Jacques Bidet
The notion of ‘body’ seems to be crucial in the materialist analysis developed by Marx in Capital. The body-at-work is conceived in biopolitical terms, that is, in the intersection between two essential determinations: the natural-being of the body, intended as a mortal body as well as a reproductive one (in a sense that exceeds mere procreation), and the cultural-being, intended as a body inhabited by a political voice, that is, as a constrained and resistant body. The notion of “value”, which is the primary word in the theory of Capital, is understood as an expenditure of its force, and this expenditure is the base for a debate immanent to class struggle. This body is, thus, a bone of contention, and its owner (the proletarian) has it at his disposal only to the extent that he puts it at the employer’s disposition. It is, also, a cyborg-body, whose machine is the organ, and which becomes itself an organ of the machine. This is an indissolubly social and singular body. This body, as caught up within struggles, is also a legal one, which is interpellated within the same national space to which the proletariat belongs. It is, lastly, a sexed body, even when the strictly sexual dimension is marginal, which lies in a misrecognised space where the ‘alien body’ also appears, that is, the body coming from beyond the borders.
***
Et exultabunt ossa humiliata
Si potrebbe essere tentati di cominciare da alcuni frammenti veementi del Capitale1, che denunciano l’incorporazione del lavoratore alla macchina e il commercio di «carne umana»2. Se vogliamo comprendere fino in fondo l’invenzione biopolitica di Marx e la rivoluzione teorica che essa comporta, però, dobbiamo abbordare la questione da lontano, e considerarla nel suo intero dispiegamento concettuale, economico-politico.
Marx si proponeva di produrre una teoria della società «moderna» (o anche, secondo i suoi termini, «borghese», o «capitalista»), o quantomeno di fornire un contributo a una tale ricerca. Considerava la sua opera maggiore, Il Capitale, come uno degli elementi di una costruzione più larga, che avrebbe dovuto articolarsi in tutto un insieme di «libri». Questa teoria appartiene al progetto designato con il nome di «materialismo storico», ovvero, per riprendere il termine delle Annales, a un progetto di «storia totale», capace di prendere unitariamente in considerazione la dimensione economica, politica, culturale ed ecologica. I concetti che essa elabora articolano queste diverse facce della realtà sociale. Per quanto insufficiente possa esserne la realizzazione (e non c’è da meravigliarsene, visto ciò che se ne “sapeva” all’epoca), si tratta al contempo di una «storia globale», nel senso che si è stato recentemente attribuito a questo termine. Marx aveva di mira diverse prospettive di «lunga durata», diverse storicità. E, più specificamente, diverse storicità del corpo, relative ai diversi modi della sua attualità.
Il progetto di una storia sociale del corpo, congiuntamente economica e biopolitica, si annuncia già nel primo dei concetti della sua teoria, quello di «valore», tradizionalmente designato come «valore-lavoro». Questo non significa che il lavoro abbia un «valore», ma che il valore deve essere considerato a partire dal lavoro. Più precisamente, a partire dal corpo-al-lavoro. Se è vero che il valore delle merci, a condizioni che dovranno essere precisate, è relativo al «dispendio di forza-lavoro» («dispendio produttivo del cervello, dei muscoli, dei nervi, della mano dell’uomo», precisa Marx in MEW 58), è anche vero che il problema è posto in termini immediatamente corporei. Ed è proprio questa la scoperta di cui Marx si vanta sin dall’inizio del primo capitolo (nel § II), quella di un duplice carattere del lavoro: «concreto» in quanto mira, attraverso una tecnica particolare, a un valore d’uso altrettanto particolare, e «astratto» nel senso in cui, qualunque esso sia, implica pur sempre un dispendio di forza lavoro. «Sono stato il primo» scrive nel Capitale rinviando a Zur Kritik der politischen Okonomie (1859) «a mettere in rilievo il doppio carattere del lavoro rappresentato nella merce».
L’interpretazione “grundrissiana”, la lettura cioè del Capitale a partire dai Grundrisse oggi prevalente tra i filosofi, tende a fare a meno di questa cosa «fisiologica»3 . La teoria marxiana della merce sarebbe essenzialmente da comprendere a partire dal denaro. L’astrazione si rivelerebbe nello scambio di cui è il medium. E questa astrazione recherebbe in germe quella del capitale4. La nozione di «lavoro astratto» indicherebbe quindi, fondamentalmente, una relazione alienata, di perdita di senso, di negazione del valore d’uso. L’astrazione del dispendio di forza lavoro si trova assimilata (in modo maggiore o minore a seconda degli autori) all’astrazione del plus-valore, forma di ricchezza astratta. Il corpo-al-lavoro, nella sua attualità sociale-naturale, scompare dal nucleo teorico iniziale, per non comparire che al momento in cui Marx giunge a trattare della manifattura e della grande industria. Il che, come si vedrà, indebolisce e banalizza l’intero dispositivo teorico5.
Il tenore «biopolitico» che è proprio del concetto di «valore» non può essere compreso, in realtà, se non si distinguono i tre livelli di astrazione o di storicità su cui esso si articola. L’analisi presentata da Marx nel Capitale presuppone un preambolo che definisce la produzione in generale, il «lavoro in generale» (L1), al quale il testo non assegna alcun luogo suo proprio, e che non compare se non frammentariamente e secondo i bisogni di una certa strategia di scrittura. Marx comincia in effetti –ed è l’oggetto della Sezione 1 del Libro 1‒ col definire la logica di produzione mercantile, L2, che come tale si estende su ampi periodi storici, non descrivendo questa logica se non in quanto in qualche modo governa la produzione capitalistica (L3), che è l’oggetto del resto dell’opera. Comincerò allora (I) col definire questi tre livelli nell’ordine logico L1-L2-L3. Su queste basi, considererò poi (II) la questione biopolitica in sé stessa e al suo livello più «concreto», quello del capitalismo6, e (III) i limiti incerti dell’analisi di Marx, i confini barbari che essa lascia inesplorati.
I. I tre corpi del lavoratore : i tre livelli di storicità del corpo-al-lavoro
L1. Il corpo-al-lavoro in generale (la produzione in generale)
C’è senz’altro, in Marx, una storicità del «lavoro in generale»7, come dato «antropologico». Inteso come un tempo di dispendio di forza-lavoro, il lavoro è una pratica che, secondo le nostre conoscenze, è dato riscontrare in ogni epoca della storia umana, la cui razionalità consiste nel produrre un valore d’uso nel minor tempo possibile. Il cacciatore paleolitico, il coltivatore neolitico, la filatrice o l’operaio alla catena di montaggio non fanno alcun gesto inutile. Il «tempo corporeo di lavoro» esiste per tutti, anche se nello stesso tempo si fanno altre cose, come onorare gli dei, vegliare sui neonati o ascoltare la radio. In ogni tempo, quando si lavora si misurano i propri sforzi, si minimizza il «dispendio». È questo, in un certo senso, il punto di partenza di Marx. La sua «economia» si fonda sulla sorprendente decisione di considerare ogni ricchezza sociale (ogni «valore d’uso» prodotto) a partire dal dispendio del lavoro necessario per produrla. In tutto ciò non c’è nulla di assimilabile a una «riduzione» fisiologica: il corpo di cui si tratta è un corpo «sociale». Il corpo in questione, vale a dire, è certo un corpo singolare, la cui singolarità è però socialmente costituita e situata in un insieme sociale. Si tratta di un corpo socialmente istruito, e proprio come tale impegnato nel dispendio di forza lavoro.
1. Il «lavoro in generale» viene presentato, come del resto è necessario, nel quadro di una classica «robinsonata». Marx ne schizza la propria versione in una pagina del primo capitolo estremamente significativa, che evoca una condizione umana destinata ai suoi occhi a protrarsi fino ai tempi del socialismo. «Visitiamo innanzitutto Robinson nella sua isola…», che deve ripartire i suoi sforzi tra i diversi beni da produrre secondo un insieme funzionale, e deve tener conto «del tempo di lavoro che gli costa ogni prodotto» (un tempo che costa: un dispendio). Marx conclude allora: « tutte le determinazioni essenziali del valore vi sono contenute». Curiosamente, come per mettere in risalto il punto, utilizza una parola, «valore», che in linea di principio dovrebbe essere riservata alla merce. Solo la merce possiede infatti un valore nel senso della teoria del valore-lavoro, in quanto teoria della produzione mercantile. Questo uso provocatorio sottolinea che il valore, come forma storica particolare, rinvia a un problema più generale, che è quello di ogni lavoro : la gestione di un «dispendio di forza lavoro» secondo impieghi coerenti tra loro.
2. La robinsonata non può figurare qui che a titolo di preludio teorico, perché il lavoro umano è sempre «sociale». Appartiene sempre a un modo particolare di divisione o articolazione sistematica del lavoro tra attori socialmente definiti. La robinsonata marxiana sottolinea che ciò che è da dividere, da spartire, non sono solo i compiti concreti, ma anche l’impegno corporeo che essi implicano. Come Marx spiega nella sua «Nota a Wagner», lavoro astratto e lavoro concreto formano una coppia universale (MEW Bd 19, S. 375), che riassume il problema vitale di ogni società. Il lavoro astratto non è una specialità capitalistica. Ogni economia concreta costituisce un modo particolare di regolare le relazioni tra un sistema di valori sociali (di valori d’uso da produrre) e la fatica che esso suppone. È in questo che l’economia è già da sempre politica: essa concerne il corpo (sociale) al lavoro.
L2. Il corpo al lavoro mercantile (la produzione mercantile)
Veniamo ora alla teoria del valore presentata all’inizio del Capitale. Si tratta di una teoria particolare, il cui oggetto è cioè una forma economica specifica, che non appartiene ad ogni tempo e ad ogni luogo: la logica mercantile della produzione, in cui si manifestano in modo specifico i tre caratteri generali del lavoro, intensità, qualificazione, abilità.
Si tratta qui, propriamente parlando, del capitalismo, ma considerato nella sua trama la più generale, la più «astratta» (come dice Marx), come sottomesso alla «produzione mercantile». Il fine ultimo dei capitalisti non è certo di produrre dei «valori d’uso», e neppure delle merci. È quello di fare profitti, di accumulare plus-valore, ossia potere economico. Ma non possono farlo senza produrre merci. È proprio qui, del resto, il loro problema: alcuni riescono a prevalere su altri, ma in definitiva è necessario che alcuni capitalisti producano (facciano produrre) delle merci. Senza di che non vi sarebbe mai plus-valore, almeno se è vero che quest’ultimo proviene dallo sfruttamento della forza-lavoro nel processo capitalistico di produzione delle merci.
In questo senso i capitalisti partecipano di una logica di produzione più antica del capitalismo: la logica della produzione mercantile. Proprio questo è l’oggetto della Sezione I del Libro 1. Bisognerà in seguito collegare la logica della produzione mercantile alla logica di produzione capitalistica. È l’oggetto delle Sezioni 2 e 3, che definiscono la relazione tra mercato e capitalismo. Non possiamo in questa sede considerare nel suo insieme questa questione cruciale e sempre eminentemente attuale, che è poi quella del rapporto tra mercato e «socialismo» (e quindi della definizione di ciò che si potrebbe indicare con questo termine). Mi concentrerò qui unicamente su questo punto: cosa ne è del «corpo-mercantile», che è quello produttore di merci, considerato prima del «corpo-merce», quello della produzione capitalistica, forza-lavoro venduta e comperata come merce? «Prima» è da intendere qui nel senso logico, legato all’ordine dell’esposizione, nel quale Marx tratta del lavoro mercantile, ossia produttore di merci (Sezione 1), prima di rivolgersi al lavoro salariato (Sezione 3), come precisato in un’importante piccola nota al § II del capitolo 1: «la categoria di salario non esiste ancora a questo punto della nostra esposizione». Si tratta dunque del lavoratore, salariato o no, in quanto produttore di merci.
Marx mostra il corpo mercantile al lavoro nei diversi esempi a cui fa riferimento per esaminare il concetto di «valore» in tutti i suoi aspetti, per produrre progressivamente questo concetto. È il corpo falegname, che assembla tavoli. Il corpo sarto, che taglia l’abito ‒col quale si scambia il tavolo. Il corpo contadino, fabbro, minatore, gioielliere…
Si dovrebbe essere stupiti che una «teoria del capitalismo» (perché proprio di questo si tratta sin dall’inizio del Capitale) possa cercare i propri esempi ‒strumenti essenziali di un’esposizione concettuale‒ nelle figure di un’altra epoca, e cominciare con l’esibizione di corpi e di tecniche (strumentali-corporali) precapitalistici. Se Marx procede così è perché egli iscrive la storicità capitalistica in una storicità mercantile più ampia, più lunga (e che conserva nel capitalismo un’attualità specifica ed essenziale ‒ed è qui il punto decisivo, che bisognerà spiegare8). Ecco perché può convocare senza reticenza queste figure ancestrali, i defunti dei millenni precedenti, e che però dovevano almeno in parte già produrre per vendere, e comprare per consumare 9. Altrettanto bene vi figurerebbero l’agente tecnico chino sul proprio computer, o l’agente commerciale appeso al suo telefono: la persona al lavoro ‒cervello mobilitato, nervi e muscoli tesi‒ del quale il mercato conta il tempo.
1. «Da che mondo è mondo», certo, il lavoro non è mai semplice «affermazione normale della vita» (MEW 61n, ES/1, 61n), ma sempre anche dispendio di forza-lavoro, più o meno «intenso». Questo è vero del concetto di «lavoro in generale», L1, ma questa intensità conosce nella produzione mercantile un regime specifico, che Marx studia nei termini della propria «teoria del valore», L2. È infatti proprio in questo senso che egli pone, nel capitolo 15 (17) del Libro I, la questione epistemologica di sapere cosa ne sia del valore, nel senso in cui è definito dal «dispendio di forza-lavoro», quando il lavoro diviene più intenso. Si può per esempio arrivare a filare, in una giornata di 8 ore, 10 metri di tela, quando fino ad allora per essere competitivo era necessario produrne 8. È come se si allungasse la giornata di lavoro da 8 a 10 ore. I produttori «laboriosi», che fanno questo sforzo, producono così una maggiore quantità di «valori d’uso» e una maggiore quantità di valore. Paradossalmente, ma in maniera teoricamente coerente, quando questo nuovo ritmo di lavoro si generalizza e diviene la norma, questo aumento del valore sparisce. Si produce ormai più «valore d’uso», ma non più «valore», che si determina infatti secondo il tempo di lavoro socialmente necessario, che è a questo punto di 8 ore per 10 metri di tela. Il sovrappiù di valore prodotto per un certo tempo dai «laboriosi» era legato a una relazione differenziale. Questo movimento differenziale che viene riassorbito in una normalità superiore è quello dei corpi-al-lavoro-in-concorrenza su un mercato. L’intensità si impone allora come un analogo della produttività. Un analogo soltanto, però, perché al di qua della loro interferenza, l’intensità appartiene al lavoro astratto, la produttività al lavoro concreto.
Al dispendio di forza-lavoro produttrice di merci, il cui correlato è il valore, appartiene dunque questa proprietà fugace, ma essenziale : essere più o meno intenso. Al livello L2, che è quello della logica della produzione mercantile, di questa «intensità» non possiamo dire però nient’altro, se non che essa esprime questo enunciato formale: la rigorosa equivalenza tra un lavoro più intenso e un lavoro più lungo. E non si tratta di un’alternativa, supposta tecnica, tra due soluzioni. Le si può accoppiare: lavorare più duro e più a lungo. Il mercato costringe il corpo nel tempo. Di ciò che questa costrizione significa per le persone coinvolte ‒in termini fisiologici, e dunque biologici, biografici, biopsichici‒ non possiamo ancora dire, al livello L2, niente di più determinato. L2 non è che una logica di produzione. Per accedere al livello più concreto (nel senso marxiano di «più determinato») che è proprio della politica e della biopolitica ci sarà necessario passare dal rapporto di produzione mercantile, L2, al modo di produzione capitalistico, al rapporto di classe, L3. Solo allora potremo cogliere l’inquietante proprietà costituita dall’intensità.
2. Una seconda qualità che Marx attribuisce qui al corpo-mercantile è quella di essere più o meno «qualificato». È una questione sulla quale ancora nel Capitale Marx tende a ingarbugliarsi un po’10 . La linea generale della sua analisi è tuttavia abbastanza chiara, almeno nella sua versione (ai miei occhi) ricevibile: essa situa il lavoro più qualificato nel contesto del lavoro più produttivo. Ed è questa problematica della produttività che deve attirare la nostra attenzione. Al livello L2 essa consiste nel definire lo scontro mercantile secondo la sua altra dimensione, quella del lavoro concreto, del confronto tecnico nel quale si trova implicato un corpo esperto, che incorpora le tecniche che esso mette in opera. Ciò che tutto ciò significherà al livello L3, quello dei rapporti propriamente capitalistici, è un’altra questione. Già il corpo-al-lavoro-mercantile è però da comprendere nella sua relazione alle protesi ‒gli strumenti e le macchine‒ e grazie alle quali esso si trova inserito nel processo delle forze naturali, che esso non mette in moto se non costituendosi esso stesso come un semplice momento di un processo fisico culturalmente costituito e continuamente risussunto alla relazione concorrenziale. Tutto ciò è già pertinente al livello L2, quello del filatore, del tessitore e del fabbro. «In quanto esso è utile, in quanto è un’attività produttiva, il lavoro, attraverso il semplice contatto con i mezzi di produzione, li resuscita dalla morte, ne fa degli attori del suo proprio movimento, e si unisce ad essi per costituire dei prodotti» (MEW 215, ES/1, 200). Il corpo del mugnaio è nelle pale del mulino, nel suo saperle far girare. Il corpo seduto nell’ufficio è nel software che padroneggia. Esso è, tra le altre cose, padronanza del software. A meno che non si supponga che l’anima (o la mente) sia altra cosa rispetto al corpo. Il corpo-al-lavoro-mercantile è un corpo sapiente, di un sapere concorrenziale (e organizzato, ma tralasciamo pure questo punto).
3. Tra queste due proprietà, l’intensità e la produttività, se ne insinua surrettiziamente, al livello L2, una terza: l’abilità, Geschick. Essa appare nella prosa di Marx come un terzo termine, integrato anch’esso nel quadro della produttività, della maggiore o minore «forza produttiva del lavoro» (MEW 53, ES/1, 55). Si tratta, a pensarci bene, di una proprietà abbastanza sospetta, soprattutto per il modo in cui la cultura (in particolare quella di genere) vi si ritrova intrecciata a disposizioni supposte naturali (livello L1). Essa si concretizzerà, al livello L3, nelle sue manifestazioni interne al capitalismo. Le «abili dita» (delle donne), il «colpo di mano» (degli uomini), «l’agilità» (dei bambini), inseparabili dal «cuore al lavoro» che batte ad un ritmo comune: altrettanti corpi socialmente costituiti e storicamente definiti. Questa terza proprietà corporea del lavoro rinvia però (vasto cantiere per gli studi di genere) a una storicità L1, più antica di quella della produzione mercantile, L2, e della quale la produzione capitalistica, L3, farà un uso del tutto particolare.
L3. Il corpo-al-lavoro salariato (la produzione capitalistica)
Per accedere alla biopolitca di Marx bisogna fare un passo in avanti: bisogna passare, per dirla con Marx11, dalla Sezione 1 (=L2), consacrata alla «produzione mercantile», attraverso la Sezione 2 (quella del passaggio, o della «trasformazione») alla Sezione 3 (=L3), consacrata alla «produzione capitalistica». In questa progressione teorica della determinazione economica si realizza, sul piano socio-politico, la trasformazione del dispendio di forza-lavoro nel suo consumo12. Dovremo presto interrogarci sul significato biopolitico del termine «consumo», ricorrente (ed essenziale) lungo tutto il corso del Libro I.
1. Marx conclude in questi termini il capitolo 4 (6 nella versione francese), intitolato «La compera e la vendita della forza-lavoro», che definisce il passaggio logico-teorico dalla «produzione mercantile» L2 alla «produzione capitalistica» L3: «il nostro vecchio uomo coi danari prende l’iniziativa e in qualità di capitalista si mette in marcia per primo; il possessore di forza-lavoro lo segue rapidamente, come suo lavoratore; quello lo guarda beffardo, l’aria importante e indaffarata; questo, timido, esitante, restio come qualcuno che ha portato la sua propria pelle al mercato, non può attendersi che una cosa: di essere conciato»13 (MEW 190, ES I/179). Al capitalista, infatti, appartiene «l’uso della forza-lavoro» del salariato, «proprio come quella di un cavallo che ha affittato alla giornata». «Dal suo punto di vista, il processo del lavoro non è che consumo di forza-lavoro, la merce che ha comperato» (MEW 200, ES I/187).
2. È qui che si percepisce la natura della rivoluzione teorica iniziata da Marx. I classici ‒e questo punto mi sembra sfuggire agli storici dell’economia politica‒ non guardano che al «lavoro-dotato-di-un-prezzo», il lavoro salariato. Non considerano mai il lavoro nudo, considerato cioè ‒secondo la sequenza logica marxiana‒ prima del salariato e del salario14. Non c’è posto, presso di loro, per niente di simile alla Sezione 1. Sono dunque strutturalmente impossibilitati a cogliere tanto l’intensità di per sé stessa, in quanto costitutiva del lavoro come pratica specifica, quanto il dispendio corporeo come rapporto sociale al livello mercantile L2. Non si interessano conseguentemente, al livello capitalistico L3, al consumo di forza lavoro, che del dispendio rappresenta il correlato economico-politico. La loro economia non diventa mai autenticamente «politica». A dispetto del suo riferimento al lavoro, e proprio come l’economia standard dei giorni nostri, l’economia classica ci trattiene in un universo di scambi. Il lavoro salariato ricopre e cancella il lavoro come tale, che compare invece nell’analisi marxiana del lavoro mercantile. E questo difetto si radica nella loro stessa concezione del lavoro.
3. Quando rimprovera gli economisti classici di leggere il lavoro salariato come una semplice relazione di scambio, Marx sottolinea che essi ignorano lo sfruttamento. Lo sfruttamento non deriva da una semplice manipolazione contabile, che consentirebbe di trattenere un plus-valore. Non costituisce solamente una sottrazione finale, ma un processo attivo di estorsione, che fa lavorare «produttivamente», in termini di razionalità tecnica e d’intensità corporea. La forza-lavoro non è solamente scambiata come merce, né soltanto messa all’opera razionalmente. Essa è «sfruttata», vale a dire consumata, come si sfrutta una miniera d’oro. Alla fine, la miniera si esaurisce. Così anche il lavoratore: non può, fisicamente, dare di più. L’intensità non è un fattore addizionale, occasionale, marginalmente differenziale. Essa segnala il «concreto» di questo lavoro astratto: la vita impegnata nel lavoro. È in forza della sua intensità che il «tempo di lavoro socialmente necessario» non può essere ridotto a semplice «tempo socialmente necessario»15. L’intensità denaturalizza la durata, perché deriva da una relazione sociale (e quindi sempre anche singolare) tra capitalisti e salariati. Il tempo di lavoro non è soltanto il tempo: presenta la particolarità di inscriversi in una relazione di forze. Il tempo di lavoro socialmente necessario si determina nella lotta di classe. Non si comprende dunque il «passaggio dal mercato al capitale» che alla condizione di comprendere il «passaggio dal dispendio al consumo della forza-lavoro», ossia a una biopolitica. Un affare di «società» e un affare di «Stato», come vedremo.
II. Elementi di una biopolitica marxiana : il corpo mortale e il corpo giuridico, corpo sociale e corpo proprio.
1. Chi dispone del corpo del salariato ?
Ci si domanderà senza dubbio cosa ci sia di politico, e di biopolitico, in tutto ciò. L’accesso alla politica è rappresentato dal riferimento regolare che Marx fa al «contratto» tra il capitalista e il salariato, e dalla reinterpretazione del tema hegeliano secondo il quale lo sfruttamento capitalistico è quello dell’uomo libero. Hegel sottolinea la differenza tra un «contratto di schiavitù», attraverso il quale io mi darei tutto intero, e il contratto salariale, attraverso il quale, pur alienando «per un tempo determinato l’uso delle mie attitudini corporee e intellettuali e della mia attività possibile», salvaguardo la mia sostanza personale, la mia «personalità». Marx fa sua questa proposizione. Ma aggiunge che in questo caso il lavoratore è costretto a questa vendita, «a mettere in vendita come una merce la sua stessa forza-lavoro, che non risiede se non nel suo organismo» in seinem lebendigen Leiblichkeit (MEW 23, 182-3, ES/I,171). Non è per fare del salariato una forma di schiavitù (e ci resterà allora da esaminare quale relazione Marx stabilisca tra schiavitù e capitalismo). A questo livello, si limita a restituire una relazione contraddittoria. Il lavoratore è libero, ma è invitato a conformarsi agli ordini della direzione, a sottomettersi al suo sfruttamento. Questa anfibologia si riflette nel doppio senso di verfügen, «disporre di». Il lavoratore «dispone», verfügt, del suo corpo, della sua forza-lavoro (può cambiare padrone), ma è sempre ridotto a «metterla a disposizione», zur Verfügung, di un padrone (MEW 23, 182, ES/I,171). L’economia è politica. Il contratto produce un padrone. Il quale non è però il «padrone del contratto». Non può mai dettarne integralmente i termini. Non si potrebbe più parlare di «contratto». Ora, lo vedremo, «se ne parla», necessariamente. E proprio qui appare quella che secondo me deve essere designata come la «contraddizione cardinale» del capitalismo, che mi propongo di circoscrivere, e di analizzare nella sua dimensione corporale.
2. Un corpo incorporato ?
La subordinazione a un padrone si materializza nella sottomissione alle costrizioni della macchina, di cui Marx descrive gli effetti nei termini di una psicofisiologia del lavoro nella manifattura e nella fabbrica. «La divisione manifatturiera (…) attacca l’individuo alla radice stessa della sua vita, è essa che per prima fornisce l’idea e la materia di una patologia industriale» (MEW 23, 384, ES 2/52). « Il lavoro meccanico sovreccita (…) il sistema nervoso, impedisce il gioco variato dei muscoli e comprime ogni attività del corpo e della mente» (MEW 23, 446, ES 2/105). Tema qui lungamente sviluppato16.
Le considerazioni fattuali, minuziosamente documentate, si inscrivono in una ontologia sociale il cui motivo centrale è quello dell’«incorporazione» (Einverleibung) del lavoratore alla macchina. Il «corpo» diviene allora un concetto. O piuttosto la metafora di un concetto da stabilire. Qui sorge un problema. Perché, infatti, chi incorpora cosa? O cosa incorpora chi?
Da un lato, «i lavoratori sono incorporati al capitale», einverleibt (MEW 23, 352, ES 2/25), in quanto cooperano sotto la sua autorità. Nella fabbrica, di cui Marx comincia con lo studiare «il corpo», Leib (MEW 23, 441, ES 2/100), «l’autorità assoluta del capitalista» trasforma gli uomini in «semplici membri di un meccanismo che gli appartiene» (MEW 23, 377, ES 2/46), in «organi coscienti aggiunti a questi organi incoscienti» (MEW 23, 442, ES 2/102), «particelle» di macchinario, «incorporati a un meccanismo morto» (MEW 23, 445, ES 2/104).
Non ci si può però dimenticare, d’alto lato, che la produzione capitalistica, L3, non cessa di essere produzione mercantile, L2. Essa non cessa neppure di essere quel processo di produzione di valori d’uso L1 a proposito del quale Marx scriveva, nel capitolo 5, che i mezzi di produzione vi funzionano come i «fattori del lavoro vivo»: «lambiti dalla fiamma del lavoro», essi sono «trasformati nei suoi organi, als Leiber derselben angeeignet, chiamati dal suo soffio ad adempiere alle loro funzioni proprie», MEW 23, 197, ES 1/185.
Marx ci fa capire che nel capitalismo, L3, si opera a questo riguardo un’«inversione», Verkehrung (MEW 23, 446, ES 2/105). Nella produzione di valori d’uso, la macchina è un organo del corpo-al-lavoro. Nella produzione capitalistica è il corpo-al-lavoro a divenire organo della macchina. «In ogni produzione capitalistica in quanto essa non crea soltanto cose utili, ma anche plus-valore, le condizioni di lavoro, lungi dall’essergli sottomesse, dominano l’operaio; ma è il meccanismo che per primo dà a questa inversione una realtà tecnica. Convertito in automa, durante il processo di lavoro il mezzo di lavoro si leva di fronte all’operaio nella forma del capitale, lavoro morto che domina e pompa la sua forza vivente» (MEW 23, 446, ES 2/105).
Ma la produzione capitalistica resta una produzione di valori d’uso. Proprio questo è il problema di Marx. Si noterà dunque che questa inversione, Verkehrung, non costituisce una Aufhebung nel senso di un «superamento dialettico», e ancor meno una «abolizione». La produzione capitalistica L3 non si sostituisce alla produzione di valori d’uso L1: la suppone. La situazione è «invertita», certo, ma l’analisi del «processo del lavoro in generale» esposta nel paragrafo I del capitolo 5 (7), nel preambolo cioè al «processo di produzione capitalistica», conserva tutta la sua pertinenza. La proposizione di Marx esige una lettura inversa: in quanto «crea delle cose utili», dei valori d’uso (da vendere come merci, L2) il lavoratore non cessa di fare dei mezzi di produzione «gli organi del suo proprio movimento, Leibesorganen (MEW 23, 194, ES 1/182), paragonabili a un «sistema osseo e muscolare», Knochen- und Muskelsystem, raddoppiato in un «sistema vascolare», Gefässsystem (MEW 23, 195, ES 1/183). L’inversione L3 mantiene dunque l’ordine L1, che essa inverte.
I commentatori filosofi amano le metafore del «vampiro», etc., quella dell’incorporazione nel capitale, identificato al Grande Soggetto (e promosso, ad esempio da Moishe Postone, al rango di fossa comune del lavoro alienato). Queste immagini hanno una loro verità: sottolineano la subordinazione corporea e psichica del lavoratore a un potere sociale-materiale. Ma il tema dell’«incorporazione» non può essere il pretesto di una sorta di dialettica che si compirebbe in questa ontologia sociale piatta (talvolta riferita ad Heidegger) della sostanzialità umana assorbita nella tecnica. Il lavoratore del capitale non è riducibile allo statuto di ingranaggio della macchina. Resta, contraddittoriamente, una potenza produttiva sociale. Il concetto di «forza-lavoro» non appartiene al registro capitalistico L3, né al registro mercantile L2. Possiede uno statuto generale L1, nei termini del quale l’atto del lavoro si esercita attraverso i mezzi di produzione. Ecco allora ciò che si dà da leggere nel Capitale. L’appropriazione privata dei mezzi di produzione determina un diritto d’uso limitato dal fatto che il lavoratore, la cui forza-lavoro è impegnata come merce L2 produttiva nelle condizioni indecise di una lotta di casse L3, «dispone» del proprio corpo, e con ciò in qualche modo anche delle protesi che lo prolungano ‒in relazione con altri salariati e con dei concittadini.
3. Un corpo da riprodurre ? Un corpo da gettare ?
Quando si passa dalla considerazione del processo di lavoro a quella della riproduzione del lavoratore, sembra che si entri in un mondo-della-vita governato da una funzionalità sua propria, che non ha più niente di politico. La «funzione» del salario sarebbe quella di «riprodurre la forza-lavoro», si dice in particolare in certi manuali del marxismo. Affinché il capitale viva, il corpo del lavoratore deve riprodursi. Ma è proprio sicuro? Possiamo davvero impegnarci ad una simile lettura fisiologico-funzionalista del salario?
Ho tentato altrove di mostrare come Marx non dica niente di simile17. Le sue allusioni alla grandezza del salario vanno lette secondo una logica « …Ms…Ns… », dove Ms sta per il salario minimo necessario alla sopravvivenza, Ns per un salario normale, e i puntini « … » disegnano una linea illimitata nell’uno e nell’altro senso. Certo, un salario normale è richiesto per riprodurre la forza-lavoro in uno stato di vita (Lebenzustand) normale, corrispondente ai bisogni storici storicamente costituiti (MEW, 23, 185, ES 1/174). Nulla, però, blocca questa norma Ns verso l’alto: è una questione di rapporti di forza e congiuntura favorevole. Allo stesso modo, il salario può scendere al di sotto di Ms : si getta18 allora il salariato, e lo si rimpiazza con un altro. I corpi gettati fanno specialmente parte del paesaggio neoliberale. Questi corpi incarnano la realizzazione più pura della «logica del capitale», quale si dà in assenza degli ostacoli rappresentati da forze sociali contrarie. Ma è qui che si esprimono le «leggi della popolazione» enunciate da Marx: ogni crisi ri-getta dall’impiego salariato un’armata di riserva. Da rimobilitare alla bisogna.
Questo contrasto tra il minimo MS e la norma NS suggerisce che bisogna guardarsi dall’interpretazione funzionalista triviale, che concepisce la riproduzione del corpo del lavoratore come inscritta nella struttura capitalistica stessa, la quale avrebbe bisogno di una regolare ricostituzione della forza-lavoro. Per il capitalista, al contrario, la giornata di lavoro è logicamente illimitata19. Esposta nel capitolo 18 (20) del Libro I, la sua logica propria, alla quale è costretto dalla concorrenza, è quella della riproduzione non già di una popolazione, ma del suo proprio capitale. Essa implica che alla fine del ciclo ricompaia il valore, v, consacrato all’acquisto della forza-lavoro, ma non esige affatto che si faccia appello alle stesse persone. La sopravvivenza del salariato è indifferente alla logica del capitale. La riproduzione del capitale non è una riproduzione della vita. L’antagonismo tra lavoratore e capitalista non concerne unicamente la divisione tra lavoro pagato e lavoro non pagato. Appartiene ad un conflitto vitale di una natura diversa dalla schiavitù, e che non necessariamente è meno devastante, perché lo schiavista ha tutte le ragioni di piangere come una proprietà perduta lo schiavo che la morte gli strappa.
È qui che si colloca l’ambiguità della “biopolitica” di Foucault20, del suo approccio in termini di «popolazione», di previsione etc., secondo la quale lo Stato «liberale» del XVIII secolo si sarebbe dato il compito inedito di provvedere alla vita (e assieme di controllarla). Non ha completamente torto quando afferma che l’analisi marxiana, col suo punto di vista di classe, «aggira» la problematica della «popolazione», limitandosi a mostrare che la vita del popolo non può essere una preoccupazione del capitale. Ciò significa però che quanto Foucault descrive sotto il nome di «liberalismo» non è riducibile al «capitalismo», e che per questa ragione quel vocabolo è inappropriato. Man mano che la moderna struttura di classe emerge all’interno dello Stato-nazione si afferma ‒o almeno questa è la tesi della teoria «metastrutturale» da me proposta‒ da un lato una classe dominante a due poli, di cui l’uno è quello dei capitalisti e l’altro quello dei dirigenti-e-competenti che Foucault assume ad oggetto privilegiato della sua critica (quella del «sapere-potere»), ma dall’altro anche una classe popolare che pesa pesantemente in questo gioco. Quello che sfugge a Foucault, allora, è la contraddizione tra una «logica del capitale» e quella delle forze antagoniste che la limitano o la contrastano. Si tratta di rapporti di classe determinati, dei quali la designazione foucaultiana, «liberalismo», non dà che un’idea assai confusa. La teoria di Marx, però, non fornisce essa stessa che una visione parziale e incompiuta. È per questo che deve essere “rifondata”. In linea di principio, nondimeno, essa pone la questione biopolitica ‒quella della popolazione, della produzione sociale della vita e della morte‒ al cuore stesso di una «critica dell’economia politica». E se si vuole spingere più lontano questa teorizzazione, è a questo punto che bisogna metterla alla prova e portarla a dispiegamento.
4. Un corpo mortale, esibito come tale nella «teoria della giornata di lavoro», e tuttavia vivente…
Nel capitolo 8 (10) del Libro I, «La giornata di lavoro», in una famosa disputa tra lavoratore e capitalista, Marx mette in scena un’altra biopolitica, che rinvia similmente allo Stato, ma attraverso il filtro del rapporto di classe. Comincia allora col riformulare il concetto di plus-valore nella temporalità della giornata di lavoro, mostrando come questa si divida necessariamente in un tempo di lavoro pagato (attraverso il quale si riproduce la forza-lavoro) e un tempo di lavoro non pagato, che è capace di aumentare in condizioni da definire. Queste condizioni riguardano in primo luogo la relazione tra la giornata di lavoro e l’età della morte. È così che Marx fa della «giornata di lavoro» un concetto non soltanto tecnico (che permette di calcolare il «tasso si sfruttamento»), ma teorico, nel quale si manifesta ciò che significa propriamente «teoria» sul terreno delle scienze sociali. Si tratta di un concetto teorico di «alto livello»: non di una sociologia seconda, ma della sostanza sociologica del concetto economico-politico. Bisogna forse designare come «ontologia sociale» questo focolaio ardente in cui sociologia, economia e politica tendono a costituirsi assieme nell’unità del concetto.
Quale interviene nel «tempo di lavoro socialmente necessario», la forza-lavoro «in dispendio» è compresa qui nella sua finitezza biologica. E nell’arbitrio sociale in cui essa si ritrova di fronte a questa finitezza. Contrariamente a quanto pensava Ricardo, sottolinea Marx, la durata della giornata di lavoro non è un dato naturale, dal quale l’economia, in quanto scienza sociale, potrebbe fare astrazione. Essa appartiene, allo stesso titolo dell’intensità, a una teoria socio-storica della relazione tra la vita-al-lavoro e la morte, che non può stabilirsi specificamente se non al livello L3, al livello cioè di una storicità di classe. È questo il punto al quale Marx si dedica lungo tutto il capitolo, consacrando significativamente dieci pagine all’«intensificazione» del lavoro nella fabbrica. Il macchinismo consente in particolare di «tappare tutti i buchi della giornata di lavoro», altra modalità del suo prolungamento (MEW 431-441, ES 2/91-100).
In questo senso la teoria del valore-lavoro-mercato, esposta nella Sezione 1, «si trasforma» nella Sezione 3, attraverso la Verwandlung che figura nel titolo della Sezione 2, « Transformazione del denaro in capitale», in teoria del valore-lavoro-capitale, che Marx inscrive in una trasformazione del mercato, L2, in capitale, L3. A questo punto il concetto economico si politicizza. Il «tempo di lavoro socialmente necessario» alla produzione della merce si gioca, in termini di intensità di lavoro, nella lotta delle classi. E così anche la riproduzione della forza lavoro, in termini di lavoro, o meglio di durata della giornata di lavoro. In entrambi i casi, al di là di una certa soglia, la vita si abbrevia. La ragione sta nella vulnerabilità dei produttori. Non si tratta soltanto dei più vulnerabili, degni di un’attenzione particolare in termini di care, ma di una vulnerabilità, ineguale, universalmente condivisa. L’accumulazione di ricchezza astratta si opera attraverso il consumo concreto dei corpi-al-lavoro: merci deperibili, documentate come tali nel corso di tutto il capitolo, attraverso il richiamo ricorrente all’insalubrità, alla sofferenza, ai rischi fisici e alle malattie professionali. In breve, la teoria si ricorda della vita e della morte sul lavoro, attraverso il lavoro. Poiché è entro i confini tracciati da queste condizioni-limite che il capitalista e il lavoratore si affrontano come uomini «liberi». Il valore-lavoro si sperimenta come concetto di una biopolitica di classe.
In questa trasformazione del dispendio in consumo, il valore-lavoro non ri trova però superato. Il concetto «trasformato», werwandelt, non è un concetto «superato», aufgehoben. Come la Verkehrung, neppure la Verwandlung è una Aufhebung: è questo che sfugge a certi marxisti dialettizzanti. Si profila qui la «contraddizione cardinale», che significa in particolare due cose. Da una parte, il capitalista non può ottenere plus-valore, L3, senza produrre delle merci, L2, secondo una logica mercantile di produzione. Queste merci devono avere un valore d’uso, L1, agli occhi dei produttori che sono anche dei consumatori, e che hanno, per ciò stesso ed in funzione di rapporti di forza variabili, una capacità collettiva di orientare la produzione ‒la produzione materiale del mondo sociale‒ verso la «vita buona», contro una logica astratta. D’altra parte, il capitale deve produrre nelle condizioni sociali supposte da un rapporto salariale mercantile, L2, all’interno del quale la forza-lavoro è la merce di cui il lavoratore è supposto «disporre». Questa disposizione è funzione di un rapporto sociale e politico. Essa non ha alcuna consistenza nel rapporto diadico tra un padrone e un salariato. L’uomo libero, in quanto è tale e per quanto imperfettamente lo sia, lo è sempre con altri, godendo di una libertà la cui essenza dichiarata è di essere comune a tutti. Dacché comincia a goderne, comincia anche ad essere in grado di formulare degli obiettivi comuni, in rottura con quelli del mercato capitalistico. Il rapporto di sfruttamento è un rapporto di lotta di classe, categoria biopolitica.
5. Il corpo-a-contratto si afferma come un corpo-in-dibattito, corpo sociale
Quando si passa dal livello mercantile L2 al livello capitalistico L3 il valore lavoro si trova coinvolto sul terreno conflittuale di una teoria dell’essere-liberi-insieme. Seguiamo dunque i termini del famoso dibattito «contrattualista» che apre il capitolo 8 (10), «La giornata di lavoro» (MEW 247-249, ES 1/229-231). « Ma, tutt’a un tratto, si leva la voce del lavoratore». Al corpo salariato appartiene dunque una voce. La forza che vendo, essa dice in sostanza, è la mia forza-lavoro. Tu ne compri l’uso per un periodo. La compri perché produce più valore di quello che costa. Ma io «devo essere domani tanto vigoroso e in forma quanto oggi, per riprendere il mio lavoro con la stessa energia». Non ne voglio dunque «spendere» se non «ciò che sarà compatibile con la sua durata normale e il suo sviluppo regolare». Al di là di una certa durata di lavoro giornaliero, invece che restare in grado di lavorare (e di vivere) per trent’anni, sono logoro in dieci anni. In queste condizioni, io non ricevo ogni giorno che un terzo del salario normale. Pagato per un anno, ne do via tre. Esigo dunque, secondo il nostro contratto, una giornata di lavoro che mi permetta di lavorare trent’anni. Di non morire prima dell’età «normale»21. Un voce indignata.
La teoria (L2) del valore-lavoro «si trasforma», Verwandlung, assumendo così la propria dimensione politica esplicita, quando prende in considerazione il riferimento del lavoratore salariato (L3) a una «giornata normale», corrispondente al «contratto» presupposto («il nostro contratto stipula che…»), un contratto tra esseri supposti razionali, che richiedono una vita normale, una vita buona, assicurata da una «giornata di lavoro normale». La norma riguarda qui la durata del lavoro. Alla figura del consumo riproduttivo (“…MS…NS…”), quella della norma salariale, fa ora seguito una figura del dispendio della forza-lavoro produttiva (“…NV…MV…”), quella della norma vitale. Nella prima il momento MS designa un minimo: il limite al di qua del quale il lavoratore non è più in grado di riprodursi giorno per giorno (e si trova costretto a cercare in altre attività o nella solidarietà dei “complementi alimentari”). Per contrasto, il momento NS di questa prima figura non designa un limite, ma un cursore, quello della norma salariale, mobile su questa linea “…”: il salario può allora andare ben al di là di questo punto di riferimento funzionale (in un rapporto di forza favorevole, può consentire qualche lusso di vita, piacere e cultura). La norma salariale e la norma vitale hanno in comune la variabiità in funzione dei livelli di sviluppo, delle regole culturali stabilite in una sedimentazione storica dei rapporti di forza e più o meno fragilmente inscritte nel diritto. Ma la norma vitale si riferisce necessariamente a un momento MV, che indica un massimo di durata della giornata di lavoro compatibile con una «vita normale», che scorre normalmente fino al suo termine. La storicità del corpo salariato s’inscrive nella relazione tra queste due figure, che sono entrambe da leggere in termini politici.
La sezione 1, come ha ben mostrato Evgeni Pachukanis, è già penetrata dal giuridico-politico. La relazione mercantile L2 si stabilisce infatti tra esseri supposti «indipendenti»: liberi, eguali e razionali. La relazione mercantile non è supposta contrattuale: essa definisce cos’è la relazione contrattuale. È così, almeno, che il concetto di «contrattualità» sembra funzionare nel Capitale, che evita il ricorso alla nozione paradossale di «contratto sociale»: «contratto» è preso nel senso ordinario di relazione tra particolari. A questo approccio marxiano, secondo me unilaterale, io oppongo la tesi «metastrutturale» secondo la quale il «contratto» non ha un senso propriamente contrattuale al di fuori dell’intersezione tra una relazione di ciascuno a ciascuno e una relazione tra tutti. Non posso riprendere qui questo argomento22. Osservo però che è proprio ciò che si verifica in questo dibattito: un dibattito tra un «io» e un «tu» («tu violi il nostro contratto», etc.), il cui oggetto coinvolge però, in realtà, un «noi». Si stabilisce significativamente sul terreno che è tra tutti quello ad un tempo il più favorevole ad una convergenza di lotta tra i lavoratori e il più eminentemente regolamentato: la giornata di lavoro. Si comprende perché, prima ancora delle esigenze di salario e di condizione di lavoro23, sia stato proprio questo l’obiettivo primordiale delle «lotte secolari». È affrontando questa definizione sociale dell’uso del corpo nel tempo giornaliero che la lotta di classe ha portato all’apparizione di una legislazione sul lavoro.
Un tale dibattito implica il «noi», e ciò in un duplice modo. Un «noi» a due classi, un «noi-contro-voi». Che si appella però a un «noi-tutti», verificabile nel discorso supposto comune della legge. Si constata dunque senza stupore che la legislazione, la lotta storica per la giornata legale di lavoro, narrata come una saga, costituisce il leit-motiv del capitolo intitolato «La giornata di lavoro».
L’ambiguità della relazione tra «io» e «tu», quando la si disgiunge dal «noi», appare nel testo di Marx nella forma dell’asserzione di una immanenza ontologico-corporale tra i due termini: «la cosa che tu rappresenti di fronte a me non ha niente nel petto; ciò che sembra palpitarvi, sono i battiti del mio proprio cuore». Il capitalista vive di un cuore trapiantato. Mi pare ciò nonostante che si possa pensare vi sia, in questo corpo a corpo, qualcosa di accecante. Il desiderio della legge procede dal cuore prigioniero, dal cuore appropriato, spossessato, dal vissuto dell’ingiustizia. Ma questo vissuto implica la condivisione di un’esperienza di classe e di un riferimento universale, L3, che si trova occultata nella messa in scena dinamica, che mantiene artificialmente il cuore allo stadio mercantile, L2.
Sul piano giuridico-politico, l’analisi di Marx è dunque qui, mi sembra, gravemente difettosa, e propriamente erronea24. Fa dire al lavoratore: «tu paghi una forza-lavoro di un giorno quando ne usi una di tre. Tu violi il nostro contratto e la legge degli scambi (…). Io esigo la giornata di lavoro normale, perché voglio il valore della mia merce, come ogni altro venditore. (…) Il capitalista sostiene il proprio diritto di acquirente. (…) C’è dunque un’antinomia, diritto contro diritto, dove però entrambi portano il sigillo della legge che regola lo scambio delle merci. Chi decide tra due diritti eguali? La forza». In realtà, mi sembra, il diritto al quale siriferisce qui il lavoratore non è un diritto del mercato. È, con tutta evidenza, un diritto altro rispetto a quello del mercato: un diritto stabilito tra di noi. Ed è questo che si rende manifesto nel corso di tutto il capitolo, che racconta la lotta dei lavoratori in vista di una limitazione legale della giornata di lavoro: un fatto di classe produce un atto di cittadinanza nazionale.
Se è vero, come Marx ha scritto altrove, che il comunismo non è nient’altro che il movimento che abolisce il capitalismo, si tratta già, qui, di un passo in questa direzione. La questione canonica della «proprietà dei mezzi di produzione» concerne in primo luogo il controllo comune del loro uso e delle condizioni corporee di questo uso. Non si può dunque separare un corpo-al-presente, capitalista, e un corpo-al-futuro, socialista. Come Marx sottolinea del resto nella Critica al programma di Gotha, con quella che lui chiama la « prima fase del comunismo» (e che oggi chiameremmo piuttosto “del socialismo”) non si esce dal «diritto borghese». Il suo errore, in questo punto del Capitale, è di interpretare il diritto moderno come un diritto del venditore/acquirente, mentre esso coinvolge sempre anche una collettività, che appartiene alla forma statuale moderna. È significativo che la limitazione della giornata di lavoro non avvenga, nel corso di una lotta secolare, se non in un rapporto di forze che si dichiara in atti legisativi le quali coinvolgono al tempo stesso non solo “le classi”, ma anche “la società”. Il contratto è certo una finzione. Ma non è la finzione di una lobby di venditori di forza-lavoro. Quando riguarda la forza-lavoro, la relazione mercantile si trova implicata in una relazione non-mercantile, una relazione politica tra «tutti», che definisce un altro corpo, del quale resta da sapere se Marx definisce adeguatamente il concetto.
6. Un corpo proprio, singolare, nominalista
Prima di arrivare a queste difficoltà (III), bisogna ancora chiarire un punto cruciale : questa causa comune è al tempo stesso sempre singolare. Il “nominalismo” di Foucault manifesta qui la sua pertinenza. Solo degli individui vedono le loro vite impegnate nell’esistenza. Solo degli individui agiscono, parlano, dominano, resistono. Non delle classi. Ma lo fanno in forma di un «noi» entro raggruppamenti diversi, che si inscrivono in certi rapporti di classe. E questo Foucault lo sapeva bene. Ciò che è difficile da pensare (difficile per Foucault, ma difficile anche per Marx) è la relazione tra il momento interindividuale e il momento «di classe». Qualcosa di foucaultiano si disegna significativamente, nella querelle messa in scena da Marx secondo la modalità del «tu» e dell’«io», e attorno al tema della violazione del «passato contratto tra di noi». Qui “il lavoratore” e “il capitalista” non sono delle astrazioni che rappresentano delle classi, ma delle astrazioni che designano degli individui, o degli individui associati. Nella forma moderna di società non ci sono che degli individui e dei gruppi di individui (non delle classi) a rivendicare, a concludere dei “contratti” in riferimento a delle pretese universali di libertégalité-razionalità25. Il rapporto di classe, che struttura lo Stato-nazione, non esiste che nella sua implicazione dialettica entro relazioni interindividuali. La “classe” stessa non è un gruppo sociale: è un particolare principio di separazione, che determina l’esistenza di gruppi e di individui che si affrontano.
Per afferrare questo punto mi sembra necessario identificare nell’analitica marxiana due anelli mancanti, che io designo con i termini di «fattori di classe» e di «relazione di classe». Althusser sottolinea a giusto titolo che il diritto ignora le classi e conosce solo degli individui. Ma fonda questa asserzione su una teoria inadeguata dell’interpellazione26. Solo l’approccio metastrutturale, quello che affronta la moderna struttura di classe a partire dalla “metastruttura”, opera la congiunzione di Marx e Foucault. Questa metastruttura è formata dalla combinazione dei «fattori di classe» costituiti dalle due mediazioni interindividuali (il mercato e l’organizzazione), che connettono i loro discorsi e si trovano effettivamente prese dalla sua critica nel momento in cui interferiscono l’una sull’altra. Il concetto di «relazione di classe» include la persona singolare nella dualità moderna interindividuale dei due «fattori di classe»27.
In breve, la biopolitica si radica nella congiunzione metastrutturale tra il momento interindividuale e il momento sociale. Possiamo parlare qui di politica solo perché lo scontro degli individui, o delle associazioni di individualità, si opera nel contesto di un potere strutturale-etico di classe: potere ad un tempo concentrato (Althusser) nell’apparato istituzionale che istituisce il “rapporto” di classe, e diffuso (Foucault) nel tessuto dei fattori di classe, quello della “relazione” di classe, relazione intersingolare professionale, medica, psichiatrica, penitenziaria, educativa, militare, etc. È questo, nella sua concentrazione e nella sua diffusione, il potere dello Stato. Il rapporto di classe, combinazione dei fattori di classe, si esercita nella relazione di classe. È perché il “rapporto” di classe non esiste che come “relazione” di classe che il potere di Stato deve esser detto biopolitico.
III. Confini e limiti della biopolitica di Marx: corpo nazionale, corpo sessuato (genré), corpo straniero
Marx si muove così su un terreno di lotta politico-contrattuale. Quando supera questo limite, però, i concetti richiesti dalle sue descrizioni vengono a mancargli. E questa insufficenza peserà sul destino del marxismo. Ecco ciò che mi resta da mostrare.
1. Corpo in lotta, corpo legale, corpo interpellato
La «voce» che si leva nel reparto annuncia una lotta di classe. La «lotta» non è la guerra: è un concetto strutturale, non un concetto sistemico. Essa appartiene alla struttura economico-politica di classe in seno allo Stato-nazione, mentre lo “stato di guerra” qualifica il sistema-mondo, come sappiamo dal tempo di Hobbes. La lotta è dunque saturata di diritto, concerne in primo luogo dei concittadini. Secondo il celebre argomento di Hannah Arendt, è a dei concittadini, e non a degli uomini in quanto tali, che i “diritti dell’uomo” sono riconosciuti, ammesso che lo siano. Nella società moderna il corpo in lotta è dunque un “corpo nazionale”, che pretende come tale di avere diritto a una giornata e a una vita lavorativa limitate dalla legge, alle cure, all’ospedale, al riposo e a una pensione ‒il tutto legalmente assicurato. La vita comune è mediata dallo Stato. La lotta di classe vi è orientata, dal basso, verso la “vita buona”. Il rapporto di classe moderno è in questo senso anche biopolitico.
È in questo contesto teorico che interviene surrettizziamente, nel testo del Capitale, un attore essenziale, sebbene apparentemente estraneo all’elaborazione concettuale intrapresa dall’inizio dell’opera: la «società». All’improvviso, Marx annuncia che malgrado tutto la giornata lavorativa conosce certi limiti: quelli «imposti dalla natura e dalla società» (MEW 246, ES 1/228: il tedesco sozial è qui più indeterminato) alla potenza del capitale e alla logica illimitata del plus-valore (MEW 245, ES 1/229). L’idea torna in maniera ricorrente. Il capitale è indifferente alle «sofferenze delle popolazioni operaie». Esso «non si preoccupa affatto della salute e della durata di vita, se non vi è costretto dalla società», Gesellschaft. Marx oppone così frontalmente le «leggi coercitive» della «libera concerrenza» e le «costrizioni» che la società può imporre (MEW 285-6, ES 1/265-6): questa «società che, sentendosi minacciata fin alle radici della propria vita, decreta dei limiti legali alla giornata» (MEW 431, ES 2/92). Resta ciò nonostante da sapere cosa si debba intendere, qui, col termine «società».
Notiamo innanzitutto che la messa in scena dello scontro tra «capitale» e «società» attorno al corpo-al-lavoro presenta un curioso contrasto.
Da un lato Marx sembra attribuire questo scontro alla “natura” stessa del «modo di produzione capitalistico». «La legislazione di fabbrica, questa prima reazione cosciente e metodica della sociatà contro il proprio organismo, quale è stato generato dal movimento spontaneo della produzione capitalistica, è (…) un frutto della grande industria non meno naturale che la ferrovia, le macchine e il telegrafo elettrico» (MEW 504, ES 2/159).
Dall’altro lato, e al tempo stesso, questa legislazione è una reazione contro quello stesso modo di produzione. «Cosa potrebbe caratterizzare meglio il modo di produzione capitalistico che questa necessità di imporgli, attraverso delle leggi coercitive e in nome dello Stato, le misure sanitarie le più semplici?» (MEW 505, ES 2/160).
Qual è dunque questa «società» che impone o deve imporre la propria autorità al capitale? Essa non è mai teoricamente definita. Essa interviene «in nome dello Stato» e attraverso la legge. Ma i parlamentari non fanno che rispondere alle sollecitazioni dei suoi porta-parola, che Marx evoca riprendendo e riproducendo con cura i loro discorsi28. Lungo tutto il corso delle duecento pagine di cui constano i capitoli 8, 12-13, 17-19, le loro lamentazioni e rimostranze formano la trama stessa del racconto marxiano. Chi sono? Si tratta da una parte di moltepici “saggisti” (vedi i diversi Essays on… citati) che attraversano da più di un secolo l’economico e il sociale, e dall’altra di figure patentate dall’istruzione pubblica, rappresentanti dei grandi corpi competenti nella materia: medici, chirurghi, maestri di scuola, giornalisti, e soprattutto ispettori del lavoro. In quella che sembra qui l’illustrazione della teoria della struttura di classe moderna compare ciò di cui l’esposizione non ha ancora parlato: Marx fa concretamente entrare sulla scena teorica, di fronte al polo capitalista della classe privilegiata, quello dello sfruttamento economico, il suo altro “polo”, che è ai miei occhi quello della “direzione-competenza” ‒almeno nella sua frazione “competente”, giacché la frazione “dirigente” era prima dell’epoca manageriale indistinguibile dal padronato proprietario. Il capitale, L3, non può in effetti mirare al profitto che facendo propria, nella lotta di classe, la sfida di una produzione in qualche modo ricevibile come utile agli occhi di tutti, tale da presentare un valore d’uso, L1. Il «valore d’uso» non si lascia ridurre a una qualità del prodotto mercantile, L2; esso appartiene a un rapporto sociale di produzione, L3, il quale non è riducibile ad una relazione mercantile tra-ognuno, essendo sempre anche tra-tutti. Il capitalista affronta così una doppia costrizione “concreta”: fornire a degli acquirenti dei prodotti d’uso e ottenere l’uso dei corpi che producono assieme, e assieme resistono allo sfruttamento. I “competenti” non sono evocati qui che nel loro ruolo di testimoni, più o meno affidabili, del popolo lavoratore, la cui sorda potenza si esprime in questo movimento legislativo. È infatti proprio la voce del popolo, in ultima istanza, che si fa intendere nella forma collettiva del grido. «Gli operai manifatturieri, soprattutto dopo il 1838, hanno fatto della legge delle 10 ore il loro grido di battaglia economico, proprio come avevano fatto della Carta il loro grido di battaglia politico» (MEW 297-8, ES I/275). Potenza metastrutturale della classe operaia inglese. Attraverso il suo ingresso nell’agone politico, si fa evidente che questa “società”, che intende dettare legge nello Stato-nazione, designa sé stessa come “la nazione”, comunità nazionale emergente.
La teoria del valore-lavoro ‒quella che comprende il valore delle merci, nella sua determinazione qualitativa e sociale, a partire dal «dispendio» e dal «consumo» di forza-lavoro‒ non ha dunque detto la sua ultima parola nell’analisi quantitativa del plus-valore e della sua logica astratta. Essa prosegue il suo corso economico-politico nell’analisi istituzionale della relazione nazionale tra la “società” moderna e lo Stato.
In questo «atto sociale generale», l’«atto comune» L2 di cui Marx parla nel capitolo 2, non tutto era già deciso in anticipo. «All’inizio era l’azione», scriveva, e questa «azione sociale» è la proclamazione secondo la quale i prodotti sono «consacrati» come merci. Attraverso questo atto di parola il denaro (ovvero la merce di cui esso è il medium) è assunta come la legge mediante la quale si abbandona la propria forza e la propria potenza al potere feticcio della Bestia («Illi unum consilium habent et virtutem et potestatem suam bestiae tradunt»). Si annuncia così, al di sopra di tutte le frontiere, un potere universale e trascendente. Succede però che, all’interno dello Stato-nazione moderno, una legislazione di fabbrica incarna un nuovo «atto comune» L3, che viene a limitare il primo. La legge afferma che il corpo-al-lavoro, pur ri-prodotto come merce, sfugge nondimeno, almeno in parte, alla legge del mercato capitalistico. Si tratta di una «antinomia, diritto contro diritto», come scrive Marx. Ma non esprime, come ritiene Marx, la legge L2 che regola gli scambi di merci: essa manifesta un «rapporto di forza» L3 che non oppone un venditore e un compratore, ma forze sociali delle quali l’una si riferisce alla legge del mercato, l’altra alla legge elaborata in comune. E, con ciò, un altro rapporto sociale di ciascuno col proprio corpo.
Le voci, dunque, si uniscono nel grido, economico e politico, dei cittadini che si proclamano liberuguali (librégaux) e razionali, in una lotta per il riconoscimento di cui il diritto non è che un aspetto. «Il nostro contratto» è invitato a verificarsi come conforme alla legge stabilita e comune. Sotto il segno, è vero, dell’anfibologia, reiterando senza cessa l’annuncio, dall’alto, che qui termina l’eguaglianza, e, dal basso, che proprio da qui essa comincia.
«L’intepellazione», come parola già da sempre socialmente proferita, sarebbe inaudibile nella modernità nei termini unilaterali che le assegna Althusser: «Sottomettiti! Inginocchiati!», voce dall’alto, atto linguistico olimpico immanente al mio più intimo essere sociale. Essa è altrettanto e la tempo stesso quella del «Levati!», «Alzati e cammina!», interazione dal basso. Il corpo è interpellato e strattonato tra queste due posture, tra queste due figure opposte della hexis corporea. Anfibologia del grido ‒libertégalité!‒ comune ai potenti e al popolo-moltitudine. Lotta di classe già da sempre ingaggiata, una voce29, come ermeneutica 30.
2. Corpo sessuato, corpo bambino, corpo straniero
Una tale «interpellanza» ‒riliggiamo Althusser attraverso Arendt‒ risuona nello stretto recinto della nazione. Ma questo spazio nazionale è poroso. Esso ne contiene in particolare un altro, posto al di qua della relazione supposta contrattuale: quello delle donne e dei bambini, ai quali Marx consacra una sezione particolare (MEW 416-424, ES I/78-86). «L’impiego capitalistico del macchinismo», ci spiega, li getta brutalmente sul mercato, senza che aumenti significativamente il reddito familiare. Il «contratto tra persone libere» non è più soltanto «alterato», come succedeva già ad ogni modo nel salariato: si trova «capovolto» (ES 1/79, che modifica il testo tedesco, MEW 417). La contrattualità funziona dunque, nel discorso di Marx, come punto di riferimento. Ad essere indicato, in questo punto, è che stiamo uscendo dallo spazio nazionale-contrattuale. Ecco allora, di nuovo, un’«inversione», Verkehrung, ma di tutt’altra portata: si esce da una relazione supposta contrattuale.
Si osserva qui una soprendente sfasatura tra il corpo sfruttato del salariato, proletario «libero», che è al cuore della teoria, e i corpi ipersfruttati e asserviti delle donne e dei bambini, che sembano appartenere a una zona grigia, accessibile unicamente alla descrizione, al racconto e alla testimonianza. Non che questi corpi siano completamente esterni alla teoria, visto che Marx si impegna a mostrare attraverso quali meccanismi sociali teoricamente definiti essi siano prodotti. Le parole della «metafisica», libertà-eguaglianza-razionalità, si invitano ‒per ritrovarvisi sconvolte‒ nella teorizzazione della moderna struttura di classe, perché l’analitica di Marx è al tempo stesso una critica, che implica una prospettiva di emancipazione. Quando si arriva ai rapporti di genere, però, esse perdono la loro pertinenza costruttivista. Lasciano il posto al vocabolario descrittivo della schiavitù, nel quale la filososfia non è più impegnata nella stessa maniera essenziale.
Sembra che nessuno, prima di Marx31, abbia assunto al rango di problema teorico il lavoro femminile, preso nella sua concretezza industriale e domestica (in ciò per cui esso non cessa di essere anche allattamento e cura dei figli, cucina, cucito e rammendo MEW 417 n1, ES 2/79). Il punto, qui, non è solo che la teoria marxiana si applica a queste cose: esse fanno parte di una teoria che è essa stessa sessuata in quanto teoria del corpo-al-lavoro, e dunque anche del sesso e della famiglia al lavoro. Quando viene a riassorbirsi in teoria dei rapporti di classe, ciò nonostante, il discorso teorico del Capitale abbandona il corpo sessuato fuori dal proprio orizzonte. Perché quella teoria, come tale, non detiene i mezzi di formulare il confronto femminile/maschile. Essa ignora il tra-sessi come ignora il tra-nazioni. È per questo che non è così facile dispiegare la bandiera «classe-genere-nazione», lo striscione tricolore delle libertà32.
Allo stesso modo, il discorso teorico marxiano smaschera l’infanzia come invenzione storica e prodotto biopolitico: «l’antropologia capitalistica decreta che l’infanzia non dovrebbe durare che fino a diec’anni, tutt’al più unidici» (MEW 297, ES I/274). Essa registra lo story-telling del bambino al lavoro: «mi chiamo William Wood, ho nove anni, ho cominciato a 7 e lavoro 15 ore al giorno, ogni giorno…» (MEW 259, ES I/240). Ma questo discorso, raccolto dall’ispettore del lavoro, ci introduce in un mondo diverso da quello del cittadino proletario: esso rende manifesto un esterno in seno alla città, in cui le condizioni «vitali» del salariato si trovano invertite: un luogo di schiavitù, nel quale il pericolo mortale non è preso in conto. È ciò che illustrano le numerose pagine consacrate ai bambini che giorno e notte lavorano nella fabbrica, alla mortalità infantile nelle famiglie operaie, fino alla frangia di bambini che si vendono da soli o sono venduti dai loro genitori, o ai corpi sottili dei piccoli spazzacamini. La transazione perde finanche l’«apparenza del contratto»: i bambini oscillano sul confine tra lo statuto dell’essere liberi e quello di «schiavi negri» (MEW 418-419, ES I/79-80).
E così ne va anche dei «nomadi del proletariato», rigettati ai margini della nazione, «nella varicella, nel tifo, nel colera e nella scarlattina» (MEW 693, ES 3/106). Bande ambulanti sotto la guida machista o bohème di un gangmaster. Lavoro flessibile in balia delle stagioni. Marce interminabili, scrive Marx, tra Sodoma e Gomorra. «Non è raro che le ragazzine di 13 o 14 anni restino incinta dei loro compagni della stessa età» (MEW, ES 3/134-135). Corpi adolescenti sulle strade del lavoro. E ancora, «classe servile» ‒principalmente femminile, moltiplicata dallo sviluppo industriale‒ che può rappresentare fino a un terzo della popolazione attiva: riproduzione degli «antichi schiavi domestici», modernità schiavista (MEW 469, ES 2/126).
Piuttosto che «strumentalizzazione della ragione», la modernità deve essere detta –almeno secondo l’integrazione della «svolta linguistica» al «materialismo storico» proposta dalla teoria metastrutturale‒ strumentalizzazione di una dichiarazione di ragione, di una pretesa di ragione: pretesa di istituire un ordine sociale discorsivo di libertégalité-razionalità, le cui «mediazioni» (mercato e organizzazione) si capovolgono però in «fattori di classe», combinati in rapporti di classe, irriducibili a dei fatti di linguaggio. È contro questa strumentalizzazione che il discorso di Marx si afferma come razionale. Esso assume dunque il «grido del lavoratore» –che testimonia pur imperfettamente di questa pretesa illocutoria moderna– come costitutivo del suo proprio discorso teorico-critico. Quando però arriva alle donne e ai bambini, esso opera negativamente. Ci introduce nella zona di oscurità studiata da Foucault: quella del non-diritto all’interno stesso del moderno Stato nazionale di diritto. Attraverso le categorie della schiavitù, riprese dai racconti di protesta prodotti dalla «società», restituite nel senso proprio di una extra-contrattualità tutta moderna, evoca il mondo di donne bambini e precari come un luogo di assoggettamento dei corpi al di qua di ogni soggettivazione interpellativa. Lo sfruttamento del salariato porta con sé, magrado tutto, una promessa di avvenire. Sfruttato come uomo libero, egli fa sentire la propria voce. Finirà per sconfiggere il padrone, e l’obiettivo stesso della teoria è quello di spiegare come e perché. Quando si tratta di questo esterno-interno in cui interferiscono dominazione di classe e dominazione di genere, l’autore del Capitale non ha verità a venire da esibire. L’«abolizione del salariato» non abolisce che i rapporti di classe.
La frontiera dei sessi mescola così confusamente i propri confini a quelli della «razza». Ne testimonia la sequenza di forze-lavoro a basso prezzo formata da «donne, bambini e adolescenti», ai quali la versione francese aggiunge i «cinesi» (MEW 665 , ES 3/79). Della «schiavitù» Marx parla spesso in termini analogici: la condizione sociale del salariato è talvolta quella dello schiavo. Ma la sua teoria del capitale integra anche la schiavitù in senso proprio: sin da quando il capitalismo si sviluppa come mercato internazionale, istallandosi nelle colonie, «i suoi orrori (…) vengono a insediarsi sulla barbarie della schiavitù e del servaggio» (MEW 250, ES 1/232). Modalità particolare del capitalismo, dai profitti favolosi (MEW 281-2, ES 1/261), fondata sullo sfruttamento di un corpo schiavo, come anche quello dei peones del Messico, dei servi del Danubio, etc. Marx considera ugualmente una immigrazione industriale ancora soprattutto rurale, ma già straniera, come quella dei «tedeschi votati a una morte prematura» (MEW 282, ES 1/260)33.
Resta il fatto che la sua teoria definisce il capitalismo come sfruttamento dell’«uomo libero» (MEW 374, ES 2/27). È da qui, senza dubbio, che essa deve cominciare. Ma non è così facile portare a compimento un programma tanto impegnativo. Il concetto fondatore, quello di modo di produzione, è puramente astratto, fuori dalla geografia. Esso non permette di teorizzare tutte le implicazioni del fatto che la modernità non è soltato struttura di classe ma anche sistema-mondo. Ancora a lungo la «periferia» resterà alla periferia della teoria. L’appropriazione dei mezzi di produzione da parte della classe capitalistica non dice infatti niente dell’appropriazione dei territori da parte di comunità ineguali. Né dell’intreccio perverso di queste due dimensioni, l’una strutturale e l’altra sistemica, nella post-colonia e nella migrazione post-coloniale planetaria. A questa relazione «sistemica» appartiene però, in contrasto con il rapporto della lotta (di classe) tra concittadini, una relazione di guerra, ineguale, tra nazioni, che si rifrange tra i loro membri. La «voce» non ha più corso, né il «grido». La persona colonizzata è richiamata, ammonita. Non è interpellata. Perché non è dichiarata la stessa pur essendo altra. Corpo straniero.
Cosa ho fatto nel corso di questa rilettura del Capitale?
Ho voluto mostrare come Marx elabori una nuova concettualità, che in ogni concetto ‒a partire da quello di «valore-lavoro» come «corpo al lavoro»‒ congiunge l’economia, il diritto, la politica, la sociologia, la storia, l’ecologia e l’ermeneutica. Marx non annuncia una filosofia a strapiombo, portatrice di una verità superiore. Iscrive il registro dell’economico, sul quale verte la sua ricerca, in un contesto teorico più ampio, che associa senza confonderli diversi tipi di sapere. È facendoli lavorare insieme che l’elaborazione filosofica, post-metafisica, produce il suo proprio sapere critico, manifestando la dominazione moderna come strumentalizzazione di una affermazione, di una pretesa di ragione. Resta ancora da decifrare questa strumentalità paradossale ‒quella delle cose che «sono e non sono»‒ dei rapporti rapporti sociali moderni. Nei termini di una teoria che designo come «metastrutturale», tento di giustificare una continuazione di questa ricerca al di là di Marx ed in parte contro di lui.
.
(trad. it. a cura di Francesco Toto)
- Tutte le citazioni sono tratte da Das Kapital, in MEW, Bd 23, e dalla traduzione francese, rivista da Marx, Le Capital, en 8 volumes, tomes 1 et 2. Le sigle saranno rispettivamente MEW, ES 1 et ES 2. I riferimenti ai capitoli del Libro I tengono conto del fatto che, a partire dal quarto, la versione francese è sfasata rispetto a quella tedesca, che cito sempre per prima. La mia analisi poggia su una rifondazione del marxismo sviluppata in quattro libri: Que faire du Capital ? (1985), Théorie générale (1999), Explication et Reconstruction du Capital (2004), (trad. it. Roma, 2010), L’État-monde (2011) comparsi presso la casa editrice PUF. Il presente testo schizza un capitolo di un’opera in preparazione, Althusser et Foucault, Biopolitique et Interpellation, Résistance et Révolution. Ci tengo a ringraziare Annie Bidet-Mordrel per il suo contributo critico alla concezione di questo articolo. ↩
- Le centinaia di pagine che il Libro I consacra alla violenza esercitata sui lavoratori ‒liberi e schiavi, uomini, donne e bambini, immigrati‒ sono di sorprendente attualità. Marx si accontenta spesso di riprendere le descrizioni degli ispettori di fabbrica o degli «economisti borghesi», come ad esempio tal John Wade, che parla in questi termini degli operai di Notthingham: «la magrezza li riduce allo stato di scheletri, diventano rachitici, i tratti del loro viso sbiadiscono, e tutto il loro essere si irrigidisce in un torpore tale che il loro solo aspetto mette i brividi…» (MEW 258, ES 1/239), descrizione che potrebbe applicarsi oggi ai subappaltatori del Bengala o del Messico. Oppure analizza l’intensificazione della giornata di lavoro attraverso «la scomparsa dei minuti» (MEW 257, ES 1/238), adeguamento di tutte le fibre del corpo al ritmo delle macchine ‒ nell’attesa del lavoro alla catena, e dello stress consumato nella ditta neoliberale. ↩
- Cfr. il §122 di Explication et reconstrution du capital. ↩
- Il famoso § III del Capitolo 1, « La forma del valore», è sotto questo rispetto decisivo, e generalmente abbastanza mal compreso. Il suo obiettivo, precisa Marx, è quello di dedurre il concetto di moneta da quello di valore, esso stesso compreso nei termini dei §§ 1 e 2, quelli di valore-lavoro, e quindi di dispendio produttivo di forza-lavoro in un contesto di produzione mercantile. Non c’è da scegliere tra due teorie marxiane, delle quali l’una, quella dell’ultima edizione del Capitale, che alcuni “dialettici” giudicano piattamente “ricardiana”, sarebbe fondata sul valore-lavoro, e l’altra, radicata nei Grundrisse e giudicata più profonda, sarebbe fondata sulla moneta e la sua astrattezza. E ciò sia detto contro coloro che periodicamente scoprono che il concetto primo non sarebbe il lavoro, ma la moneta, la quale nei Grundrisse costituisce ancora il punto di partenza della ricerca. Marx finisce col discernere al di qua del denaro, fondamentale principio connettore del mercato, il processo mercantile della produzione come logica sociale, e la forza-lavoro stessa nella vulnerabilità sociale del suo esercizio mercantile. Ci impedisce così di confondere mercato e capitale, due regimi distinti dell’astrazione. Questa confusione si esprime talvolta oggi nel discorso dell’“astrazione reale”, un concetto prezioso, che rinvia ad Adorno, ma il cui uso è delicato. Perché si tratta, tra l’altro, di sapere quale statuto di realtà appartiene rispettivamente al mercato e al capitale. Proprio questa sarà la posta in gioco dell’articolazione “ontologica” L1-L2-L3 presentata qui. ↩
- Il primo posto va a Moishe Postone, ai cui occhi la nozione di «dispendio», per il fatto stesso di essere «fisiologica», e dunque «antropologica», non potrebbe essere né sociale, né storica. Postone cerca un sostegno in questo senso in Isaac Rubin (interprete per il resto spesso ben ispirato). Se la nozione di «dispendio di forza-lavoro» figurerebbe all’inizio del Capitale, curiosamente, sarebbe perché Marx intenderebbe «partire dalle apparenze», dal «fenomenico». Il «lavoro sotto il capitalismo» si auto-comprenderebbe come dispendio corporeo, ossia come un fenomeno naturale, eterno, al quale bisogna quindi adattarsi: naturalizzazione ideologica. Supporre che Il Capitale cominci dalle «apparenze», a mio avviso, è una falsa «buona idea», in realtà assai cattiva. ↩
- È necessario affrontare la teoria marxiana del valore senza ingenuità, senza in particolare chiederle ciò che essa non può dare: funzionare nel discorso richiesto dalla pratica economica capitalistica. Marx spiega chiaramente, all’inizio del Libro 3, perché una «scienza economica» intesa come pratica razionale del capitalismo non ha rigorosamente alcun bisogno né della teoria del valore né della teoria del plus-valore. Sono, questi, dei concetti validi per un’altra specie di sapere, che concerne la natura della relazione tra le classi in lotta, il processo della loro costituzione, della loro configurazione, le loro strategie. La concettualità marxiana del valore definisce in quale senso i rapporti economici sono dei rapporti di classe, ossia dei rapporti sociali. Definisce la pertinenza propria del discorso «economico» dell’attore capitalista, il suo statuto caratteristico. Essa non si inscrive però in questo sapere pratico, che può accontentarsi di considerare il rapporto salariale come un rapporto di scambio, e non di sfruttamento, né deve giustificarsi di fronte ad esso. ↩
- Occorre stare attenti alla terminologia (fluttuante) di Marx. Come categoria antropologica, il «lavoro in generale» deve essere considerato ad un tempo nel suo aspetto concreto, come «produzione di valori d’uso» (che traduce il tedesco Arbeitsprozess nel capitolo 5, MEW 192), e nel suo aspetto astratto, come «dispendio di forza lavoro», ossia Arbeit überhaupt (MEW 215), che la versione francese rende qui con «lavoro umano in generale» o «lavoro in generale» (ES I/ 200). Assumo qui il «lavoro in generale» come l’articolazione del lavoro concreto e del lavoro astratto. Il presente paragrafo L1 giustifica questa scelta. ↩
- L’interpretazione “grundrissiana”, che crede di vedere nella Sezione 1 un’esposizione della «circolazione» ‒come se si potesse pensare la circolazione di merci senza la produzione di merci‒ non consente di comprendere la questione «astratta» del lavoro mercantile. La tradizione filologico-filosofica, nelle sue versioni tedesche ispirate alla Scuola di Francoforte, come anche in quelle francesi, italiane o inglesi, fa fatica a discernere l’«astrazione reale» costituita dalla «produzione mercantile» come logica sociale realmente esistente. In questa stessa linea si inscrivono anche i «nouveaux philosophes» del marxismo, che si richiamino a una «nuova dialettica» (New Dialectic, nel senso di Cristopher Arthur) o di una «nuova teoria del valore» (New labour theory, nel senso di Moishe Postone). Per loro la «verità» del valore (quella del mercato e dunque, nella loro opinione, quella della merce), si trova nel capitale, nel processo di valorizzazione. Il loro approccio non lascia posto a una teoria della produzione capitalistica come mercantile. Cosa che però è richiesta per una critica del capitalismo. ↩
- Nel Giudizio Universale del capitalismo essi sollevano la pietra delle proprie tombe e risorgono, per appaire con tutta la forza della loro età nelle pagine iniziali del Capitale. Si ritroveranno del resto le stesse figure ‒il filatore, il tessitore, il fabbro, nel capitolo 6, «Capitale costante e capitale variabile» (MEW 214, ES I/199). ↩
- Ho analizzato questa zona di incertezza in Que faire du Capital ?, al capitolo 2, «il valore come quantità». ↩
- Cfr. MEW 211 , ES 1/187, a conclusione del capitolo centrale, nel quale si parla della produzione del plus-valore assoluto. ↩
- Riprendo qui la problematica sociopolitica che faceva l’oggetto del capitolo 3 di que faire du Capital ?, «Il valore come concetto sociopolitico». ↩
- Nell’interpretazione della vulgata “grundrissiana” si tratta del «passaggio dalla circolazione alla produzione». Ma è un controsenso piuttosto grossolano. La «circolazione» alla quale Marx fa riferimento è la «circolazione mercantile», corollario di ciò che egli designa come «produzione mercantile». È proprio questa la problematica decisiva, ancora assente nei Grundrisse, che si afferma nell’ultima versione del Capitale. ↩
- La Sezione 1, in Smith e Ricardo, si riduce all’enunciato che traduce il «tempo di lavoro», fondamento supposto del valore, in quantità di lavoro-salariato (un numero x di ore moltiplicato per un salario orario y), ossia in una grandezza mercantile che si scambia con il capitale. L3 si dissolve in L2. Le differenze di intensità, di qualificazione e abilità si riducono alle differenze di salario alle quali danno presumibilmente luogo. Cfr. Que faire du Capital ?, pp. 24-25. Gli economisti «neoricardiani» italiani e francesi degli anni ’60, discepoli di Sraffa, riprenderanno questa problematica, che non conosce se non il lavoro «dotato di prezzo». Cfr. Ivi, pp. 256-273. ↩
- Occorrerebbe far apparire il carattere poco adeguato della terminologia relativa all’opposizione tra lavoro astratto e lavoro concreto: coppia presa in prestito dal linguaggio filosofico, che occulta non meno di quanto esprime. Le due proposizioni che seguono in corsivo, concernenti l’intensità e il tempo di lavoro socialmente necessario, sono argomentate in Que fair edu Capital ?. ↩
- È, questo, un tema di cui Emmanuel Renault, in Souffrances sociales, Paris, 2008, ha mostrato l’importanza nel Capitale. ↩
- Cfr. Que faire du Capital ?, Chapitre 4, «Valeur/prix de la force de travail», e in particolare pp. 79-82. ↩
- Il verbo «gettare» significa che il datore di lavoro capitalista può mettere arbitrariamente fine al contratto. Altrimenti, non si tratterebbe più di un contratto mercantile. Quando il contratto è posto come definitivo si esce dalla semplice relazione mercanitle, e si entra in qualche modo in una contrattualità «sociale», in un altro regime di libertà. ↩
- « Il capitale non si preoccupa affatto della durata della forza-lavoro. Ciò che unicamente lo interessa è il massimo che può esserne erogato in una giornata. Ed esso raggiunge il suo scopo abbreviando la vita del lavoratore, allo stesso modo in cui un agricoltore avido ottiene dal suo suolo un più alto rendimento esaurendone la fertilità» (MEW 281, ES 1/260). ↩
- Vedi Michel Foucault , Sécurité, territoire, population, Cours du Collège de France, 1977-1978, Paris, 2004, trad. it., Milano, 2005 et Naissance de la biopolitique, Cours du Collège de France, 1978-1979, Paris, 2004, trad. it. Milano, 2005. ↩
- Marx vi ritorna in nota: ad essere riportato, riassunto da lui, è il testo di un manifesto degli operai edili scritto in occasione del «grande sciopero» di Londra nel 1860-61. Questo prestito segnala la stretta relazione tra l’enunciato del diritto e la lotta di classe. Si nota che il testo non è virgolettato: Marx fa proprio questo discorso idealtipico, che diventa un frammento del suo discorso teorico. Marx s’installa così in una situazione della modernità nella quale la libertà è dichiarata. E fa proprio questo discorso, senza il quale l’ingiustizia stessa non potrebbe essere enunciata, nell’atto stesso di criticare l’ordine sociale che lo strumentalizza. ↩
- Designo questo argomento come la «tesi della regola». Vedi Théorie Générale, capitolo 1, rielaborato in L’État-monde, capitolo 2. ↩
- Rinvio in particolare alla grande opera di Yann Moulier Boutang, De l’esclavage au salariat, Paris, PUF, 1998, trad. it. Roma, 2002. ↩
- Su questo punto, cfr. Théorie générale, pp. 378-380. ↩
- Preferiamo lasciare in francese l’espressione francese «libertégalité», e quelle che vi si riferiscono, sia perché si tratta di una nozione tecnica del pensiero di J. Bidet, sia per evitare brutture come “liberteguaglianza”(N.d.T). ↩
- Rinvio alla dimostrazione che proporrò nel primo capitolo, «Louis Althusser, Judith Butler et l’interpellation », del libro di cui questo articolo costituirà il terzo capitolo. ↩
- Questa problematica, sulla quale lavoro da due decenni, è riformulata in L’État-monde. Nel contesto qui considerato da Marx, quello dell’operaio della fabbrica, questa “relazione di classe” concerne la forza-lavoro nel doppio processo della sua compravendita sul mercato e de suo esercizio produttivo nell’organizzazione ‒ senza dimenticare la relazione statuale, definita in particolare dal fatto che l’organizzazione (che è supposta essere quella della parola) afferma in essa la propria superiorità sul mercato. ↩
- Si noterà ‒ed è solo un esempio tra tanti‒ che è l’ispettore Ure a dipingere la fabbrica come « automa » e come “autocrate” (MEW 442, ES 2/102). ↩
- In latino nel testo (N.d.T). ↩
- È il tema del capitolo 6 di L’État-monde, «Idéologies, utopies, cryptologies». ↩
- E ciò a dispetto dei limiti della sua analisi dei rapporti di genere. Se ne troverà uno studio documentato in Frigga Haug, «Sur la théorie des rapports de sexe», in Annie Bidet-Mordrel, Les rapports sociaux de sexe, Paris, 2010. ↩
- È questo il tema del capitolo 5 di L’État-monde, «Classes, ‘Races’, Sexe». ↩
- Lo schiavo è infatti sempre, fondamentalmente, uno straniero. Vedi la tesi di Olivier Pétré-Grenouilleau (a cura di), Histoire de l’esclavage, Paris, 2008. ↩