Recensione a Pina Totaro, Instrumenta mentis. Contributi al lessico filosofico di Spinoza

Francesco Toto

In ordine imparzialmente alfabetico, il libro di Pina Totaro, Instrumenta mentis. Contributi al lessico filosofico di Spinoza, Firenze, 2009, pp. 328 raccoglie alcuni dei contributi, editi e inediti, che l’autrice ha composto lungo un arco temporale che va dal 1994 al 2007, dedicati ognuno ad una particolare voce del lessico spinoziano: Acquiescentia, Amor Dei Intellectualis, Amor Sui, Experientia, Machina, Mens, Natura, Obedientia, Politica, Religio, Theologia. A questi si aggiunge, sotto la voce Signum, un lungo saggio su I segni della ‘malattia d’amore’ e la dottrina delle passioni nel Seicento: saggio che, pur non direttamente centrato sui testi di Spinoza, risulta comunque di notevole interesse per lo spinozista. Per ognuno dei lemmi che danno il titolo ai capitoli del libro, il volume fornisce infine, a mo’ di appendice e redatta da Ada Russo, una utile lista delle concordanze, prendendo in considerazione le principali opere latine di Spinoza nella classica edizione Gebhardt.

Frutto di una lunga e meticolosa esperienza di ricerca, il loro carattere occasionale e la diversità delle questioni affrontate non impediscono agli scritti raccolti in Instrumenta mentis né di incarnare l’esempio di un metodo di lettura rigoroso e produttivo, né di tracciare un percorso che, nell’analisi di questo o quel problema particolare, resta comunque unitario, e che lascia emergere –seppure sullo sfondo e senza essere mai direttamente tematizzata come tale, per via dell’evidente ritrosia dell’autrice ad ogni generalizzazione e semplificazione insuscettibili di verifica– una interpretazione globale e in sé stessa consistente dello spinozismo.

Alla base della strategia esegetica della Totaro sta effettivamente, per ripetere un’espressione usata dall’autrice nella brevissima Premessa che introduce alla raccolta, quello stesso recupero della «centralità del testo» che negli ultimi decenni ha caratterizzato tutta una corrente degli studi spinoziani, declinato però più in particolare, nel caso della Totaro, come tentativo «di accostarsi alla filosofia spinoziana a partire dal lessico e dalla terminologia di Spinoza». Se “strumento” è il qualcosa, materiale o mentale che sia, dalla cui produzione ed uso è incrementata la nostra capacità di ulteriori realizzazioni, l’analisi del lessico rappresenta per la nostra autrice certo non l’unica via d’accesso alla lettura di un classico, ma senz’altro la possibilità di mettere a punto degli instrumenta mentis –da cui il titolo– capaci di incrementare la nostra potenza di leggerne i testi, un “attrezzario” interpretativo attraverso il quale riuscire a vincere la resistenza che essi spesso ostinatamente oppongono alla nostra comprensione. Di fronte alla complessità della filosofia spinoziana e alla sua conseguente riottosità a lasciarsi cogliere uno intuito, afferrare con un solo sguardo in una immagine immediatamente, compattamente unitaria –come si potrebbe fare solo con un gesto di arbitrio che ne cancellasse le interne tensioni,  gli sviluppi, e l’implicito confronto con le diverse tradizioni culturali al cui incrocio essa si colloca– nell’analisi del lessico spinoziano la Totaro procede secondo una strategia paragonabile a quella che l’Ethica definirà come «secondo genere di conoscenza», e che ricorda il metodo già teorizzato da Spinoza, a proposito dell’interpretazione dei testi scritturistici, nel Capitolo VII del Tractatus Theologico-Politicus.

Come ben sapevano i maggiori pensatori del ’600 –che guardavano con costante sospetto al linguaggio e alla sua potenza, così recalcitrante alle esigenze di chiarezza, coerenza ed univocità a loro avviso proprie del pensiero– il rapporto tra parola e concetto non è affatto quello di una corrispondenza lineare, atomistica, biunivoca o comunque trasparente. Un’espressione graficamente identica non solo assume valori semantici diversi, nelle diverse opere come pure nelle diverse occorrenze all’interno di una stessa opera, a seconda delle diverse strutture discorsive in cui essa si inscrive e della serie di espressioni interconnesse da cui tali strutture sono identificate, ma costituisce inoltre essa stessa un vero e proprio palinsesto, una sedimentazione di livelli di senso che palesa i propri strati più profondi e meno appariscenti solo a patto di scardinare il carattere apparentemente monologico ed eccezionale  che un pensiero come quello spinoziano, prima facie, non può fare a meno di presentare: di ricostruirne l’implicito valore dialogico, «la pluralità di influenze, echi, esiti storico-critici», i bersagli polemici, reintegrando le singole prese di posizione spinoziane all’interno della complessa rete di connessioni da cui è tessuta la coeva cultura europea.

Nella lettura vuoi dei testi sacri vuoi del libro della natura, sia che isoli i materiali su cui lavora sia che li riconnetta in maniera conseguentemente arbitraria, l’immaginazione scompagina sempre i nessi che costituiscono la trama del reale, organizzando i dati a sua disposizione all’interno di strutture di senso che, pur pretendendo ognuna ad una verità esaustiva ed esclusiva, si equivalgono tutte per la loro inadeguatezza. Per sfuggire a questo territorio incerto in cui tutte le interpretazioni finiscono per essere ugualmente plausibili ed infondate, e per ricostruire alcuni dei nodi concettuali che si intrecciano nell’opera spinoziana, in ognuno dei suoi lavori la Totaro indaga sistematicamente «concordanze, differenze e opposizioni» tra i diversi usi che Spinoza fa di questo o quel lemma spinoziano, e ciò senza perdere di vista né le continuità né le linee di cesura tra le problematiche spinoziane e quelle che il filosofo ereditava da diverse tradizioni, né il modo in cui la ricezione delle opere del filosofo da parte dei suoi contemporanei possono aiutarci ad illuminare le questioni che la loro lettura ancora oggi ci impone. Attenzione, questa, che contribuisce non poco a privare la novità che pure Spinoza indubbiamente costituisce, nel panorama del XVII secolo, di quel carattere eccezionale e per così dire miracoloso che tanta letteratura di derivazione deleuziana, althusseriana o negriana tende ad attribuirgli, e che non è, spesso, se non l’esito di una radicale destoricizzazione, attraverso la quale l’interprete, nella lettura dei testi filosofici, finisce sempre per imbattersi in ciò che la sua precomprensione lo induce a cercare e desiderare di trovarvi, salvo poi stupirsi che possa esser stato detto diversi secoli fa.

Quali interrogativi ci costringe a porci, ad esempio, la (quasi) completa scomparsa, dai testi spinoziani, del vocabolario relativo alle macchine, ed il fatto che già a ridosso della loro pubblicazione, ciò nonostante, si accendesse intorno al suo presunto meccanicismo quella medesima disputa che travaglierà nei secoli la lotta tra le interpretazioni? Attraverso quali mediazioni e a costo di quali trasformazioni la satisfaction de soy mesme cartesiana può essere integrata all’interno del sistema spinoziano, e fino a che punto assimilata con quella acquiescentia in se ipso che nella terza parte dell’Ethica viene pensata come sconfinante con la passione della superbia, un eccesso di autostima strettamente legato alla gioia che proviamo in rapporto alla lode dell’altro verso una nostra azione, e che però nella parte quarta diventa una soddisfazione tratta non più dall’opinione o dall’affetto del proprio simile, ma direttamente dalla consapevolezza della propria autonomia, consistente nell’orientamento della vita pratica sulla più solida base dei dictamina rationis, nella più piena unità con sé stesso che questo orientamento consente e nella conseguente emancipazione dal giogo della passione e delle fortuna? A prezzo di quali smottamenti all’interno della sfera affettiva, e dell’esperienza che l’uomo fa di sé stesso e del proprio rapporto con il mondo, questa soddisfazione di sé o amor sui che nasce dalla ragione può giungere infine, nella quinta parte, ad identificarsi direttamente con la beatitudo, consistente in un amore di sé il quale è unitariamente anche amor dei intellectualis? Quale rivoluzione ha dovuto compiersi, se non nell’uomo stesso almeno nel lessico che gli si riferisce, affinché la parola experientia, che in un primo momento rinviava ad una mera accumulazione di osservazioni empiriche nella «pinacoteca della memoria» individuale, alla congerie di rappresentazioni immediate e sconnesse o delle semplici verità di fatto che sono testimoniate dai sensi e non deducibili dalla ragione, giunga in un secondo momento a rivelarsi non solo permeabile alle influenze di un immaginario collettivo e storicamente determinato, non solo portatrice di una funzione epistemologicamente positiva, consistente innanzitutto nella conferma o smentita delle convinzioni precedentemente acquisite, ma addirittura connessa a quella eternità la quale, sul piano del conoscere, è innanzitutto attingimento di quelle leggi universali e di quelle essenze singolari che i sensi non possono mai afferrare, e che possono essere adeguatamente comprese solo a partire nella loro derivazione dall’essenza del Deus, sive Natura?

Quelli cui abbiamo potuto accennare solo assai velocemente e a costo di notevoli semplificazioni, ovviamente, non rappresentano se non una piccola parte dei problemi affrontati in Instrumenta mentis. Ciò nonostante, possono forse dare già una prima idea di quella interpretazione globale dello spinozismo che, come si diceva sopra, traluce dalle pagine della Totaro.

Si tratti di teoria degli affetti o della conoscenza, di religione o politica, a noi pare che l’asse strategico attorno al quale si articola l’analisi della nostra autrice sia quello costituito dalla dottrina dei tre generi di conoscenza. Il quadro della filosofia spinoziana che ne emerge, allora, è innanzitutto quello di un pensiero che accoglie risolutamente passioni e immaginazione nella loro piena, ineludibile naturalità: non già, quindi, come semplici deviazioni patologiche da una natura normativamente presupposta e coincidente infine con la ratio, ma in quel loro dinamismo che ne fa la prima forma nella quale l’individuo, come unità di una mente e di un corpo, non si limita affatto a recepire dati e pulsioni che gli vengono da fuori, e che gli restano estranee, ma elabora egli stesso l’immagine di sé e del mondo coerentemente alla quale si orienta nel rapporto col proprio simile e più in generale nella prassi, esplicando così la propria naturale potenza di pensare e di agire, il suo inalienabile diritto ad esistere conformemente alla necessità della propria natura, di perseguire i suoi desideri nei soli limiti delle proprie capacità. Posta questa strutturale necessità dell’immaginazione e dell’affettività ad essa connessa, sulla quale la Totaro non si stanca di insistere, la funzione di ragione e intelletto non può più essere quella di rompere con la sfera della corporeità e del sentire, ma unicamente di approfondire le esigenze di autonomia e felicità interne alla natura stessa dell’uomo e reciprocamente inseparabili, nonché la conoscenza necessaria alla loro realizzazione. Non ci pare casuale, allora, che ad essere messo in evidenza dall’autrice, in una prospettiva gnoseologica, sia soprattutto l’abbandono spinoziano dell’idea delle facoltà dell’anima, sottolineando quindi il carattere unitario che è proprio della mente, nella quale idee immaginative da una parte e razionali o intellettuali dall’altra non corrispondono ad idee diverse o incomunicanti, ma rappresentano piuttosto i diversi gradi di consapevolezza, chiarezza, coerenza che la mente può raggiungere riguardo ai modi di pensare (modi cogitandi) in cui essa consiste. Né è per accidente, di conseguenza, che ad essere posta in risalto, anche in chiave teologico-politica, sia piuttosto la continuità che la discontinuità tra la rivelazione profetica da una parte, la quale è un’opera dell’immaginazione, fa leva su un patrimonio culturale storicamente determinato e si appella più alle passioni di uno specifico popolo che all’universalità della ragione, e quell’altra rivelazione, che è operata da ragione e intelletto e attinge a delle verità universali ed eterne, o tra la faticosa obbedienza ai presunti decreti divini impartiti da Mosè, obbedienza che per Spinoza si basa su speranza e paura, e quindi sul lavoro dell’immaginazione, ed ha per fine un benessere terreno, e quell’obbedienza che è rivolta alla legge divina naturale, coincide con vera virtù, ossia con l’esercizio di razionalità ed intelligenza, e mira ad una beatitudine che sembra prescindere dalle gioie legate alle cose finite e temporali, consistendo piuttosto in una piena, spontanea unità con l’ordine eterno della natura. Il percorso dall’immaginazione all’intelletto tracciato dalla Totaro è quello di un movimento che si potrebbe dire verticale, nella direzione della profondità e di una sempre più compiuta unificazione. Si parte da un livello di attività ancora inadeguato, superficiale, nel quale la natura esterna, il proprio simile e le stesse pulsioni da cui si è scossi sono esperiti ancora sotto il segno dell’estraneità; le idee, gli affetti e i comportamenti si presentano come sconnessi, distorti, esagerati, incoerenti; i rapporti con gli altri sono segnati da una costante ambivalenza, oscillanti tra l’amore e l’odio, tra una tendenza all’unificazione e una alla disgregazione che sono spesso inseparabili; la religione si impone come proiezione in una presunta divinità trascendente dell’idea che confusamente ci siamo fatti di noi stessi e del nostro simile, e come dissimulazione dei conflitti da cui i rapporti interumani sono attraversati. E si arriva ad un altro livello, in un cammino lungo il quale si compie la progressiva ricomposizione di una coscienza di sé capace di integrare in una unità coerente e non repressiva i molteplici impulsi da cui siamo attraversati, e di riconoscere la propria unità con una natura che non è la materia su cui si esercita l’arbitrio vuoi dell’uomo vuoi della divinità, ma un sistema di cui l’uomo è solo una parte e che è organizzato secondo la necessità delle proprie leggi, e si realizza un rapporto con l’altro visto come proprio eguale, da includere nella costruzione di un benessere e di una libertà necessariamente comuni, di una comunità politica capace di accogliere ed integrare le differenze all’interno delle proprie istituzioni e di emancipare i suoi membri dal giogo della paura e delle cosiddette passioni tristi.

Abbiamo visto come la quantità dei materiali e la mole di informazioni su cui la Totaro lavora si organizzino, non solo nel testo ma anche nelle corpose note a pie’ di pagina, secondo un metodo coerente ed una interpretazione implicitamente unitaria. Naturalmente, non mancano alcuni aspetti su cui la critica si potrebbe impuntare. Piccole sviste, come quella che si dà quando le passioni vengono definite una volta come eventi simultaneamente corporei e mentali ed un’altra «semplici affectiones del corpo». O quella che si presenta quando l’autrice afferma da una parte l’idea di una strutturale attività della mente, della quale anche l’immaginazione è partecipe, e dall’altra che la mente, nell’immaginare, sarebbe invece «del tutto passiva». Presupposti indiscussi, come quello riguardante l’opposizione tra temporalità ed eternità, o la reale distinguibilità di ratio ed intellectus. Risultati dubbi, come una certa immagine dei diritti naturali ed inalienabili come «fondativi della vita associata» e del «limite oltre il quale lo Stato non può più riconoscersi come legittimo», immagine che a nostro avviso nasce dalla lettura dei testi spinoziani alla luce di problematiche che Spinoza stesso contribuisce a scardinare, se è vero che una delle caratteristiche originale del suo pensiero politico fu proprio quella di erodere dall’interno la questione del fondamento, della legittimità e dei limiti “giuridici” del potere. O come quell’assimilazione del contenuto della rivelazione profetica e quello del lume naturale che ci pare piuttosto problematica, ed è forse resa possibile dal rifiuto di leggere il Tractatus teologico-politicus alla luce della tensione tra un livello essoterico ed uno per così dire esoterico, che non si riesce a cogliere se non a costo di guardare all’opera di Spinoza come ad una sorta di quadro cubista, cercando cioè di ricostruirne, al di sotto del prisma dei sottili e talvolta impercettibili mutamenti dei punti di vista, una unità e una coerenza meno appariscenti. Infine, ci pare che nonostante la solidità, il rigore e l’ampiezza delle sue ricerche, neppure la Totaro sia pienamente immune da quello ‘spinozacentrismo’ che affligge gran parte degli studi spinoziani, e che spesso spinge lo studioso ad accettare interpretazioni semplicistiche del pensiero di questo o quell’altro classico, che sono tratte non dagli studi che riguardano direttamente quell’autore, ma dall’idea distorta che, al fine di meglio mettere in risalto l’originalità del filosofo olandese anche in quei punti in cui egli è invece più fortemente debitore verso i propri predecessori, è venuta cristallizzandosi nell’immaginario collettivo della comunità degli spinozisti: basta pensare ad un certo modo di schiacciare la complessità dell’antropologia e del pensiero politico hobbesiani su un’idea a dir poco semplicistica dell’autoconservazione come principio unitario di tutto il sistema, al quale si connetterebbe una razionalità il cui unico motore sarebbe la paura della morte. Oppure ad un’idea del dualismo cartesiano forse troppo indulgente con la giustamente orgogliosa autoconsapevolezza che Spinoza dovette avere del proprio distacco da quello che fu comunque il suo maestro.

A questi aspetti del lavoro della Totaro, che a chi scrive sembrano difetti, e che però lasciano intatto il valore del libro, si è fatto cenno non per volontà di pensare «più a ciò che non è nell’oggetto che a ciò che vi è», ma per semplice dovere di completezza.

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