettive che portano all’ampliamento delle conoscenze, e persino i passatempi futili, purché la mente sia impegnata e attiva.

Esaminando la propria storia, Kant torna ancora una volta sull’ipocondria e scrive alcune interessanti osservazioni in proposito. Innanzitutto osserva che da chi è effettivamente malato di ipocondria non si può prendere un dominio delle proprie sensazioni morbose: «se potesse farlo non sarebbe ipocondriaco». 136 Egli, a causa della propria costituzione fisica, caratterizzata da un petto stretto che lascia poco spazio al movimento del cuore dei polmoni, sostiene di essersi trovato fin dalla gioventù predisposto all’ipocondria. 137 Proprio l’attenzione all’origine meccanica non eliminabile di questo disturbo, tuttavia, «ottenne presto l’effetto di non far(lo) più volgere a essa». 138

L’origine di un disturbo dell’animo può dunque essere fisico, e con la riflessione sulla sensazione fisica che deve essere limitata a quello che è, e non ingigantita con l’attenzione rivolta a se stessi (che, come abbiamo visto, è propria dell’uomo), può determinare una guarigione dal disturbo stesso, la cui importanza viene ridotta e relativizzata.

L’attenzione all’effettiva composizione delle attività umane, e al loro sostrato fisico, deve portare anche a evitare la sovrapposizione dell’attività di organi diversi: per esempio, nota Kant, non giova pensare quando si sta già impiegando lo stomaco o i piedi. Benché il pensare sia per sé una nobile attività, «occorre in chi studia, una risoluzione ferma e presa una volta per tutte di attenersi a una dieta nel pensare». 139

La stessa fermezza d’animo che può giovare nel caso di disturbi fisici di origine psicosomatica, non può nulla invece contro disturbi propriamente fisici che abbiano influsso sulla mente, anzi, rischia di peggiorare la situazione. È il caso del male che opprime Kant nella sua vecchiaia, come si legge nella conclusione allo Streit der Fakultäten. Nelle pagine conclusive infatti Kant sostiene che gli accidenti morbosi dell’animo che sono governabili attraverso una volontà salda, tuttavia:

alcuni di essi (cioè: degli accidenti morbosi di tipo spasmodico) sono di natura tale che i tentativi di assoggettarli alla forza del proponimento finiscono piuttosto col rafforzare ancora la sofferenza spastica; ed è questo anche il mio caso, poiché quella malattia che, più o meno un anno fa, è stata descritta nel giornale di Copenhagen come “catarro epidemico connesso a un senso di pesantezza alla testa” (in me risale a un anno prima ma la sensazione è simile), mi ha reso quasi incapace di organizzare particolari lavori intellettuali o, per lo meno, mi ha indebolito e fatto ottuso. 140

Questo peggioramento dovuto allo sforzo di applicare il pensiero e la volontà a dominare il male solamente fisico, è dovuto al sovrapporsi degli spasmi morbosi con l’affaticamento che normalmente causa il pensiero. Quest’ultimo punto è quello che appare particolarmente interessante:

la condizione patologica del paziente, che accompagna e rende gravoso il pensare, in quanto consista nel tenere stretto un concetto (l’unità di coscienza delle rappresentazioni congiunte (der Einheit des Bewußtseins verbundener Vorstellungen)), genera la sensazione di uno stato spasmodico dell’organo del pensiero (il cervello), come di un peso che invero non indebolisce propriamente il pensare e il riflettere, e nemmeno la memoria di ciò che si è già pensato; ma nel discorso (orale o scritto) lo sforzo per tenere saldamente unite le rappresentazioni nella loro successione temporale, fatto per evitare di divagare, provoca anche un involontario stato spasmodico del cervello, come un’incapacità, nell’avvicendarsi delle rappresentazioni, di conservarne l’unità di coscienza. 141

Un male fisico può dunque inibire o indebolire la capacità della coscienza di tenere insieme le rappresentazioni congiunte, e causare la sensazione di uno spasmo cerebrale. Questo male colpirà in maniera particolare il filosofo, perché «chi opera nel campo della filosofia pura per eccellenza (logica e metafisica)», ricorda Kant:

non può che tenere il suo oggetto sospeso nell’aria davanti a sé e per giunta è costretto a rappresentarselo e a esaminarlo non per parti, ma anche sempre in una totalità sistematica (della ragion pura). Non c’è perciò da stupirsi se un metafisico diventa inabile prima di chi studia in un altro ambito, compresi i filosofi di professione (Geschäftsphilosophen); nondimeno è necessario che alcuni ce ne siano, che si dedicano interamente a quella disciplina, perché senza metafisica non potrebbe esserci affatto una filosofia. 142

In quanto essa presuppone il sistema e in quanto non può servirsi di simboli in luogo dei concetti, secondo Kant la filosofia pura è il compito più arduo per il pensiero. Tuttavia essa è necessaria per stabilire cosa sia uno stato d’animo sano, sebbene possa in un certo senso stremare la capacità psico-fisiche dell’uomo.

Proprio perché non richiede l’uso del corpo, la filosofia è dunque una attività adatta a chi non abbia particolari capacità fisiche (come gli anziani), tuttavia essa può logorare corpo e mente e richiede dunque a sua volta uno stato di salute.

Quest’ultimo, secondo la Tugendlehre, è lo stato in cui un uomo è padrone di se stesso. Quindi, benché la forza d’animo sia «la fermezza nella risoluzione di un uomo considerato come un essere dotato di libertà», 143 è assurdo domandarsi se la forza d’animo non sia maggiore in chi compie un delitto. Si può concedere, prosegue Kant, che in un accesso di delirio un uomo abbia una maggiore forza fisica, ma non una maggiore forza d’animo, se per animo si intende «il principio vitale dell’uomo che gode del libero uso di tutte le forze». 144

Come il cattivo equilibrio delle forze fisiche determina la malattia nel corpo, così un cattivo equilibrio nell’animo dovuto all’indebolimento della ragione da parte delle inclinazioni determina la malattia dell’animo che porta l’uomo a compiere un delitto:

poiché i delitti hanno il loro principio nella forza delle inclinazioni che indeboliscono la ragione, il che non dimostra nessuna forza d’animo, la questione di cui qui si tratta sarebbe assai simile a quella di sapere se, in caso di malattia, un uomo possa dar prova di maggiore forza di quando si trova in buona salute; e a ciò si può con tutta facilità rispondere negativamente, perché la mancanza della salute, che consiste nell’equilibrio di tutte le sue forze corporali, è un indebolimento nel sistema di queste forze, il quale sistema è invece l’unico indizio per riconoscere lo stato di assoluta buona salute. 145

Tanto nella salute fisica quanto in quella dell’animo, si tratta sempre di un equilibrio di forze. Con la differenza che il medico deve giudicare l’equilibrio fisico, ma chi può valutare il mancato equilibrio delle forze dell’animo, e quindi la sanità dell’animo, è solo il filosofo. 146

Per verificare la sanità mentale, in quanto la follia consiste nell’assunzione di una logica privata fuori dal mondo condiviso, la filosofia deve dunque stabilire cosa sia un mondo condivisibile e condiviso. A tale condivisione non è estraneo il corpo, non solo perché, come abbiamo già ricordato, la condivisione passa per la comunicazione e questa ha bisogno di segni sensibili.

A tal proposito è interessante citare una lettera che viene inviata a Kant (acclusa alla dissertazione di C. Arnold Wilmans, sulla similitudine tra il misticismo puro e la dottrina della religione di Kant) e che egli decide di pubblicare in Streit der Fakultäten. Scrive Wilmans (che Kant segnala come promettente medico e studioso):

cose esterne operano su un corpo capace d’agire e lo stimolano così all’azione; la vita ne è il prodotto. – ma che cos’è la vita? Riconoscimento fisico della propria esistenza nel mondo e del proprio rapporto con le cose esterne; il corpo vive in quanto reagisce a esse, le considera come suo mondo e le impiega per il proprio scopo, senza preoccuparsi oltre del loro essere. Senza cose esterne questo corpo non sarebbe un corpo vivente e senza la sua capacità d’agire le cose esterne non sarebbero il suo mondo. Lo stesso accade con l’intelletto. Il suo mondo sorge solo dall’incontro con le cose esterne; senza queste esso sarebbe morto – ma senza intelletto non ci sarebbero rappresentazioni, senza rappresentazioni non ci sarebbero oggetti, e senza questi non ci sarebbe infine il mondo dell’intelletto; così come, supponendo un intelletto diverso, vi sarebbe anche un mondo diverso, come risulta chiaro dall’esempio dei folli. 147

Introducendo la pubblicazione di questa lettera nel suo scritto, Kant avverte che non è detto che egli sia del tutto concorde con quanto scrive Wilmans. Potremmo infatti fare degli appunti a questo veloce quadro del rapporto tra oggetti, corpo, intelletto e vita. Tuttavia quello che è qui interessante è che il mondo che conosciamo è il mondo a misura della conoscenza dell’uomo; senza l’incontro tra intelletto ed esterno, non ci sarebbe vita, così come se il corpo – per ipotesi – non avesse nulla da percepire.

Il mondo condiviso, dunque, non può che essere un mondo “umano”, dato che conosciamo solo l’uomo e lo conosciamo con mezzi umani, sebbene ci sforziamo di astrarre regole universali e necessarie dalla variegata e mutevole osservazione empirica. 148

9. Alcune conclusioni: corpo, lavoro e desiderio

Per concludere possiamo richiamare l’attenzione sulle chiavi concettuali di questo numero: corpo, lavoro e desiderio.

Rispetto al corpo dobbiamo dire che secondo Kant esso è indispensabile per conoscere: innanzitutto perché da esso passa una delle fonti della conoscenza (cioè la conoscenza empirica); inoltre senza di esso e senza il rapporto con l’esterno non potrei essere cosciente di me stesso (come vuole la confutazione dell’idealismo) e infine attraverso i sensi passa la condivisione della conoscenza (non c’è infatti un dialogo tra menti ma un umanissimo dialogo fatto di segni, innanzitutto uditivi).

La filosofia infatti non è affare di intuizioni intellettuali e rivelazioni mistiche: la filosofia è lavoro, per riprendere l’espressione che Kant usa rispetto ad Aristotele. 149 Ciò che spinge avanti la conoscenza è il desiderio del singolo che ha interesse a conoscere e dalla privata opinione sul mondo vuole ottenere le prove e conoscere il mondo. 150 E sebbene la metafisica non rientri tra le conoscenze che sono ottenute passando dall’opinione al sapere, è pur sempre vero che senza il desiderio e il lavoro di chi si dedica alla filosofia (rischiando il logoramento delle proprie facoltà fisiche e psichiche, a quanto è emerso), non avremmo i parametri per stabilire quale sia il mondo condiviso da chi può con ragione essere definito sano.

Riferimenti bibliografici

Opere kantiane

Per le opere di Kant il testo di riferimento è Kant’s gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlich Preußischen Akademie der Wissen­schaften (e successori), Berlin 1900 ss., indicato con “AA” seguito dal numero del volume in cifre romane e dalla pagina in cifre arabe.

Per le tre Critiche si indica la paginazione delle edizioni originali (A per la prima, B per la seconda edizione) annotata in AA.

Si dà di seguito la lista delle eventuali abbreviazioni e traduzioni italiane adottate, talvolta modificate senza segnalazione.

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  1. Come osserva Hatfield 1990: 87, «empirical psychology is conditioned by transcendental psychology in such a way that the findings of the former cannot contradict the findings of the latter».
  2. Ritengo infatti giusto quanto sottolinea Brandt 1999a: 61: «Daß eine Harmonie oder ein commercium mentis et corporis besteht, wird von Kant vernünftigerweise nie geleugnet; er bezweifelt jedoch, daß wir bei der Klärung des Wie zu Ergebnissen gelangen können».
  3. Per le abbreviazioni, edizioni e traduzioni adottate si rimanda alla bibliografia.
  4. Cfr. Svare 2006, Bochicchio 2007a, Fabbrizi 2008, Nuzzo 2008, Battaglia 2010.
  5. Non si può parlare dunque del corpo e della corporeità come di un “rimosso” nella filosofia kantiana, né lo si può considerare una mera proiezione della ragione come suo “altro” (cfr. Böhme/Böhme 1985).
  6. Ben noti a Kant (allievo di Martin Knutzen, autore di un trattato sull’influsso fisico), furono molti i filosofi, da Bilfinger a Swedenborg che scrissero opere sul rapporto corpo-mente, e nelle opere di metafisica veniva regolarmente inserito un capitolo sul commercium dell’anima con il corpo. Per un quadro introduttivo su mente e corpo nel diciassettesimo secolo cfr. Garber 2003 e Garber/Wilson 2003. Per una panoramica sul problema mente-corpo nella scuola leibnizio-wolffiana cfr. Fabian 1974: 47-193.
  7. Su Thomasius cfr. Tomasoni 2005: 42-45. Anche Wolff, in chiusura della Psicologia empirica tratta i rapporti dell’anima e del corpo, poiché, anche se non possiamo comprendere i reciproci influssi, è innegabile che ci sia una interazione, che deve essere però spiegata dalla Psicologia razionale (cfr. Ecole 1966: 615-616).
  8. Sull’opposizione kantiana all’idea dell’erudito “ciclope” cfr. Capozzi 2002, Failla 2006, Battaglia 2010.
  9. Cfr. Nachricht von der Einrichtung seiner Vorlesungen in dem Winterhalbenjahre, von 1765-1766, AA II: 313.
  10. Cfr. Anthropologie, AA VII: 119; trad. it.: 3.
  11. Fortschritte, AA XX: 308; trad. it.: 203.
  12. Fortschritte, AA XX: 286; trad. it.: 180.
  13. Cfr. Capozzi 2002: 186 con riferimento in particolare alla Logik Philippi, AA XXIV: 313-314.
  14. KrV A53 B77; cfr. Logik, AA IX: 18; Fabbrizi 2012a, Fabbrizi 2012b.
  15. Von einem neuerdings erhobenen vornehmen Ton in der Philosophie, AA VIII: 391; trad. it.: 259.
  16. Von einem neuerdings erhobenen vornehmen Ton in der Philosophie, AA VIII: 398; trad. it.: 265.
  17. Sebbene così appaia nella giovanile Allgemeine Naturgeschichte del 1755, opera in cui in realtà sono presenti sia la critica alla sensibilità (gli abitanti di pianeti lontani dal sole soffrirebbero meno il freno della materia), sia un legame tra autocoscienza e corpo (una sorta di proto-confutazione dell’idealismo, più che altro da ricollegare alla posizione già baumgarteniana “status repraesentativus universi”) – cfr. Allgemeine Naturgeschichte, AA I: 355-357 e Fabbrizi 2008: cap. 1.
  18. A tal proposito è interessante un passo del Duisburgsche Nachlass (come vengono chiamate un insieme di Reflexionen risalenti al “decennio silenzioso” prima dell’uscita della KrV) nel quale Kant commenta il commercio del corpo con l’anima: «l’argomento fisiologico è o in senso proprio o in senso analogico (quest’ultimo è il migliore di tutti in base alla natura umana). Non si possono dare per il primo argomenti né a favore né contro, poiché non possediamo alcuna esperienza di un’anima disgiunta dalla relazione con il corpo, dal momento che non pensiamo se non per mezzo di tale relazione. Né, al contrario, si possono addurre argomenti partendo dalla dipendenza dell’anima dal corpo in questa vita, poiché non vediamo in cosa il corpo ostacoli l’anima, dal momento che sarebbe d’impedimento a se stesso, come se qualcuno fosse legato a un carro e non potesse muoversi se non muovendo anche questo. Se le ruote sono unte in maniera corretta, il moto allora procede liberamente, ma non sono le ruote cause di questo moto, sebbene, qualora fossero frenate da qualche causa intrinseca al carro, renderebbero l’uomo immobile» (Duisburgsche Duisburgsche Nachlass, AA XVII: 673, Reflexion 4684; trad. it.: 113). In proposito cfr. Bruch 1968: 118-119, e le Reflexionen 5464, AA XVIII: 190, e 4556, AA XVII: 593 (in cui si legge che la buona disposizione del corpo è una diminuzione dell’ostacolo che il corpo rappresenta per l’anima).
  19. Briefwechsel, AA X: 145; trad. it.: 78.
  20. Anthropologie, AA VII: 119; trad. it.: 3. Kant è certo che ritenere che il pensiero stia nella testa sia il risultato di un «errore di surrezione, consistente nello scambiare il giudizio sulla causa della sensazione in un certo luogo (del cervello) con la sensazione della causa in questo luogo» (Briefwechsel, AA XII: 32; trad. it.: 349). Sulla base di questo errore poi, si procede a «mettere (…) in concomitanza le tracce cerebrali delle impressioni esercitate sul cervello, chiamate “idee materiali” (Cartesio), con il pensiero conformemente alla legge dell’associazione» (ibidem). L’espressione “idee materiali” è in realtà wolffiana ma ricalca la teoria cartesiana. Anche nelle lezioni di Metafisica si ribadisce che è solo per analogia che il cervello è considerato luogo dell’anima, solo in quanto è «il locus corporeo in cui l’anima agisce in sommo grado» (Metaphysik L1, AA XXVIII: 225; trad. it.: 51).
  21. Über eine Entdeckung, AA VIII: 250; trad. it.: 136.
  22. Pare che Kant stesso, all’epoca dei suoi studi, interrogato dal teologo F.A. Schultz circa i propri intenti per il futuro abbia dichiarato di voler fare il medico, ma, come scrive Cassirer 1918: 26, è probabile che con questa risposta Kant volesse solamente «esprimere il suo prevalente interesse per la scienza naturale nel quadro allora vigente delle facoltà». Che la medicina fosse legata con le scienze naturali in genere, appare chiaro dal fatto che i più importanti insegnanti di fisica all’Albertina furono due professori straordinari di Medicina, Johann Gottsched e Heinrich von Sanden (seguiti poi da Johann Gottfried Teske che, già straordinario di logica e metafisica, fu ordinario di Naturlehre al tempo in cui Kant vi svolgeva i propri studi universitari all’Albertina); cfr. in proposito Grillenzoni 1998: 24-25 (a p. 30 Grillenzoni riporta di come la Facoltà di medicina fosse la roccaforte del cartesianesimo). Borowski 1804, trad. it.: 49, riferisce che dal fine di vivere sano venivano «le sue continue attenzioni per il corpo e per le relative funzioni; di qui il suo piacere di conversare intorno ai mezzi per mantenersi sano, (…) la sua predilezione per la medicina e il fervido interessamento alle sue nuove conquiste, per es., col sistema di Brown (non col vaccino che per qualche tempo definì inoculazione della bestialità); di qui la gioia all’idea di quanto la medicina avrebbe ancora acquistato coi progressi della chimica». (John Brown (1735-1788) è autore di un sistema (brownismo) secondo il quale il principio della vita consiste nell’eccitabilità, causa di tutti i fenomeni patologici che si manifestano in seguito a stimoli troppo forti o troppo deboli, per cui tutte le malattie sono steniche o asteniche: nelle prime bisogna diminuire, nelle seconde aumentare l’eccitazione). Per un panorama storico cfr. von Engelhardt 2003.
  23. Ad es. rispetto al legame tra la felicità e la sensibilità: nella KpV si legge che l’applicazione delle regole della legge morale in vista della felicità (intesa come amore di sé) è empiricamente condizionata e oscura (c’è da notare il collegamento tra oscuro e sensibilità, anche per chiedersi se sia da intendersi in senso wolffiano o piuttosto con una sfumatura nuova che non contraddica il rigetto kantiano della concezione wolffiana dell’oscuro) in quanto dipende dall’esperienza, ovvero dalla forza e dalla facoltà fisica (A65). Possono essere illuminanti su questo tema le osservazioni che Kant fa in proposito all’imperturbabilità nelle pagine dedicate alla medicina.
  24. Cfr. KU, B301; trad. it.: 213.
  25. Anthropologie, AA VII: 154; trad. it.: 38.
  26. Ibidem.
  27. Ibidem.
  28. Kant si stupisce del fatto che si sia potuto utilizzare il termine “gusto” per indicare anche il gusto che pretende una universalità soggettiva, e un riferimento al sapore per la sapienza: «così il sentimento organico, per mezzo del suo senso particolare, ha potuto fornire il nome per un sentimento ideale, cioè per una scelta sensibile universalmente valida. – Ancor più strano è che l’abilità di riscontrare per mezzo del senso se qualcosa sia oggetto di godimento da parte di un solo e medesimo soggetto (sapor) (non, se la sua scelta sia valida universalmente), è stata persino elevata a denominare la saggezza (sapientia); probabilmente ciò accade per il fatto che uno scopo assolutamente necessario non ha bisogno di alcuna riflessione e indagine, ma immediatamente si presenta nell’anima, come per un sentore di quel che conviene» (Anthropologie, AA VII: 242; trad. it.: 132). Nel primo caso invece si può pensare forse alla capacità degli albergatori di mettersi al posto degli avventori e dei loro diversi gusti, così da preparare pietanze valide per il gusto di tutti i possibili ospiti, come afferma Kant poco sopra il passo citato.
  29. Da ciò si può dedurre l’importanza che il corpo ha nell’acquisizione delle forme della conoscenza (cfr. Fabbrizi 2008 e 2010).
  30. Su questo cfr. Capozzi 2006a, Fabbrizi 2008. È anche possibile analizzare il rapporto tra i tutti i sensi e la sensazione vitale: nella Reflexion 1503, AA XV: 803, datata ai primi anni ottanta, Kant scrive che la maggiore sensazione vitale viene da olfatto, gusto e udito.
  31. Cfr. Anthropologie, AA VII: 155; trad. it.: 39.
  32. KrV, B207. Nella prima edizione della KrV si diceva «in tutti i fenomeni la sensazione, e il reale che ad essa corrisponde nell’oggetto (realitas phenomenon), possiede una quantità intensiva, ossia un grado» (KrV, A166), e la riformulazione è dovuta probabilmente al fatto che scindere il reale dalla sensazione potrebbe portare a ritenere che questo reale sia proprio dell’oggetto in sé, laddove è invece soltanto il massimo che si possa affermare dell’oggetto astraendo dal soggetto che lo conosce, prima di dover semplicemente pensare il noumeno. Mentre Bacone nel Novum Organum (I, 26) utilizzava il termine “anticipazione” (della natura o della mente) con un valore dispregiativo rispetto alla interpretazione della natura, Kant si riferisce qui piuttosto all’uso epicureo del termine. I logici stoici ed epicurei denominavano infatti “próleyiV” i concetti generali, di generi e specie, attraverso i quali i dati dell’esperienza sono anticipati dalla mente. Kant assegna all’anticipazione il compito di guidare (se ci si riferisce al principio regolativo anticipato della facoltà di giudizio) o di rendere possibile la conoscenza empirica attraverso i principi sintetici a priori. Si può dire infatti che questi nel loro insieme costituiscono una anticipazione, tuttavia poiché nel caso delle anticipazioni della percezione si tratta di una anticipazione del contenuto, della sensazione che «è ciò che mai propriamente può essere anticipato» (KrV, A167 B209), è a questa sensazione in generale che spetta principalmente il termine anticipazione.
  33. Cfr. Anthropologie, AA VII: 162 ss.; trad. it.: 46 ss.
  34. Cfr. Reflexion 199, AA XV: 76, nella quale Kant sostiene che tutto ciò che desta il gioco di rappresentazioni nell’anima e la sua azione di comparazione o collegamento, rende sveglio l’animo attraverso la meditazione (Nachdenken) e rende le conoscenze più vivaci. In proposito porta gli esempi della musica, del fuoco del camino, di un ruscello che scorre, o il giocare dell’avvocato con un filo, e sostiene che «si pensa meglio quando si ha una calma attività davanti agli occhi».
  35. Anthropologie, AA VII: 160-161; trad. it.: 45. Già Leibniz 1765 (Ak., VI, 2: 276), aveva sottolineato: «Mirum est qui fiat, quod quando meditabundi sumus, simul aliquid corpore agamus, ut scalpamus ungues, mordeamusve, ludamus digitis. Puto inde fieri, quod occupato judicio corpus ad libitum se excercet judicio etsi sciente, tamen non retinente, unde et qui in loquendo sunt occupatiores, et quasi immersis ludunt digitis aut alio modo, quamquam (…) sit a prava consuetudine».
  36. Anthropologie, AA VII: 148; trad. it.: 32.
  37. Ibidem.
  38. Anthropologie, AA VII: 149; trad. it.: 32-33.
  39. Questo non significa che per Kant l’animale sia accomunabile a una macchina, ma che macchinalmente funziona l’istinto, di contro alla libertà e autodeterminazione umana.
  40. Cfr. Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen, AA II: 209-210 nota; trad. it.: 295-296 nota.
  41. Cfr. Versuch über die Krankheiten des Kopfes, AA II: 264; trad. it.: 66-67.
  42. Anthropologie, AA VII: 233; trad. it.: 122-123.
  43. Per Leibniz non c’è mai un rapporto tra l’anima, che è una sostanza incorporea, e il corpo, ma semplicemente tanto nel corpo quanto nell’anima si hanno impressioni che giungono alla coscienza e altre che non vi giungono, per cui, come non abbiamo appercezione della circolazione del sangue o del movimento delle viscere, allo stesso modo possiamo non ricordare i sogni o non accorgerci del rumore di un mulino ad acqua, se da sempre abitiamo nelle vicinanze. Ma tale mancanza di coscienza non dipende da un limite fisico: «in effetti, se ci fossero nel corpo, durante il sonno, o mentre si è svegli, impressioni di cui l’anima non fosse toccata o affetta in alcun modo, bisognerebbe dare dei limiti all’unione dell’anima e del corpo, come se le sensazioni corporee avessero bisogno di una certa figura e di una certa grandezza perché l’anima se ne potesse accorgere, cosa questa che non è comprensibile se l’anima è incorporea, poiché non vi è alcun rapporto tra una sostanza incorporea e una tale o talaltra modificazione della materia» (Leibniz 1765, Ak. VI, 6: 116 (II, I, § 15); trad. it.: 111). Del resto per Leibniz, Ak. VI, VI B: 1493: «semper corpus nostrum percipimus» (1683-1685/6), ovvero noi percepiamo sempre il nostro corpo, sebbene in maniera confusa, senza distinguere i vari moti in esso, così come nel sentire il rumore del mare non distinguiamo il ruolo delle diverse onde nel comporre quel suono. Kant invece pone una interazione tra le sensazioni corporee e la consapevolezza che possiamo averne.
  44. Cfr. Anthropologie, AA VII: 165; trad. it.: 50-51.
  45. Anthropologie, AA VII: 165-166; trad. it.: 50. Cfr. Reflexion 125, AA XV, sul sonno e l’ebbrezza.
  46. Anthropologie, AA VII: 166; trad. it.: 50-51.
  47. Cfr. Reflexion 1526, AA XV: 945 («qui mentem omni conscientia sui privat, facile somno sepelitur ») e AA XV: 948 («mens vacans cogitationibus immergit nos somno»).
  48. Reflexion 1526, AA XV: 948. Il Riferimento è a Quintus Horatius Flaccus, Epistolae, II, 1, 87. Sul sonno cfr. anche Der Streit der Fakultäten, AA VII: 104-107.
  49. Anthropologie, AA VII: 166; trad. it.: 51.
  50. Ibidem. Cfr. Reflexion 130, AA XV: 18, in cui Kant definisce l’estasi «un grado di assenza di vita».
  51. Anthropologie, AA VII: 156; trad. it.: 41.
  52. Anthropologie, AA VII: 158; trad. it.: 42.
  53. Ovviamente questo tema, per la sua stessa natura, è molto presente nella filosofia della Aufklärung: secondo Thomasius ad esempio, «l’intelletto è l’agire o il patire dell’anima, in quanto essa considera e conosce l’essenza o natura delle cose. La volontà invece è l’agire o il patire dell’anima, in quanto essa si propone di fare qualcosa mediante il movimento delle membra» (Thomasius 1691: 114; trad. it. in Ciafardone 1983: 58), e l’intelletto e la volontà sono strettamente congiunti tra loro in modo da offrirsi una guida reciproca (cfr. Thomasius 1696: 79; trad. it. in Ciafardone 1983: 59). Secondo Wolff (1720) invece la volontà necessita di moventi e i moventi sono principi del volere e del non volere che necessitano della rappresentazione del bene e del male.
  54. Di questo mi sono già occupata in Fabbrizi 2008. Per una chiara panoramica sul tema nell’origine cartesiana cfr. Angelini 2007.
  55. Secondo Oeser/Seitelberger 1988 pp. 124-125 la fondazione della neuroepistemologia va fatta risalire alla “fisiologia dell’intelletto umano” di Kant (piuttosto che al sensualismo di Locke), che rappresenterebbe una forma di “cerebralismo” contrapposta sia al sensualismo che al “noologismo”.
  56. Träume, AA II: 325 nota; trad. it.: 357 nota.
  57. Metaphysik L1, AA XXVIII: 259.
  58. Cfr. Metaphysik L1, AA XXVIII: 259-260.
  59. Reflexion 160, AA XV: 59.
  60. Cfr. Anthropologie, AA VII: 169. Del secondo tipo sono la vertigine, che sopraggiunge a causa del pericolo che è possibile immaginare, o il mal di mare, nel quale le rappresentazioni mutevoli offerte dalla vista su un battello oscillante causano un moto antiperistaltico degli intestini.
  61. Cfr. KU, Bxxiv; trad. it.: 14.
  62. KU, B225; trad. it.: 168.
  63. Anthropologie, AA VII: 260; trad. it.: 152.
  64. Anthropologie, AA VII: 255; trad. it.: 146.
  65. Cfr. Anthropologie, AA VII: 256-257; trad. it.: 147.
  66. KU, B302-303; trad. it.: 213.
  67. Le ultime due citazioni in Träume, AA II: 338 nota; trad. it.: 369 nota.
  68. Leibniz 1765, Ak. VI, 6: 54; trad. it.: 49.
  69. Träume, AA II: 338 nota; trad. it.: 369 nota. Kant specifica che non si tratta dei sogni, «cioè le rappresentazioni del dormiente, che egli ricorda al suo svegliarsi. Giacché allora l’uomo non dorme completamente: egli sente chiaramente in un certo grado, e intesse, nelle impressioni dei sensi esterni, i suoi atti spirituali. Perciò egli, dopo, se ne ricorda in parte, ma anche vi ritrova soltanto chimere selvagge e insulse, quali del resto devono essere necessariamente, essendovi in esse lanciate alla rinfusa idee della fantasia e idee della sensazione esterna» (Träume, AA II: 338 nota; trad. it.: 370 nota).
  70. Träume, AA II: 338 nota; trad. it.: 370 nota. In un certo senso, dunque, in questo passo la sensibilità appare ancora nella veste di “intralcio” per la conoscenza.
  71. Ibidem.
  72. Untersuchung über die Deutlichkeit der Grundsätze der natürlichen Theologie und der Moral, AA II: 290; trad. it.: 234.
  73. Der Streit der Fakultäten, AA VII: 105-106; trad. it.: 193.
  74. Sull’ordine come criterio di distinzione tra sogno e verità in Wolff, cfr. Pimpinella 2005: 441-444.
  75. Cfr. Prolegomena, AA IV: 376 nota; trad. it.: 317 nota. Sull’importanza di una garan­zia contro l’ipotesi di un sogno collettivo (in particolare in Wolff), cfr. Carboncini 1991. Sul rapporto tra l’esigenza fondamentale della filosofia kantiana e quella di Wolff, cfr. Capozzi 1982, e Capozzi 2006b.
  76. Träume, AA II: 342; trad. it.: 373.
  77. Träume, AA II: 343; trad. it.: 375. Per Descartes sogni e chimere sono frutto di un “malfunzionamento” (cfr. AT XI: 184 e 197).
  78. Cfr. Träume, AA II: 344; trad. it.: 377-378.
  79. KrV, bxxxix-xl. Per un esame più articolato della confutazione dell’idealismo rispetto alla corporeità cfr. Fabbrizi 2008: 153-162.
  80. Anthropologie, AA VII: 134; trad. it.: 16.
  81. Cfr. Quintus Horatius Flaccus, Satirae, II, 3, 83 e 166, De Arte poetica, 300.
  82. Anthropologie, AA VII: 134; trad. it.: 16.
  83. Anthropologie, AA VII: 162; trad. it.: 46.
  84. MdS (Rechtslehre), AA VI: 356-357; trad. it.: 198.
  85. L’importante è dunque che sia comunque chiaro dove finisce il campo della verità e inizia quello della fantasia o del sogno. In questo senso, e dati gli effetti negativi che possono avere le illusioni, la filosofia critica, fissando i criteri per distinguere questi due campi, può giovare ai mali dell’animo, come vedremo più avanti.
  86. Anthropologie, AA VII: 219; trad. it.: 107.
  87. Anthropologie, AA VII: 203; trad. it.: 91.
  88. Per un esame puntuale della classificazione delle malattie mentali nella Anthropologie, cfr. Meo 1982: 70 ss. Per una lettura del confronto tra Kant e la follia (e soprattutto il “pensiero folle” di Swedenborg) cfr. David-Ménard 1990).
  89. Anthropologie, AA VII: 202; trad. it.: 89.
  90. Anthropologie, AA VII: 212; trad. it.: 99.
  91. Anthropologie, AA VII: 212-213; trad. it.: 100.
  92. Reflexion 1536, AA XV: 952. Sull’ipocondria cfr. anche Der Streit der Fakultäten, AA VII: 103-104.
  93. Anthropologie, AA VII: 214; trad. it.: 102.
  94. La classificazione è ottenuta dalla complessiva esposizione kantiana della Anthropologie, AA VII: 215 ss.
  95. Anthropologie, AA VII: 216; trad. it.: 104.
  96. Cfr. Anthropologie, AA VII: 202; trad. it.: 89.
  97. Anthropologie, AA VII: 203; trad. it.: 90.
  98. Anthropologie, AA VII: 212; trad. it.: 99.
  99. Cfr. Anthropologie, AA VII: 251; trad. it.: 141.
  100. Kant fa l’esempio di qualcuno che è adirato e viene convinto a sedersi: cfr. Anthropologie, AA VII: 252; trad. it.: 142.
  101. Tuttavia esse devono essere considerate anche nei loro aspetti positivi, per esempio in quanto surrogati (Surrogat) temporanei della ragione (cfr. Anthropologie, AA VII: 253; trad. it.: 143).
  102. Anthropologie, AA VII: 255; trad. it.: 145.
  103. Una annotazione interessante emerge rispetto all’impossibilità di attribuire le passioni agli animali: la passione è una inclinazione che impedisce alla ragione di paragonarla con la somma di tutte le altre inclinazioni. Essa è distinta dunque dall’istinto, che è «la necessità interna della facoltà di desiderare di appropriarsi di un oggetto prima di conoscerlo» (Anthropologie, AA VII: 265; trad. it.: 156) – o, nel caso dell’animale, nell’impossibilità di conoscerlo. A differenza dell’istinto la passione è legata al fine, poiché presuppone nel soggetto una massima dell’agire in vista dello scopo prescritto dall’inclinazione, pertanto «non si può attribuire nessuna passione agli animali come non la si può attribuire agli esseri di pura ragione» (Anthropologie, AA VII: 266; trad. it.: 157). In nessuno dei due casi infatti si possono avere massime soggettive, che sono proprie soltanto di un essere che sia allo stesso tempo sensibile e razionale, come l’uomo.
  104. Cfr. MdS (Tugendlehre), AA VI: 444-445; trad. it.: 307-308. Questo è tanto vero che, dice Kant, si potrebbe assumere un buon pranzo in buona compagnia come una specie di benessere (fisico) che ben si accorda con l’umanità. In questo caso infatti al godimento per il cibo si unisce la conversazione tra uomini di buon gusto, e al piacere fisico, la condivisione dei pensieri attraverso il dialogo (cfr. Anthropologie, AA VII: 278; trad. it.: 169 ss.).
  105. Der Streit der Fakultäten, AA VII: 100; trad. it.: 185.
  106. Reflexion 1539, successiva al luglio 1998, AA XV: 963. In questa stessa riflessione Kant si interroga pertanto se si debba esercitare la medicina nell’uomo allo stesso modo dell’arte negli animali che si chiama veterinaria. A tal proposito Kant e cita (Reflexion 1526, AA XV: 943) i due partiti degli hoffmaniani (meccanicisti) secondo i quali si cura il corpo, e i seguaci di Stahl, per i quali la mente ha un ruolo preponderante. Bochicchio 2007b: 84, proprio a proposito di questa riflessione sostiene che Kant non sarebbe di questo avviso perché l’uomo per Kant non è una macchina. Tuttavia bisogna ricordare che per Kant neanche l’animale è una macchina (cfr. Fabbrizi 2003, 2010, Naragon 1990; per restare al De medicina corporis, in AA XV: 944 Kant sottolinea che uomini e animali sono entrambi dotati di immaginazione, colo che nel caso dell’animale non c’è libertà neanche per l’immaginazione), quindi la vera differenza tra cura dell’uomo e cura dell’animale è che l’uomo può seguire anche delle norme dietetiche in quanto è razionale. Si può infatti intendere nel titolo De medicina corporis quae philosophorum est, come propriamente riferito solo al filosofo (e non nel senso che pertiene ai filosofi), ovvero come se il filosofo avesse una sorte di dovere in più nel curare il proprio corpo, come sembra apparire in AA XV: 941 quanto Kant scrive che il corpo, appesantito dagli errori passati, opprime l’animo, per cui il filosofo deve disciplinare il proprio corpo, tramite l’esperienza del conoscere e non tramite la conoscenza del meccanismo del corpo. È un passo successivo che estende le norme a tutti gli uomini: il filosofo in quanto erudito deve seguire le norme (cfr. AA XV: 948).
  107. MdS (Tugendlehre), AA VI: 421; trad. it.: 277.
  108. MdS (Tugendlehre), AA VI: 423; trad. it.: 279.
  109. Ibidem.
  110. Contro l’ascetismo monacale (Mönchsascetik), superstizioso, ipocrita e fanatico, cfr. MdS (Tugendlehre), AA VI: 485; trad. it.: 366.
  111. Versuch über die Krankheiten des Kopfes, AA II: 270; trad. it.: 75-76.
  112. Cfr. Träume, AA II: 340; trad. it.: 372.
  113. Cfr. Anthropologie, AA VII: 214; trad. it.: 102.
  114. Cfr. Anthropologie, AA VII: 217; trad. it.: 105.
  115. Cfr. Anthropologie, AA VII: 213; trad. it.: 101.
  116. Anthropologie, AA VII: 220; trad. it.: 108.
  117. Cfr. Briefwechsel, AA X: 431. Il riferimento di Herz era al proprio saggio fisiologico-medico sulle vertigini (Versuch über der Schwindel) pubblicato nello stesso anno. Secondo Borowski 1804, trad. it.: 65, Kant non lesse l’opera di M. Herz: «una volta ero da lui quando gli fu recapitato uno scritto di Marcus Herz sulle vertigini (…). Appena lesse il titolo disse che lui non soffriva di vertigini e, chiamato il domestico, gli ordinò di mettere lo scritto accanto agli altri suoi libri (non diceva mai nella sua biblioteca)».
  118. Der Streit der Fakultäten, AA VII: 26; trad. it.: 80. Sull’opera cfr. Landolfi Petrone 1997: 210-220 per la parte che qui ci interessa.
  119. Der Streit der Fakultäten, AA VII: 26; trad. it.: 81. Di questa affinità si parla soprattutto nell’ultimo saggio compreso nello Streit der Fakultäten, nel quale Kant pubblica una risposta a Hufeland e al suo trattato sulla longevità, del quale parleremo più avanti.
  120. Versuch über die Krankheiten des Kopfes, AA II: 271; trad. it.: 76-77.
  121. Cfr. Anthropologie, AA VII: 208; trad. it.: 95-96.
  122. Cfr. nota di Adickes (che ritiene la data incerta tra 1786 e 1788) in AA XV: 939 e Bochicchio 2007b: 109-110 (che assume la datazione al 1786 seguendo Brandt 1999). Quanto al titolo come sottolinea Bochicchio 2007b: 59: «rimanda a due discorsi rettorali pronunciati da H.D. Gambius (1705-1780), professore di medicina all’università di Leiden, nel 1747 e nel 1763, ed intitolati De redimine Mentis quod medicorum est: titolo ripreso da Kant all’inizio della terza pagina del manoscritto (si cfr. AA XV: 946). Originariamente Kant aveva vergato: De Regimine corporis quod philosophorum est, sostituendo poi la prima parte del titolo provvisorio con De cura et disciplina corporis quae…». Tuttavia è difficile non pensare a Tschirnhaus e al suo Medicina corporis seu cogitationes admodum probabiles de conservanda sanitate (Tschirnaus 1695).
  123. Reflexion 1526, AA XV: 939; in proposito si rimanda a von Engelhardt 2005: 99 ss.
  124. Se poi il disordine è totale e il disagio psichico e fisico insieme toglie la possibilità di far sì che il soggetto collabori alla cura del proprio animo, e non trova giovamento nemmeno nella medicina, non resterà che riconoscere l’effettiva minorità dell’ammalato, prendendosi cura di lui.
  125. Anthropologie, AA VII: 212; trad. it.: 99-100. A tal proposito è Kant stesso, in una nota al passo che abbiamo appena citato, a rimandare al saggio che poi verrà incluso come ultima parte dello Streit.
  126. Cfr. Anthropologie, AA VII: 228; trad. it.: 117. Sul valore delle tre massime cfr. Capozzi 2002: 474-480.
  127. Kant si scusa con Reinhold del mancato invio di un parere sul suo libro riguardo i principi sulla legge naturale e scrive «credo che questo problema sia attribuibile a cause fisiche (…). Altrimenti io sono del tutto in salute, per essere un settantenne» (AA XI: 495). Sulla questione dell’invecchiamento in senso molto ampio, e sugli influssi che essa ha nella concezione della teleologia, cfr. Laywine 2004.
  128. Briefwechsel, AA XII: 158; trad. it.: 363-364.
  129. Briefwechsel, AA XII: 232; trad. it.: 391. Hufeland pubblica il saggio nel «Journal der praktischen Arzneikunde und Wundarzneikunst». Sarà poi Kant stesso a porlo come saggio conclusivo del suo Der Streit der Fakultäten.
  130. Der Streit der Fakultäten, AA VII: 98; trad. it.: 182. Su cosa sia la medicina universale, in una riflessione molto tarda, datata agli stessi anni dello Streit der Fakultäten, si legge «Della medicina universale – la vita dell’animale è una unità assoluta della forza auto-motrice di una materia. Le parti possono qui possedere una vita propria. Non si cerca un farmaco universale per tutte le malattie, ma per la vita nel soggetto (sostrato?) in genere nel suo complesso» (Reflexion 1530, AA XV: 957: «Von der Universalmedicin – Das Leben des Thiers ist eine Absolute Einheit der Sich selbst bewegenden Kraft einer Materie. / Die Theile können hier eine vita propria besitzen. / Man sucht nicht ein allgemein Arzneymittel für alle Krankheiten, sondern für die Allgemeinheit des Lebens im Subject (Substrat) überhaupt»).
  131. Der Streit der Fakultäten, AA VII: 98; trad. it.: 182. von Engelhardt 2005: 108 ss. Sottolinea che Kant riprende un concetto tradizionale, proprio già della medicina antica, trattato ad es. da Galeno. La dietetica per il benessere psicofisico, si pone come equivalente dell’Illuminismo per la conoscenza, ovvero come capacità di osare di essere responsabile della propria salute. Cfr. Pirillo 2003 e Poggi 2003.
  132. Der Streit der Fakultäten, AA VII: 98; trad. it.: 182. Cfr. Butts 1984, trad. it.: 301 ss.
  133. Der Streit der Fakultäten, AA VII: 99; trad. it.: 185.
  134. Der Streit der Fakultäten, AA VII: 100; trad. it.: 186. Cfr. dietetica e salute come benessere negativo: MdS (Tugendlehre), AA VI: 484-485; trad. it.: 365.
  135. Der Streit der Fakultäten, AA VII: 102; trad. it.: 188.
  136. Der Streit der Fakultäten, AA VII: 103-104; trad. it.: 190.
  137. Contro la bizzarra idea di Böhme/Böhme 1985: 389 ss. secondo i quali l’ipocondria sarebbe un prodotto dell’Iluminismo, e in partiicolare quella kantiana sarebbe legata al suo razionalismo, cfr. Kuehn 2001: 461-462.
  138. Der Streit der Fakultäten, AA VII: 104; trad. it.: 191.
  139. Der Streit der Fakultäten, AA VII: 109; trad. it.: 198.
  140. Der Streit der Fakultäten, AA VII: 112; trad. it.: 202-203.
  141. Der Streit der Fakultäten, AA VII: 113; trad. it.: 203.
  142. Der Streit der Fakultäten, AA VII: 113-114; trad. it.: 204. L’inabilità, specifica Kant, non ha necessariamente a che vedere con la salute fisica: si può essere sani per la propria età e tuttavia essere nel contempo costretti a rinunciare agli incarichi pubblici. La vecchiaia può lasciare una certa salute rispetto all’essere vegetativo, consentendo di «mangiare, passeggiare e dormire», tuttavia: «quello che per la sua esistenza animale significa essere sano, per l’esistenza civile (tenuta a incarichi pubblici) significa invece essere malato, cioè inabile» (Der Streit der Fakultäten, AA VII: 114; trad. it.: 205).
  143. MdS (Tugendlehre), AA VI: 384; trad. it.: 233.
  144. Ibidem.
  145. Ibidem.
  146. Su questa base Kant rifiuta l’idea di una medicina legale, poiché giudicando pazzo chi ha compiuto un crimine si finirebbe per dover curare e deplorare i malfattori, senza punirli: «una medicina legale (medicina forensis) è (…) – quando essa si ponga la questione, se la condizione psichica di chi agisce è di alienazione e se l’atto è stato compiuto in condizioni di sanità – un’invasione in affari estranei, dei quali il giudice nulla sa; tutt’al più egli può rinviare la questione ad altra facoltà, come non pertinente al suo foro» (Anthropologie, AA VII: 214; trad. it.: 101-102).
  147. Der Streit der Fakultäten, AA VII: 71; trad. it.: 144-145.
  148. Kant sostiene infatti che si possa dire che la logica è astratta ma non derivata dall’uso: cfr. Reflexion 1612 (datata agli anni Settanta) AA XVI: 36 «(die Logik) ist vom empirischen Gebrauch des Verstandes abstrahirt, aber nicht derivirt»; la stessa idea è ribadita in una aggiunta posteriore alla Reflexion 1603, in cui si legge che la logica «wird von Erfahrung abstrahirt, aber nicht derivirt» (AA XVI: 33).
  149. Cfr. Von einem neuerdings erhobenen vornehmen Ton in der Philosophie, AA VIII: 393; trad. it., p. 261.
  150. Secondo la dottrina kantiana del Fürwahrhalten infatti, per passare dal grado dell’opinione a quello del credere, e da qui al sapere, è necessario un interesse (cfr. Capozzi 2002: 555-556).
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