Oscar Oddi
La crisi economica esplosa nel 2008, considerata da molti osservatori come la più grande e devastante dai tempi della Grande Depressione del 1929 (che, non lo si dimentichi, fu veramente superata solo “grazie” alla Seconda Guerra Mondiale), ha di certo contribuito al rinnovato interesse verso il pensiero di Marx, che però già da qualche anno aveva di nuovo fatto la sua comparsa (accademica, editoriale e non solo), sintomo del fatto che la riflessione marxiana rimane imprescindibile per comprendere anche la nostra società attuale (moderna, tardo-moderna o post-moderna che dir si voglia). Questo volume (Aspetti del pensiero di Marx e delle interpretazioni successive, a cura di Mario Cingoli e Vittorio Morfino, Unicopli, 2011, pp. 540) si situa all’interno di quel percorso volto alla riattualizzazione delle tematiche marxiane, raccogliendo gli atti di un Convegno internazionale svoltosi presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca nel novembre 2006. Certo, Marx è ormai considerato un classico, ma lo è in modo particolare rispetto agli altri. Come scrive Mario Cingoli nella Premessa “Marx è un oggetto particolarmente difficile da staccare dalla contemporaneità; si è portati a considerare se e in che misura il suo pensiero sia “attuale”, possa aiutare per la comprensione-cambiamento del presente, quanto in esso sia “vivo” e quanto sia “morto”; in altre parole, Marx è un oggetto altamente “impuro”. E proprio questo, per altro verso, costituisce la sua specificità e il suo interesse”. Dunque, ogni sua rilettura non è mai “neutra”, e i numerosi saggi presenti in questa raccolta lo dimostrano una volta di più. Le stesse opere sono interpretate da angolature diverse, a volte opposte. Si veda ad esempio l’Ideologia Tedesca, lo scritto che la tradizione ha consacrato come quello in cui per la prima volta è esposta la concezione materialistica della storia. Luca Basso sottolinea come l’obiettivo polemico enunciato in essa da Marx (e Engels) sia costituito da una interpretazione della società civile-borghese “svincolata dai contesti e dai presupposti all’interno dei quali gli “individui reali” agiscono, e quindi incapace di cogliere (per riprendere la celebre espressione machiavelliana) “la verità effettuale della cosa” nella sua determinazione specifica, nella sua singolarità irriducibile ad un modello astratto, nel problema circostanziato che essa pone”. Ciò non vuol dire, ci avverte Basso, che nelle prime opere di Marx la storia fosse un aspetto trascurabile, il problema è che non riusciva ad essere il centro del discorso. In questo modo il rapporto individuo-società non veniva impostato a partire dai concreti rapporti esistenti, ma sulla base di un quadro categoriale astratto costruito sul concetto di Gattungswesen (ente generico), di derivazione feuerbachiana. Mancava quindi una distinzione sostanziale tra individuo e collettivo, costretto ad oscillare tra posizione individualista (con tratti di prometeismo) e posizione organicista. Al contrario, nell’Ideologia Tedesca, la prospettiva non è incentrata su un astratto Gattungswesen “ma su “individui reali”, inseriti in uno specifico momento storico e in una specifica struttura politica e sociale, e costantemente condizionati da tali contesti, ma, nello stesso tempo, senza essere mai pienamente “piegati” su di essi”. L’introduzione della categoria di divisione del lavoro, autentico filo rosso dell’opera, seppure da un lato è racchiusa nella prospettiva di una filosofia della storia, dall’altra schiude (anche se all’interno di una ambivalenza costitutiva) la possibilità dello sviluppo individuale. Basso non manca di evidenziare le contraddizioni e le difficoltà interne dell’Ideologia Tedesca (che, d’altra parte, è opera “work in progress”, non riducibile ad una sistematizzazione complessiva, come l’edizione critica delle opere di Marx e Engels conosciuta come Mega2 ha ormai dimostrato) che rendono affatto lineare il percorso delineato, ma nonostante ciò vi ravvisa una costante che attraversa tutta la riflessione marxiana: la realizzazione individuale, la valorizzazione delle capacità e facoltà dei singoli (temi che Basso ha proposto in modo organico nel libro Socialità e isolamento: la singolarità in Marx, Carocci, 2008, pp. 240). Nessun assorbimento individuale nella società, dunque, che però non vuol dire per Basso aprire a letture “liberali” di Marx, anzi critica in modo convincente il “marxismo analitico” (specie Jon Elster), che depotenziando la critica radicale di Marx alla società borghese ha completamente spoliticizzato tutto il discorso. Diversa è la lettura che propone Roberto Finelli. Dentro il suo impianto categoriale l’Ideologia Tedesca risulta viziata dalla presupposizione di un soggetto umano inteso come produttore che, tramite l’imposizione della divisione del lavoro, vede il continuo aumentare nella storia della sua potenza creatrice e produttiva, in una forma però sempre più alienata, dal momento che è consegnata a rapporti sociali fondati sulla scissione e la separazione. L’Ideologia Tedesca, quindi, pur avendo in modo esplicito come suo fulcro la storia del lavoro, e che per questo si vorrebbe materialistica, ha invece implicitamente come fondamento un soggetto che, potenzialmente universale, è costretto in attività sempre più parziali che lo espropriano e lo svuotano, alienandolo sempre di più dalla sua essenza originaria. Questa interpretazione dell’Ideologia Tedesca si situa all’interno di una visione generale dell’opera di Marx da parte di Finelli, che ravvisa in essa la presenza di due diverse teorie del conflitto. La prima la chiama teoria idraulica del conflitto o dello svuotamento-riempimento, centrata sui concetti di soggetto, libertà ed alienazione. Attraverso il rovesciamento di soggetto e predicato, concepito da Feuerbach per comprendere e criticare la religione, questo primo Marx critica il sistema hegeliano, spiegando in questo modo lo Stato politico, dove il primato della società civile, con le sue attività, soccombe all’universalismo burocratico dei pubblici poteri, ed anche, con i Manoscritti economico-filosofici del ’44, l’ambito economico e l’alienazione del lavoro, in cui il primato della capacità produttiva dell’essere umano si rovescia nel primato del denaro. Ciò vuol dire che, come in Feuerbach, il soggetto è già ricco in origine, per sua natura già libero e universale, perché solo questa condizione permette logicamente di alienarsi nei suoi prodotti. Per Finelli la fretta con cui Marx esce dall’hegelismo (dal soggetto spiritualistico di Hegel), lo consegna alla visione fusionale e collettivistica di Feuerbach, “impedendogli di rilevare e di riflettere su quell’istanza, pure così fortemente presente nella filosofia hegeliana dell’alterità come alterazione di sé”. La stessa Ideologia Tedesca, come appunto rilevato sopra, lungi dal rappresentare qualsivoglia rottura con la riflessione marxiana precedente, è per Finelli completamente inserita all’interno di questa prima teoria di Marx, in cui dentro il soggetto collettivo è assente l’articolata differenziazione dei vari individui, tanto che la singolarità differenziata è vista esclusivamente come espressione di egoismo. Proprio questa mancanza di differenzazione individuale dentro il collettivo rappresenta il disinteresse di questo Marx per le condizioni del formarsi e consolidarsi della coscienza politica del proletariato. La seconda teoria del conflitto che Finelli ravvisa in Marx la definisce dello svuotamento del concreto da parte dell’astratto. Essa si basa su un’originale lettura dei Grundrisse e del Capitale, opere che, parimenti, e forse ancor di più dell’Ideologia Tedesca, hanno dato vita a molteplici piani di interpretazione, come alcuni interventi presenti nel volume che prenderemo in considerazione dimostreranno ancora una volta, a conferma ulteriore dell’assenza di unicità negli studi del pensiero di Marx, iniziale chiave di lettura utile per districarsi nei numerosi sentieri tracciati dai contributi che compongono la raccolta. Per Finelli ora Marx si confronta con il Capitale come nuovo soggetto storico costruttore integrale della società moderna. Il lavoro non è più una categoria legata all’essenzialismo del genere umano ma diviene categoria generica della storia, lasciando spazio, appunto, a quel soggetto storico per eccellenza della modernità “che mette in moto, organizza e intenziona il lavoro concreto di mediazione tra esseri umani e natura e di riproduzione dell’intera società, e che è il Capitale”. Un soggetto quindi non antropomorfo ma impersonale e astratto, come è una ricchezza di natura solo quantitativa, che ha come unico scopo di vita e di riproduzione l’aumento, tendenzialmente illimitato, della propria quantità. In questo schema, in cui per Finelli Marx recupera elementi dell’analisi hegeliana coniugati originalmente a modo suo, è il confronto tra astratto e concreto a formare il nucleo della dialettica marxiana, che spiega sia il fatto che nella sua storia di costanti innovazioni tecnologiche il capitalismo produce e riproduce il mondo concreto attraverso la codificazione ed astrazione dei processi lavorativi, sia il fatto che la realtà del conflitto di classe dentro l’ambito produttivo mediante l’uso imposto ed amministrato della forza-lavoro si dissimuli nella sfera dell’apparire, cioè in quella della circolazione e del mercato, come un libero scambio di cose e volontà tra individui presupposti come soggetti liberi. Ma, si diceva, molteplici sono le “ricostruzioni” dell’opera principale di Marx, e in questa raccolta è presente quella di Jacques Bidet. Per il filosofo francese solo in apparenza la questione dello Stato è assente nel Capitale, in realtà è presente sin dall’inizio, occupando quasi totalmente il capitolo 3 del Libro I (quello intitolato Il denaro ossia la circolazione delle merci). Rilevando come i commentatori non abbiano prestato attenzione a questo punto, Bidet afferma come invece in questo capitolo si scoprano molti concetti politici della modernità. Vi sarebbero esposte le condizioni statali di un ordine mercantile. Dunque si tratterebbe di una teoria dello Stato, non di quello capitalista ma di quello mercantile. Questo Stato non esiste, è un’astrazione iniziale. L’argomentazione teorica inizia dal momento più astratto, cioè dal concetto della forma mercantile di produzione. Il capitolo 3 della Libro I espone quindi la forma di Stato che suppone. Non viene proposta la “teoria strutturale dello Stato, quella che è supposta dalla struttura di classe capitalista. Ma solamente una teoria metastrutturale dello Stato, quella che è supposta dalla metastruttura, dal “presupposto posto” della forma capitalista di società, ossia, secondo Marx, la forma mercantile di produzione”. Bidet polemizza fortemente con quegli interpreti che fanno della circolazione semplice l’oggetto del capitolo I ( La merce), poiché questo impedirebbe di pensare la relazione fra mercato e capitale. In questo capitolo sarebbe esposta la forma pura di una produzione mercantile secondo il suo concetto, il concetto cioè di una produzione sociale fondata sulla relazione di mercato tra produttori che si considerano liberi e uguali. In questo modo essi sono tra loro in una relazione di concorrenza dentro ogni settore produttivo e tra i vari settori. E’ questo per Bidet l’oggetto della teoria marxiana del valore, che formula la logica sociale della produzione dei valori d’uso nella forma del mercato. Marx però non riuscirebbe a formulare in modo corretto il problema della metastruttura, di cui pure è il geniale inventore. Bidet ravvisa il suo errore nella forma teleologica del “grande racconto”, che procede dal capitalismo al socialismo andando dal mercato all’organizzazione concreta. Marx è stato geniale nell’aver posto al centro dell’analisi queste due categorie fondamentali del mercato e dell’organizzazione, ma sarebbe caduto in errore nel mettere il mercato all’inizio e l’organizzazione alla fine, quando questi invece, dice Bidet, sono i due poli del presupposto razionale e ragionevole costitutivo della metastruttura della modernità. Ecco quindi scaturire la necessità per Bidet di ricostruire il “Capitale” (in un modo controverso, sviluppato analiticamente nel libro recentemente uscito in edizione italiana Il Capitale. Spiegazione e Ricostruzione, Manifestolibri, 2011, pp. 288), in cui il segno della modernità non starebbe nel mercato ma nella metastruttura più complessa che articola le due mediazioni (il mercato e l’organizzazione), dove occorre sviluppare una teoria della moneta che al tempo stesso la intenda come merce e come non merce (poiché ad una merce per svolgere questo ruolo non basta essere uniforme e divisibile, ma deve essere capace di portare un’effige che assicuri in essa la presenza reale della forma organizzata dello Stato), e dove infine occorre una teoria del feticismo applicabile sia all’organizzazione che al mercato. Anche il contributo di Etienne Balibar nasce da una riflessione sul Capitale, in modo particolare sulla moneta e sul feticismo delle merci. Quest’ultimo, nota Balibar, non sta a margine del testo ma il più vicino possibile al suo centro dialettico, là dove si trova la mediazione nel modello hegeliano, che qui Marx seguirebbe per l’essenziale. Così, considerare la teoria del feticismo della merce come un momento necessario della dialettica della forma-merce, del passaggio cioè della merce alla moneta, appare seducente da un punto di vista della formale organizzazione della Sezione I del Capitale, eppure, nota l’ex allievo di Althusser, lascia sussistere molte difficoltà nell’organizzazione del testo. In primo luogo nell’articolarsi di questa dialettica rispetto alla totalità dell’opera, problema che ha scatenato discussioni che durano da più di un secolo, visto anche i vari progetti complessivi del Capitale lasciatici da Marx; in secondo luogo una difficoltà presente nel rapporto stesso della teoria del feticismo con la questione della moneta. Attraverso lo studio della doppia terminologia usata da Marx per indicare la merce, da un lato quella del segreto, o dell’enigma da svelare o di cui si tratta di scoprire il significato razionale, dall’altro quella del velo mistico, di cui bisogna capire gli effetti di suggestione sugli animi umani, Balibar arriva a dubitare del fatto che Marx sia riuscito a operare un passaggio dialettico dalla merce al denaro (per dirla nei termini degli economisti, dalla teoria del valore a quella della moneta). La domanda di fondo che Balibar pone come base di studio e riflessione è così formulata: “che differenza teorica risulta dall’aggiunta, nella “genesi della moneta”, di una critica dell’illusione feticista, essenzialmente incarnata dal simbolo monetario e dai suoi poteri immaginari, e in che misura si deve concludere che, senza questa “illusione”, che Marx paragonava a un “delirio religioso”, la forma economica stessa non potrebbe funzionare?”. Ma le riflessioni che l’opera di Marx stimola sono le più diverse. Fabio Frosini si concentra sul rapporto che il pensatore di Treviri ha avuto con la politica. Riprendendo e interpretando a suo modo la lezione gramsciana, Frosini non ritiene possibile disgiungere in Marx filosofia e politica. Tutto l’itinerario marxiano è letto all’interno del concetto di praxis, consistente nell’individuare un terreno nuovo, l’unità di teoria e pratica, filosofia e politica, interpretazione e trasformazione, impossibile da teorizzare, e che al contrario va “praticato dislocando il luogo del pensiero, rivoluzionando lo statuto della filosofia”. L’unità di teoria e prassi è possibile davvero solo se si acquista la piena consapevolezza del fatto che “il “pensiero” del filosofo guadagna la “realtà” solo quando diventa movimento politico reale, e viceversa che i soli “problemi” reali, che vanno pensati fino in fondo, sono quelli nascenti nella politica di massa”. Frosini afferma che Marx non sempre è all’altezza di questa sua posizione, e inscrive, suscitando invero più di un dubbio, il Capitale tra le opere in cui si palesa tale “caduta”, in quanto in essa “la verità è garantita dallo schema dialettico, cioè dalla totalità come compresenza degli opposti nella teoria come “scienza” “, esplicidando così una lettura di Marx anti hegeliana (si veda il suo lavoro Da Gramsci a Marx. Ideologia, verità e politica, DeriveApprodi, 2009, pp. 126 in cui sviluppa questa impostazione). Si concentra invece sull’accumulazione originaria il contributo di Massimiliano Tomba (che sull’argomento ha curato, insieme a Devi Sacchetto, il volume La lunga accumulazione originaria. Politica e lavoro nel mercato mondiale, Ombre corte, 2008, pp. 208; ma cfr. anche Strati di tempo. Karl Marx materialista storico, Jaca Book, 2011) che polemizza con quanti, sulla base del celebre Frammento sulle macchine dei Grundrisse, hanno enfatizzato lo sviluppo dei mezzi di produzione, visti come portatori intrinseci della possibilità di liberazione. Per Tomba “i mezzi di produzione hanno un valore d’uso intrinsecamente capitalistico in quanto sono finalizzati all’aumento della forza produttiva del lavoro e alla sua intensificazione. La tecnologia che essi incorporano è segnata da quello stesso valore d’uso. Macchine e scienza non sono neutrali, ma non sono nemmeno attraversate da un’intrinseca ambivalenza che ne racchiude splendide possibilità di liberazione. Esse, in sé, non racchiudono un solo atomo di liberazione. Ambivalente può essere il loro uso, quando è diretto contro il capitale. Contro la sua valorizzazione”. In realtà i Grundrisse sono visti da Tomba come una fase di riflessione di Marx non ancora pienamente matura, se li si considera alla luce di quella successiva incentrata sul Capitale, per cui emergerebbe tutto lo scarto tra le due fasi di elaborazione. Dopo aver analizzato sul piano storico le fasi dell’accumulazione originaria, sempre seguendo l’itinerario marxiano, Tomba conclude, anche grazie alla lezione di Daniel Bensaïd (purtroppo recentemente scomparso), che il modo di produzione capitalistico può sì essere descritto come tendenza, ma questa va sempre colta nella contingenza, nel complesso delle controtendenze, essendo quest’ultime le “sole a fare veramente la tendenza”. Le influenze culturali assorbite da Marx sono state oggetto di grandi dibattiti, e Vittorio Morfino si sofferma su quella di Spinoza. Preliminarmente critica chi vede una continuità tra Spinoza e Marx (attraverso un giudizio molto severo del libro di Margherita Pascucci La potenza della povertà. Marx legge Spinoza, Ombre corte, 2006, pp. 137, accusata finanche di scorrettezze filologiche), per poi proporre tre diversi livelli della questione del rapporto Marx-Spinoza: quello storiografico, quello della storia del marxismo, quello strettamente teorico. Rispetto al primo livello l’analisi conduce Morfino a sostenere l’indimostrabilità di qualsivoglia influenza diretta di Spinoza su Marx, eccetto in prossimità del Quaderno Spinoza, per il resto compare come un riferimento tra gli altri, in modo spesso generico e mediato dalla lettura di Hegel, mai nella sua complessità reale e profondità teorica. Riguardo al secondo livello Morfino descrive l’uso di Spinoza nel marxismo, soffermandosi molto su quello fattone da Althusser, a cui fornisce “strumenti concettuali per pensare il marxismo al di fuori della tradizione hegeliana”, e da Toni Negri, che pure usa Spinoza per fondare un marxismo non hegeliano, non dialettico, ma che, differentemente da Althusser, si concentra sullo Spinoza politico, rilevando nei concetti di potenza e di moltitudine strumenti per pensare una nuova soggettività rivoluzionaria. In questo modo Negri può individuare nella linea Machiavelli-Spinoza-Marx una metafisica della potenza in opposizione alla metafisica del potere come ideologia. Infine, rispetto al livello teorico, Morfino, riprendendo la lezione althusseriana, propone “di mettere in funzione questa fabrica Spinoza-Marx nella costruzione di un’ontologia della relazione”, invertendo però il rapporto sostanza-relazione, pensando questa relazione “sotto il primato di un materialismo dell’aleatorio per evitare di cadere in una concezione della relazione di carattere leibniziano o hegeliano”, ma questo materialismo dell’aleatorio deve sottostare a sua volta sotto il primato della temporalità plurale, evitando così di cadere in una “filosofia dell’evento, del caso o della libertà, filosofie della discontinuità radicale”. Un ultimo contributo si vuole segnalare tra i molti che compongono il volume (tutti di notevole interesse alla cui lettura si rimanda gli interessati), quello di Riccardo Bellofiore. Egli traccia prima un sintetico bilancio storico del dibattito sulla teoria economica di Marx, da quello della Seconda e Terza Internazionale, in cui la teoria del valore era letta come una teoria della determinazione dei rapporti di scambio di “equilibrio”, mentre la dinamica capitalistica era discussa in base alla ineluttabilità o meno della tendenza al crollo finale, fino al più recente in cui si sono formate nuove interpretazioni del problema del valore e della trasformazione grazie a economisti che hanno dato importanza al ruolo del denaro in Marx (da quelle di Duncan Foley e Gérard Duménil, che Bellofiore ritiene stimolanti, a quelle che hanno dato vita alla teoria del Temporal Single System Interpretation, ritenute al contrario rigide nel cercare di ristabilire una posizione ortodossa); poi, riprendendo alcuni spunti dalle riflessioni di Augusto Graziani e Claudio Napoleoni, illustra (con una analisi ricca e non riassumibile in poche battute) la sua teoria monetaria del (plus)valore, una rilettura della teoria del valore marxiana, basata su uno studio critico di Marx che Bellofiore pensa non possa limitarsi alla semplice riscoperta filologica volta al recupero di un ipotetico pensiero marxiano puro e incorrotto, che “ha come suoi snodi portanti il lavoro vivo come sorgente del neovalore, e lo scandalo dell’”ipostasi reale” che si radicalizza nella sussunzione reale del lavoro al capitale. Non varrebbe però nulla se non si prolungasse in una teoria della crisi fuori da un’ottica crollista, in grado di aprire ad una disanima del capitalismo contemporaneo nelle sue continuità e discontinuità con le fasi precedenti”. Questa ottica porta Bellofiore ad avere un’idea precisa della crisi che attanaglia oggi il capitalismo, che produrrebbe una “centralizzazione” senza “concentrazione”, per cui l’unità tecnica di produzione spesso si riduce mentre il mondo del lavoro si frantuma e si disperde. Però, pur in assenza di concentrazione, il comando tecnico, finanziario e produttivo non smette di centralizzarsi. Per uscirne Bellofiore respinge sia l’incompatibilismo salariale che il disavanzo di bilancio, proponendo “una analisi di classe che si prolunghi in un intervento di politica economica che ponga immediatamente in primo piano la questione del “cosa” e del “come” produrre. Una ridefinizione strutturale dell’offerta e della domanda, che assuma il punto di vista del lavoro come centrale”.