La conoscenza del bene e del male. Dal Breve Trattato all’Etica

Emanuela Scribano1.

 

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spinoza 2Malgrado l’evidente continuità problematica tra il Breve Trattato e l’Etica, nel passaggio dallo scritto giovanile all’opera maggiore non è solo la disposizione delle materie a subire modifiche, e i cambiamenti non sono solo aggiunte. Nell’Etica è dato rintracciare vere e proprie confutazioni delle tesi contenute nel Breve Trattato. Un buon esempio, in questa direzione, è quello della meraviglia. Nel Breve Trattato i sentimenti sono divisi a seconda del genere di conoscenza dal quale derivano, e la meraviglia figura al primo posto tra i sentimenti che derivano dall’opinione2. Nell’Etica3, invece, si contesterà addirittura l’appartenenza della meraviglia alla categoria dei sentimenti4. Intendo qui considerare da vicino uno dei casi più impressionanti di ritrattazione delle tesi sostenute nel Breve Trattato. Si tratta del rapporto che, secondo Spinoza, si instaura tra il giudizio e il desiderio, nella conoscenza del bene e del male.

Nel Breve Trattato si legge che «il desiderio è quell’inclinazione che la mente ha verso qualcosa che stima come buono; ne segue che prima che il nostro desiderio si diriga esteriormente verso qualcosa, noi abbiamo già concluso che tale cosa è buona»5. Come si vede, nel Breve Trattato è il giudizio dell’intelletto a stabilire cosa sia il bene e il male. Il desiderio segue da questo giudizio, ovvero la mente subisce una inclinazione necessaria verso quel che è giudicato buono dall’intelletto. Nell’Etica si legge l’affermazione opposta: «a nulla noi tendiamo, nulla vogliamo, appetiamo, desideriamo, per il fatto che lo giudichiamo essere buono; ma, al contrario, noi giudichiamo essere buona una cosa perché vi tendiamo, la vogliamo, appetiamo e desideriamo»6. Per esempio, l’avaro giudica che l’accumulo del denaro sia un bene perché lo desidera, e non desidera il denaro perché abbia giudicato che il denaro sia un bene7.

Nel caso del rapporto tra giudizio e desiderio, come in quello della meraviglia, non siamo di fronte ad una sfumatura che divida il Breve Trattato dall’Etica, ma ad un rifiuto radicale ed esplicito, nell’Etica, della tesi sostenuta nell’opera incompiuta: «a nulla noi tendiamo, nulla vogliamo, appetiamo, desideriamo, per il fatto che lo giudichiamo essere buono…». Nelle pagine che seguono cercherò di comprendere la ragione di questa inversione nel rapporto tra desiderio e giudizio a proposito della conoscenza del bene.

Poiché il rapporto tra il desiderio e il giudizio su quel che è bene e su quel che è male ha relazioni strette con la filosofia morale, potrà rivelarsi utile stendere una tavola delle concordanze e delle discordanze tra il Breve Trattato e l’ Etica nell’ambito della filosofia morale.

Concordanze:

– Il bene e il male non sono proprietà delle cose, ma rapporti tra la mente umana e le cose. E’ una tesi che troviamo identica nell’Etica e nel Breve Trattato8.

– Il vero bene è determinato dal rapporto tra un’azione e un modello ideale di perfezione nel quale la natura umana è dotata del grado massimo di realtà. Questa tesi, già enunciata nel Breve Trattato9, torna nella prefazione della quarta Parte dell’Etica.

Discordanze:

-Nel Breve Trattato non è dato trovare il corrispettivo del termine latino «conatus» e il concetto che corrisponde a questa parola svolge un ruolo diverso rispetto a quello che svolgerà nell’Etica. Spinoza aveva utilizzato la nozione e il termine conatus nei Pensieri metafisici 10. Il Breve Trattato utilizza il concetto che corrisponde al termine conatus, ovvero «la pulsione che troviamo sia nella natura intera sia nelle cose particolari, tendente al mantenimento e alla conservazione del loro stesso essere»11, ma qui la «pulsione sia a conservarsi nel proprio stato sia a portarsi a uno stato migliore»12 è utilizzata per chiarire la nozione di «Provvidenza di Dio», mentre nell’Etica il conatus svolgerà un ruolo centrale nella psicologia e nella morale. Questo diverso uso del concetto che corrisponde al termine conatus è particolarmente significativo, dal momento che nell’Etica il rapporto tra desidero e giudizio su cosa sia il bene e il male è una conseguenza tratta direttamente da una riflessione sul conatus. Ecco quanto si legge in Etica III, p 9 s: «Questo sforzo (conatus)… quando si riferisce alla sola mente, si chiama volontà; ma quando si riferisce simultaneamente alla mente e al corpo, si chiama appetito, che non è dunque altro se non l’essenza stessa dell’uomo, dalla cui natura necessariamente derivano quelle cose che servono alla sua conservazione; e quindi l’uomo è determinato a farle … Risulta dunque da tutto ciò che a nulla noi tendiamo, nulla vogliamo, appetiamo, desideriamo, per il fatto che lo giudichiamo essere buono; ma al contrario, che noi giudichiamo essere buona una cosa perché vi tendiamo, la vogliamo, appetiamo e desideriamo.» Come si vede, la tesi che inverte il rapporto tra il desiderio e il giudizio su cosa sia il bene e il male stabilito nel Breve Trattato è dedotta dal fatto che il conatus costituisce l’essenza di ogni individuo. Il che lascia supporre che possa esserci un legame tra il ruolo svolto dal conatus nell’Etica e l’inversione operata in questo testo del rapporto tra desiderio e giudizio teorizzato nel Breve Trattato. Nel proseguo mi accadrà di sottolineare altre importanti modifiche, nell’Etica, di tesi presenti nel Breve Trattato.

La tesi secondo la quale è l’intelletto e non il desiderio che stabilisce quel che è bene e quel che è male è perfettamente coerente con l’insieme delle tesi presenti nel Breve Trattato. Se la bontà o la cattiveria di un’azione sono determinate in funzione della vicinanza o lontananza da un modello ideale di uomo perfetto, spetta indubbiamente alla ragione misurare la distanza relativa di ogni azione rispetto a questo modello ideale. Non è dunque una difficoltà interna alla teoria che può aver determinato l’inversione del rapporto tra desiderio e giudizio. Del resto, come si diceva, la tesi secondo la quale il bene e il male segnalano la distanza tra le nostre azioni e il modello ideale di uomo è ripetuta nella Prefazione della quarta Parte dell’Etica. Perché dunque respingere una dottrina coerente con la concezione del bene e del male presente sia nel Breve Trattato sia nell’Etica?

D’altro canto, si può constatare che il cambiamento radicale che abbiamo rilevato nell’Etica si inserisce nel quadro di una teoria molto elaborata, che presenta altri cambiamenti importanti rispetto al Breve Trattato. Nel Breve Trattato II,14,2 si legge: «Credo così di avere sufficientemente provato che solo la convinzione, o ragione, è ciò che ci conduce alla conoscenza del bene e del male». Al contrario, così suona Etica IV, p 8: «La conoscenza del bene e del male non è altro che un sentimento di gioia o di tristezza, in quanto ne siamo consapevoli». Questa proposizione non è solo molto diversa, per non dire opposta, al luogo del Breve Trattato appena citato, ma pone anche un problema in relazione alle definizioni che aprivano la quarta parte dell’Etica: «I. Per bene intenderò ciò che sappiamo con certezza esserci utile. II. Per male, invece, ciò che sappiamo con certezza che ci impedisce di possedere un bene». Queste definizioni, con il loro richiamo alla conoscenza «certa», sembrano affidare alla ragione la conoscenza del bene e del male, in sintonia con quanto accadeva nel Breve Trattato. Di conseguenza, queste definizioni pongono un problema di coerenza interna all’Etica, dal momento che la proposizione 8 della stessa quarta Parte, al contrario, affida alla gioia e alla tristezza quella conoscenza del bene e del male  che le definizioni inziali demandano alla ragione, in sintonia con il Breve Trattato. Quest’ultimo problema è risolto grazie ad un’altra novità di grande rilievo che caratterizza l’Etica: la conoscenza del bene  e del male è divisa in due aspetti: il primo, è quello che permette di attribuire a questa conoscenza un valore di verità o di falsità e che, di conseguenza, appartiene alla sfera della ragione; il secondo è l’aspetto che indentifica questa stessa conoscenza in un sentimento. La divisione della conoscenza del bene e del male in due aspetti è teorizzata nelle proposizioni 14 e 15 della IV Parte: «La vera conoscenza del bene e del male non può contrastare alcun sentimento, in quanto vera, ma solo in quanto la si considera come un sentimento»13.

La divisione in due aspetti della conoscenza del bene e del male pone nuove domande: se la conoscenza del bene è coscienza della gioia, secondo la lettera della proposizione 8, da dove viene il suo aspetto «vero», e, al contrario, se la conoscenza del bene è conoscenza di quel che «con certezza» ci è utile, da dove viene l’aspetto per il quale questa stessa conoscenza è un sentimento? La via per rispondere a queste domande ci è indicata dalla definizione della gioia che, secondo la Definizione dei sentimenti, posta in appendice alla terza Parte, consiste nel «passaggio da una perfezione minore a una maggiore». La gioia stessa presenta un duplice aspetto: da un lato, essa è crescita di potenza, e, dall’altro lato e nello stesso tempo, essa è conoscenza del bene. Ora, la crescita di potenza può ben essere oggetto di una conoscenza vera. In effetti, l’utilità di un’azione accresce la potenza dell’agente, e la conoscenza che un evento o un’azione è utile all’agente può essere una conoscenza vera e adeguata. Ma la conoscenza dell’utilità di qualcosa non è sufficiente per far percepire quella cosa come un bene. Perché quel che è veramente utile sia percepito come un bene, è necessario che l’agente percepisca l’accrescimento della sua potenza come un sentimento, ovvero che provi gioia, il che accade necessariamente, dal momento che ogni passaggio ad una perfezione maggiore è percepito dalla mente come sentimento di gioia. Nello stesso modo, per essere percepito come un male, il passaggio ad una perfezione minore deve essere percepito come sentimento di tristezza. Da qui la divisione della conoscenza del bene e del male in due aspetti: l’aspetto per il quale questa conoscenza è conoscenza di quel che è veramente utile –che è una conoscenza vera, ma non è, a parlar propriamente, conoscenza del bene‒ e l’aspetto per il quale questa conoscenza è un affetto –che è, a parlar propriamente, conoscenza del bene, ma che, in quanto tale, non è né vera né falsa. Allo stesso modo, quel che è nocivo, per essere percepito come un male, deve produrre tristezza.

Una delle novità dell’Etica in relazione al Breve Trattato è dunque l’attribuzione della «creazione» dei valori morali ai sentimenti –la gioia e la tristezza. Si tratta di una vera rivoluzione, in relazione all’intellettualismo che dominava nel Breve Trattato sullo stesso argomento. Ora, questo cambiamento si inserisce all’interno di una nuova riflessione sull’insieme della teoria dall’azione. In effetti, la tesi secondo la quale qualcosa è percepita come un bene solo perché essa provoca un sentimento di gioia fornisce una spiegazione soddisfacente del combattimento che la ragione deve sostenere contro i sentimenti, nel perseguire il « vero » bene contro i beni apparenti perseguiti dall’immaginazione.

La quarta parte dell’Etica si apre sul tema del potere della verità sugli affetti. La prima proposizione afferma che «Nulla di ciò che un’idea falsa ha di positivo viene tolto dalla presenza del vero in quanto vero», e lo scolio conferma che le idee inadeguate dell’immaginazione non possono essere eliminate dalla verità, ma solo da altre immagini opposte alle prime. Per la stessa ragione, le modificazioni del corpo di cui i sentimenti costituiscono il corrispettivo psichico non possono essere eliminate dai giudizi veri, ma solo da altri sentimenti14. In altre parole, il desiderio verso qualcosa che nuoce al corpo può essere indebolito e forse anche vinto solo se il pensiero delle conseguenze nocive che si avrebbero nel soddisfare quel desiderio provoca un sentimento di repulsione verso quella stessa cosa. Di conseguenza, se la conoscenza del bene e del male consistesse solo in un insieme di giudizi veri –ossia di conoscenze sulla vera utilità di qualcosa‒ questa conoscenza non avrebbe alcun potere contro i sentimenti prodotti dall’immaginazione e contro i valori che derivano dai desideri dell’immaginazione. Invece, questo problema viene superato se il giudizio della ragione sull’utilità o la nocività di un’azione diventa percezione di quell’azione come di un bene o di un male grazie alla prospettiva di gioia o di tristezza che essa implica. Solo in questo modo, ovvero, per l’aspetto per il quale sono sentimenti, i valori della ragione possono opporsi ai valori dell’immaginazione, che sono essi stessi sentimenti.

La proposizione 15 della quarta Parte conferma che all’origine dell’abbandono dell’approccio intellettualista alla conoscenza del bene e del male dominante nel Breve Trattato vi sia l’urgenza di fornire una soluzione soddisfacente al problema di contrastare i valori dell’immaginazione con i valori della ragione. Nella proposizione 15, grazie a quanto è stato acquisito nella proposizione precedente, ossia al fatto che la vera conoscenza del bene può essere considerata come un sentimento, e, per questo, essa è in grado di suscitare un desiderio, Spinoza misura la forza del desiderio prodotto dalla ragione nei confronti dei desideri originati dai sentimenti che derivano da una conoscenza che non è vera, e che segnalano l’azione di forze esterne e di idee inadeguate: «Dalla vera conoscenza del bene e del male, in quanto essa (per la proposizione 8) è un sentimento, sorge necessariamente un desiderio …». La prospettiva di gioia, che segue al pensiero di quel che è veramente utile, permette di percepire ciò che è tale come un bene, e di desiderarlo, e, come la proposizione chiarisce, solo perché quel che è veramente utile suscita una prospettiva di gioia  ‒«in quanto è un sentimento»‒ quel che è veramente utile è capace di suscitare un desiderio. Il desiderio così suscitato dalla ragione può instaurare un conflitto con altri desideri, ossia con i desideri che nascono dalla previsione di gioia legata alle cose che sono utili sono in apparenza, in sintonia con quanto dimostrato nella celebre proposizione 7, che stabilisce che «affectus nec coërceri, nec tolli potest, nisi per affectum contrarium et fortiorem affectu coërcendo». La proposizione 14 rinviava esplicitamente alla proposizione 7, e, d’altra parte, la proposizione 7 introduce evidentemente la seguente, ovvero la proposizione 8, nella quale la conoscenza del bene e del male è identificata con la gioia e la tristezza. Il che rinforza l’impressione che l’origine della tesi spinoziana sulla nascita delle distinzioni morali sostenuta nell’Etica si nasconda all’interno della necessità di assicurare un contesto teorico capace di spiegare il conflitto tra i valori della ragione e i valori dell’immaginazione. La proposizione 15, infine, inizia a spiegare come mai  la ragione è spesso vinta dai desideri che seguono alle conoscenze inadeguate. Il combattimento della ragione contro i sentimenti è sempre un combattimento tra sentimenti, generalmente più deboli, contro altri sentimenti, generalmente più forti, come dirà poi anche Hume15. D’altronde, il rinvio alla proposizione 8 torna in quell’insieme di proposizioni della quarta Parte che hanno invece l’aria di affidare interamente alla ragione la conoscenza del vero bene e, di conseguenza, anche la capacità di produrre le azioni tanto quanto ne sono capaci i sentimenti. Non si ha che leggere le proposizioni che, a partire dalla 59, sono dedicate proprio al potere della ragione sulle azioni: «A tutte le azioni cui siamo determinati da un sentimento, che è una passione, noi possiamo essere determinati dalla ragione indipendentemente da quello». Poco dopo, nel corso della proposizione 63, nel tentativo di dimostrare che colui che è guidato dalla ragione fa il bene per desiderio del bene e non per evitare il male, Spinoza afferma che «Il desiderio originato dalla ragione può avere origine soltanto da un sentimento di gioia che non è una passione …, ossia da una gioia che non può avere eccesso …, ma non da tristezza, e quindi questo desiderio (per la proposizione 8) è originato dalla conoscenza del bene, non da quella del male». Ancora una volta è invocata la proposizione 8, ovvero la proposizione nella quale la conoscenza del bene era stata identificata nella gioia. L’assunto secondo il quale la ragione opera direttamente in vista del bene e non per evitare il male è giustificato con il fatto che le affezioni prodotte dalla ragione sono la gioia e il desiderio, e non la tristezza, e siccome la gioia fa percepire come un bene ciò che l’ha provocata, ne segue che «sotto la guida della ragione vogliamo direttamente il bene, e solo in quanto vogliamo il bene fuggiamo il male»16. L’azione all’origine della quale si trova la ragione non è dunque causata direttamente dalla conoscenza di quel che è veramente utile, una conoscenza che ha evidentemente origine nella ragione, ma dalla gioia che quel che è veramente utile provoca nella mente, e che, permettendo di percepirlo –ossia di «conoscerlo»‒ come un bene, ottiene che lo si desideri. Ed è perché ci sono desideri provocati dalla gioia causata dalla conoscenza di quel che è veramente utile che la ragione, come i sentimenti, può produrre un’azione.

I vantaggi di aver affidato a un sentimento l’origine dei valori morali sono evidenti anche in un altro aspetto importante della teoria dell’azione spinozista. Superfluo ricordare che la teoria dell’azione all’interno della quale Spinoza costruisce la sua teoria morale è strettamente determinista. Ne segue che Spinoza non può sostenere che ci sia una scelta libera tra la morale della ragione e la morale dell’immaginazione. D’altronde l’opzione determinista era già chiara nel Breve Trattato, ma le modalità della scelta tra i valori dell’immaginazione e quelli della ragione mancavano di un vero sostegno teorico. Grazie all’identificazione della conoscenza del bene con la gioia Spinoza ottiene che la scelta del vero bene, ossia di ciò che è veramente utile, divenga una conseguenza necessaria della mente che possiede idee adeguate.

In questo caso, per ricostruire la strategia di Spinoza, conviene seguire le vie attraverso le quali Spinoza teorizza il rapporto tra gioia e sforzo di autoconservazione, a partire dalla proposizione 9 della terza Parte fino alla proposizione 19 della quarta Parte. Lo sforzo di autoconservazione, secondo lo scolio della proposizione 9 della terza Parte, è designato con il nome di « volontà », quando si riferisce alla mente, ed è invece designato con il nome di «appetito», quando si riferisce alla mente e al corpo17. La dinamica dello sforzo di autoconservazione è dunque cruciale se si vuole sostenere, come intende farlo Spinoza, che le volizioni sono sempre necessariamente determinate, anche quando si indirizzano al vero bene.

Nella proposizione 9 della terza Parte si può leggere che  «La mente sia in quanto ha idee chiare e distinte, sia in quanto ha idee confuse, si sforza di continuare nel suo essere per una durata indefinita, e di questo suo sforzo è consapevole». Nello scolio di questa stessa proposizione, dopo aver precisato che lo sforzo di perseverare nell’esistenza, quando si riferisce alla mente, è la volontà, e, quando si riferisce alla mente e al corpo, è l’appetito, e il desiderio è l’appetito di cui siamo consapevoli, Spinoza conclude che l’appetito

non è altro se non l’essenza stessa dell’uomo, dalla cui natura necessariamente derivano quelle cose che servono alla sua conservazione; e quindi l’uomo è determinato a farle … Risulta dunque da tutto questo che a nulla noi tendiamo, nulla vogliamo, appetiamo, desideriamo, per il fatto che lo giudichiamo essere buono; ma, al contrario, noi giudichiamo essere buona una cosa perché vi tendiamo, la vogliamo, appetiamo e desideriamo.

Eccoci rinviati al nostro punto di partenza: Spinoza fa seguire il giudizio di valore al desiderio, ovvero si giudica buono quel che si desidera, e non il contrario. Per questo ii giudizi di valore cambiano a seconda dei desideri degli individui. Si tratta di una tesi generale, valida per tutti i giudizi di valore, che siano dell’immaginazione o della ragione. La proposizione 9, in effetti, è chiarissima al riguardo: «La mente sia in quanto ha idee chiare e distinte, sia in quanto ha idee confuse…» La mente che ha idee chiare e distinte desidererà cose diverse da quelle desiderate dalla mente che ha idee oscure e confuse, ma il valore morale nasce, in entrambi i casi, in conseguenza dei diversi desideri, che, a loro volta, seguono dalle loro diverse idee, e sono sempre espressione dell’essenza di ogni individuo nel suo sforzo di autoconservazione.

Tra le proposizioni 12 e 28 si precisa il legame tra la gioia e il desidero: il desiderio si indirizza verso quel che si immagina produca gioia. Ne segue che, quando si dice che giudichiamo buono quel che desideriamo, si intende che giudichiamo buona una cosa che pensiamo produca gioia: «Noi ci sforziamo di promuovere la realizzazione di tutto quanto immaginiamo che conduca alla gioia»18.  Lo scolio della proposizione 39 della quarta Parte, in riferimento alla proposizione 9, può così identificare il bene nella gioia che segue alla soddisfazione del desiderio:

Per bene intendo qui ogni genere di gioia, e inoltre tutto quanto conduce ad essa, e principalmente ciò che soddisfa qualsivoglia desiderio. Per male intendo invece ogni genere di tristezza, e principalmente ciò che delude il desiderio. Abbiamo infatti mostrato sopra (nello scolio della proposizione 9) che non desideriamo nulla per il fatto di giudicarlo un bene, ma, al contrario, chiamiamo bene ciò che desideriamo, e di conseguenza chiamiamo male ciò cui siamo avversi; perciò ciascuno giudica, ossia stima, in base ai suoi sentimenti, che cosa sia bene, che cosa male, che cosa meglio e che cosa peggio, e infine che cosa sia ottimo e che cosa pessimo. Così l’avaro giudica essere ottima cosa l’abbondanza di denaro, e pessima la sua mancanza19.


In questo passo deve essere valorizzato il rinvio allo scolio della proposizione 9 nel quale, come si è visto, il giudizio di valore segue al desiderio e il desiderio esprime lo sforzo di mantenersi nell’esistenza, uno sforzo che è comune alla mente che possiede idee adeguate e  alla mente che possiede idee inadeguate. Le previsioni di gioia, i desideri, e, infine, i giudizi di valore saranno ovviamente diversi nell’uomo che conosce distintamente le cose e nell’uomo che ne ha solo un’idea confusa, ma quel che distingue le menti che hanno conoscenze inadeguate dalle altre menti non è la dipendenza del giudizio di valore dalla gioia e dal desiderio –in una parola, dai sentimenti‒, dipendenza che vige in ogni mente, ma sono piuttosto le idee che la mente possiede, e i desideri che ne seguono.

Dopo aver dimostrato, nella proposizione 8 della quarta Parte, che la conoscenza del bene è la coscienza della gioia, ovvero della soddisfazione del desiderio, la proposizione 19 della quarta Parte può finalmente affermare che «ciascuno in base alle leggi della sua natura vuole o rifiuta necessariamente ciò che giudica essere bene o male», e lo dimostra in questo modo:

La conoscenza del bene e del male (per la proposizione 8) è il sentimento stesso della gioia o della tristezza in quanto ne siamo consapevoli, e di conseguenza (per la proposizione 28 della III parte) ciascuno di necessità vuole ciò che giudica essere un bene e fugge ciò che giudica essere male. Ma questo appetito non è altro se non l’essenza o la natura stessa dell’uomo (per la definizione di appetito, da vedersi nello scolio della proposizione 9 della III parte e nella definizione 1 dei sentimenti). Dunque ciascuno per le sole leggi della sua natura vuole o rifiuta necessariamente ecc.20.

La ricerca necessaria di quel che ognuno giudica essere un bene è giustificata soltanto grazie alla circostanza che la conoscenza del bene è l’affetto della gioia che segue alla soddisfazione del desiderio, perché, in questo modo, la ricerca di quel che si giudica essere un bene diviene l’espressione necessaria dello sforzo verso l’incremento della propria potenza, uno sforzo nel quale si esprime la natura di ogni individuo.

Il ragionamento completo di Spinoza può essere così sintetizzato: ogni individuo si sforza di conservarsi, e questo sforzo esprime necessariamente la sua natura, niente lo precede e niente di diverso dallo sforzo stesso lo guida, e perciò non esiste una nozione di bene e di male indipendente da questo sforzo e valida per ogni individuo, ma il bene è quel che si desidera (III, p 9). Lo sforzo necessario di ogni individuo tende ad aumentare la propria potenza, ovvero tende alla gioia (III, pp12-28); perciò, il bene è quel che si prevede possa soddisfare il desiderio procurando gioia (III, p39 e IV,p 8). Ecco perché «ciascuno in base alle leggi della sua natura vuole o rifiuta necessariamente ciò che giudica essere bene o male» (IV, p19), ovvero ognuno desidera quel che prevede possa soddisfare il proprio desidero, procurandogli gioia.

Il rinvio alla proposizione 8 attraverso la proposizione 19 è fondamentale anche nella dimostrazione della proposizione 35 della quarta Parte, nella quale, grazie a questo rinvio, Spinoza può dimostrare che il giudizio di valore fondato sulla ragione produce necessariamente un’azione conforme a questo giudizio negli uomini che vivono secondo le regole della ragione, dal momento che la mente in forza della propria natura, si sforza di perseguire quel che produce gioia:

Siccome ciascuno, in base alle leggi della sua natura, vuole ciò che giudica essere buono e si sforza di respingere ciò che giudica essere cattivo (per la proposizione 19), ed essendo necessariamente buono o cattivo ciò che sotto i dettami della ragione giudichiamo essere buono o cattivo (per la proposizione 41 della II parte), gli uomini, in quanto vivono secondo la guida della ragione, fanno necessariamente solo quelle cose che sono necessariamente buone per la natura umana, e di conseguenza per ciascun uomo.


Lo sforzo di perseguire quel che produce gioia è un dato primitivo, non deriva da nient’altro, perché esprime la natura della mente, e le azioni che vengono chiamate volontarie non sono altro che l’espressione di questo sforzo. Dal momento che questo sforzo è inscritto nella stessa natura umana, esso si indirizzerà verso beni diversi a seconda delle diverse previsioni di gioia, ovvero a seconda delle diverse conoscenze e, infine, a seconda della diversa costituzione di ogni individuo. L’avaro, come sappiamo, ricerca necessariamente il denaro, ma il filosofo persegue necessariamente quel che è veramente utile, la conoscenza vera e la beatitudine, perché solo la conoscenza vera aumenta la potenza della sua natura razionale. La mente, grazie al suo lato eterno di cui la ragione è espressione, esprimerà la propria natura nello sforzo di conoscere e quindi nel desiderio di conoscenza: «Lo sforzo alla conservazione di sé non è altro se non l’essenza stessa della cosa … Ma l’essenza della ragione non è altro se non la nostra mente, in quanto intende chiaramente e distintamente… : dunque … tutto ciò verso cui ci sforziamo secondo ragione non è altro se non l’intendere … ; la mente, in quanto ragiona, non potrà concepire niente di buono per sé, che non sia ciò che conduce all’intendere»21.  Ecco perché il bene più grande per la ragione è la conoscenza di Dio22. Come Spinoza dirà nel capitolo IV dell’Appendice alla quarta parte, «il fine ultimo dell’uomo guidato da ragione, ossia il desiderio supremo, con il quale si studia di controllare tutti gli altri, è quello da cui è portato a concepire adeguatamente se stesso e tutte le cose che possono essere colte dalla sua intelligenza.» I desideri possono essere vinti solo da altri desideri, e la ragione ha i suoi desideri.

Lo scopo della filosofia di Spinoza è di produrre un cambiamento nelle conoscenze, e, di conseguenza, nei desideri, in ultima istanza, un cambiamento nella natura dell’agente, dal quale seguirà necessariamente un cambiamento nella concezione del bene e nelle azioni: se la natura della mente è modificata, le cose che provocano gioia e che sono oggetto del desiderio cambieranno di conseguenza. Non è un caso che il bene sommo, ovvero la conoscenza di Dio, implichi un lato affettivo: la gioia, ovviamente: «chi conosce le cose [col terzo genere di conoscenza] passa alla più alta perfezione umana, e di conseguenza (per la definizione 2 dei sentimenti) è preso dalla più grande gioia».23  La componente affettiva è intrinseca al giudizio di valore, e, nello stesso tempo, esprime la natura del soggetto e ne motiva l’azione. Ecco, in fondo, la ragione per la quale la virtù non attende una ricompensa, ma è ricompensa a se stessa: l’azione virtuosa, come qualunque azione, tende a soddisfare un desiderio, e il successo di questa azione provoca necessariamnete gioia, ovvero la gratificazione dell’agente.

Abbiamo così individuato due buone ragioni per spiegare l’abbandono della fondazione razionalista della morale in favore di una spiegazione emotiva della nascita dei valori. E’ possibile, e anche probabile, che le ragioni di un cambiamento così radicale si trovino tutte e solo all’interno della riflessione etica di Spinoza e, in particolare, della necessità di trovare la migliore soluzione per rendere compatibile con il determinismo la propria teoria morale. Ma una considerazione ulteriore si impone. La teoria dell’azione e della nascita dei valori morali scaturita dalla scelta spinoziana di modificare così profondamente le tesi del Breve Trattao si sovrappone largamente alla teoria dell’azione e della nascita dei valori morali elaborata da Thomas Hobbes24. In effetti, il parallelismo tra la proposizione 9 della terza Parte dell’Etica e il capitolo VI del Leviatano è sorprendente. In questo capitolo, Hobbes introduce la nozione di conatus per indicare l’inizio dei movimenti volontari e prosegue: «conatus hic quando fit versus causam suam, vocatur appetitus vel cupido…»25. «Hic conatus affermerà Spinoza per parte sua‒ cum ad mentem, et corpus simul refertur, vocatur Appetitus … Deinde inter appetitum, et cupiditatem nulla est differentia, nisi quo cupiditas ad homines plerumque referatur, quatenus sui appetitus sunt conscii» (E III, p 9 s). Hobbes prosegue: «Quicquid autem appetitus in homine quocunque objectum est, eidem illud est quod ab ipso appellatur bonum. Similiter id, quod aversionis in ipso et odii causa est, ab ipso nominatur malum; atque id vile appellat, quod ipse contemnit. Voces enim bonum, malum, vile, intelliguntur semper cum relatione ad personam quae illis utitur, cum nihil sit simpliciter ita; neque ulla boni, mali, et vilis, communis regula ab ipsorum objectorum naturis derivata, sed a natura (ubi civitas non est) personae loquentis».26. Come si vede, Hobbes deduceva direttamente dal conatus l’inversione nel rapporto che la tradizione aristotelica aveva posto tra giudizio e desiderio27. Il desiderio è espressione del conatus; il bene è ciò che è desiderato e non si desidera, all’inverso, quel che si giudica essere un bene. Spinoza, come sappiamo, nello stesso scolio della proposizione 9 della terza Parte conclude a partire dal conatus che «nos propterea, aliquid bonum esse, judicare, quia id conamur, volumus, appetimus, atque cupimus». Leggendo il Leviatano Spinoza avrebbe potuto trovare la tesi che il bene e il male non sono proprietà delle cose, ma designano piuttosto stati del soggetto, come lui stesso aveva pensato da sempre; ma l’autore del Leviatano inseriva questa tesi all’interno di altre tesi, che erano invece opposte a quelle che Spinoza aveva sostenuto nel Breve Trattato. Ora, le tesi nelle quali Hobbes e lo Spinoza del Breve Trattato divergevano erano quelle che, a una riflessione attenta, si rivelavano singolarmente capaci di rispondere alla spinosa questione della compatibilità del determinismo con la scelta morale. Si trattava, quindi, di tesi degne della massima attenzione per un determinista.

Spinoza possedeva una copia del De cive di Hobbes28. Era dunque sicuramente al corrente della teoria politica di Hobbes, come del resto è confermato dalle osservazioni sulle differenze tra la propria teoria politica e quella hobbesiana che lo stesso Spinoza  ha consegnato ad una lettera indirizzata a Jelles29. La domanda cui rispondere riguarda semmai l’antropologia hobbesiana, non inclusa nel De cive. Spinoza la conosceva?  Bisogna escludere una lettura dei testi hobbesiani in  lingua  inglese, dal momento che Spinoza ignorava questa lingua30. Peraltro, il nocciolo delle dottrine che è dato ritrovare nell’Etica era stato esposto da Hobbes nell’Elementorum philosophiae sectio secunda, De homine comparsa a Londra nel 1658. In questo testo si trovano due tesi fondamentali riprodotte poi da Spinoza:

1. Si giudica buono ciò che è oggetto del desiderio, e non si desidera quel che è giudicato buono.

2. Il desiderio, e dunque il giudizio su quel che è buono, è necessario31.

Ma in questa opera di Hobbes il conatus è assente. Nel capitolo XII del De homine le passioni sono definite come « appetitionis et fugae species », mentre nel Leviatano Hobbes scoprirà qualcosa di più profondo dell’appetitus e dell’aversio, ovvero qualcosa di cui appetitus e aversio sono specie, il conatus, appunto: «Conatus hic, quando fit versus causam suam, vocatur appetitus vel cupido … Quando autem conatus est recedendi a re aliqua, tunc vocatur aversio»32. Nel Leviatano Hobbes deduce l’insieme delle passioni dal conatus, e Spinoza, nell’Etica, organizza tutta la dinamica dei sentimenti proprio attorno al conatus, mentre, nel Breve Trattato, i sentimenti erano classificati secondo i generi di conoscenza, rispettando così la dimensione intellettualista della teoria dei sentimenti ivi imperante. Se Hobbes ha avuto qualche ruolo nel cambiamento avvenuto nel passaggio dal Breve Trattato all’Etica è il Leviatano che deve essere evocato per giustificare quel cambiamento.

La traduzione latina del Leviatano è edita nell’anno 1668 negli Opera di Hobbes, e riedita nel 1670; soprattutto, il Leviatano era stato tradotto in nederlarndese nel 1667, da Abraham van Berkel, amico di Spinoza. È dunque molto probabile che Spinoza ne abbia avuto conoscenza dopo quella data, e, se la mia proposta di lettura è corretta, la teoria dell’azione e la teoria morale dell’Etica ne portano il segno. I vantaggi che  Spinoza poteva trarre dalle tesi hobbesiane sulla conoscenza del bene e del male implicavano però la necessità di una ristrutturazione profonda della filosofia della morale del Breve Trattato, cosa che di fatto si è verificata, e questa ristrutturazione, come si è visto, ruota attorno al conatus.

Quel che nell’Etica ha invece tutta l’aria di essere un residuo del passato è la definizione del bene della ragione a partire da un modello ideale, definzione che, dopo il Breve Trattato, è riprodotta nella Prefazione della quarta Parte dell’Etica. Il riferimento a un modello ideale nella definizione del bene è divenuta inutile, e anche fuorviante, dal momento che il bene perseguito dalla ragione non è più in funzione di un modello ideale, ma è determinato e perseguito a partire dal conatus della ragione stessa, che per propria natura si sforza di perseguire la conoscenza e, in generale, quel che è veramente utile33. Il modello ideale, eventualmente, è il risultato del conatus della ragione, ma non ne può più essere la causa. D’altronde, dopo la menzione che ne viene fatta nella Prefazione, il modello ideale non svolge alcun ruolo nella quarta Parte, fin dalla definizione del bene e del male che apre la serie delle definizioni di questa Parte, e che, evidentemente, ignora il modello ideale che la Prefazione aveva utilizzato per definire quelle stesse nozioni.

Del resto, l’abbandono del modello ideale nella spiegazione della nascita dei valori morali portava con sé un ulteriore vantaggio, quello di poter fare a meno del finalismo che rischiava di essere reintrodotto attraverso la tensione verso un modello ideale, quale era stata prospettata nel Breve Trattato. In effetti, la ricerca di un modello ideale si inserisce bene nel quadro di una interpretazione finalistica dell’azione umana, e del resto la Prefazione della quarta Parte dell’Etica non metteva in dubbio che i modelli ideali fossero i mezzi grazie ai quali gli uomini interpretano finalisticamente gli eventi naturali. Rivisto sotto questa luce, il Breve Trattato si presenta singolarmente reticente. Chi si aspettasse di trovarvi un rifiuto del finalismo nella interpretazione del comportamento umano rimarrebbe deluso. Anzi, il fine nell’azione dell’uomo e anche dell’animale era evocato più volte nel Breve Trattato, senza nessuna sfumatura o cautela,  e, nello stesso tempo, il modello ideale di uomo era inserito all’interno di una prospettiva finalistica34. Un lettore del Breve Trattato, che non fosse stato condizionato dalla lettura dell’Etica, non avrebbe avuto alcuna ragione per sospettare che il suo autore non attribuisse all’uomo e anche all’animale l’agire in vista di fini35.  Nell’Etica, invece, dove la finalità è aspramente criticata come categoria per interpretare non solo la natura, ma anche l’azione umana, la nozione di fine deve essere ridefinita. Il fine, ora, equivale al desiderio, e Spinoza non manca di sottolineare con decisione questa equivalenza: «Causa autem, quae finalis dicitur, nihil est praeter ipsum humanum appetitum»36; «Per finem, cujus causa aliquid facimus, appetitum intelligo»37; «finis ultimus hoc est summa cupiditas»38. E’ per questo che si può ancora parlare di fini, senza rischiare di reintrodurre la causa finale. Di conseguenza, la causa finale deve essere sempre tradotta nella causa efficiente del desiderio, anche quando si tratta di azioni umane.

La causa finale, nell’Etica, è dunque ridefinita attraverso una nozione centrale nella spiegazione del comportamento umano, il desiderio, ovvero l’espressione del conatus. L’eliminazione del finalismo, dunque, percorre la medesima strategia che Spinoza aveva messo in atto, nello stesso tempo, per rendere la propria teoria dell’azione coerente con il determinismo. Il desiderio era all’origine del giudizio di valore della ragione e sostituiva, al contempo, la causa finale, e secondo la stessa logica: se il bene non è ciò cui il desiderio tende, ma è la conseguenza del desiderio, il bene non sarà più nemmeno la causa finale dell’azione ma l’effetto di una causa efficiente, il desiderio, ancora una volta. Forse Hobbes non è estraneo nemmeno alla chiarezza raggiunta da Spinoza nel rifiuto della causa finale nell’azione umana: «Finalis causa locum non habet nisi in iis rebus, quae habent sensum et voluntatem, quam efficientem quoque esse suo loco ostendemus», si poteva leggere in De corpore X,7. Il rinvio è a De homine XI,2, dove la volontà è equiparata al desiderio, il desiderio è sempre causato dalla previsione di gioia che proviene dalle cose esterne, e, di conseguenza, non può essere libero. Ebbene, in quello stesso luogo, Hobbes affermava che ciò che chiamiamo bene è ciò che è oggetto dell’appetito.

Determinismo, rifiuto della causa finale, dipendenza del giudizio di valore dal desiderio, tutto questo Spinoza poteva trovarlo nell’opera di Hobbes, e l’Etica ne riproduce fedelmente i legami concettuali. Ma Spinoza non potrà mai identificarsi completamente con Hobbes, perché, al contrario di quel che poteva leggere nel Leviatano, Spinoza prevede un desiderio della ragione grazie al quale può essere raggiunto un livello tendenzialmente universale di quel che deve essere detto «bene» e «male». Quel che rimane di irriducibile a Hobbes, in Spinoza, è l’estraneità della ragione, con i suoi deisderi e i suoi valori, all’immaginazione, ai suoi desideri e ai suoi valori.

 

  1. Una versione francese di questo testo apparirà all’interno del volume Spinoza transalpin, sotto la direzione di C. Jaquet e P.-F. Moreau, per le Publications de la Sorbonne
  2. KV II,3,2. KV= Korte Verhandeling van God, de Mensch en deszelvs Welstand; cito dalla traduzione di Filippo Mignini, in Spinoza, Opere, Milano, Mondadori 2007.
  3. E = Ethica; utilizzo la traduzione di Paolo Cristofolini, ETS, Pisa 2010, con qualche modifica; p = proposizione; d = dimostrazione; s = scolio; c= corollario
  4. E III, Affectuum definitiones, IV, Explicatio
  5. KV, II, 16, 2
  6. E III, p 9 s
  7. E III, p 39 s
  8. Si veda E IV, Prefazione, e KV, I,10. Ma anche Cogitata metaphysica I, cap. VI
  9. KV I, 10, 3 e II, 4, 5-8.
  10. Cogitata metaphysica, II, cap. VI
  11. KV I,5,1
  12. Ibidem
  13. E IV p14. Cfr anche E IV p15d. Traduco «affectus» con «sentimento», e «passio», ossia il sentimento nel quale la mente è passiva, con «passione». Cfr E III, def 1 e p 1
  14. E 4 p 1 s.
  15. D. Hume, A Treatise of Human Nature, ed. L.A. Selby-Bigge, second edition, Oxford, Oxford UP 1978, II, III, III, p. 415, molto vicino a Spinoza, E IV, p 7: «Nothing can oppose or retard the impulse of passion, but a contrary impulse». Ibid.: «’Tis impossible (…) that (a) passion can be oppos’d by, or be contradictory to truth and reason», molto vicino a Spinoza, E IV, p I. Anche Hume motiverà l’origine delle distinzioni morali nel sentimento attraverso l’incapacità della ragione di produrre direttamente l’azione. Cfr. A Treatise of Human Nature, III, I, I, p. 457: «Since morals, therefore, have an influence on the actions and affections, it follows, that they cannot be deriv’d from reason; and that because reason alone, as we have already prov’d, can never have any such influence. Morals excite passions, and produce or prevent actions. Reason itself is utterly impotent in this particular. The rules of morality, therefore, are not conclusions of our reason».
  16. E 4, p 63c.
  17. E III, p.9s: «Questo sforzo, quando si riferisce alla sola mente, si chiama volontà; ma quando si riferisce simultaneamente alla mente e al corpo, si chiama appetito, che non è dunque altro se non l’essenza stessa dell’uomo, dalla cui natura necessariamente derivano quelle cose che servono alla sua conservazione; e quindi l’uomo è determinato a farle».
  18. E 3, p 28d.
  19. Corsivo mio
  20. Corsivo mio
  21. E 4, p 26d.
  22. E 4, pp. 26-28
  23. E 5, p 27d. Corsivo mio.
  24. L’ipotesi di un ruolo importante svolto da Hobbes nel passaggio da una prima redazione dell’Etica alla redazione definitiva era stata avanzata da B. Rousset, Eléments et hypothèses pour une analyse des rédactions successives de Ethique IV, in «Cahiers Spinoza» 5 (1984-85), pp. 129-145. Questo articolo dotto e stimolante non è stato discusso quanto avrebbe meritato. Le tappe della presenza di Hobbes nelle Province Unite sono molto ben ricostruite da C. Secretan, La reception de Hobbes aux Pays-Bas au XVIIe siècle, «Studia spinozana» 3 (1987), pp. 27-45
  25. Th. Hobbes, Leviathan. Sive De Materia, Forma, et Potestate Civitatis Ecclesiasticae et Civilis, in Thomae Hobbes Malmesburienis Opera philosophica quae latine scripsit omnia, ed. G. Molesworth, Londini 1849, ripr. Scientia Verlag, Aalen, 1966, III, p. 40
  26. Thomas Hobbes, Leviathan cit., p. 42
  27. Cfr. Aristote, Metafisica, 1072a 28-29
  28. Cfr. La biblioteca di Spinoza, a cura di P. Pozzi, in appendice a J.M. Lucas, J. Colerus, Le vite di Spinoza, a cura di R. Bordoli, Macerata, Quodlibet, p. 170
  29. Si veda la lettera di Spinoza a Jelles, 2 juin 1674 (lettera 50), in Spinoza, Opere, a cura di F. Mignini, cit., p. 1420
  30. Si veda Spinoza a Oldenburg, (maggio 1665) (lettera 26), in Spinoza, Opere, a cura di F. Mignini, cit, p. 1282: «Dallo stesso Huygens seppi anche che l’eruditissimo signor Boyle era in vita e aveva pubblicto in inglese quel notevole Trattato sui colori. E me lo avrebbe prestato, se avessi conosciuto la lingua inglese».
  31. Th. Hobbes,  Elementorum philosophiae. Sectio secunda, De homine, cap. XI, in Th. Hobbes, Opera philosophica quae latine scripsit omnia cit., II, pp. 94 ss.
  32. Th. Hobbes, Leviathan cit., p. 40
  33. Concordo qui con J. Bennett, secondo il quale l’«exemplar» della natura umana al quale Spinoza ricorre nella Prefazione della quarta Parte dell’Etica sarebbe una sopravvivenza del passato, «a palimpsest, bearing traces of earlier stages in Spinoza’s thought», A Study of Spinoza’s Ethics, Indianapolis, Hackett Publishing Compant, 1984, p. 296. D’altronde B. Rousset, nell’articolo citato sopra, sospetta che la Prefazione della quarta Parte porti traccia di una prima redazione dell’Etica. Le ipotesi di diversi strati redazionali dell’Etica vanno ora misurati con il manoscritto recentemente rinvenuto e pubblicato da P. Totaro e L. Spruit, The Vatican Manuscripts of Spinoza’s Ethica, Leyden, Brill 2011
  34. Ivi, II,4,7-8: «Dico perciò che devo concepire un uomo perfetto, se voglio sostenere qualcosa rispetto al bene e al male dell’uomo. … Inoltre, poiché il fine (het eynd) di Adamo o di ogni altra creatura particolare non ci è noto se non mediante gli eventi, tutto ciò che possiamo dire del fine (eynd) dell’uomo deve essere fondato sul concetto di un uomo perfetto esistente nel nostro intelletto, il cui fine (eynd), essendo solo un ente di ragione, possiamo ben conoscere …» Lo stesso Apphun, nella sua classica traduzione francese delle opere di Spinoza, traduce “eynd” con “fin” in KV II,24,6.
  35. cfr. KV II,4,8, e sopratutto II,24, 6.
  36. E 4, praefatio.
  37. E 4, definitio  VII.
  38. E 4, appendix, cap. 4.
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