Alberto Gianquinto
Alberto Gianquinto (Pirano 1927) si è laureato in Filosofia a Roma ed ha iniziato la sua attività scientifica con Ugo Spirito e poi con Guido Calogero. All’Università La Sapienza di Roma ha insegnato Logica, poi, all’Università di Tor Vergata, Propedeutica filosofica e Metodologia delle scienze del comportamento. Dopo il 1968 ha partecipato alla fondazione del Manifesto. Per la sua ricerca amplissima sui temi della storia e della scienza si rimanda al sito www.albertogianquinto.it. Della sua attività poetica (si ricordi Nel regno del Capricorno, Dalle terre dell’utopia, Le stanze del sole, Cronopedie, Geopedie) si pubblica qui un testo, in prosa e in versi.
Alberto Gianquinto è risultato I° classificato per il Premio Nazionale di Poesia del 2011 “Alessandro Contini Bonacossi”, con il volume Il volto, dietro le cose (ed. Lietocolle) ed ha conseguito il primo posto ex equo alla XX ediz. del Premio Feronia.
Mezzaluna fertile
Con alcuni riferimenti qui di seguito si vuole evitare un’interruzione di lettura causata da note a fondo pagina o a fondo testo, per richiamare nomi e fatti che possono ormai perdersi nella memoria.
Mezzaluna fertile, suggestivo nome coniato da Breasted l’archeologo, è la vasta regione, culla storica della civiltà che, dal Nilo e dal Mar Rosso, dal Sinai, attraverso le terre di Canaan, del Libano e del Giordano e della Siria, dal Levante insomma, sale alle contrade degli antichi Hurriti e degli Assiri, per scendere poi nel ‘paese dei due fiumi’, lungo il Tigri e l’Eufrate – dalla Mesopotamia e dalle province di Babilonia – giù verso il golfo Persico: regione, che ha visto le culture del Neolitico e delle Età del bronzo e del ferro, le prime civiltà agricole, le prime nazioni e le tre religioni monoteistiche; si curva in alto e scende giù, formando quel grande arco, come spicchio di luna, che – dalla sua posizione – non può dirsi che sia crescente o calante.
Qui si gioca da molto tempo una partita a scacchi, ma tali sono le partite che chiunque muova porta all’avversario il suo scacco matto: e questo dovrebbe suggerire l’inutilità delle strategie belliche. La battaglia nel villaggio di Kfar Kila dell’agosto 2006 è pensata allora come ideale esempio perenne di quella partita storica.
All’inizio di quest’ultimo tratto della storia, prima ancora degli sbarchi sionisti in terra di Palestina, prima della sho’ah, troviamo già pronta la risposta della partita. Eccola.
Mohammed Said Haj Amin el Husseini, dai capelli rossi e gli occhi azzurri, dal 1920 attivo contro ebrei ed inglesi, eppure investito, nel 1922, Gran Muftì di Gerusalemme dall’alto commissario britannico in Palestina sir Herbert Samuel (ebreo!), ebbe, quale presidente del Consiglio supremo musulmano, la disponibilità totale dei fondi religiosi della Palestina. Nel 1928, il 24 settembre, festa del Yom Kippur, per aizzare il fanatismo religioso, accusò gli ebrei di profanare la proprietà araba al ‘muro del pianto’ e di impadronirsi della ‘roccia’. Nel solo 1929 a suo carico si contarono più di cento ebrei morti. Capo incontrastato degli arabi palestinesi, lanciò il popolo in una jihad, iniziando con uno sciopero generale di 6 mesi, prima contro inglesi ed ebrei, poi contro le fazioni arabe avverse, uccidendo più di 2000 intellettuali arabi, orientati per il progresso e la ragione. Da quel momento gettò le fila della ribellione anti-ebraica in Palestina. Nel 1936 entrò in contatto con i nazisti; con l’appoggio tedesco lavorò per rovesciare il regime iracheno, filo-inglese e nel 1941, sfuggito agli inglesi, raggiunse, in quel settembre, Berlino, dove incontrò Hitler. D’accordo con la soluzione finale, nel 1943 intervenne presso Ribbentrop per impedire l’emigrazione in Palestina di 4000 bambini ebrei bulgari. Seguito da una guardia del corpo di 6 ‘negri’, possedeva una Mercedes corazzata ed un panciotto blindato, regalo del capo nazista. Suo autista era un SS.
E questa fu la contro-risposta della partita infinita: l’Haganah, esercito irregolare ebraico, fino alla fondazione dello Stato d’Israele, ma anche l’Irgun Zvai Leumi, formazione terroristica ebraica di Vladimir Jabotinsky e Mordechai Ra’anan e la ‘banda’ Stern dei terroristi di Yehoshua Zetler.
Dall’altra parte, alfieri del terrorismo arabo di Haj Amin, Abdul Khader, preparato ad una scuola speciale del Terzo Reich, e Fawzi el Kaukji, altro fervente filo-nazista, e ancora Fawzi el Kutub, formatosi alla scuola delle SS in Olanda.
Cosa si può incontrare allora, in quel tratto di storia, se non lo sterminio nel villaggio arabo di Deir Yassin, presso Gerusalemme, per opera della Stern, il 9 di aprile 1948, primo simbolo della tragedia palestinese? Che altro, se non Shātīlā, il campo di profughi vicino al sobborgo Sabra di Beirut: altro massacro, diretto questa volta dal cristiano maronita Elias Hobeika nel 1982 e che vide gli israeliani spettatori consenzienti? E Karameh, altro villaggio di un’epica resistenza palestinese in Giordania? E Tall el-Zaatar: un primo massacro, il 13 di aprile 1975 – come reazione all’appoggio dei guerriglieri palestinesi ad uno sciopero di pescatori di Sidone e all’attentato a Pierre Gemayel, capo della falange cristiano-maronita – seguito da un secondo, con la resa del campo, poi, il 12 di agosto? E chi non ricorda le brigate irregolari di al-Din al-Qassam, sotto l’influenza dell’organizzazione jihadista Hamas, responsabili dal febbraio 1989 dei rapimenti e delle uccisioni di militari israeliani? E i sei anni della seconda Intifada, venticinquemila volte attentati, dopo il rifiuto di Arafat alle offerte di pace di Barak (il ‘fulmine’ ebreo), a Camp David?
Catastrofe palestinese: nakba; e allora speranza d’Israele: hatikvah. Eppure anche il contrario, per inversione delle parti. L’oggetto è il Tempio, due volte distrutto: nome ebraico ‘bet ha-mikdash’; città: Gerusalemme. Per la quale, si disse che Dio stesso avesse voluto conservare le sue chiavi in cielo, eppure distrutta ancora nel 614 d.C. e ancora assediata da Goffredo di Buglione, nella crociata del 1099 e ancora offesa dai saraceni nel XII° secolo e dai turchi nel XIV°.
Questa la realtà dei fatti: reality, anzi, di un ‘trash’ informatico, che sempre
s’adagia, grossolanamente e insopportabilmente, da una parte o dall’altra. Cadrà ancora Gerusalemme? Oh si: cade e cadrà idealmente ancora, nella violenza delle parti, non importa per quale mano. La domanda, retorica, porta con sé tante piccole risposte, da raccogliere – per esempio – nell’opera di D. Lapierre e di L. Collins, Gerusalemme Gerusalemme! (Mondatori, Milano 19722, p. 371, poi p. 386 e p. 417 e ancora nell’episodio del medico Hugo Lehrs, ucciso da tre arabi nell’ospedale di Beit Safafa, e poi su quel che accadde negli anni 1947-1948 nel mondo occidentale ed europeo in particolare, le chiese incluse: p. 472 e p. 533).
Si parla anche del duomo della Roccia, il monumento ottagonale, sulla spianata del Haram esh Sherif, il ‘recinto nobile’ o monte Moriah, sacrario dell’Islam, dove Maometto sarebbe assurto al cielo; e si parla del khamsin, il vento secco e caldo, proveniente dal sahara egiziano; e di nomi: Maria o Myriam, dall’egizio ‘mrjt’, l’amata, e di Ines, forma spagnola di Agnese, ma dal greco “ ̉ινέω”, che significa ‘purifico’; ed anche di danze al suono di un kakabeh, sorta di chitarra: danze, arabe ed ebraiche, dabke e hora, o un zafeh per un ebraico matrimonio.
Quel che passa di bocca in bocca, assieme a riflessioni – ancora – sul ‘teatro’ dei media e allora su un doveroso riferimento al teatro di Artaud e di Brecht, nell’ambito della questione sartriana dell’immaginario – e si legga L. Knapp, La figura e l’immaginario. Scritti di Sartre L’imagination (1936), L’imaginaire (1940), Un théâtre de situations (1973) – è il richiamo letterario: l’endecasillabo, senza una ripresa dell’ottava, gioca sull’Orlando furioso dell’Ariosto raccontato da Italo Calvino: ‘Astolfo sulla luna’; allude di riflesso a Le metamorfosi o l’asino d’oro di Apuleio; e rimbalza su quel misterioso mare Meotico, che si trova in Eschilo, Prometeo incatenato.
Ma di bocca in bocca passa anche l’incoerenza assurda di un Dio ‘che viene’, raccolta nell’omelia di Benedetto XVI nuovo anno liturgico, Vaticano, 2 dicembre 2006, e messa a confronto con il discorso proclamatorio dello Stato d’Israele, letto da Ben Gurion il 14 maggio 1948, e con la proposta del ‘re beduino’ Abdullah ibn-Hussein el Hashimi di Transgiordania a Golda Meir, nel loro incontro ad Amman, ancora nella primavera del 1948, e respinta da Golda Meir. Vien fuori un grido finale di ribellione, dato come un’eco di Carducci: quell’inno ‘A Satana’, composto nel 1863 e pubblicato nel 1865.
Non resta che portare un altro sguardo su questa storia, dove si utilizza il grande Brecht:Gli affari del signori Giulio Cesare (Einaudi, Nuovi Coralli, Torino 19792, p. 18, p. 45 e p. 48).
Una partita a scacchi
Cingolati attendono:
guarda la stella di David ad ovest
ben dentro la terra del cedro;
al nord, più a nord ancora
da chiarori aurorali viene
un abbraccio mortale:
veloci trasporti son pronti
a chiuder la morsa.
S’è spinto il comando in avanti
protette le spalle e a destra
una linea di fanti, più a sud
<>
un cavallo in a-sei
una torre in g-sette
pedoni in g-cinque
ed e-tre,
il comando in e-quattro
<>
Consiglieri siriani
– hezbollah al governo –
si sente la stretta a tenaglia;
gente palestina difende
avanti e di lato,
fidā’yin e intifada dentro Israele;
razzi Qassam già pronti
più indietro,
al tiro sul comando nemico.
<>
pedoni in e-cinque e d-sei
ed ancora in g-quattro
il comando in e-sei;
in d-uno l’alfiere-Qassam
<>
Chi siede più in alto?
Chi muove gli eventi?
È il diciannove d’agosto,
ore quattro locali,
al valico di Fatma
nel villaggio di Kfar Kila
pezzi di partita più in alto giocata.
La stella si muove ed è scacco,
kaffiyeh che muovono ed è scacco;
a chi tocca? è il primo
che vince sul campo.
<>
Chi siede più in alto?
Chi muove gli eventi?
al-Saudi immobile Arabia,
chi impugna un petrolio potere
fin dentro White House?
Muoveranno allo scacco
gli altri per primi
<>
Tu non sai dirmi chi muove
per primo i macabri elenchi
degli uni e degli altri.
Ci son nomi che da soli,
in volti d’angeli pensosi,
chiamano ricordi
che non possono appassire mai più:
una lunga estate li bagna
rigogliosa di ferro e di fuoco.
<>
In principio fu sùbito il male
Haj Amin, Gran Muftì,
invasate soluzioni finali,
l’Irgun e l’Haganah
e quelli della Stern.
E poi Abdul Khader
el Kaukji
Kutub:
un tunnel, un imbuto,
un tonfo sul fondo.
Chi dimentica più Deir Yassin
nel nove di aprile?
chi Sabra e Shātīlā sorella
quel sedici settembre alle sei della sera?
chi l’epica Karameh
e Tall el-Zaatar
un tredici d’aprile?
Tremò Israele nel freddo febbraio
d’al-Din al-Qassam,
e venticinque per mille volte
d’attentati tremò nei sei anni
dopo l’offerta d’Ehud Barak.
<>
Non parlano gli eventi
non dicono di più
di quanto si vede.
L’ombra s’è presa la luce,
oscura il suo passo di odio,
che fa il mandorlo amaro
di giuste vendette,
la paura che s’acquatta nel buio:
nakba è catastrofe per uno,
hatikvah speranza per l’altro
<>
S’oscura il cielo della mente,
tramontato il pensiero
nei picchi inviolati dei testi,
la memoria dispersa
nella corrotta Fatah,
nella grondante purezza d’Hamas,
nella china desolata
dai kibbutzin al Likud
Reality
«Se guardo alle spalle del tempo
quando Tito Flavio,
la stagione forse dei gelsomini,
lui, figlio di Flavia Domitilla,
in una notte di mirto e d’alloro,
il figlio – lui – di Vespasiano,
quando la rivolta esplose
in Giudea,
e il timone dal padre ebbe
nella guerra che càlighe vide
empie calpestar Gerusalemme…
<>
se torno indietro
quando bet ha-mikdash…
– distrutto il Tempio
per la seconda volta –
ed ebbe per questo onori
ed ‘imperator’ fu detto
ed eterno trionfo ebbe
nell’arco di Vespasiano
e fu ‘tutor imperii’, lui,
– ironia amara –
revisore di giustizia,
lui, generoso ad Ercolano
oltre misura
e prodigo a Pompei,
lui, Tito,
‘amor et deliciae generis umani’…
<>
ai suoi generali, gli sguardi taglienti
piegati sul Tempio, ordinò
– l’alito del deserto in bocca –
e bruciò il loro passo,
fin nelle radici,
carnosi fiori e l’arancio.
Gettate le chiavi dai leviti
al cielo – che il dio le serbasse –
un respiro, gravido di deserto,
incendiò loro il domani…
<>
anche se fu tardi.
Portatori di buona novella
ormai lontani,
già bestie sacrificali
i pastori rimasti:
e ancora si ripeté quel corso
che riporta stellare il ciclamino,
zagare tornate ad estenuare
speranze e i soli ricordi … »
<>
«Ma tu che t’aggrappi a quella storia
che mai lascia le sue chiavi
né ti consola
quel ritesser suo senza fine…
<>
quando leggo quel che avvenne,
giù nel tempo,
sotto stendardi persiani
la ‘città’ lacera di nuovo
nel buio vento delle sabbie;
e su formose colline, intorno,
coperte di selvatica lavanda,
i bianchi castelli crociati;
e dietro le curde bandiere
di Salāh ad-Dīn crudele,
ariose, gonfie le tende saracene;
e ancora Timūrlenk musulmano,
i turchi discesi dall’Asia centrale;
e ancora,
e ancora vorrei che non fosse:
vorrei quel tempo fermare indietro
per dar tempo di tornare…
<>
e quando di nuovo sento
la strage d’Omar ed Al Aqsa,
le sacre moschee col Santo Sepolcro,
quando
di rader la spianata sento
per dar spazio al terzo tempio,
vorrei poter non più sentire…
ogni suono corrotto in rumore
<>
se m’accade,
come ora accade di vedere …
io vedo, ma cieca la retina:
mezzaluna fertile
che sempre insieme ha visto
habri pastori e le hebre tribu
e da lì passare la via della seta,
prima strada che tolse via barbarie»
<>
Quel vuoto di pensiero e dell’azione,
partita agli scacchi già finita!
o continuarla e fingerla infinita.
Cadrà Gerusalemme ancora?
Arabo, un vecchio
quanto il suo vecchio ulivo,
non abbiate timore, disse
a due fuggiaschi ebrei
nascosti nel fogliame:
le sue braccia li circondò
di compassione
e agli armati s’interpose:
troppo avete ucciso;
lontani voi, or che sono
sotto mia protezione
<>
duomo della Roccia,
sacro ottagono,
recinto nobile
della spianata dove
fu la terra abbandonata…
<>
khamsin di mezzo aprile,
vento da alte pressioni giunto,
egizio vento,
spinta in arabiche terre
la tempesta nera…
Ma poi è il maggio
d’un’egizia Maria,
maggio di Myriam,
ebrea, ed Ines,
la pura: mese più bello.
<>
L’araba folla
sui vigneti curvi
nel peso dei frutti:
un uragano,
a cancellar per sempre
intrusioni sulle colline
<>
Arrendetevi, gridano i vecchi
ai combattenti loro;
con l’arabo in pace si viveva.
Se c’arrendiamo,
torneremo a vivere
come fu sempre in pace.
<>
Gioca la luna tra i souks
con le ombre, scherzosa;
corde di kakabeh allacciano
danze dervisce, un’araba dabke,
le frenetiche hora,
e forse un zafeh:
mazel tov, yihiyeh tov
buona fortuna, tutto bene andrà;
alla vita, alla vita
lechayim.
Kaffiyeh e kippah girano,
girano insieme nei suoni
<>
Un medico che non lascia i malati
un ebreo, arabi malati.
<>
Fatale lamento del shofar:
una bandiera pende
sulla Torre di David.
È caduta, ancora caduta,
non conta per mano di chi.
Oh violenza,
destino d’un ‘genere’ maschio;
oh natura,
insostenibile impropria bellezza
<>
Indifferenza del mondo:
non chiesa, non laica guida
ebbe allora a protestare;
salvate le cristiane pietre,
non vita d’ebreo…
<>
han ciarlato soltanto,
non si sono mossi,
gli arabi alleati…
<>
Qui vennero dapprima a pregare
ora han preso la terra
ora han dietro l’arme…
<>
han voluto tornare,
lontano da quelli
che li vollero ai carnefici
e che ora, risospinti,
li voglion naufraghi
in mare.
Da una bocca all’altra
«Se guardo alle spalle del tempo
non vedo che sterminio e stragi
ma – come un teatro – viene incontro
solo un mondo d’immagini….»
<>
«Ma tu che t’aggrappi a quella storia
devi sapere che quel teatro è un’illusione,
epico o drammatico che sia,
e stampelle chiede d’immaginazione;
che un’azione, ad esser compresa,
per immagini – e non oggetti – va resa;
che tutto il peso d’un documento
trasmuta nell’immaginario;
e dell’happening finzione
è il suo reale: immagine d’azione.
Condividere è l’essenza del teatro;
ma qui più non servono i palliativi…»
<>
Con improvviso senso di paura
si desta un asin ‘n mezzo ai contendenti
e visto il disco tondo della luna
enorme sul deserto prende allora
a calci ‘n cul que’ contendenti e come
petardi e razzi faceli volare
nel cielo della luna ché in quell’or
passava sulle nubi lievi…
Volò l’armata saracena a quella
mosaica insieme al lungo assedio unite,
volò nel cielo della luna dove cose
finiscon perse in terra e per riprender
in ter’ di luna il senno perso in terra;
ma è lì che lottan ancora e si massacran
lasciat’ il lunatico mondo della terra
la terra di follia…
La luna ora guarda inquieta e l’ombra
s’increspa del fogliame di boscaglia
al vento e casca allora l’arme in mare,
giù nel meotico mare sottostante
e ruzzolaron cavalieri…
<>
S’addormentò di nuovo l’asinello
nel sonno di ragione avvolto, quando,
ridesto, apparve nuovo ancora l’astro
deserto in maestoso aspetto sulla
Arabia infelice…
A chi ‘l poter di prolungar la vita
oltr’ai confini che quel fato ha dato?
<>
Antifona d’un altro ciclo
un annuncio di liturgia:
Dio viene, avvento ora
o suo ritorno
nella fine della storia?
<>
Questo è luogo di sangue
dove nacque un popolo
dove fece il suo carattere,
dove prese indipendenza
e creò la sua cultura…
<>
Dov’era quel dio in quel giorno
d’Israele e Palestina,
che di sangue già grondava?
Dio viene
con teologico verbo?
Dio viene
nel verbo teologale?
È lui il Dio-che-viene?
Lui quel dio
che non se ne sta nel cielo?
Un venire di volontà che libera
da morte e libera dal male?
<>
Civiltà universale ha lasciato
quella terra di habri e di hebri.
Ora che son tornati nel sangue insieme
comunità uguali in quella delle genti:
non Stati, ma popoli uniti,
e l’avvenire dato
a leggi pari di due comunità
<>
Ah ribellione, tu forza
che vendichi la ragione
Un altro sguardo
Ombra di fanciulle
in riva al mare
Balbec, ma poi:
Eliopolis antica,
Baalbek
nella valle della Beqā’a
<>
Leggere la storia…
un favore per l’uno
aperto da partigiane
storie nostrane
che vedono impero
ovunque ed espansione;
ma resta sempre idea
di nazione.
Un favore per l’altro, ma,
coperto da libero pensare,
c’è dietro soltanto missione
che resta pur sempre
integrale redenzione
<>
Ma perché nella comunità
del medio oriente’,
non due statuti in un contratto,
privata la morale
ed intima, segreta religione,
ridotta l’etica a diritto
e quest’ultimo
ad un contratto?
<>
Disse Cesare per bocca di Brecht:
dove metton piede le legioni nostre,
più non cresce erba.
Ma era quest’erba
ch’eravamo andati a cercare
per fare il pane e
si conquistò deserto
con immensa spesa…
d’altronde
non c’è abito con tante tasche
quante nel mantello d’un generale.
<>
Dopo dodici anni, già allora
la guerra s’avviava alla fine.
Ventidue re i vinti, i più potenti,
e tanti i milioni assoggettati,
città e fortezze conquistate
dal Mar Rosso al Caspio
perché senza appalti in Asia
niente democrazia a Roma…