di Cristina Corradi
Nel suo ultimo, corposo saggio (Strati di tempo. Karl Marx materialista storico, Jaca Book 2011) Massimiliano Tomba ricostruisce l’itinerario marxiano – dalla dissertazione di dottorato sull’atomismo antico all’Ideologia tedesca, dai Grundrisse al confronto con i populisti russi – utilizzando come filo conduttore la maturazione del “materialismo storico”. L’espressione – ci ricorda l’autore – non è di Marx ma di Engels che la usa, congiuntamente alla dizione “socialismo scientifico”, con intenti divulgativi. Obiettivo del libro non è, tuttavia, la ricostruzione filologica del vero materialismo pratico o materialismo comunista di Marx, da contrapporre ai fraintendimenti del marxismo novecentesco. Esso esplora piuttosto la pluralità di significati del materialismo marxiano per ricavare dai testi una concezione della storia che sovverte quella sedimentata nel marxismo della II e della III Internazionale: una concezione più rispondente alla temporalità specifica del conflitto sociale e più consona alle esigenze di un’autonoma politica di classe.
In Italia il materialismo storico non ha mai goduto di buona fama: dal dibattito di fine Ottocento tra Labriola, Croce, Gentile e Sorel, la tendenza prevalente è stata quella di ridimensionare la concezione materialistica della storia, disconoscendone la portata scientifica, attenuandone il valore metodico o denunciando l’intima contraddittorietà di una teoria che affermi il primato dell’essere sulla coscienza. Nei Quaderni del carcere Gramsci si spinge a sostituire il materialismo storico con una filosofia della prassi che è chiamata a indagare la formazione della soggettività politica di classe. Nel solco di un atteggiamento svalutante nei confronti del materialismo storico si sono iscritte le principali correnti marxiste del secondo dopoguerra: pur nella loro rivalità, lo storicismo e l’operaismo hanno considerato la struttura economica un fastidioso intralcio alla celebrazione del primato della politica e della prassi rivoluzionaria. Gli storicisti hanno ridotto il materialismo storico ad una teoria unilineare e progressiva della storia. Il critico più rigoroso di questa concezione, che è servita peraltro a legittimare la strategia della democrazia progressiva, è stato Bordiga. Egli comprende che la storia va pensata per fratture, biforcazioni, arretramenti, catastrofi: il corso evolutivo omogeneo, infatti, fa smarrire il senso dell’opposizione e suggerisce una concezione del socialismo come portato dello sviluppo illimitato delle forze produttive, senza rottura qualitativa rispetto alle forme mercantili, salariali e aziendali.
Meno vigorosa è risultata la posizione di Della Volpe e dei suoi seguaci che, in polemica con il materialismo dialettico di stampo sovietico, si sono richiamati al materialismo storico del giovane Lenin, per porre l’accento sul realismo gnoseologico e su una sociologia scientifica capace di estendere al campo dei fenomeni sociali il metodo sperimentale dell’astrazione determinata. La scoperta, alla fine degli anni ’60, che l’astrazione determinata lasciava fuori l’intera tematica del feticismo, del valore e del lavoro astratto, ha provocato la disintegrazione della scuola, che è rimasta prigioniera di un concetto positivista di scienza, che scava un abisso tra fatti e valori, tra ragione conoscitiva e ragione pratica.
Negli anni ’60, Panzieri e Fortini hanno avvertito l’esigenza di emancipare il marxismo da una concezione progressista della storia. Ma un pezzo di operaismo si è perduto nei meandri della cultura della crisi; un altro pezzo ha tradito la lezione derivante dalla non neutralità dello sviluppo delle forze produttive.
Negli anni ’70 è esplosa la crisi dello storicismo marxista, che è stato attaccato in quanto filosofia della storia orientata a disegno che secolarizza la teodicea cristiana. A difesa del materialismo storico si sono schierati in pochi: tra questi, Luporini, Fortini e Macchioro, preoccupati che la rinuncia ad una comprensione unitaria e strutturata del reale avrebbe comportato la riabilitazione di specialismi, la perdita di profondità storica, la caduta di prospettiva strategica. Le loro preoccupazioni si sono rivelate fondate: la liquidazione del materialismo storico ha coinciso con il trionfo di un pensiero debole, autoreferenziale, derealizzante, che ha occultato gli antagonismi e ha rimosso il peso dei rapporti di forza. Ermeneutica, postmodernismo e neokantismo hanno oscurato ogni pratica teorica legata alla critica marxiana dell’economia e della politica.
Ancora oggi, in una fase di grande crisi e di accesa conflittualità intercapitalistica, post-operaisti, post-fordisti, cantori dell’immateriale, ma anche marxisti di formazione dialettica, sono convinti che il materialismo storico sia un arnese vecchio e inservibile, di cui è bene disfarsi per rivolgere l’attenzione altrove: all’analisi del capitale, all’antropologia, alla psicoanalisi o magari alla geopolitica. Ma la critica dell’economia politica e la riproposizione della lotta per il comunismo possono fare a meno di una teoria della storia? Oppure la mancanza di una teoria della storia è destinata a divaricare le due prospettive?
Il libro di Massimiliano Tomba ha almeno tre grandi meriti: contro la vulgata corrente tenta di riscattare il materialismo storico, liberandolo dai fantasmi del passato. Esso non è deposto né ripetuto nelle formule più note ma è riconfigurato, riattivando contributi eterodossi. L’operazione è lungimirante: eludere la problematica del materialismo storico significa, infatti, precludersi la possibilità di fare i conti con una filosofia riformista, eurocentrica e colonialista della storia che può tornare a riproporsi anche sotto spoglie postmoderne. La lettura del materialismo storico, come storiografia politica che prende parte al conflitto sociale e concepisce se stessa come parte della lotta di classe, si ricongiunge inoltre alla migliore tradizione marxista. Si pensi al materialismo storico di Panzieri e Fortini: una pedagogia politica che insegni a esplicitare una linea di classe, a individuare linee conflittuali laddove il pensiero dominante celebra armonia, è essenziale per dare sostanza alla distinzione altrimenti labile e incerta tra destra e sinistra.
La lettura classista del materialismo storico contrasta, infine, la divaricazione, tornata recentemente di moda, tra il Marx scienziato e il Marx rivoluzionario. Dopo la crisi scoppiata nel 2007, infatti, anche nell’ambito delle oligarchie dominanti si è imposta la riscoperta del Marx economista, analista degli squilibri capitalistici, a condizione però che sia separato dal Marx politico, sciagurato utopista, e sia isolato dalla storia del movimento operaio.
Lavorando sul testo, Tomba mostra in concreto che il materialismo storico non è esauribile in un modello empirista di scienza della società, che neghi forza storica alle ideologie e all’immaginario collettivo, né in una teoria della storia che prescriva una successione obbligata di modi di produzione e individui il motore della trasformazione sociale nella contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione. Il materialismo storico non è necessariamente una forma di illuminismo, di progressismo e di laicismo: la lotta tra comunismo e capitalismo, come aveva capito Bordiga, non può essere inquadrata secondo gli schemi ideologici con cui la borghesia ha combattuto contro l’aristocrazia feudale.
Nell’ereditare la tradizione più nobile dell’operaismo – quella fedele alla teoria del valore, al primato della produzione sulla circolazione, alla lettura di classe dei fenomeni sociali – Tomba mostra che non è necessario rivolgersi al pensiero reazionario per attraversare la cultura della crisi: Marx stesso ci fornisce gli strumenti per capire che il concetto moderno di progresso serve a esorcizzare il pericolo della rivoluzione sociale.
Mettendo a frutto la lezione di Fortini, che sollecitava i comunisti ad appropriarsi del concetto di tradizione e a considerare il marxismo in termini di sapienza oltre che di scienza, Tomba sceglie la via del riscatto e della rivitalizzazione del passato. Il suo discorso non è solo teorico, ma è gesto politico: sposta il punto di osservazione, svela orizzonti occultati, per liberare la tradizione marxista da un immaginario segnato dalla sconfitta e per ricongiungerla con i conflitti sociali del presente. I messaggi nella bottiglia lanciati negli anni ’90, che invitavano a proteggere e a portare in salvo le verità più significative del comunismo novecentesco, sembrano aver trovato dei destinatari. Anche per Tomba, dunque, la tradizione non è arma da lasciare ai tradizionalisti: il passato deve essere vendicato, non liquidato. Il sentiero nichilista della rimozione e dell’oblio è, infatti, partecipe dell’immaginario dominante. Chi elogia la perdita di memoria storica – scrive Massimiliano – è complice, consapevolmente o inconsapevolmente, della distruzione di storia collettiva operata dall’ultima rivoluzione del capitale.
Nella prima sezione, che si conclude con una splendida appendice sul Diciotto Brumaio, vengono passati in rassegna gli scritti giovanili di Marx. Il materialismo si rivela essere anzitutto un metodo di lavoro che, intrecciando storia e politica, propizia una serie di scoperte: la non autosufficienza della filosofia; la crisi quale fattore costitutivo e non congiunturale della modernità; i limiti dell’emancipazione liberale; la rivoluzione sociale quale risposta al problema del terrore e dell’ipostatizzazione del politico; la ricerca di comunicazione tra intellettuali e classe lavoratrice per trasformare la società. Alcune acquisizioni sono definitive: il comunismo della singolarità, alternativo all’individualismo e all’organicismo; la concezione dello Stato, quale strumento di concentrazione del potere contro diritti, proprietà, consuetudini comuni, quale monopolio della violenza teso a neutralizzare il conflitto di classe.
L’acquisizione più innovativa e irrinunciabile di Marx – sottolinea Tomba – è però la scelta di un elemento materiale, la sofferenza dei corpi storpiati e delle individualità soffocate, quale punto di osservazione sulla modernità capitalistica. E’ questo il fondamento di una storiografia per la politica e per la critica dell’economia che prende parte al conflitto sociale e concepisce se stessa come intervento nella lotta di classe. Il materialismo storico – scrive Tomba – non ha a che fare con la rappresentazione, sia essa materialista o idealista, ma è piuttosto una modalità pratica di intervento nella storia. Non mira a predire il corso degli eventi, ma a lottare contro la mancanza di futuro e contro la chiusura del passato. Non è una teoria della rivoluzione valida per ogni situazione, ma un metodo che consente di distinguere la temporalità lineare e omogenea della rivoluzione liberale dalla temporalità discontinua e plurale della rivoluzione comunista.
Il materialismo storico non ambisce a fornire una rappresentazione obiettiva e imparziale e a enucleare presunte leggi della storia: la pretesa di fornire una descrizione neutrale degli eventi, che prescinda da un punto di vista particolare, è ideologica. Il materialista storico invece, prendendo parte per un soggetto in lotta, mira a delineare campi di forze, a riattivare possibilità barrate del passato, a suscitare nuovi inizi. La rivendicazione di parzialità non implica la negazione della verità ma il mutamento del suo statuto: essa non risiede nella corrispondenza dell’oggetto al concetto, bensì nell’apertura di possibilità di liberazione che si schiudono nell’interruzione del continuum storico, nella frattura del tempo del dominio.
Nella seconda sezione, Tomba mostra che lo spostamento di prospettiva verso la corporeità vivente del lavoratore e la critica del valore d’uso capitalistico della scienza e della tecnica moderna consentono a Marx di passare definitivamente dalla prospettiva del progresso e delle sue ambivalenze a quella dell’alterità, da un materialismo storico della contraddizione a un materialismo storico della differenza.
Nel Capitale, dove abbandona la prospettiva della circolazione per scendere negli inferi della produzione, Marx svela l’ingiustizia assoluta, non risarcibile dal diritto e dal denaro: il consumo della corporeità vivente del lavoratore, costretto a un lavoro nocivo e ripetitivo. La fantasmagoria della merce rinvia al fatto che il capitale non produce in vista della soddisfazione dei bisogni, ma produce il bisogno di avere bisogni. Il dominio dell’astratto, fondato su un lavoro senza qualità, svuota infatti il valore d’uso e atrofizza la capacità d’esperienza. Se il modo di produzione capitalistico sviluppa le forze produttive distruggendo le fonti della ricchezza, l’alternativa – osserva Tomba – non può essere costruita lavorando sulle ambivalenze che ne orientano il corso. Se il carattere illimitato e indefinito del progresso è il rovescio espressivo della dismisura del processo di valorizzazione, l’alternativa non va cercata sul tempo storico della modernità capitalistica ma nelle deviazioni rispetto alla linea: essa non è davanti a noi, ma alle nostre spalle.
Tomba argomenta che la concezione del presente storico come coesistenza di tempi differenti trova fondamento nel Capitale, dove il concetto di storia universale si rivela essere il prodotto della nuova temporalità del lavoro socialmente necessario. Sul mercato mondiale, infatti, il capitale mette a profitto i differenziali di produttività, di salario, di intensità di lavoro, sincronizzando, attraverso il valore, forme diverse di sfruttamento, dal lavoro schiavistico al lavoro creativo.
Il tentativo marxiano di pensare una temporalità altra rispetto alla temporalità processuale e astratta del capitale diventa ancora più esplicito negli ultimi studi sulle società primitive, che relativizzano gli istituti della modernità capitalistica e mostrano la possibilità di imboccare vie diverse da quelle intraprese nell’Europa occidentale. Il confronto con i populisti russi convince Marx del fatto che la comune agricola può essere cellula di nuove relazioni sociali, può schiudere una possibilità di emancipazione su base comunitaria, alternativa alla civilizzazione capitalistica. Ne consegue che la storia va concepita come compresenza di strati temporali sovrapposti, dove l’arcaico non è condannato a perire ma può dare origine, nell’attrito con altri strati di tempo, ad una nuova formazione sociale.