di Guido Baggio
Gli articoli raccolti nel numero di Paradigmi dedicato agli “Itinerari Pragmatisti” offrono una serie di interessanti scorci sulle risposte che gli autori classici del Pragmatismo hanno formulato in riferimento ad alcune questioni che occupano ancora oggi una posizione rilevante nel dibattito filosofico. In particolare, i percorsi tracciati affrontano alcuni nodi problematici riguardanti l’origine, la struttura e il ruolo delle scienze normative, la dimensione costitutiva del linguaggio nella relazione uomo-mondo o, ancora, il carattere epistemico del senso comune e il superamento del dubbio radicale sulla scorta della dinamica relazionale di dubbio e credenza. Sono tutte questioni che evidenziano l’intreccio innegabile tra la dimensione biologico-emotiva e quella logico-razionale, intreccio tanto inestricabile quanto complesso e problematico riguardo alla sua possibile spiegazione empirico-sperimentale. Esemplare al riguardo è l’articolo di Christopher Hookway, Psychologism and the Pragmatists: Peirce and Dewey, nel quale l’autore affronta la questione riguardante l’origine e la struttura logica del pensiero umano, riproponendo la disputa tra la prospettiva peirciana che indica nella logica una scienza normativa e la concezione deweyana che riconduce il pensare “logico” a fondamenti psicologici. Per Peirce, infatti, la logica è una scienza che ci indica il metodo per pensare correttamente e per tale motivo si deve occupare di tutti i pensieri possibili, indifferentemente dal fatto che questi vengano applicati alla realtà; per Dewey, invece, la logica serve ad analizzare le proprietà di pensieri e idee in uso nella pratica e per legittimare certe conclusioni a cui si è giunti in precedenza.
E proprio il carattere “naturalistico” che sta alla base delle riflessioni deweyane sulla logica porta Maura Striano ad accomunare l’interesse di Dewey per la logica con il suo impegno a costruire una scienza dell’educazione. In La pedagogia dell’Inquiry di John Dewey, Striano traccia l’excursus storico-teoretico che connette gli scritti di Dewey sull’educazione con i suoi scritti sulla logica, evidenziando come la sua teoria dell’educazione, supportata dalla “teoria del pensiero” e dalla “teoria dell’esperienza”, costituisca una significativa interfaccia pedagogica alla “teoria dell’indagine” sviluppata da Dewey in Logic. The Theory of Inquiry, sintesi sistematica della sua riflessione sul logos.
La questione riguardante il carattere normativo o descrittivo della struttura del pensare chiama a sua volta in causa il significato stesso della nozione di “normatività”, alla luce della necessità di un ripensamento del ruolo che le scienze normative possono assumere al giorno d’oggi nella risoluzione di questioni riguardanti le dicotomie fatti/valori, natura/cultura e, appunto, descrizione/normatività. In La pratica dei valori. Sulle concezioni pragmatiste delle norme Giovanni Tuzet affronta il tema delle scienze normative – estetica, etica, logica – e cerca di rispondere in merito alla natura della “normatività” di tali scienze mettendo a confronto la concezione platonista di Frege e Husserl con quella pragmatista di Peirce e Ramsey. Ciò che accomuna questi autori, sostiene Tuzet, è la considerazione della normatività in termini di fini e dei mezzi che soddisfano tali fini. Quello che invece oppone le prospettive platoniste di Frege e Husserl a quelle maggiormente “naturalizzate”, per quanto distinte, di Peirce e Ramsey, può essere ricondotto ad una visione della normatività che, da un lato trova la propria fondazione in elementi ritenuti oggettivi (Frege e Husserl), dall’altro si pone come il frutto di una spiegazione inclusa in un piano naturale (Peirce e Ramsey). La proposta di Tuzet cerca di mediare tra le due prospettive, propendendo però per una legittimazione della norma etica tramite il suo ancoraggio alla realtà dei fatti sottostanti: solo cogliendo i fatti, il fine e i mezzi per il raggiungimento del fine la norma può essere giustificata e spiegata.
E se l’elemento fattuale ha secondo Tuzet un ruolo fondamentale per poter rendere conto del significato che l’uso del termine “norma” assume nel ragionamento, superando in tal modo il fondazionalismo alla base della dicotomia fatto/valore, sul piano della conoscenza anche la nozione di ‘verità’ rientra a sua volta in una visione antifondazionalista che nega la possibilità di radicare la conoscenza su di un terreno che non sia quello della realtà in cui l’essere umano vive e agisce. Ciò non significa precludere qualsiasi possibilità di fondare la conoscenza su basi solide, né alimentare lo spirito scettico radicale che nega la stessa capacità conoscitiva dell’uomo. Significa piuttosto cercare di rispondere al rischio dello scetticismo mantenendosi sulla linea di confine tra credenze comunemente accettate, fallibilismo e indagine scientifica. La posizione anti-scettica del pragmatismo trova così la propria espressione nel ruolo che il senso comune riveste nell’agire e nella conoscenza umana, come indicano Giovanni Maddalena in La via pragmatista al senso comune e Claudine Tiercelin in Peirce et Wittgenstein face au défi sceptique. Maddalena riconduce il valore attribuito al senso comune dai diversi autori pragmatisti ad un duplice carattere: il primo, destruens, fa riferimento al rifiuto, tematizzato in particolare da Peirce, dell’intuizionismo e introspezionismo cartesiani, rifiuto strettamente connesso all’anti-kantismo, ovvero all’opposizione tra piano gnoseologico e piano ontologico delineato dal filosofo di Könisberg; il secondo, construens, per quanto più problematico prospetta la possibilità di una riconsiderazione del senso comune come dimensione veritativa alla base dell’agire quotidiano e punto di partenza ineludibile per lo sviluppo del sapere scientifico.
Ancor più paradigmatico in riferimento all’anti-scetticismo pragmatista è la questione riconducibile alla coppia dicotomica dubbio/certezza affrontata da Claudine Tiercelin alla luce delle risposte che Peirce e Wittgenstein hanno dato al dubbio scettico. Tanto Peirce che Wittgenstein, espone la Tiercelin, partono da un elemento comune per far fronte al dubbio scettico: entrambi denunciano la confusione tra piano psicologico e piano logico riguardo all’identificazione del dubbio e della credenza con gli stati mentali anziché con le disposizioni ad agire. Tale denuncia comune apre però la strada a risposte dissimili. Per rispondere alla sfida scettica Wittgenstein fa appello allo statuto epistemico mobile delle proposizioni alla base delle credenze, Peirce, invece, riconduce tali disposizioni e il superamento dello scetticismo a fenomeni naturali, quali ad esempio i ‘giudizi istintivi di razionalità’. In particolare, per Wittgenstein la relazione tra dubbio e credenza è epistemica e consiste più nell’assentire a certe credenze che non nel conoscerle. Ma secondo la Tiercelin una risposta siffatta allo scetticismo induce a sua volta una forma di scetticismo, giacché concentrandosi sulla diagnosi del dubbio anziché sul suo rifiuto Wittgenstein sembra sfuggire ad una vera e propria refutazione di esso: tacciando lo scetticismo radicale di inintelligibilità egli rende inintelligibile anche l’attrazione che esso esercita su di noi. Peirce, dal canto suo, chiama in causa la conoscenza propria del senso comune, considerando nel processo di formazione delle opinioni tanto il valore di testimonianza degli altri quanto il principio di credenza e il metodo della tenacia e dell’autorità, tutti metodi primitivi ma inevitabili di fissazione delle credenze. Epistemologia e morale si ritrovano così radicati nel razionalismo innato, istintivo che caratterizza la natura umana in relazione alla realtà da conoscere e nella quale agire. In questo processo il metodo scientifico ha il compito di colmare le lacune di vaghezza di certe credenze per formularle secondo le regole della logica. Da qui il valore del Senso Comune Critico come limitazione della regressione della riflessione all’infinito propria dello scetticismo. A differenza di Wittgenstein, quindi, radicando il dubbio su una base quasi fisiologica Peirce rende il dubbio radicale impossibile più che inintelligibile.
Il confronto tra il pensiero di Peirce e quello di Wittgentein è oggetto anche dell’articolo di Rossella Fabbrichesi, Il significato del significato in Peirce e Wittgenstein. In questo lavoro l’autrice si concentra in particolare sul modo di intendere i concetti e il ragionare da parte dei due autori. Sia Peirce che Wittgenstein sostengono, infatti, l’impossibilità di definire con esattezza il significato di un concetto, evidenziandone anzi il carattere essenziale di “vaghezza”, “inesattezza”, “indeterminazione”; tale carattere essenziale delinea il significato in riferimento all’uso immediato in un contesto secondo Wittgenstein, alla totalità degli effetti concepibili, attuali e potenziali secondo Peirce. Quest’ultimo elemento però, ovvero la differenza tra ‘immediatezza’ e ‘virtualità’ – o generalità – del significato di un pensiero indica anche la differenza fondamentale che i due autori attribuiscono al significato del significato.
Tanto l’articolo della Tiercelin quanto quello della Fabbrichesi rendono merito delle contaminazioni, reali e possibili, tra gli esponenti della corrente filosofica americana e i pensatori e le correnti filosofiche che si sono diffuse parallelamente nel vecchio Continente. Tali contaminazioni sono testimoniate particolarmente per quanto riguarda il pensiero di William James, così come dimostrato nell’articolo William James a Vienna in cui Massimo Ferrari traccia un quadro storico della relazione tra il pensiero jamesiano e la cultura filosofico-scientifica e psicologica di lingua tedesca e in ispecie con l’ambiente viennese del periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento.
Questi ora esposti sono solo alcuni degli “itinerari pragmatisti” presenti nel numero di Paradigmi. Filo rosso che accomuna tutti i percorsi di indagine è il carattere al medesimo tempo antifondazionalista e antiscettico della corrente filosofica inaugurata da Peirce e James. Se da una parte, infatti, il pragmatismo tende a de-assolutizzare le posizioni dogmatiche e fondazionaliste tradizionali, dall’altra cerca di ridare valore ad una visione costruzionista della verità attraverso la formulazione di ipotesi da verificare tanto nell’agire quotidiano quanto nel processo di indagine dell’esperienza scientifica. Come sottolinea Rosa Calcaterra nell’Introduzione al volume, la dimensione sociale dell’esperienza, del linguaggio e del pensiero umani rende merito di una prospettiva di conoscenza in continuo sviluppo, i cui traguardi raggiunti si rivelano tappe di un work in progress continuo. Alla luce di queste considerazioni vogliamo fare riferimento in conclusione all’articolo provocatorio di Douglas Anderson, Attending the Death of Pragmatism, che si rivela paradigmatico proprio per le possibili prospettive di futuri sviluppi del pragmatismo. Così come nell’evoluzione delle specie, sostiene Anderson, nel pragmatismo sono presenti due caratteri, la contingenza che non può essere controllata e l’ibridazione che dà corpo a nuove forme di vita e di pensiero. Ciò che è necessario fare per mantenere viva la possibilità da parte del pragmatismo di contribuire al progresso del pensiero filosofico è offrire alle idee la possibilità di mescolarsi e sviluppare nuovi modi per affrontare i bisogni che sorgeranno nelle future situazioni. Il “temperamento” che guida questa concezione del pragmatismo si fonda sulla possibilità di sperimentare i miglioramenti; il che non significa affatto essere guidati da una visione puramente ottimista della realtà, quanto piuttosto avere la speranza di poter migliorare le cose a condizione di fornire gli strumenti per il loro miglioramento. Questo non comporta il rifiuto di tutti i vecchi modi di pensare ma la loro integrazione con nuove prospettive e idee allo scopo di rispondere ai cambiamenti delle situazioni culturali future.
Ibridazione e contingenza sono d’altronde i caratteri che rendono merito, da un lato alla rivalutazione di cui è oggetto il pragmatismo da qualche decennio (Quine, Apel, Putnam, Rorty, Honneth, Bernstein, Habermas, per citarne alcuni), nonostante le conseguenti e a volte contrastanti forme di neo-pragmatismo, dall’altro lato rendono gli autori pragmatisti degli interlocutori privilegiati sia nelle discussioni interne al movimento contemporaneo di valorizzazione della dimensione conoscitiva del linguaggio, che nelle questioni che chiamano in causa la relazione tra soggettività e normatività, tra azione e identità, ovvero tra la possibilità di una concezione della soggettività non più cartesiano-sostanzialistica ma dinamica e plastica e il carattere normativo che caratterizza inevitabilmente l’agire umano. Come evidenzia Calcaterra, affrontare da una prospettiva pragmatista il “dissolvimento della soggettività” consente, al giorno d’oggi, di guardare da una prospettiva maggiormente propositiva alla possibilità di un discorso etico-morale in grado di trovare un punto di appoggio autolegittimante nella dimensione sociale costitutiva dell’essere umano e della sua possibilità di conoscenza (legata sia al senso comune come terreno di condivisione di significati, che al processo intersoggettivo di costruzione della verità).