L’individualità dei corpi: Descartes e Hobbes.

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Francesco Toto

(abstract. This article investigates the opposing solutions provided by Descartes and Hobbes on the issue of human individuality. Both solutions need to be understood through the physical and metaphysical problem that both Descartes and Hobbes share: that is  the problem of ‘individual bodies’. Being confronted with this issue, the two thinkers face similar difficulties. The hypothesis maintained here is that the removal of the theoretical obstacles arising from the issue of the uniqueness of the extended substance – and the consequent impossibility of conceiving the existence of individual bodies – allows Descartes, and no less Hobbes, to elaborate a conception of the human being as a separate field that is distinguished from the rest of nature.)


Il presente lavoro si basa essenzialmente sulla lettura di due testi. Da una parte le cartesiane Meditationes de prima philosophia, e dunque di un’opera essenzialmente rivolta alla fondazione metafisica, prima ancora che matematica, della certezza delle scienze fisiche. Dall’altra l’hobbesiano De corpore, testo che assume la fisica al rango di filosofia prima, e che non a caso nel 1655 viene presentato da Hobbes come la Sectio prima di quegli stessi Elementa philosophiae di cui già nel 1642 aveva lasciato circolare la Sectio tertia (il De cive): la parte vale a dire non già cronologicamente, ma logicamente “prima” di un sistema che proprio su un fondamento fisico si propone di ricostruire gnoseologia, antropologia e morale (della quale la politica sarebbe ancora una parte) come altrettante specificazioni di una scienza della natura unitaria.  Ciò che ci sforzeremo affatto di mettere a fuoco, qui di seguito, non sarà affatto la complessa influenza che la lettura delle opere cartesiane, dalla Diottrica alle Passioni dell’anima, ha potuto esercitare sulla lunga e controversa gestazione del sistema hobbesiano, ma, assai più modestamente, alcune analoghe difficoltà cui la trattazione cartesiana e quella hobbesiana vanno incontro, a partire da presupposti condivisi, nella tentata concettualizzazione del problema dell’individualità dei corpi. In questo senso, quello che si presenta costituisce meno un capitolo di storia delle idee, sul quale graverebbe l’onere di contestualizzare e di spiegare le ricorrenze e le analogie tra i due testi, che la messa in scena di un semplice dittico concettuale, nel quale i tratti delle figure si riecheggiano bensì costantemente, e nel quale lasceremo però all’intelligenza del lettore l’osservazione e l’apprezzamento del loro implicito dialogo.

Ci sembra tuttavia doveroso dire due parole sui motivi che ci hanno spinti a questo accostamento. Il nostro proposito iniziale era quello di concentrarci, in una prospettiva schiettamente antropologica, sul concetto di individualità all’interno dell’Etica di Spinoza. Nel necessario lavoro sulle fonti spinoziane, ci ha stupito l’opposto estremismo col quale Cartesio ed Hobbes sembravano identificare l’individualità dell’uomo il primo a partire dall’immediata coincidenza della mente con sé stessa, che esclude per principio qualunque mediazione del Sé con l’Altro da sé, e il secondo non già nella sua organizzazione biologica, come si sarebbe propensi a credere sulla scorta del diffuso pregiudizio di un individualismo hobbesiano, ma nella dimensione, tutta relazionale, del reciproco riconoscimento, che proprio al contrario esclude ogni indipendenza del Sé di fronte all’Altro.

Della correttezza di questa impostazione, nonché della sua originalità almeno per quanto riguarda Hobbes, siamo tuttora convinti, e speriamo di poterne più adeguatamente rendere conto in un’altra occasione. Procedendo nell’analisi dei testi, però, ci si è rapidamente palesata sia l’impossibilità di separare la tematica specificamente antropologica dai suoi più generali presupposti ontologici, e più specificamente dalla teorizzazione dell’universo materiale, sia una radicale irriducibilità della posizione spinoziana rispetto a quella delle sue fonti. Per quanto a malincuore, nelle pagine seguenti ci siamo allora decisi da un lato a portare in primo piano il versante meramente fisico della questione dell’individualità, e dall’altro, per via della loro paradossale vicinanza, a stringere il discorso sulla sola coppia Cartesio-Hobbes.

Ci è parsa infatti non indegna d’attenzione, e degna anzi di una riflessione separata, autonoma, la strana circostanza in forza della quale le opposte soluzioni fornite da due tra i massimi pensatori del ’600 al problema dell’individuazione umana non emergono se non sullo sfondo di una comune problematica teoretica, grazie alla rimozione delle difficoltà (anch’esse in larga parte condivise) legate a quell’implicita affermazione dell’unicità della sostanza materiale che sulla base di una bizzarra deformazione prospettica si sarebbe quasi tentati di considerare come come una sorta di spinozismo ante litteram: rimozione che sola consente, e ad Hobbes non meno che a Cartesio, di sfociare nella costituzione dell’uomo come un dominio distinto rispetto alla restante natura. Come è possibile, in effetti, che proprio quegli autori per bocca dei quali il pensiero europeo rivendica a sé l’arduo compito di ricondurre ad unità, sotto il vessillo della meccanica, l’intera molteplicità di discipline specialistiche in cui la conoscenza era dispersa; nei quali è proprio la scienza dei corpi, ossia della materia in movimento, a conquistare un ruolo egemone tra le scienze: com’è possibile, dicevamo, che proprio in questi stessi autori, nei quali il mondo della materia soppianta quello delle forme come oggetto della scienza, e le cose terrestri sono poste sullo stesso piano ontologico ed epistemologico di quelle celesti, la questione centrale dell’individualità dei corpi sia oggetto di una rimozione che consente certo, da una parte, di porre la mente umana al centro dell’organizzazione cognitiva della natura, ma che dall’altra, visto che la natura conosciuta diventa un prodotto della mente umana, costringe a pensare l’identità umana, nella sua qualità essenzialmente mentale, come alcunché di irriducibile ad un dato naturale?

Ma per rispondere a questa domanda, rivolgiamoci finalmente alla lettura dei testi.

1.   Cartesio.

La rarità dei luoghi che direttamente affrontano la questione dei corpi può sembrare strana in un’opera come le Meditationes, tutta tesa a fondare la possibilità di un incontro tra pensiero e realtà esterna, e a certificare la possibilità che la mente, grazie alla sua unità con un corpo che è continuamente in rapporto con altri corpi, possa stringere una relazione cognitivamente fondata non solo, nella forma dell’autocoscienza e delle matematiche, con sé stessa e con quelle verità eterne che sono oggetti del puro pensiero, ma anche con quel mondo di corpi in movimento il quale, nella sua temporalità ed effettualità, non può essere oggetto se non dei sensi. In realtà, questa rarità è tutt’altro che una stranezza, se si considera come lo scopo dell’opera non sia, qui, né lo sviluppo di questa o quella particolare branca della scienza né la loro unificazione in un sistema retto su principi unitari, bensì, appunto, la sola fondazione di una scienza della natura in quanto tale, nella sua possibilità. Se fondare una scienza dei corpi significa senz’altro parlare non tanto dei corpi, quanto della mente che è supposta conoscerli, resta il fatto che tale fondazione, riguardo alla scienza che pretende di fondare, non può limitarsi ad esplicitarne i presupposti, e a presupporne l’oggetto, trovandosi inevitabilmente a doverne costruire e delimitare essa stessa il concetto, e con esso l’idea di conoscenza cui corrisponde e le metodologie adeguate alla sua trattazione. Tanto più interessanti, allora, i luoghi in cui il discorso sui corpi giunge a farsi esplicito.

Nell’interrogare la parsimonia con cui i testi cartesiani trattano della questione dei corpi, e ciò che essi hanno da dire sul problema della loro individualità, ci pare che non si possa fare a meno di partire dalla definizione fornita nella Meditatio secunda, e dalle difficoltà interpretative che essa comporta. Vedremo in seguito l’ambiguità di questa definizione, che Cartesio si trova tanto a rifiutare, almeno ad un livello esplicito, quanto, più nascostamente, a conservare.

Stando al nostro passaggio, ad ogni modo, per corpo si dovrebbe intendere «tutto ciò che è suscettibile (aptum) di essere delimitato da una figura, di essere circoscritto in un luogo, di riempire uno spazio in modo tale da escluderne ogni altro corpo, di venir percepito con il tatto, la vista, l’udito, il gusto e l’odorato, e di venir mosso in molti modi»1. A ben vedere, però, ciò che qui è definito non soddisfa affatto le condizioni alle quali noi siamo spontaneamente propensi a considerare una certa cosa come un individuo. Identificato dalla sua «figura», dal suo essere cioè circoscritto in una porzione di estensione da cui ogni altro corpo è escluso, il corpo viene innanzitutto definito in maniera puramente negativa. Si tratta, in effetti, di una semplice applicazione ad un caso particolare del più generale principio di non-contraddizione. Se il corpo X non è che una certa porzione di estensione, il fatto che esso sia identificato solo dal suo limite (la figura) significa, tautologicamente, che il suo essere proprio X non è altro, in ultima istanza, che il suo non essere non-X. Proprio questo suo carattere puramente negativo, però, impedisce di intendere la definizione di corpo che stiamo analizzando come definizione di un individuo corporeo.

Per un verso, infatti, l’equazione “il corpo X è uguale a tutto ciò che è diverso da non-X” non è in grado di assegnare alcun valore determinato all’identità di X, perché, come è evidente, qualunque porzione di estensione soddisfa alle condizioni che essa pone, non essendo nessun corpo altro corpo che sé stesso. Si può pensare che ciò che qui è oggetto di definizione non sia l’individualità di un corpo determinato, ma quella di un corpo in generale. Anche in questo senso, però, la distinzione tra un corpo ed un altro rimane arbitraria. Il mio corpo è certo una «sostanza completa», ma anche la mia mano può essere considerata tale, se non la si riporta «a tutto il corpo di cui è parte»2: qualunque porzione di estensione, anzi, può essere considerata di per sé stessa come un corpo3 Per altro verso, qualunque essa sia, l’identità di X finisce per risolversi in una identità per così dire istantanea. A parte il mutamento locale4 , che non è un mutamento interno della sua identità, ma solo un mutamento nel suo rapporto con i corpi esterni (che però rimangono pur sempre identicamente esclusi, qualunque essa sia, dalla porzione di estensione che esso occupa), il corpo risulta incapace di accogliere in sé alcun mutamento. Ogni cambiamento nella figura di X non è una sua interna modificazione, ma il suo annientamento: la sostituzione di X con X1.

Si può senz’altro dubitare dell’autenticità della definizione di corpo cui sopra abbiamo fatto riferimento. Inserita in un contesto in cui, per dimostrare la distinzione reale tra mente e corpo e la conseguente indipendenza della prima dal secondo, si finge ancora che «siano chimere il corpo, la figura, l’estensione, il movimento ed il luogo», il primo problema che si pone è se essa sia o non sia quella che viene tacitamente recuperata nella Meditatio quinta, quando si dimostra la realtà dell’idea delle «cose materiali» a prescindere dall’esistenza, fuori della mente, di quelle cose stesse 5, e nella Meditatio sexta, quando ad esser dimostrata è ormai non più solo la possibilità, la pensabilità, ma l’esistenza stessa di un universo corporeo, reale proprio in quanto indipendente dal nostro pensiero.

Il testo della definizione presenta almeno due elementi che sembrerebbero indurre ad assumerla come transitoria, tale cioè da dover essere superata da parte di una definizione superiore e più adeguata della natura corporea. In primo luogo, essa è presentata da Cartesio come l’espressione di ciò che dei corpi egli riteneva (arbitrabar) di sapere prima di intraprendere la propria ricerca, inaugurata dalla metodica sospensione di tutte le proprie precedenti convinzioni, da un dubbio cioè che non per il fatto di essere “iperbolico”6 può essere preso meno sul serio. Come impedire allora che lo stesso dubbio investa e trascini con sé anche quella definizione? A suffragare retrospettivamente questo primo argomento, di per sé stesso privo di valore7, se ne aggiunge poi un secondo, di natura questa volta più strettamente concettuale. Percepire col tatto, con la vista etc., innanzitutto, è percepire coi sensi, e quindi in occasione di una modificazione del corpo. «Immaginare», in secondo luogo, «non è null’altro che contemplare la figura, o immagine, di una cosa corporea». Quella della «figura» è quindi un’idea immaginativa, anch’essa ancora in qualche misura legata alla capacità del corpo di ricevere impressioni dal mondo esterno. «A parlare propriamente», però, i «corpi non vengono percepiti con i sensi, o con la facoltà immaginativa, bensì soltanto con l’intelletto, ossia non già perché toccati, o visti, ma soltanto in quanto concepiti con l’intelletto»8: con una visione, cioè, «esclusivamente mentale»9. Come quando, pur vedendo null’altro che «dei cappelli e dei vestiti» in movimento, non vedo, ma giudico che si tratti di uomini a passeggio10, così non può essere la sola percezione del molteplice sensibile (figure, colori, suoni), a determinare il mio giudizio, attraverso il quale riferisco questa molteplicità all’idea di un corpo, subordinandola alla sua unità e determinandone in questo modo il contenuto.

La nostra definizione, sulla cui autenticità abbiamo appena visto che il dubbio è inasprito dal riferimento ad elementi sensibili ed immaginativi che essa contiene, sembra infine definitivamente affossata dal modo in cui Cartesio tratta il ben noto esempio della cera. Qui sembra davvero che, nell’atto stesso di seppellire definitivamente la precedente definizione, se ne fornisca una nuova, capace di corrispondere alle nostre aspettative.

Dopo aver invitato il lettore a considerare proprio questa cera, appena tirata fuori dall’alveare, dura, fredda, col suo sapore di miele, il suo odore di fiori, con la sua figura e grandezza, Cartesio si domanda se essa sia sempre la stessa cera anche dopo che, accostata al fuoco, ha perduto tutte quante queste sue determinazioni sensibili, acquisendone altre11, e se essa possa anzi rimanere la stessa nonostante gli «infiniti mutamenti di questo genere» 12 di cui è suscettibile, e che non possono essere colti dall’immaginazione13. La risposta affermativa lascerebbe supporre che quello messo a punto da Cartesio in queste pagine sia un concetto dell’individuo corporeo sostanzialmente differente, e radicalmente nuovo, rispetto a quello esposto nella sua precedente definizione: un concetto che, nell’atto stesso di distinguerlo «dalle sue forme esteriori», dai «modi» in cui esso ci appare, riesce finalmente a tenere assieme identità e mutamento, verità ed apparenza.

Non appena analizziamo con maggiore attenzione questa situazione concettuale, però, non possiamo fare a meno di notare che le cose stanno ben altrimenti. Se mi chiedo infatti cos’è che rimane intatto «una volta messo da parte ciò che non appartiene alla cera» –ovvero quei suoi modi che per la loro variabilità non possono definirne l’invariabile essenza–, vedo che in effetti non rimane «nient’altro, di certo, che il suo essere qualcosa di esteso» e, come si è detto, «capace di infiniti mutamenti». Ora, va da sé, non posso dire che questo extensum quid, che ora è oggetto di una percezione «chiara e distinta», è senz’altro «la stessa cera» che prima vedevo, toccavo, immaginavo, ed era oggetto di una di una percezione «imperfetta e  confusa»14, senza al tempo stesso riabilitare –seppure in forma chiarita e depurata– la definizione che di corpo era già stata data.

Il fatto che il corpo non sia «nient’altro» che un «qualcosa di esteso» –nient’altro, dunque, che estensione– non falsifica, ma anzi esplica non solo il suo essere «suscettibile di essere delimitato da una figura», o di «venir mosso in moti modi», ma anche quelle qualità sensibili, o apparenti, che noi gli attribuiamo e che, pur non rispecchiandole, corrispondono comunque in maniera univoca, come il segno alla cosa significata, ad alcune sue proprietà oggettive15. Chiarendo i presupposti che consentono di comprenderla in modo adeguato, l’identificazione della «natura della sostanza corporea» con la sola estensione chiarisce e riabilita retrospettivamente –anche se solo come una propria conseguenza necessaria, e privandola quindi, apparentemente, del suo preteso valore definitorio– la concezione del corpo come suscettibile di figura, moto (o percezione): come questa sua suscettibilità è identica, a rigore, al suo essere una cosa estesa, così ogni particolare figura, movimento (o qualità sensibile) è identica (o corrisponde, secondo una regola ben precisa) a una interna determinazione, o modo, dell’estensione stessa16.

Ora, è vero che l’intelligenza dell’invariante verità della cera, della sua essenza o natura, consente di comprendere secondo verità la stessa variabilità delle sue «forme esteriori», il correlato mutare dei suoi modi di essere e di apparire. Ma cos’è questa verità della cera, distinta da quella dell’estensione? Ciò che qui di seguito occorrerà domandarsi è se la nuova definizione, nell’atto stesso di precisare il criterio della corporeità riducendolo a quello, quantitativo, dell’estensione, sia al tempo stesso sufficiente a determinare anche il criterio dell’individuazione dei corpi, o se invece non presupponga, a questo fine, quella stessa loro prima definizione che pure Cartesio, abbiamo visto, pretende di aver superato.

Il fatto, come nota Bennett17, è che l’esempio cartesiano deve essere inteso in un senso per così dire allegorico: ciò che è in questione, quando all’idea della cera si sottrae tutto ciò che non le appartiene in maniera essenziale, non è «l’identità o continuità individuale del pezzo di cera», di cui in effetti non si fa parola, ma, come aiuta a chiarire il raffronto con il passo di Principi, II, 4, la «natura della materia, o del corpo preso in generale», il fatto cioè che «la sua natura», ovvero «tutto quello che lo fa corpo», «consiste in questo soltanto: che esso è una sostanza che ha estensione»18. La risposta al nostro interrogativo, se cioè Cartesio disponga o meno di un concetto dell’individualità corporea, e quale eventualmente esso sia, dipende tutta dal modo in cui si intende questo corpus generaliter sumptum, che è sostanza. Se infatti si assume che esso significhi qualunque corpo individuale, allora non si può evitare di domandarsi, nuovamente, cos’è che distingue realmente un corpo dall’altro, dove ognuno non è, identicamente, «nient’altro […] che un qualcosa di esteso». A questa domanda si può allora senz’altro rispondere che a distinguere l’identità di un corpo da quella di ogni altro è una determinazione di quella estensione la quale, presa in generale, è identica alla natura di ogni corpo. A parte il fatto, però, che quantità identiche di estensione possono costituire per Cartesio corpi diversi (è una conseguenza del fatto che ognuna delle indefinite divisioni possibili di una qualunque estensione dà luogo essa stessa a un corpo, a un extensum quid)19, resta comunque un problema. Una volta ammesso che l’identità di un certo corpo particolare A è conosciuta dall’intelletto come una certa determinazione dell’estensione, ne consegue, come cercheremo di dimostrare, che quel corpo A non solo è ridotto ad un modo dell’estensione, e distinto da un altro corpo B solo modalmente, ma che esso è inoltre privato, col carattere della sostanzialità, anche di quello dell’individualità.

Per mostrare, in primo luogo, in che senso il corpo particolare sia privato del rango di sostanza, e distinto da un qualsiasi altro, allora, solo secondo una modalis distinctio, teniamo innanzitutto presente che «reale» è quella distinzione che si dà «propriamente» solo tra due o più sostanze, quando il concetto dell’una è completamente indipendente da quello dell’altra20, mentre si dice «modale» la distinzione che intercorre vuoi tra una sostanza e i suoi modi, vuoi tra due o più modi di una stessa sostanza, dove ognuno può essere conosciuto indipendentemente dall’altro, e nessuno, però, indipendentemente dalla sostanza che esso «diversifica»21. Una sostanza, in questo senso, è ciò che «noi possiamo percepire chiaramente […] senza il modo», e il modo, al contrario, è ciò di cui «non possiamo avere un’idea distinta […] senza pensare a una tale sostanza»22. Risulta in questo modo chiaro che per Cartesio una sostanza può essere identificata e distinta da un’altra esclusivamente in base alla diversità di quello che egli chiama il loro «attributo principale», e dunque per natura, e non alla diversità dei modi, degli accidenti23. Ad esempio, mentre un corpo inesteso è contraddittorio, non lo è che uno stesso corpo assuma in tempi diversi figure o moti diversi. Già a questo punto sorge un sospetto: come può, quella che si dà tra due corpi, essere una realis distinctio, che presuppone una completa separazione dei rispettivi concetti, se entrambi i corpi presuppongono un medesimo «attributo principale», ossia l’estensione? E se a distinguerli non è una «distinzione reale», come si può continuare a considerarli sostanze?

Il sospetto si tramuta poi facilmente in certezza non appena riflettiamo sulla seguente circostanza: se ogni corpo, intellettualmente compreso, non è nient’altro se non un extensum quid, una determinazione dell’estensione, allora anche l’estensione nella sua interezza deve poter definire un certo corpo, e cioè una determinata sostanza materiale. Si capisce allora perché nella Synopsis delle Meditazioni, aggiungendo quasi di sfuggita un secondo criterio della sostanzialità («tutte quante le sostanze senza eccezione […]sono per loro natura incorruttibili»), Cartesio stesso debba affermare che, certo, «il corpo è sostanza […], ma questo soltanto se si considera il corpo in generale (corpus […] in genere sumptum24. Il «corpo preso in generale» non sta qui per un “qualunque corpo particolare”, inevitabilmente corruttibile, ma solo per quella materia che è la «stessa in tutto l’universo»25, e la cui determinata estensione è l’estensione stessa nella sua interezza, l’estensione tout court, determinata –e distinta da qualunque altra estensione particolare– solo in quanto di per sé stessa priva di ogni determinazione. In questo modo, come si vede, la relazione tra la molteplicità dei corpi particolari, identificati ognuno dalla propria particolare estensione, e il loro «attributo principale», ossia quell’estensione o materia che identifica il «corpo preso in generale», risulta paradossalmente capovolta, e formalmente identica a quella che unisce i modi alla propria sostanza: non è più l’estensione ad essere una proprietà, un predicato o un attributo del corpo particolare, che ne sarebbe allora il soggetto, ma questo corpo stesso, esattamente al contrario, a non poter essere più pensato se non come una proprietà contingente dell’estensione, a non essere altro che estensione. I corpi particolari A e B non possono più essere considerati sostanze, delle quali l’estensione rappresenterebbe dunque una proprietà, perché il loro concetto non è realmente (ossia completamente) distinto: entrambi presuppongono infatti l’estensione, ossia il «corpo preso in generale», il quale può però essere concepito indipendentemente da essi, e ne rappresenta quindi la sostanza. Identico ad un certo corpo singolare (l’intero universo materiale), e lungi perciò dal poter essere ridotto a un’astrazione, il corpus in genere sumptum si impone non solo come un corpo reale, ma anzi come l’unica sostanza corporea. Quando allora Cartesio si riferisce anche al corpo particolare come ad una sostanza corporea, non è nello stesso senso in cui viene detto tale il «corpo preso in generale», ossia in senso proprio, ma solo in un senso analogo, quello in cui si dice sostanza ciò di cui possono esser predicate delle proprietà26 (dove è comunque da tener fermo che queste proprietà, che ad un certo livello attribuiamo al corpo singolo come alla loro sostanza, sono da riferire, in ultima istanza, all’estensione o materia, e dunque al «corpo preso in generale», come sue interne modificazioni).

Non è a questo punto difficile capire perché, ridotto a modo dell’unica sostanza estesa, ovvero a modo dell’estensione, il corpo particolare sia anche privato di ogni individualità. La sua ri-definizione in termini intellettuali come extensum quid va infatti incontro, e non a caso, ai medesimi problemi della sua prima definizione, in termini sensibili-immaginativi, come suscettibile di figura, moto etc. Poiché ogni corpo è identicamente «un qualcosa di esteso», e viceversa ogni (determinazione o divisione dell’) estensione è un corpo27, resta innanzitutto il fatto che la distinzione tra un corpo e l’altro è rigorosamente arbitraria28 Come si è già notato, da un punto di vista meramente quantitativo possono esistere indefiniti corpi di una stessa estensione, e l’unico motivo per cui, nel continuum di un’estensione indefinitamente divisibile, noi distinguiamo un corpo particolare dall’altro è la diversità delle loro proprietà, come figura, moto etc., ossia proprio di quelle sue modificazioni, o qualità sensibili, che si era preteso di escludere dalla sua definizione. L’unico corpo singolare che la sua definizione intellettuale come extensum quid riesce ad individuare, dunque, è il «corpo preso in generale»; riguardo ai corpi particolari, invece, non riesce a specificare se non quella corporeità che spetta loro, in generale, come modi dell’estensione. Si spiega così la strana circostanza per la quale Lettera a More del 5 febbraio 1649, subito dopo aver negato che l’esser-sensibile appartenga all’essenza del corpo, di cui costituisce invece solo una proprietà, si legge non solo, come già abbiamo visto, che «nulla cade sotto l’immaginazione, che non sia in qualche modo esteso» ma anche, inversamente, che «è esteso solo ciò che è immaginabile»29, dove non è più l’estensione a definire i limiti dell’immaginazione, ma l’immaginazione, pare, ad imporsi come criterio di identificazione di ciò che è esteso30. In questo modo, paradossalmente, si ammette che la vera definizione del corpo particolare non può essere quella, semplicemente intellettuale, che verte su ciò che esso è «in verità», un extensum quid, perché questo «qualcosa di esteso» non può essere individuato se non come correlato di certe apparenze sensibili, immaginative, come sostrato di per sé stesso indeterminato di un certo insieme di qualità. Se però un corpo singolare, ossia una certa determinazione dell’estensione, è identificato solo a partire dalle sue proprietà sensibili, e dunque per le sue «forme esteriori», e se, considerato intellettualmente, ossia «secondo verità» non è altro che (un modo dell’) estensione, e perde quindi ogni singolarità, allora ogni alterazione delle proprietà del corpo B, non è una modificazione di B stesso, ma, ancora una volta, la sua sostituzione col corpo C: un modo diverso dell’identica sostanza corporea31. Essendo diverso il loro “ideato”, che è tutto ciò che le distingue, la percezione della figura B e quella della figura C non possono costituire, di per sé stesse, modi diversi di intendere una stessa cosa, idee diverse di uno stesso corpo, ma solo idee di corpi diversi, di modi diversi della stessa estensione. Non possono costituire idee di una stessa cosa, o modificazioni di una stessa idea, insomma, se non in quanto intellettualmente comprese come idee di modificazioni diverse di una stessa sostanza estesa, della sola sostanza estesa diversamente modificata.

La cosa viene chiarita dallo stesso Cartesio, nelle righe della Synopsis immediatamente successive a quelle in cui introduceva la nozione del corpus in genere, attraverso l’esemplificazione del corpo umano e della sua differenza dalla mente, chiarendo anche, con ciò, il rilievo antropologico del problema. La mente umana, non essendo «costituita  da accidenti», ovvero da un insieme di pensieri particolari,  è incorruttibile, di modo che, «anche se mutano tutti i suoi accidenti, […] non è essa stessa a diventare altro»; essendo inoltre «assolutamente indivisibile», e tale dunque che non si possono distinguere in essa delle parti, essa è in ogni momento «assolutamente una ed intera»32. Costituito da null’altro «se non da una certa configurazione di membra e di accidenti di questa fatta», al contrario, è il corpo umano stesso che «diventa altro», ovvero muore, al mutare degli «accidenti» che lo costituiscono. Una volta identificato il corpo come un tale aggregato di accidenti, e dunque sia la sua morte con il suo «diventare altro» sia questo «diventar altro» con l’alterazione di uno qualunque di questi accidenti, ci si sarebbe aspettati di leggere non già che «è facilissimo che il corpo muoia»33 ma che, posto un ‘suo’ qualunque mutamento, è strettamente necessario. A rigore, e come Cartesio stesso riconosce nella Lettera a Mesland del 9 febbraio 1645, non solo il corpo di un bambino e quello di un adulto, o quello di un uomo prima o dopo una sua qualunque mutilazione, ma addirittura quello di un uomo prima o dopo la nutrizione o l’espulsione, non sono lo stesso corpo. L’individualità del corpo umano, e dunque dell’uomo stesso in quanto dotato di un corpo, non può essere spiegata naturalisticamente, a partire dalla sua semplice identità materiale, ma solo sulla base di un principio extra-corporeo ed anzi, alla radice, schiettamente metafisico. Come chiarisce un altro passo della lettera già citata, il concetto del corpo umano può bensì essere distinto da quello di un qualunque altro corpo; ciò, però, solo in quanto con esso «non intendiamo una parte determinata della materia, né una parte di grandezza, ma soltanto […] tutta la materia che è insieme unita con l’anima di questo uomo», dove è chiaro che la materia non è numericamente la medesima se non in quanto è «informata da una stessa anima»34. In questo modo, però, l’intera identità umana, in quanto unitariamente corporea e mentale, viene a dipendere dalla sola immediata unità della mente, e dalla sua capacità di imporsi al corpo, che solo in quanto unito alla mente può rimanere, pur nel mutamento, uno e il medesimo. Si capisce allora che le difficoltà in cui l’argomentazione cartesiana si imbatte, nella tematizzazione dell’individualità dei corpi, non rappresentano tanto una sua debolezza contingente ed emendabile, dalla quale sarebbe in qualche misura possibile prescindere, quanto piuttosto un suo momento fondamentale: il correlato, se non la premessa, sia dell’identificazione dell’essenza dell’uomo con la sola mente, o res cogitans35, attraverso la rimozione del corpo, sia dell’essenza di questa mens, come substantia intelligens36, con la pura intellectio, attraverso la rimozione di quella sensibilità (o immaginazione) la quale, non essendo se non «un’applicazione della facoltà conoscitiva ad un corpo»37, per ciò stesso «non è necessaria all’essenza di me stesso, ossia della mia mente»38.

Affonda le sue radici proprio qui, nell’impossibilità di pensare l’individualità dei corpi in termini schiettamente materialistici, e nella conseguente preminenza ontologica, prima ancora che epistemologica39, della mente sul corpo, quella che a noi pare una difficoltà irresolubile del pensiero cartesiano, che ci limitiamo qui ad enunciare. Ammettiamo infatti, da una parte, che l’identità dell’uomo si costituisca come un’identità essenzialmente mentale, e che, d’altra parte, la mente non si definisca essenzialmente, ossia formalmente, se non come intelletto. Ora, come si ricorderà, una sostanza non può esser pensata come differente da un’altra se non nella forma di una realis distinctio, a partire cioè da una completa indipendenza delle loro rispettive essenze. Se però una mente non può distinguersi dall’altra né in quanto semplicemente cogitans né, però, in quanto puramente intelligens, perché il cogito e la pura intellectio sono identici in ogni mente; se non è quindi come sostanza, e cioè a partire dalla propria sola essenza, che una mente può distinguersi dall’altra: come sarà possibile l’individualità della mente umana, dalla quale dipende anche quella dell’uomo come corpo? Non è possibile, ci pare, se non in virtù di quei contenuti empirici che sono presenti alla mente solo in quanto dotata di sensibilità e di immaginazione: di quelle facoltà, cioè, che essa detiene in quanto è unita ad un corpo che ha a che fare con altri corpi, e che però proprio per questo si era preteso di escludere dalla sua essenza. È il ritorno del rimosso. Il problema dell’unità col corpo, che Descartes pretendeva essenzialmente estraneo all’identità della mente, e quindi dell’uomo, ritorna, installandosi nel cuore stesso dell’individualità della mente come quell’alterità che, nella forma della passione, inquieta e travaglia dall’interno l’unità e la trasparenza dell’Io, l’incondizionatezza della sua libertà, della sua padronanza di sé, costringendole a pensare non più come un dato, ma l’interminabile compito dell’etica.

Non ci è possibile approfondire ora questi temi, che speriamo possano essere l’oggetto, in futuro, di un altro lavoro. Occorre infatti lasciare Cartesio, e passare ad Hobbes.

  1. II. Hobbes.

Leggendo il passo di De corpore, 8, 2440, sarebbe lecito attendersi di essere trasportati, attraverso la trattazione hobbesiana dell’individualità dei corpi, in un tutt’altro ordine di problemi. Basta osservare il modo in cui sembra liquidata la questione, che già abbiamo trovato in Cartesio, del «corpus generaliter sumptum». Non si fa quasi in tempo ad identificare il «corpo preso in generale» con quella «materia comune di tutte le cose» che «i filosofi, seguendo Aristotele, chiamano ‘materia prima’» che subito si conclude, lapidariamente (secondo la traduzione di Antimo Negri), che «la materia prima, dunque, non è nulla». E come potrebbe in effetti esser qualcosa, all’interno di un orizzonte rigorosamente nominalistico come quello hobbesiano41, quello che poco dopo viene nominato «corpus universale»? Il corpo che si chiama «universale», sembra andar da sé, non può essere in realtà altro che il corpo singolare, che è il solo ad esistere, ma in quanto «universaliter consideratum»: il corpo singolare stesso, cioè, considerato semplicemente in quanto corpo. A cambiare non è la «cosa stessa», che rimane invariata, ma la sola considerazione di cui viene fatta oggetto, la distanza, per così dire, dello sguardo che la contempla42. Se però ci si interroga su come sia individuata l’identità di questo corpo singolare, considerato solo in quanto corpo, si deve cominciare col notare, riguardo al «corpo preso in generale», che il testo latino, innanzitutto, non dice che la materia prima «non è nulla», ma solo che «non est […] res aliqua». E non essere una res aliqua, ossia un aliquid, un qualcosa di determinato e distinto dagli altri, non significa esattamente “essere nulla” (ammesso che una simile espressione significhi qualcosa)43. Certo, se per “esistere” si intende esistere extra nos (8,1), ossia extra animum, indipendentemente dal nostro pensiero (8, 4), allora (almeno così pare) il «corpus generaliter sumptum», con cui si identifica la materia prima, non esiste, perché in questo senso esistono solo i corpi44, e il «corpo preso in generale» non è un corpo, ma il concetto del corpo, o il nome che lo significa. Pur ridotto allora a «mero nome», si deve comunque dire, con Hobbes, che «non è un nome usato invano», perché «invero ha un significato che il corpo sia considerato senza la considerazione di una forma o di un accidente, fatta eccezione unicamente per la grandezza o estensione e dell’attitudine ad accogliere forma ed accidenti». In questo modo, come si vede, il concetto di «materia prima» (quella semplice materialità, si può dire, che identifica il «corpo preso in generale») viene implicitamente ridotto al concetto di «grandezza o estensione». È per questo che Hobbes può scrivere, in diverse occasioni, «corpus, sive materia»45, identificando con ciò il concetto del corpo in quanto tale con quello della semplice materia46, col concetto cioè di quella materia semplicemente estesa alla quale, in quanto considerata come priva di tutte le determinazioni diverse dalla mera estensione, «faremo bene» ad assegnare il nome di «materia prima». Un «nome astratto», certo, e che in quanto tale designa non, come il «nome concreto», il corpo stesso, ossia «una cosa che si suppone esistente» (DC, p. 95), ma solo «la causa del nome concreto», il concetto della «proprietà» o «accidente» in conseguenza del quale attribuiamo ad un qualcosa, altrimenti indeterminato, il nome di corpo: il nome di quella materialità che, come «grandezza o estensione», è identica alla «corporeità» (DC, p. 96), e che però, pur non essendo che un’astrazione, e quindi nulla «fuori di noi», resta comunque l’unico nostro «modo di concepire il corpo» (DC, p. 156). Ora, come è noto, per Hobbes «la ragione non è altro che il calcolo […] delle conseguenze dei nomi generali»47, perché ciò «che gli uomini chiamano scienza», in verità, non è se non questa «conoscenza di tutte le conseguenze dei nomi»48. Per comprendere il posto che l’individualità corporea può avere all’interno della hobbesiana «filosofia prima», che da scienza dell’ente in quanto ente è trasformata in scienza del corpo in quanto corpo49, e se l’idea di un corpo individuato semplicemente in quanto corpo possa trovare spazio in questa scienza, non ci si può esimere dall’affrontare in maniera un po’ più approfondita la questione del “corpo in generale”, e del suo nesso, più in particolare, con la «grande controversia» del principium individuationis (DC, p. 184). Si tratta, in una parola, di vedere se sia davvero possibile, in termini hobbesiani, una definizione schiettamente materialistica dell’individualità corporea.

Il problema, nelle sue linee più generali, appare chiaramente definito. Ogni corpo, semplicemente in quanto corpo, ossia «preso in generale», è materia, certo, ma ogni corpo è anche, identicamente, qualcosa di più, o di diverso, da quella materia –la «materia prima», o materia tout court– la quale, essendo «comune a tutti i corpi», non può distinguerne nessuno. In effetti, se per un verso «è comune a tutti i corpi [particolari] che uno può essere distinto o essere differente dall’altro» e però, per altro verso, è solo per i suoi «accidenti», quali che essi siano, che «un corpo si distingue dall’altro» (DC, p. 181),  allora, va da sé,  la «materia prima non è un corpo distinto dagli altri, né uno di essi», ossia un corpo particolare (DC, p. 168)50. Per «materia prima», infatti, si intende ciò che nei corpi è pensato quando si prescinde da tutti gli accidenti che li distinguono: da tutti gli accidenti, cioè, eccetto quello che permette di chiamarli ognuno ugualmente «corpo», vale a dire quell’estensione che, identica alla materialità stessa, si configura come identica, al tempo stesso, all’essenza del corpo in quanto tale, del corpo preso cioè «in generale», e per ciò stesso di nessun corpo particolare. L’interrogativo che si pone è allora il seguente. Posto che ogni corpo singolare è sempre qualcosa in più, o di diverso, rispetto alla materia tout court o alla semplice estensione, questo “di più”, che definisce quel corpo distinguendolo da ogni altro, può davvero essere pensato come una determinazione della materia o estensione (di modo che la singolarità di A consisterebbe nel suo essere non già, semplicemente, materia o estensione, ma una materia o estensione), o non deve piuttosto essere pensato come qualcosa di necessariamente diverso dalla materia o estensione stessa? Una qualunque cosa può essere individuata già in quanto corpo, ossia in forza di quel solo accidente (la materialità o estensione che definiscono la corporeitas) che ci permette di chiamarla «corpo», o sono invece necessariamente altri gli «gli accidenti per i quali un corpo si distingue dall’altro» (DC, p. 181)? Come si intuisce, due sono gli aspetti, inscindibili, di questo problema. Comprendere, da una parte, come un certo corpo singolare possa essere distinto sia dal «corpo preso in generale» sia dagli altri corpi singolari non è possibile, infatti, senza comprendere cos’è, d’altra parte, che permette di pensare quel certo corpo come identico a sé stesso.

Per rispondere a tutte queste domande, può essere utile rivolgerci al paragrafo del capitolo XI («De eodem et diverso») in cui Hobbes si propone di por fine alla «grande controversia» del principio di individuazione, per poi ripercorrere, alla luce di questo testo, quello stesso capitolo VIII («De corpore et accidente») di cui abbiamo finora commentato solo il passo in cui, come punto culminante dell’intero argomento, si tematizzava la questione della «materia prima» e del «corpo preso in generale».

La trattazione del principium individuationis a chiusura del capitolo su «L’identità e la differenza» è resa urgente dagli stessi termini in cui veniva enunciato, in apertura dello stesso capitolo, il criterio generale51 della differenza tra i corpi. In forza di questo criterio, infatti, «si dice che due corpi differiscono tra loro quando di uno di essi si dice qualcosa che non può essere detto contemporaneamente dell’altro» (DC, p. 181). Da questo punto di vista estremamente generico, però, se sembra facilmente garantita la possibilità di pensare la differenza di un corpo da ogni altro (perché si postula un soggetto distinto per ogni diverso insieme di predicati noti52), sembra però sbarrato l’accesso al concetto di una sua differenza da sé stesso, la possibilità cioè di pensare «un solo e medesimo corpo» (DC, p. 180) come l’invariante «soggetto» della variabilità degli accidenti o predicati (DC, pp. 167-8), e il «mutamento», allora, come unità, in esso, di identità e differenza. Come riconosce lo stesso Hobbes, infatti, in questo modo il corpo di un vecchio seduto non potrebbe essere considerato come lo stesso non solo di quando era giovane, ma neppure di quando era in piedi: perché, sebbene l’esser seduto e lo stare in piedi siano due stati successivi, resta vero che del corpo che è soggetto dell’uno si può dire qualcosa che non può essere simultaneamente detto dell’altro. Preso alla lettera, cioè, il criterio generale della differenziazione dei corpi verrebbe a coincidere con il secondo dei tre possibili principi di individuazione passati in rassegna da Hobbes in De corpore, 11, 7 (quello per cui «l’individualità […] consiste nell’unità di tutti [aggregati] gli accidenti presi insieme»), che è poi anche l’unico ad essere nettamente rifiutato dal filosofo, come il solo a favore del quale «non può addursi nessuna istanza», una sorta di brutta copia dell’eracliteo panta rei53.Per vedere se vi sia o meno incoerenza tra la generale enunciazione della differenza tra i corpi e il particolare rifiuto del secondo modo di concepire l’individualità, e per comprendere inoltre se sia o meno possibile l’individualità di un corpo in quanto tale, è necessario analizzare, pur brevemente, la trattazione hobbesiana degli altri due possibili principi di individuazione, quelli cioè fondati l’uno sull’«unità della materia», l’altro sull’«unità della forma», e a quali condizioni Hobbes può accogliere limitatamente entrambi, sottolineando al tempo stesso le contraddizioni in cui incorrerebbe l’assolutizzazione di uno ad esclusione dell’altro.

Gli argomenti che si schierano a favore dell’un principio, naturalmente, sono gli stessi che militano contro l’altro. Tutta la difficoltà, allora, sta nel loro essere entrambi ugualmente validi. Come da una parte, anche se non c’è più alcuna candela (ed è da notare il ritorno, in questo contesto, dell’esempio cartesiano), la cera sciolta è la «stessa cera» –ossia «la stessa materia»– che prima costituiva la candela, così, d’altra parte, Socrate vecchio e Socrate fanciullo sono lo stesso uomo, pur non essendo –«per la diversa grandezza»– lo stesso corpo. Ciò che impedisce di accogliere uno qualunque dei due principi come l’unico valido, è l’incapacità di entrambi di spiegare i diversi modi in cui effettivamente noi, a seconda dei casi e del punto di vista da cui ci poniamo, applichiamo il concetto di individualità. Finché consideriamo esclusivamente l’«unità della materia» (o, viceversa, l’«unità della forma»), infatti,  possiamo certamente considerare un corpo, nonostante il variare delle sue forme (o della sua materia), come un unico individuo, o considerare come individui diversi dei corpi che sono formalmente (o materialmente) identici: ma non possiamo in alcun modo spiegare perché ci capiti vuoi di considerare come «uno e il medesimo» individuo qualcosa in cui non si dà alcuna «unità della materia» (o «della forma»), vuoi di considerare come individui diversi qualcosa in cui pure quell’unità è presente. Ciò che allora da una parte impedisce al criterio generale della differenza enunciato all’inizio del capitolo XI di identificarsi con il secondo dei principi di individuazione (l’«aggregato degli accidenti»), e dall’altra gli consente di fondare, nonostante la loro apparente contraddittorietà, la legittimità di entrambi i restanti principi, è che esso non può applicarsi alle cose in sé stesse, che per noi non sono nulla, ma solo al nostro modo di considerarle, alla ragione per la quale le chiamiamo in un certo modo piuttosto che un altro54. Ciò a cui la scienza può interessarsi, nel tentativo di pensarne l’individualità, non è l’identità della cosa in quanto indipendente dal nostro pensiero e linguaggio, ma solo l’accidente in ragione del quale la consideriamo tale, la pensiamo e nominiamo come quella cosa55: l’invarianza non dell’«aggregato degli accidenti», ma di quel solo accidente –materia o forma– attribuendole il quale ne determiniamo, nella nostra mente, il concetto. Se «c’è una grande differenza tra il chiedere se Socrate è lo stesso corpo, o se Socrate è lo stesso uomo», allora che Socrate possa o non possa essere considerato, nonostante il mutamento, come uno stesso individuo, dipende dal nostro considerarlo semplicemente in quanto corpo, come materia identificata dalla sola identità della sua «grandezza o estensione», o come uomo, ossia non semplicemente in quanto corpo, o materia, ma come corpo o materia determinati da una certa forma (non solo corpo, ma corpo animato razionale).

Sembrerebbe evidente, a questo punto, non solo l’esistenza di un principio puramente materialistico dell’individuazione e differenziazione dei corpi, distinto da quello formale e coincidente con la considerazione della loro solo estensione (e più precisamente di quella che in seguito sarà chiamata la sua quantità56), ma il suo costituirsi, inoltre, come l’unico applicabile ai corpi semplicemente in quanto tali. Poiché è solo per la sua materialità, o estensione, che un corpo è corpo, sembra evidente che è solo in forza dell’«unità della materia» che, considerati solo in quanto corpi, la candela e la cera sciolta sono lo stesso corpo, quello di Socrate fanciullo e di Socrate vecchio, invece, corpi differenti. Le cose, però, non sono così semplici. L’«estensione di un corpo», che è «la stessa cosa della sua grandezza», ed è un «accidente del corpo», non è in effetti un accidente tra gli altri, ma un «accidente peculiare». Da una parte, esso è uno degli «accidenti comuni a tutti i corpi» (DC, p. 157), ed anzi un accidente che non può «staccarsi dal corpo senza la sua distruzione, giacché il corpo non può essere assolutamente concepito senza estensione», e viene infatti definito anche da Hobbes, cartesianamente, come res extensa (DC, p. 158). Dall’altra, «uno stesso corpo conserva sempre la stessa grandezza […], non può avere più grandezze» ovvero, come si dice altrove, «la grandezza di uno stesso corpo è sempre una sola e medesima grandezza» (DC, p. 163). La medesima estensione che, essendo in esso «sempre una e la stessa», definisce l’individualità del corpo, viene anche definita, in opposizione agli «accidenti per i quali un corpo si distingue dall’altro» (DC, p. 181) e in diretta analogia con quella «materia prima» che definisce il «corpo preso in generale», come «comune a tutti i corpi». Ciò che in un corpo, in una parola, ne determina la corporeità, per la quale nessun corpo differisce da un qualunque altro, ne costituisce al tempo stesso l’individualità, per la quale esso differisce da ogni altro. Ma come può un medesimo accidente essere ad un tempo sia comune sia differente? Si può certo dire, a questo punto, che tutti i corpi particolari (e dunque il «corpo preso in generale»), pur essendo definiti in quanto corpi dall’essere ognuno, identicamente, una res extensa, e cioè come soggetti di quella che, in astratto, è una stessa estensione, dall’avere una qualche grandezza, differiscono ciò nonostante, quantitativamente,57 per la loro determinata estensione o grandezza, dalla quale sono anche individuati. Ma cosa impedisce qui, come già abbiamo visto accadere in Cartesio, di invertire il rapporto di soggetto e predicato, e che il nesso tra i corpi e un loro accidente –l’estensione– si capovolga nel proprio contrario? Cosa impedisce, insomma, di considerare i corpi singolari, in quanto individuati e differenziati solo dalla loro determinata estensione, come le diverse interne determinazioni, o parti, di un unico corpo, e questo corpo, in quanto identificato dalla materia o estensione tout court, e coincidente perciò con l’intero universo, come l’unico soggetto, perennemente identico a sé stesso, di ogni determinazione e mutamento? Cos’è che impedisce cioè di pensare la pluralità degli individui corporei come una pluralità di determinazioni interne all’«unità della materia»? Al di sotto dell’apparente solidità del principio materialistico e puramente quantitativo dell’individuazione dei corpi, qui di seguito cercheremo di portare alla luce un livello del discorso più profondo e più inquieto, che col primo si pone in un rapporto di schietta contraddizione.

In questa operazione di scavo, va tenuto innanzitutto presente ciò che Hobbes dice in De corpore, 8, 20-23, ossia nei paragrafi che precedono immediatamente quello in cui, proprio per risolvere i problemi in essi presenti, viene introdotto il tema della «materia prima» e del «corpo preso in generale». In un corpo (leggi: in un medesimo corpo), allora, «tutti gli altri accidenti, tranne la grandezza e l’estensione», ossia la sua materialità, «possono essere generati o distrutti», di modo che «i corpi e gli accidenti sotto i quali essi appaiono differiscono in modo tale che i corpi sono cose, ma non generate, gli accidenti sono generati, ma non cose». Su questo presupposto, viene chiamato essenza «l’accidente per il quale imponiamo al corpo un determinato nome»58, accidente che viene anche chiamato forma in quanto può essere generato o distrutto. Il corpo, poi, «rispetto a qualunque suo accidente si chiama soggetto», mentre «rispetto alla forma si chiama materia». La «produzione o distruzione di qualunque accidente», e dunque anche di quello che costituisce la sua forma od essenza, fa dire sì che «il soggetto è mutato», ma non che è distrutto, perché non della materia, ossia della grandezza e dell’estensione, ma «unicamente della forma si dice che è generata o distrutta»59.

Fin qui, il discorso hobbesiano sembra procedere  nel segno di una perfetta coerenza con la successiva trattazione del principio di individuazione attraverso l’«unità della materia», come se già a questa altezza, con largo anticipo, si predisponessero le premesse di cui quel principio dovrà dimostrarsi la naturale conseguenza. È la stessa transitorietà degli accidenti e delle forme, sembrerebbe, a legittimare la permanenza o «unità della materia» quale unico principio di individuazione dei corpi semplicemente in quanto tali, garantendo la pensabilità del divenire come differenziazione da sé stesso, nel senso di un’alterazione delle forme e più in generale di un susseguirsi degli accidenti interni ad un soggetto materialmente invariato. Questa prima impressione sarebbe poi interamente confermata dalla densa argomentazione svolta nel paragrafo 20,60 per la quale quando si parla della generazione o distruzione di un qualche «corpo specifico» –come quando si dice che un animale o un albero sono generati o  distrutti– non si può intendere che «da un non corpo possa venire un corpo, o che da un corpo possa venire un non corpo», ma che il corpo, che di per sé non può essere né generato né distrutto, essendo il permanente soggetto del divenire, «ci appare soltanto […] sotto specie diverse», apparenza a partire dalla quale «lo si nomina in un modo o in un altro». Ciò che viene chiamato animale o albero è senz’altro il medesimo corpo che in seguito diverrà o sarà chiamato non-animale o non-albero, senza per questo divenire o esser chiamato «non-corpo», ossia qualcosa di inesteso, immateriale. Ad apparirci «sub diversis speciebus» e ad accogliere quindi in sé la generazione e la corruzione delle forme o accidenti, ponendosi così quale unico soggetto del mutamento, è pur sempre uno stesso corpo, una medesima res identificata come semplicemente extensa, dalla sua nuda materialità. Non può allora essere il «corpo specifico», determinato cioè da una certa forma (l’animale, l’albero), a porsi come soggetto di tutte queste contrarie forme o determinazioni, e a divenire così un altro «corpo specifico»61, perché esso è distrutto o generato nello stesso momento in cui è distrutta o generata la forma o accidente in base al quale ne determiniamo la specificità.

Se però osserviamo questo argomento più da vicino, si nota che esistono diversi buoni motivi per dubitare che Hobbes, quando afferma che il corpo, come tale, non può essere né generato né distrutto, intenda che sono i corpi, e non invece il corpo, ad essere eterni. Come si determinano e si distinguono, infatti, le identità individuali di questi corpi, al plurale, che sarebbero tutti ugualmente ingenerabili e incorruttibili; di questi corpi che, nonostante qualunque alterazione dei loro modi (di apparire), rimarrebbero ognuno «uno e lo stesso corpo», costituendo così i soli soggetti in grado, per la loro invariabilità, di supportare il divenire, pensato come generazione e corruzione dei loro soli accidenti?

A partire dal principio materialistico dell’individuazione, lo sappiamo, l’unica risposta valida è la seguente: “attraverso la loro determinata estensione”. Ma come si determina questa estensione? Per rispondere, si deve innanzitutto ricordare la hobbesiana concezione del mutamento. Che il corpo, come tale, non possa essere né generato né distrutto, appare infatti chiaro già a partire dalla sola definizione del tempo. Come lo spazio non è che «il fantasma di una cosa che esiste in quanto esiste», ossia del corpo semplicemente in quanto tale, considerato nella sua sola grandezza o estensione, così «il tempo è il fantasma del moto», ossia di un accidente di quello stesso corpo: e dunque, ancora una volta, un fantasma di quel corpo stesso, stavolta però non in quanto semplicemente esteso, ma anche in quanto mosso. Come non ha senso, allora, parlare di un corpo e del suo mutamento al di fuori della forma della spazialità e temporalità, così non ha neppure senso, a rigore, parlare di spazio e tempo senza la materialità di un qualche corpo, e di un qualche suo moto, di cui possano essere considerati la forma62. Ma questo significa che i corpi sono ingenerati e incorruttibili, o invece che solo il corpo lo è? Per Hobbes, in generale, «il mutamento», e dunque ogni produzione di accidenti in uno stesso soggetto, «non è altro che il movimento delle parti di un corpo mutato» (DC, p. 175). Da una parte, dunque, non c’è mutamento, e dunque neppure tempo, senza moto; dall’altra però, poiché non c’è moto senza corpo, deve esistere un corpo che possa essere pensato, in quanto loro soggetto, indipendentemente da qualunque moto e, per ciò stesso, da qualunque mutamento: e dunque anche dalla temporale generazione o corruzione di qualsivoglia accidente. Ma cos’è questo corpo, che è già pensato come tale a prescindere da qualunque specifica forma o accidente? Non è, senza dubbio, nient’altro che quella stessa materia, o estensione, che può allora essere detta, anche se solo per analogia, l’essenza del corpo in quanto tale63: più precisamente, non è che quella «materia prima» che, per essere «comune a tutte le cose», non può costituire l’essenza di nessun corpo in particolare, e da cui è anzi definita l’identità del «corpo preso in generale», del corpo, come si è già visto, in quanto «considerato senza la considerazione di alcuna forma o accidente, fatta eccezione unicamente per […] l’estensione, e dall’attitudine ad accogliere forma e accidenti»64.

Il cerchio si chiude, torniamo al punto da cui eravamo partiti. Oramai, però, una risposta è dovuta. Il concetto di questo «corpo preso in generale», nel quale non si pensa null’altro se non la materialità o estensione, è solo quello di un qualunque corpo singolare, considerato in modo astratto, o di quell’unico corpo che, in quanto identificato dall’estensione o materia tout court, coincide con l’intero universo materiale, e comprende quindi in sé, come proprie interne determinazioni, tutti i corpi particolari?

A questo riguardo, è decisivo il modo in cui Hobbes elabora, nella loro necessaria correlazione, i concetti della parte e del tutto. Nella prospettiva hobbesiana la determinazione di un insieme di cose vuoi come una serie di parti separate vuoi come una totalità unitaria dipende, ancora una volta, dalla sola specifica considerazione di cui quell’insieme viene fatto oggetto. Che ad essere considerate reali siano le parti o il tutto dipende dal punto di partenza dell’operazione mentale attraverso la quale si può o comporre il tutto a partire da parti separate (è il caso della composizione dell’idea di «genere umano» a partire dalla considerazione, insieme, di tutti gli individui) oppure, a partire da un tutto unitario, determinare le sue parti attraverso la sua sola divisione (ed è il caso dello spazio). Come si vede, in un caso o nell’altro, si tratta di una divisione o composizione non già reale, ma solo mentale, perché tanto lo spazio quanto gli individui permangono identici a sé stessi, nonostante la loro mutata considerazione: ad esser pensati come componenti di un tutto, o come diviso in più parti, infatti, sono gli stessi individui, o lo stesso spazio. «Far parti o spartire o dividere lo spazio», in particolare, «non è altro che considerare nello stesso spazio […] uno ed un altro spazio». Uno spazio, diviso in più spazi, non si disgrega in una molteplicità spazialmente irrelata di spazi, perché non si possono considerare «uno ed un altro spazio» se non all’interno, e dunque come parti, di un unico spazio supposto invariato65. È per questo che sarebbe una «sciocchezza» dire che «ciò che è diviso è più cose». Ma come si determina, su questi presupposti, l’estensione o materia che, coincidendo con un certo spazio, definisce l’individualità del corpo particolare? E se uno spazio non è che una parte dello spazio, dal quale non può essere realmente separato, cos’è la certa estensione da cui è determinata l’individualità del corpo, cosa questo corpo stesso? Come lo spazio comprende in sé tutti gli spazi, senza ciò nonostante essere più spazi, così esiste un corpo, coesteso con quello spazio, che comprende in sé ogni estensione o materia, e quindi ogni corpo 66, senza però essere più corpi. Se quindi si pensa un corpo individuato da un’estensione o materia che coincide con l’interezza dello spazio, e della quale, allora, ogni determinata estensione o materia non è che una parte, o un’interna determinazione, i corpi singolari non possono essere pensati, a loro volta, se non come altrettante parti o determinazioni di quella «materia prima» che definisce il solo «corpo preso in generale». A porsi come l’ingenerato ed incorruttibile soggetto del divenire e della varietà delle forme non può essere quindi alcun corpo particolare, né quindi una qualunque molteplicità di corpi, ma solo quel «corpus generaliter sumptum» che per Hobbes –come già per Cartesio– non può essere ridotto al concetto astratto di un qualunque corpo particolare, non potendo esser pensato altrimenti che come l’astrazione concreta, reale, di un «corpo universale», corpo identico all’«universus mundus», ad una materia di per sé stessa omogenea e di cui ogni forma specifica non è che un’interna determinazione. Per questa sua stessa omogeneità, allora, l’«unità della materia» non è in grado di identificare se non un unico individuo corporeo, coincidente con l’«intero universo» materiale. Ogni mutamento, ogni generazione o corruzione di forme o accidenti, è in realtà mutamento o determinazione del «corpo preso in generale», di quel «corpo universale» che è la «materia prima», come movimento delle sue parti, che sono dunque individuate come una certa materia, dotata di una certa estensione, solo da quel moto, e dunque da quell’accidente, o forma, o essenza, per il quale diamo loro un determinato nome. Un corpo singolare, e quindi la sua estensione o materia, non può essere individuato solo in quanto corpo, da un punto di vista cioè puramente materiale –perché da questo punto di vista  esso non è altro che il «corpo universale», la «materia prima», sostrato in sé stesso omogeneo di ogni differenziazione– ma solo da un punto di vista formale.

Se allora possono esserci forme diverse di una stessa materia, accidenti di uno stesso soggetto, o corpo, ciò è vero solo a patto di intenderle come altrettante forme assunte dalla stessa «materia prima», facendo così di quest’ultima, e dunque del «corpo in generale», l’unico soggetto di tutte le forme, di tutti i mutamenti. Ciò che in un primo momento è parso possibile, e cioè che fosse la sola materia ad identificare un corpo in quanto tale, ha rivelato in seguito, ad un livello più profondo, la sua impossibilità. Una materia, o un’estensione, non può essere identificata come quella certa materia o estensione, né dunque un corpo come quel corpo, se non come materia di una certa forma67, ossia di un corpo la cui identità è determinata da altro che dalla semplice materia, e dunque pensata al tempo stesso come diversa da quell’unica identità (quella del «corpo preso in generale», l’intero universo) che un corpo può avere solo in quanto corpo. Da qui il paradossale idealismo del materialista Hobbes, in forza del quale il corpo particolare è qualcosa non già di materiale, oggettivo, ma qualcosa di mentale, che esiste cioè solo in quanto la continua variabilità della materia sia subordinata, nel pensiero, all’invariabilità di una forma. Da qui, in altre parole, sia il costruttivismo nascosto dietro la riduzione hobbesiana di tutto il pensiero alla sensazione, che pure sembrerebbe fare dell’esperienza una mera riproduzione meccanica della realtà esterna, sia la pregnanza ontologica e gnoseologica che può assumere, in un contesto che per altro verso è e resta rigorosamente nominalistico, un concetto universale ed astratto come quello di materia prima.

Sia a questo punto consentito, come già per Cartesio, indicare rapidissimamente il legame che anche nel pensiero hobbesiano congiunge il piano più propriamente antropologico ai problemi di “filosofia prima” finora discussi. Non potendo l’identità o soggettività dell’uomo risolversi nella sua semplice identità materiale, né l’uomo, dunque, essere e rimanere sé stesso solo in quanto corpo, la sua identità, il motivo per cui corpi diversi continuano ad essere chiamati con lo stesso nome di Socrate, non potrà essere se non di ordine formale. La nostra impressione è che le analisi svolte finora ci consentano di leggere il passo in cui il principio formale dell’individuazione viene messo a tema controluce, lasciando emergere così, tra le righe, un livello del discorso più sfuggente, e più profondo, di quello che si lascia cogliere a una prima lettura. In De corpore, 11, 7 leggiamo infatti che, allo stesso modo in cui sarà identico, da un punto di vista formale, «il fiume che scaturisce da un’unica e medesima fonte, ne scaturisca la stessa acqua o un’altra acqua, o altro che acqua», così «sarà identico l’uomo, tutte le azioni e i pensieri del quale derivano da un unico e medesimo principio (cioè, da quello che fu nella sua generazione)».

Ora, ci pare che siano possibili due modi diversi, se non opposti, di intendere questo «principio del moto», o dell’azione. Stando alla prima lettura, da queste righe emergerebbe una interpretazione in fin dei conti tutta materialistica della forma. Nel Leviathan, in effetti, si legge che «negli animali esistono due tipi di movimenti che sono loro peculiari: quello vitale comincia con la generazione e continua ininterrottamente per tutta la vita, come il corso del sangue, le pulsazioni, la respirazione […]. L’altro è il movimento animale, altrimenti detto movimento volontario», che corrisponde a ciò che propriamente chiamiamo azione, ed ha un origine interna in quei «piccoli inizi di movimento» che chiamiamo sforzo, o conato (endeavour, conatus)68, che si manifestano alla mente nella forma della passione, che determina anche giudizio e volontà. Se allora l’azione, in quanto movimento volontario, può essere connessa al movimento vitale come al proprio principio («il medesimo […] che fu nella sua generazione»), sembra, è perché il conatus, da cui essa è determinata assieme alla totalità della vita umana, non è se non il movimento vitale stesso, in quanto favorito o contrastato da una modificazione indotta da una causa esterna69, e l’azione (come anche la passione), dunque, null’altro che l’espressione esterna (interna) della tendenza del movimento vitale a conservare sé stesso. L’individualità dell’uomo riposerebbe in questo senso, nella sua totalità, su un dato perfettamente naturale, sul fatto cioè che la discontinuità dell’azione, e più in generale di ogni mutamento, potrebbe essere ricondotta alla continuità o permanenza, dalla generazione alla morte, non già della materia, ma di una sua organizzazione biologica invariante.

Anche volendo ammettere che corrisponda all’originaria intenzione hobbesiana, come lascerebbe supporre la singolare concordanza tra il passo del De corpore e quello del Leviathan sopra citati, questa interpretazione non andrebbe comunque senza problemi. È l’intero pensiero del filosofo, col suo rigoroso determinismo, ad escludere la possibilità di assurgere il movimento vitale –o anche il conatus– a principio, in senso forte, dell’azione. Se per principio e causa, infatti, «si intende la stessa cosa»70, e non si può quindi ridurre il principio alla sua accezione meramente cronologica, allora l’uomo non è, o non ha in sé, il principio della propria azione: non è, cioè, la sua «causa semplice o causa intera»71. Da un certo punto di vista, in quanto cioè essa sia considerata, al di qua degli effetti che essa produce su un altro corpo, solo come un moto interno del corpo, dell’azione l’uomo non è neppure la causa efficiente, ovvero l’agente, ma solo quella sua «causa materiale» che può anche esser chiamata «potenza passiva»72: in un universo retto dal principio di inerzia, nel quale non si dà alcuna possibile spontaneità, alcuna autoaffezione, la modificazione corporea in cui l’azione corporea consiste non può essere sollecitata che dall’esterno. Nella realtà, infatti, «ciò che necessita e determina l’azione», e dunque il suo principio, è sempre e in ogni caso «la somma di tutte le cose», il «concorso di tutte le cause», ognuna delle quali «è determinata da un analogo concorso di cause precedenti»73. Nel «continuo progresso […] della causazione», si noti bene, è solo l’immaginazione74 a poter ritagliare un segmento suscettibile di avere un inizio (o una fine), nel quale un evento possa esser pensato solo come azione (passione), o causa (effetto). L’uomo stesso, nell’agire, non può essere considerato oggettivamente se non come l’incrocio di un «numero innumerevole di catene», il principio di ognuna delle quali è fuori di lui. Come il corpo particolare non si distingueva dal corpo in generale, ossia dall’intero universo, se non nel pensiero, così l’uomo non può essere considerato come principio della propria azione (e dunque come individuo) se non in forza di un preciso atto mentale, attraverso il quale l’azione viene considerata facendo astrazione da quel «concorso di tutte le cose» in forza del quale ogni evento è causato sempre e soltanto dall’intero universo. Anche in questo caso, quindi, vediamo che l’individualità dell’uomo, identificata con la sua qualità di agente, di iniziatore di una catena causale, non è un dato naturale, biologico, ma mentale. È proprio qui allora, nella considerazione dell’individualità dell’uomo come un prodotto dell’immaginazione, qualcosa cioè che la mente non si ritrova imposto dall’esterno, ma che costruisce attivamente essa stessa, che emerge la possibilità, riguardo all’uomo, della seconda interpretazione del principio formale dell’individuazione, legata al concetto di persona.

La «persona naturale», infatti, «è colui le cui parole o azioni sono considerate come sue proprie», dove «la persona (person) è la stessa cosa di un attore (actor) sia sul palcoscenico sia nella vita quotidiana; e impersonare (personate) è lo stesso che fare la parte di (to act) o rappresentare sé stessi o altri»75. Hobbes stesso fa notare l’origine teatrale, traslata poi in ambito giuridico, del termine latino persona, intesa originariamente come maschera. L’individualità dell’uomo, dal punto di vista formale che la fa consistere nel principio delle azioni (la ragione cioè per la quale attribuiamo a quest’uomo un certo nome), e quindi con la sua personalità, viene ad imporsi come una costruzione immaginaria (o linguistica, se si preferisce), e in ultima istanza essenzialmente storico-sociale, che perde ogni riferimento ad un’identità biologica presupposta. Tanto da un punto di vista naturalistico quanto da uno giuridico-morale, e concepita dunque come detentrice vuoi di un certo potere76 vuoi di certi diritti e doveri, la persona non esiste al di fuori del suo esser riconosciuta (in primo luogo dall’altro uomo, in seguito dallo Stato), e quindi dello spazio sociale in cui il riconoscimento è non solo possibile, ma diventa inoltre il principale oggetto del desiderio e della lotta. Al punto che, in modo solo apparentemente provocatorio, si può dire che il cosiddetto individualismo hobbesiano nasconda in realtà una radicale socialità dell’individuo stesso: non nel senso giusnaturalistico di una sua presunta naturale socievolezza, ma in quello, ontologico, del suo non esistere se non come un prodotto sociale. Ci pare che non possa essere un caso, allora, se il cosiddetto bellum omnium contra omnes sia concretamente rappresentato dai testi hobbesiani, nonostante il contrario parere degli interpreti, non già come il luogo di una socialità assente, quanto piuttosto quello di una socializzazione ancora prevalentemente conflittuale.

La necessità di concludere questo testo ci impedisce di approfondire come meriterebbero la serie di problemi che qui ci si è limitati ad evocare, e che speriamo di avere in futuro la non scontata occasione di affrontare.

  1. Cfr. R. Descartes, Meditazioni metafisiche, Roma-Bari, 1997, p. 43 (abbreviato d’ora in poi come: Meditazioni).
  2. Id., Risposte alle quarte obbiezioni, in Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Roma-Bari, 1986, vol. 2, p. 213.
  3. Cfr. Id, I princìpi della filosofia in Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Roma–Bari, 1986, vol. 3, p. 53 (abbreviato come: Principi), dove, di una sostanza corporea, si dice che «qualunque parte possiamo determinarne col pensiero, deve essere distinta realmente dalle altre sue parti». Poiché però poco sopra si diceva che una distinzione reale «si trova propriamente fra due o più sostanze», si deve concludere che qualunque parte di una sostanza corporea può essere considerata, a sua volta, come una sostanza.
  4. Cfr. Ivi, p. 83. In questo passaggio si dice infatti che «per un corpo, ovvero per una parte della materia, intendo tutto quello che è trasportato insieme, sebbene sia forse composto da molte parti, che nel frattempo impiegano la loro agitazione a fare altri movimenti». Dove per corpo si intende una «parte della materia», e dunque dell’estensione (poiché tra estensione e materia Cartesio non riconosce distinzione), quella parte viene comunque identificata dal fatto che la sua coesione rimane invariata nonostante il variare sia della situazione spaziale esterna, ossia del suo rapporto con altri corpi, sia della situazione interna, ossia dei rapporti tra i suoi componenti. Questa ridefinizione del corpo in termini di moto, che sembra risolvere ciò che nella precedente era irrisolto (la possibilità di una alterazione interna), va incontro in realtà ai suoi stessi problemi: non solo il corpo rimane definito solo in maniera estrinseca, attraverso cioè l’esclusione di tutto ciò che è esterno (il rapporto con l’esterno può variare solo a patto che la sua esteriorità rimanga invariata), ma non è neppure univocamente determinato: un uomo che ruota il volante di un’autovettura in movimento e la vettura stessa, ad esempio, possono essere indifferentemente considerati vuoi come tre corpi, vuoi come due, vuoi come uno solo. Senza contare che non si vede come sia possibile che il corpo A, composto dai corpi B e C che si muovono in direzioni diverse, soddisfi le condizioni richieste dalla definizione: come possano infatti i suoi componenti B e C, nonostante la diversità dei loro moti, essere coinvolti in uno stesso movimento rispetto a un corpo K considerato immobile? Poniamo che il corpo X sia formato da due tubi paralleli lunghi ognuno un metro, il tubo AB e il tubo CD, contenenti ognuno una sfera (J e K). Poniamo poi che il corpo X si muova di un metro verso sinistra, ovvero che questo movimento sia compiuto simultaneamente dai due tubi, in modo che le loro estremità B e D vengano ad occupare gli stessi punti che prima erano occupati, rispettivamente, dalle estremità A e C. Poniamo infine che la sfera J si muova contemporaneamente da destra verso sinistra, passando dall’estremità B all’estremità A, mentre la sfera K si muove da sinistra verso destra, passando dall’estremità C all’estremità D. Ne risulta che, mentre X, rispetto ad un ipotetico punto di riferimento immobile, si è spostato di un metro, J si  è spostata di due metri, mentre K è rimasta immobile. Sulla definizione del corpo in base al trasporto simultaneo, vedi F. Zourabichvili, Spinoza. Une physique de la pensée, Paris, 2002, pp. 15-22.
  5. Meditazioni, pp. 105 e sgg.
  6. Ivi, p. 147.
  7. Risoluto a «non cercare più altra scienza, oltre a quella che poteva trovare in sé stesso, o nel grande libro del mondo» (R. Descartes, Discorso sul metodo, Roma-Bari, 1998, p. 13), Cartesio ritiene bensì di non poter fare di meglio che «togliere di mezzo» le proprie precedenti opinioni, sempre esposte al rischio dell’errore; ciò, però, non necessariamente per «sostituirle con altre migliori» ma, possibilmente, anche solo «per accoglierle, dopo averle ricondotte al livello della ragione» (Ivi, p. 19): e fin qui nulla impedisce di pensare che la definizione sopra citata possa essere «ajustée au niveau de la raison», e dunque accolta.
  8. Meditazioni, p. 55.
  9. Ivi, p. 53.
  10. Ibidem
  11. Ivi, p. 49.
  12. Ivi, p. 51.
  13. Per il fatto di essere legata alla figura, all’immagine, l’immaginazione non può giungere a pensare in un unico pensiero l’infinità di mutamenti di uno stesso corpo, potendo solo produrre in sé stessa, di quel corpo, una serie necessariamente finita di diverse figure o immagini. L’infinito può essere allora pensato, concepito, ma non immaginato, di modo che l’immaginazione non è in grado di pensare l’identità di un corpo nella totalità delle sue modificazioni possibili.
  14. Ibidem
  15. Ciò significa che tutte quelle proprietà sensibili che in precedenza attribuivo all’oggetto sono ora non già negate, ma comprese come completamente esplicabili in quanto segni di altrettanti variazioni interne all’estensione o materia, e dunque di altrettante modificazioni di quel «movimento locale» che dell’estensione è il primo dei modi, e della quale spiega «tutte le varietà» (cfr. Principi, p. 81). Queste variazioni del moto modificano in vario modo, immediatamente (come nel caso del tatto) o mediatamente (come nel caso della vista), gli organi di senso: modificazioni che la mente traduce, secondo una corrispondenza univoca e senza però essere consapevole del meccanismo corporeo corrispondente, nelle determinazioni sensibili della propria rappresentazione dell’oggetto. Su questo «linguaggio simbolico della percezione», e sul superamento che esso implica della teoria scolastica della percezione –e dunque della verità– come rispecchiamento dell’oggetto cfr. E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, Torino, 1952, pp. 533-5. Per l’idea del legame tra percezione e oggetto nei termini dell’idea di «segno naturale», vedi M. Gueroult, Descartes selon l’ordre des raisons, Paris, 1968, vol. 2, p. 91; vedi anche J. W. Yolton, Perceptual cognition with Descartes, in «Studia cartesiana», 1981, n. 2, pp. 63–83, e il saggio di P. Slezak, Descartes’ startling doctrine of reverse sign relation in S. Gaukroger (a cura di), Descartes natural philosophy, London, 2000, pp. 542-56. Sul modo in cui in una teoria del «segno naturale» l’univocità del nesso semantico tra rappresentazione e rappresentato è garantito, nella percezione, dal suo fondamento nel nesso causale che lega l’oggetto e la percezione, vedi T. C. Vinci, Cartesian truth, Oxford, 1998, pp. 139-43. Per una più ampia ricostruzione sul tema della percezione all’interno della filosofia moderna, da Descartes a Kant, vedi M. D. Wilson, Ideas and mechanism: essays in early modern philosophy, Princeton, 1999, capp. II-V.
  16. Cfr. Principi, pp. 48-9, dove si spiega che l’estensione, come «attributo principale» della sostanza corporea o materia, nell’atto stesso di costituirne la natura ed essenza, costituisce anche il presupposto di tutte quelle «proprietà», come l’avere una figura, che si trovano in tutti i corpi. Se, pur trovandosi in ogni corpo, esse ciò nondimeno non contribuiscono alla sua definizione, o essenza (all’identificazione cioè del corpo in quanto tale), è perché ognuna di quelle proprietà non può essere concepita senza l’estensione, la quale può però essere concepita senza di esse, e la definizione di una cosa non può essere costruita attraverso la giustapposizione delle sue proprietà specifiche, ma solo a partire da quella caratteristica, o natura, da cui tutte le proprietà possono essere derivate. La definizione del corpo fornita in Meditazioni, p. 43, dunque, è vera, anche se non lo è in quanto definizione, perché è l’esplicitazione non dell’essenza della sostanza corporea, ma solo delle proprietà, o dei modi, che da quell’essenza pur necessariamente derivano. Anche se nessuna particolare sostanza corporea o materia, in generale, può essere un corpo senza essere anche suscettibile ad esempio di figura, e nessun corpo determinato è quel corpo senza avere di fatto una qualche figura determinata, la figura non appartiene alla definizione della sostanza corporea perché, come quell’esser suscettibile di figura non è nella sostanza se non il suo essere estesa, così la figura non è che un modo o proprietà di questa sostanza/estensione.
  17. Cfr. J. Bennett, Learning from six philosophers. Descartes, Spinoza, Leibniz, Locke, Berkley, Hume, New York, 2003, vol. 1, p. 27.
  18. Vedi Principi, p. 69.
  19. Cfr. Principi, p. 89.
  20. Principi, p. 53.
  21. Ivi, p. 54.
  22. Ibidem.
  23. quello che Spinoza riconoscerà esplicitamente nella quinta proposizione della parte prima della sua Etica, dove si dice che «nella natura non possono darsi (…) sostanze della medesima natura, ossia dello stesso attributo», e ciò perché, essendo «anteriore per natura alle affezioni», una sostanza non può essere distinta da un’altra in base alla sola diversità dei modi: considerate «per sé», «secondo verità», e dunque facendo astrazione dalle affezioni, quelle presunte sostanze dello stesso attributo non sono diverse, ma una sola e medesima sostanza (cfr. B. Spinoza, Etica¸ trad. it. di G. Durante, note di G. Gentile rivedute e ampliate da G. Radetti, Milano, 2007, pp. 11-13).
  24. Meditazioni, p. 21.
  25. Principi, p. 81,  ma cfr. anche Ivi, p. 69, dove si parla di «natura della materia, o del corpo preso in generale». Questa materia che Descartes identifica col «corpo preso in generale» richiama evidentemente l’aristotelica «materia prima», la cui nozione viene allora da Descartes non tanto rigettata, quanto piuttosto assimilata a patto di essere ridotta a quella della semplice estensione, con la conseguente spiegazione di «tutta la varietà di forme che vi si trovano» attraverso il solo moto locale (Ivi, p. 81). Esattamente nella stessa direzione ci pare vadano letti i passaggi del capitolo VI de Il mondo, che pure complicano la situazione. Il concetto tradizionale di materia prima, infatti, viene in essi criticato non tanto perché formato prescindendo da «tutte le forme e qualità» determinate, cosa che anche Descartes ha appena invitato il lettore a fare, quanto piuttosto per la sua confusione: perché, cioè, non consente di pensare alcunché di determinato, ma solo una «pura potenza» (Vedi la Lettera a Mersenne del 28 ottobre 1640, in R. Descartes, Tutte le lettere. 1619-1650, a cura di G. Belgioioso, Milano, 2005, dove si legge che l’identità della materia «si accorda con la Filosofia della Scuola, e con la mia», salvo che «nella Scuola non si spiega bene questa materia, perché ne si fa una pura potenza, alla quale si aggiungono forme sostanziali e qualità reali, che sono solo chimere»). L’aspetto paradossale del ragionamento cartesiano consiste nel fatto che il suo essere priva di ogni «forma più particolare» non impedisce alla materia prima di porsi come una sostanza, un «vero corpo». Pensata paradossalmente come una sostanza, la materia prima non solo viene dotata anch’essa di una sua «vera forma ed essenza», che coincide con l’estensione, tale che tra l’una e l’altra non può darsi nessuna distinzione, se non di ragione, ma anzi, in quanto non è nient’altro altro che estensione, essa diviene in un certo senso ‘pura forma’, quella forma delle forme come determinazione dalla quale soltanto «tutte le forme immaginabili» divengono intelligibili. È in questo senso, in quanto coincide cioè con questa materia prima che è pura forma, che il corpus generaliter sumptum può rappresentare l’unico corpo realmente concepibile attraverso una «intellezione pura». Cfr. R. Descartes, Il mondo, in Id., Opere filosofiche, ed. a cura di E. Garin, Roma-Bari, 20097, vol. 1, pp. 144-6., Non ci pare allora che si possa convenire con R. Ariew quando ritiene perfettamente coerente allo spirito cartesiano l’affermazione di A. Le Grand, secondo la quale «la materia prima», che non è se non una concezione inadeguata del corpo, «è priva di forma» (cfr. R. Ariew, Descartes and the late scholastic, New York, 1999, pp. 95-6). Il testo di A. Le Grand, Institutio philosophiae secundum principia D. Renati Descartes, è disponibile anche on-line su google books, in una maldigitalizzata edizione latina del ’79.
  26. C’è allora un motivo molto preciso per cui l’intero universo materiale viene nominato come «corpo preso in generale». È vero, infatti, che esistono due particolari specie di corpo, e cioè il “corpo in generale” (A) e i “corpi particolari” (B). In questo senso anche il “corpo in generale” è un corpo particolare, un corpo A distinto da altri corpi B. I corpi B, però, non sono altro che parti, o modi, di A, e la distinzione di B rispetto ad A non è allora una distinzione reale, ma solo modale. Il corpo A, ossia l’intero universo, è, al tempo stesso, sé stesso e ognuno dei singoli corpi B: corpo particolare, dunque (e perciò non un’astrazione, ma un corpo reale), e assieme “corpo in generale”. Cfr. Risposte alle seconde obiezioni, in Cartesio, Opere filosofiche, vol. 2, cit., p. 149, e Principi, I, 51, pp. 47-8, dove la mancanza di univocità che si dà tra Dio e le creature, si può supporre, è analoga a quella che si dà tra il corpo preso in generale e i corpi particolari. Sulla possibile equivocità del concetto di sostanza, come esistenza e concepibilità per sé e come sostrato di proprietà, vedi ad es. M. Stewart, Descartes’ extended substances, in R. J. Gennaro, C. Huenemann (a cura di), New Essays on the rationalists, Oxford, 1999, pp. 82- o P. Markie, Descartes’ concept of substance, in J. Cotthinghan (a cura di), Reason, will and sensation, Oxford, 1994, p. 63-87.
  27. Come risulta evidente da Principi, p. 77, dove si dimostra l’impossibilità del vuoto, ovvero di uno «spazio dove non c’è sostanza» o materia a partire dal fatto che «l’estensione dello spazio (…) non è differente dall’estensione del corpo». Come era già stato chiarito in Principi, pp. 73-4, infatti, «la stessa estensione (…) che costituisce lo spazio costituisce il corpo»: posta una qualunque determinazione spaziale, in altre parole, è posto anche il corpo che da quella determinazione è identificato, in modo tale che la distinzione tra spazio e corpo non è né reale né modale, ma una di quelle distinzioni che si fa solo «col pensiero» (Ivi, p. 55).
  28. Ci sembra che solo in questo modo sia possibile spiegare come l’affermazione secondo la quale «cosa sia questa cera, io non lo immagino mai, ma lo percepisco con la sola mente» (Meditazioni, p. 51, dove questa «sola mente» coincide, come si chiarisce in Meditazioni, p. 55, con il «solo intelletto») possa tradursi in un’altra, stando alla quale «quel che ritenevo di vedere con gli occhi, lo comprendo con la sola facoltà di giudicare che è nella mia mente»: di modo che, quando ho di fronte la cera, non vedo, ma giudico «che essa è presente a partire dal colore o dalla figura» (Ivi, p. 53). Questa implicita identificazione della mens da una parte con l’intellectus, e dall’altra con la facultas judicandi, e dunque della percezione della cera (o meglio: di cosa sia la cera) tanto con una intellectio quanto con un judicium presenta un duplice problema. Il primo lato di questo problema è relativo all’ambiguità dell’intelletto, che può essere inteso sia, in senso stretto, come «pura intellectio» (vedi ivi, p. 120), sia, in senso lato, come coincidente con quella generica «facoltà di conoscere» o di rappresentare attraverso idee la quale comprende, oltre all’intelletto strictu sensu, anche sensibilità e immaginazione. Se però «puramente intelligibili», e oggetto dunque della «pura intellectio», sono solo quelle cose «separate da ogni materia», il «solo intelletto» con cui questa cera (e non: la forma della cera) viene percepita non può essere che l’intelletto latu sensu. Che la cera sia percepita dalla «sola mente», allora, significa certo che essa non è percepita dall’organo di senso, ossia dal corpo, ma non che essa non sia percepita attraverso la sensibilità, in quanto essa è una funzione mentale, e non organica (cfr. ivi, p. 47). Il  secondo lato del problema riguarda l’assimilazione della percezione della cera da parte della «sola mens» ad un atto della «sola judicandi facultas». Come è spiegato nella IV Meditazione, la facultas judicandi presuppone bensì l’intellectio (non si può affermare o negare qualcosa senza averne una qualche idea), ma anche qualcosa «di più», o di «altro», perché ogni giudizio è il frutto non solo della «facoltà di conoscere», nella quale la mente è passiva, ma al tempo stesso anche del concorso della «facoltà di scegliere», nella quale la mente è attiva, e non è «circoscritta da alcun limite». A prima vista, sembrerebbe allora che la facoltà di scegliere, e quindi di giudicare, sia nonostante la sua illimitatezza costitutivamente costretta ad operare su idee o percezioni già date: è «attraverso il solo intelletto» che posso «percepire le idee sulle quali posso poi pronunciare un giudizio» (Ivi, p. 93). Dove però è la percezione stessa della cera ad essere identificata con un atto del giudizio, e dunque della volontà, sembra che l’attività della mente debba giungere a riguardare non più la sola affermazione o la negazione di un’idea già data, ma la stessa costruzione del dato sensibile su cui la scelta, in seguito, viene operata. Se ora unifichiamo i due lati del problema, ci pare si debba concludere che è bensì la sensibilità, secondo Cartesio, ad offrire alla mente una molteplicità di elementi; dove questi elementi, però, non possono essere riferiti dalla mente ad un sostrato unitario, organizzati cioè in una percezione e pensati come proprietà di un medesimo oggetto, se non attraverso un atto d’arbitrio, che non ha un fondamento né nella cosa stessa (perché la cosa è il prodotto, e non il dato della scelta), né nella molteplicità, di per sé stessa disorganizzata, interna alla sensazione. Su questo punto, cfr. in particolare le Risposte alle seste obiezioni, in Descartes, Opere filosofiche, cit., vol. 2, pp. 403-4, dove si distingue con chiarezza tra ciò che spetta alla sensibilità e ciò che invece spetta all’intelletto (o al giudizio).
  29. R. Descartes, Tutte le lettere…, ed. cit., p. 2617: è ben vero, infatti, che le proprietà sensibili, e lo stesso esser-sensibile, non appartengono necessariamente al corpo, non appartengono cioè al corpo in generale: e, in effetti, «possiamo concepire un corpo continuo, di grandezza indeterminata, (…) in cui nulla sia considerato oltre l’estensione» (ibidem). Questo corpo in cui non si considera se non la pura estensione, e può essere allora pensato solo intellettualmente, però, non è che il corpus in genere sumptus. Ciò nonostante, il fatto che non appartenga all’essenza del corpo preso in generale, non esclude affatto che l’essere sensibile appartenga a quella del corpo particolare. Su questo passaggio vedi, nell’appendice 10 di Gueroult, Spinoza. I. Dieu, Paris, 1968, le pp. 546-8.
  30. Ci pare che in questa stessa direzione può essere letto il ben noto passo della Lettera a Elisabetta del 28 giugno 1643, in cui si afferma che «il corpo, ossia l’estensione, la figura e il movimento, si possono anche conoscere con il solo intelletto, ma molto meglio attraverso l’intelletto soccorso dall’immaginazione». Come si dice poco dopo, infatti, la funzione dello «studio delle matematiche» (che pertiene al «solo intelletto») è senz’altro quella di esercitare «principalmente l’immaginazione alla considerazione di figure e movimenti», dove però è in ultima istanza alla sola immaginazione –per quanto esercitata dall’intelletto– che spetta la formazione di «nozioni del corpo ben distinte», mentre quelle prodotte dal «solo intelletto», se ne deduce, non saranno così bien distinctes. Cfr. R. Descartes, Tutte le lettere, ed. cit., p. 1781.
  31. Vedi anche Principi, p. 68, dove si dice che «vi è una certa sostanza estesa (…) e questa sostanza estesa è quello che si chiama propriamente il corpo, o la sostanza delle cose materiali», dove appare chiare sia l’unicità della sostanza/materia sia, implicitamente, l’identificazione delle «cose materiali», nella loro pluralità, come modi di questa unica sostanza. Sull’unicità della sostanza estesa, e sul senso equivoco in cui anche i corpi particolari possono essere chiamati sostanze, vedi Gueroult, op. cit., vol. 2, pp. 108-9, dove si parla di un’«applicazione indistinta del concetto si sostanza», e di «assenza di univocità» perché le «sostanze estese particolari (…) sono in realtà dei modi», e Id, Spinoza, vol. 1, Paris, 1968, p. 543, n. 52, dove si dice che nessun corpo particolare è una «sostanza strictu sensu», non essendo che altrettanti «assemblaggi precari di configurazioni (…), raggruppamenti accidentali di accidenti». Cfr. anche G. Lewis, L’individualité selon Descartes, Paris, 1950, cap. II, e in particolare pp. 46-7, dove dopo essersi chiesta, in poche parole, se Cartesio fosse spinozista (Ivi, p. 40), dice che, come il suo successore, anche Cartesio «attribuisce all’immaginazione la determinazione delle partes extra partes, mentre l’intelletto concepisce un corpo continuo di una grandezza indefinita», e conclude che in Cartesio i corpi particolari non sono che delle «determinazioni fragili», (Ivi. p. 65) o «agglomerati fragili» (cfr. Id, L’œuvre de Descartes, Paris, 1971, p. 384). Vedi anche J. Secada, The doctrine of substance, in S. Graukroger (a cura di), The Blackwell guide to Descartes, Oxford, 2006, p. 83, dove si afferma che il parlare di più corpi, in Cartesio, è motivato solo dal desiderio di non contrastare in modo troppo diretto le Scuole. Vedi poi L. Vinciguerra, Langage, visibilité, différence: histoire du discours mathématique de l’âge classique au XIXème siècle, Paris, 1999, p. 47 per il quale «nello spazio della fisica cartesiana (…) è difficile trovare un principio di individuazione dei corpi interno alla fisica». Cfr. anche L. Robinet, Descartes: la lumière naturelle, Paris, 1999, p. 162; E. Slowik, Descartes and individual corporeal substance, in «British journal of the history of philosophy», n. 9, 2001; J. Skirry, Descartes and the metaphysics of human nature¸ London, 2005, pp. 71 e sgg.
  32. Meditazioni, p. 141.
  33. Cfr. Meditazioni, pp. 21-3.
  34. Il passo continua così: «di modo che, anche se questa materia cambia e la sua quantità aumenta o diminuisce riteniamo che esso sia sempre lo stesso corpo, idem numero,  fintantoché rimane congiunto e unito sostanzialmente alla stessa anima. Crediamo anche che questo corpo sia tutto intero, fintantoché ha in sé tutte le disposizioni richieste al fine di conservare questa unione», cosa che non avviene a un «corpo in generale» (generalità che esclude però il corpo umano!), togliendo anche una sola particella al quale non si può più dire che sia «integro», «totalmente lo stesso» (presupponendo, pare, una possibile gradazione dell’identità, la possibilità cioè che A e B siano più o meno identici!). Cfr. R. Descartes, Tutte le lettere, cit., p. 1965. Questo passaggio della Lettera a Mesland ricorda da vicino quello dell’art. 30 delle Passions de l’âme, dove si legge che «l’anima è veramente unita a tutto il corpo, e non si può propriamente dire che essa lo sia a qualcuna delle sue parti ad esclusione delle altre, poiché esso è uno, ed in qualche modo indivisibile, in ragione della disposizione dei suoi organi, che si rapportano a tal punto gli uni agli altri che, quando uno è tolto, ciò rende l’intero corpo difettoso» (cfr. R. Descartes, Le passioni dell’anima¸ a cura di S. Obinu, Milano, 2003, p. 161). Non è possibile, in questo testo, non notare al tempo stesso la continuità e la discontinuità rispetto alla lettera del 1645. La dispositio (o disposition, in francese) di cui parlano entrambi i testi, da una parte, sembra infatti costituire un criterio di unità interno al corpo. Il caso del corpo umano mutilato, d’altra parte, viene trattato nel secondo testo esattamente allo stesso modo a in cui potrebbe esserlo quello dell’animale mutilato, perché il loro carattere «difettoso» impedisce ormai ad entrambi di essere considerati come un «tutto intero». L’essere «in qualche modo indivisibile» di questo «intero» che è il corpo umano non dipende più da un criterio estrinseco, da un’anima che risulta in ultima istanza totalmente indifferente alla materia che le è unita, ma unicamente dalla «disposizione dei suoi organi», e quindi da un criterio interno e compiutamente corporeo, suscettibile nell’uomo come nell’animale di diversi gradi di realizzazione. F. Alquié ha visto in questo passaggio non solo una correzione della tesi della non-unità «per sé» del corpo vivente, ma una riabilitazione, inoltre, dell’idea di una indivisibilità del corpo animale (del commentario di Alquié, cfr., in Descartes, Œuvres philosophiques, Vol. 3, Paris, 1973, la nota 1 p. 548 e la nota 2 p. 976). B. Baertschi, Les rapports de l’âme et du corps. Descartes, Diderot et Maine de Biran, Paris, 1992, p. 96, sottolinea inoltre che la «proprietà disposizionale» del corpo, pur di ordine teleologico, non richiede nessun intervento dell’anima, costituendo invece un «principio d’ordine» tutto interno al corpo che impedire, conseguentemente, ormai la riduzione del corpo a mera res extensa. Gueroult, al contrario, insiste in modo particolare sull’eccezione che il corpo umano rappresenta all’interno della natura, ritenendo che sia solo l’unità sostanziale del corpo umano con l’anima, e dunque della materia del primo con la forma che la seconda gli impone, a spiegare la finalità e l’organizzazione che il corpo umano presenta, e che impedisce di identificarlo al corpo dell’animale e a qualunque altro corpo del mondo fisico (cfr. M. Gueroult, Descartes… cit., vol. 2, capitolo 17).
  35. Meditazioni, p. 45.
  36. Meditazioni, p. 45.
  37. Ivi, p. 119.
  38. Ivi, p. 121.
  39. La tesi per cui la mente, rispetto al corpo, è conosciuta «non solo con tanta maggiore verità e certezza, ma anche con tanto maggior distinzione ed evidenza» costituisce, come è noto, il vero asse portante dell’intera architettura argomentativa delle Meditazioni: è su di essa, infatti, che si basa l’idea secondo la quale ogni metafisica che pretenda di stabilirsi come scienza deve partire non dall’oggetto della conoscenza, ma dalla conoscenza stessa, o dal suo soggetto.
  40. L’edizione latina da noi consultata è quella londinese del 1655, digitalizzata su google books; per la versione italiana, ci riferiamo a T. Hobbes, Elementi di filosofia. Il corpo, l’uomo, Torino, 1972, a cura di A. Negri, che abbiamo talvolta modificato. Sia per il testo latino che per quello italiano, qui di seguito useremo l’abbreviazione DC, seguita vuoi dall’indicazione del capitolo e del capoverso, vuoi anche o solo dal numero della pagina, che è in ogni caso da riferirsi alla traduzione italiana.
  41. Sul nominalismo di Hobbes, cfr. J. W. N. Watkins, Hobbes’ system of ideas, London, 1965, pp. 143-60, dove ad esser rilevate sono soprattutto alcune incongruenze interne, come quella relativa al reputato carattere oggettivo delle proprietà o accidenti delle cose (ad esempio il bianco), in forza dei quali attribuiamo loro un certo nome, che verrebbe a contraddire l’idea per la quale universali sono solo i nomi. Anche in F. S. McNeilly, The anatomy of Leviathan, London, 1968, pp. 62 e sgg. si rinviene un’incongruenza tra il nominalismo esplicitamente teorizzato e il realismo implicito nella teoria della conoscenza. Da una parte, infatti, il nominalismo dovrebbe condurre ad una teoria convenzionalistica della verità, perché l’attribuzione del nome generale che funge da predicato in una proposizione (e nulla, per Hobbes, può essere vero se non la proposizione) non può essere che arbitraria, non potendo essere fondata su un elemento universale presente nella cosa stessa. D’altra parte, però, nel De corpore Hobbes parla delle “proposizioni prime”, quelle cioè che fungono da principio della deduzione, non come frutto di una decisione arbitraria, ma come “conosciute per natura” e come tali, per di più, da dover cogliere, per essere vere, la natura stessa delle cose, da dover corrispondere a quella natura. Contro questa interpretazione di quello hobbesiano come un nominalismo dimidiato, o incongruo, cfr. G. K. Callaghan, Nominalism, abstraction and generality in Hobbes, in «History of Philosophy Quarterly», vol. 18, n. 1, pp. 37-55, dove si sostiene contro Watkins che gli accidenti, o proprietà, sono sì oggettivi, ma non universali, perché un accidente (ad es. questa particolare tonalità di rosso) non può appartenere a più di un oggetto particolare. Cfr. anche J. Hull, Hobbes’s radical nominalism, in «Epoché», vol, 11, n. 1, pp. 201-23, per il quale la radicalità del nominalismo hobbesiano, paragonato a quello sia di Ockham sia di Descartes, consiste soprattutto nella riduzione di ogni pensiero ad immaginazione, che impedisce non solo alla res, ma anche al concetto di essa, per via del suo legame con la particolarità dell’immagine, di porsi come universale. Su questo tema, vedi anche J. Bernahrdt, Nominalisme et mécanisme chez Hobbes, in «Archives de philosophie», 1985, vol. 48, pp. 235-49 e, nello stesso volume, pp.  177-233, C. Y. Zarka, Empirisme, nominalisme et matérialisme.
  42. Secondo il classico paragone offerto in DC, 1, 3, pp. 71-2, per il quale, la stessa cosa che a una certa distanza mi appare come “Mario”, mano mano che si allontana e che la mia percezione di essa si fa più oscura,  mi appare via via prima, in quanto scorgo in essa «i segni di una mente razionale» ancora come uomo, poi, poiché mi sembra che si muova da sola, solo come animale, cioè corpo animato, e infine, in quanto semplicemente estesa, unicamente come corpo.
  43. Cfr. DC, 7, 6, p. 149, dove si dice che non si potrebbe dire “uno spazio”, ma semplicemente “spazio”, se non si potesse intendere che ce n’è un altro, con cui possa essere confrontato. Allo stesso modo si può dire che la materia prima non è una materia, perché non c’è un’altra materia, ma “materia” tout court. Del resto, anche dell’accidente, o modo, o proprietà, si diceva che non si può chiedere “cosa sia” (quid sit), perché non è un aliquid, ma solo ciò attraverso cui (il concetto di) un aliquid può essere determinato come (il concetto di) questa o quella cosa particolare, dalla quale l’accidente non è separabile. Il fatto che la materia non sia un aliquid significa allora che essa, come si vedrà, coincide con l’estensione, ossia con l’accidente per il quale un qualcosa viene detto corpo.
  44. Come risulta dalla definizione del corpo enunciata in DC, 8, 1, pp. 146-7, infatti, «il corpo è ciò che, non dipendendo dal nostro pensiero, coincide o si coestende con una parte dello spazio». Lo spazio, d’altra parte, viene definito da Hobbes come «il fantasma di una cosa che esiste in quanto esiste, cioè senza considerare altro accidente di quella cosa, tranne il fatto che appare fuori di noi». «Il fantasma di una cosa che esiste in quanto esiste», ossia lo spazio con il quale essa è coestesa, non è che il «fantasma della sua grandezza», ossia della sua estensione. Lo spazio, allora, è un’idea, e più precisamente l’idea della cosa come esistente fuori di noi, ossia come corpo. Come idea, esso è un «accidente della mente», e «nulla fuori dalla mente». L’estensione o grandezza, al contrario, non è «niente nella mente», perché essa è un «accidente del corpo che esiste fuori dalla mente», (DC, pp. 157-8), e più precisamente quella sua proprietà, o accidente, di cui lo spazio è l’idea, e per la quale lo pensiamo come corpo. Se l’indipendenza dal pensiero è ciò per cui un corpo viene detto «sussistente per sé», il suo sussistere «fuori di noi», ossia come un’estensione o materia co-estesa con una parte dello spazio, è appunto ciò per cui viene detto «esistente». Esistere ed esistere fuori di noi, come sussistente per sé, dunque, sono una e la stessa cosa. Da una parte una cosa non può essere pensata come esistente se non in quanto indipendente dal pensiero, situata cioè in quello spazio extramentale che si chiama estensione, dove però nulla può esistere spazialmente, ossia essere esteso, senza essere un corpo, perché la spazialità, o esteriorità, in quanto estensione, coincide con la corporeità. Esistenza ed estensione, dunque, sono una e la stessa cosa. Pensare «una cosa che esiste», e cioè che appare «fuori di noi», è impossibile senza determinarla come corpo. Solo del corpo (e non dell’idea del corpo) si può dunque dire, propriamente, che esiste. Sull’ambiguo rapporto tra spazio ed estensione e sull’identificazione hobbesiana dell’esistenza, o realtà, di una cosa col suo carattere extra-mentale, cfr. il paragrafo «La realtà come corpo o come esistenza extra-mentale» in G. Bontadini, Studi di filosofia moderna¸ Milano, 1996, pp. 89-91, dove si finisce col concludere all’identificazione del materialismo come forma necessaria del dualismo, della separazione cioè di essere e pensiero. Contro questa interpretazione, vedi Y. C. Zarka, La décision métaphysique de Hobbes. Conditions de la politique, Paris, 1999², pp. 59 e sgg., dove si afferma che, nonostante non possa partire dall’essere, ma solo dalla sua rappresentazione, il sapere non è però scisso dall’essere, al quale può pervenire attraverso l’analisi delle condizioni della rappresentazione stessa. Cfr. anche Malherbe, Hobbes et la philosophie première, in M. A. Bertman, M. Malherbe (a cura di) «Th. Hobbes. De la métaphysique à la politique. Actes du colloque franco-américain de Nantes», pp. 24 e sgg., e K. Schuhmann, Le vocabulaire de l’espace, in Y. C. Zarka, ( a cura di) «Le vocabulaire de Hobbes», Paris, 1992, pp. 61-82. La radicalità della tesi per cui ogni ente è corpo si fa pienamente manifesta nella “scandalosa” teoria hobbesiana della corporeità di Dio, sulla quale vedi D. Weber, Hobbes et le corps de Dieu. «Idem esse ens & corpus», Paris, 1999.
  45. Cfr. DC, 6, 8, p. 132 o T. Hobbes, Critique du ‘De mundo’ de Thomas White, introduction, texte critique et notes par J. Jacquot e H. W. Jones, Paris, 1973, p. 117. L’edizione parigina del 1642 del «De mundo» di White è disponibile on-line su google books.
  46. Cfr. anche T. Hobbes, Answer to Bishop Bramhall, in Id., English Work, London, 1839,  Vol. 4, p. 309, dove si legge che «Matter is the same with body».
  47. T. Hobbes, Leviatano, a cura di A. Pacchi, Roma-Bari, 20006, p. 35.
  48. Ivi, p. 38
  49. Come nota Y.-C. Zarka, in First philosophy and the foundation of knowledge, in «The Cambridge Companion to Hobbes», Cambridge, 1996, Hobbes riduce «la nozione di ens a quella di corpus, (…) e l’esse all’inesse corporibus» (p. 69), in una prospettiva in cui «la filosofia prima di Hobbes reinterpreta i concetti tradizionali della metafisica al fine di produrre un’immagine del mondo in cui ci sono solo i corpi e i loro accidenti» (p. 70). In J.-L. Marion, Hobbes et Descarts: l’étant comme corps, in M. Fichant, D. Weber, J.-L. Marion (a cura di) «Hobbes, Descartes et la métaphysique», Paris, 2005, p. 72, si afferma che la teoria della scienza hobbesiana ha il suo «motivo ultimo» in una «decisione ontica», quella per la quale «non c’è sostanza se non corporea, ossia materiale», di modo che «il corpo assume niente meno che il rango di ente in quanto ente» (ivi, p. 73). Per un’accurata distinzione del significato dei termini ens, esse, essentia, vedi M. Pécherman, Le vocabulaire de l’être dans la philosophie première, in Y.-C. Zarka (a cura di) «Hobbes et son vocabulaire», cit., pp. 31-59, dove si legge anche che «il nome di ens non è che il nome generalissimo, indifferentemente, di ogni esistente, o corpo singolare». Sul problema della hobbesiana philosophia prima pensata non più, allora, come metafisica ma come physica generalis, e sulle motivazioni sia storiche sia concettuali di questa trasformazione, vedi poi. C. Leijenhorst, The Mechanisation of Aristotelianism: The Late Aristotelian Setting of Thomas Hobbes’ Natural Philosophy, Leiden, 2002, cap. I («Hobbes and the Aristotelians on philosophia prima»). Cfr. inoltre P. Magnard, Philosophie première ou métaphysique, in Y.-C. Zarka, J. Bernhard (a cura di) «T. Hobbes : philosophie première, théorie de la science et politique», Paris, 1990, pp. 29-37.
  50. Vale qui per la materia ciò che in DC, 7, 6, p. 149 viene detto a proposito dello spazio e del tempo: «lo spazio o il tempo, quando si considera tra altri spazi o tempi, si dice uno, cioè uno di essi»: altrimenti, se cioè «non si potesse intendere che ce n’è un altro», «basterebbe dire semplicemente spazio o tempo, e sarebbe superfluo dire uno spazio e un tempo». Il corpo in generale e la materia prima si comportano, sul piano logico, esattamente come lo spazio o il tempo in generale. Se cioè la «materia prima», identica al «corpo preso in generale», non può essere considerata, accanto agli altri corpi, come «uno di essi», ossia un corpo particolare, è perché, appunto, non può essere «un corpo distinto dagli altri»: per poter essere (o meglio significare) tutti i corpi non deve essere (significare) nessuno in particolare.
  51. Criterio generale, appunto, perché precedente alla distinzione tra le diverse specie di differenza: come identità/differenza numerica, uguaglianza/disuguaglianza, somiglianza/dissomiglianza.
  52. Della possibilità di pensare la differenza dei corpi diciamo che sembra facilmente garantita perché non ci sembra affatto chiara, anche qui come già in Descartes, la ragione che impone di considerare una certa proprietà come parte di questo insieme invece che di quello, e di riferirla dunque a questo soggetto invece che a un altro.
  53. Che ad essere evocato da Hobbes come una sorta di figura archetipica sia proprio Eraclito, con la sua radicalizzazione del tema del divenire, incapace di fissarsi in qualunque forma determinata che non sia immediatamente annientata nel momento stesso in cui sembra prendere consistenza, ci pare testimoniato dalla serie delle esemplificazioni di cui egli si serve. In questa prospettiva, ad esempio, sarebbe per via del «perpetuum corporis humanis fluxum», per il «flusso perpetuo», cioè «del corpo umano», che «l’uomo che pecca e l’uomo che è punito non sono lo stesso uomo» (DC, pp.184-5). Allo stesso modo, è all’esempio del fiume che si ricorre, mostrando in che senso lo si può considerare «identico (…),  ne scaturisca la stessa acqua, un’altra acqua, o altro che acqua», quando si tratta di dimostrare che l’insufficienza, in certi casi, del principio di individuazione legato all’«unità della materia» non esclude tuttavia, in quegli stessi casi, ogni applicazione del concetto di «individualità» (DC, p. 186).
  54. È un medesimo principio –il principio logico della non-contraddizione– ad applicarsi diversamente in ragione della differente considerazione della cosa, a sdoppiarsi in due principi che, applicati ad uno stesso caso, possono dare risultati contraddittori.
  55. In DC, 8, 2, sembrava che dell’accidente si desse una doppia definizione, o meglio una definizione ambigua: l’accidente –che non è un aliquid, una cosa naturale– era detto ora «un modo del corpo, secondo il quale modo esso si concepisce», ora, semplicemente, «il modo di concepire il corpo». Ma la definizione non è affatto ambigua, limitandosi a rispecchiare la struttura stessa del rapporto tra pensiero e realtà. Se una stessa cosa può essere definita sia come un modus corporis, ossia un modo di qualcosa che esiste fuori di noi, indipendentemente dal nostro pensiero, sia come un modus concipiendi, ossia un modo del nostro stesso pensiero, è perché, dove non possiamo pensare una cosa come indipendente dal nostro pensiero se non pensandola come corpo, non possiamo però nemmeno pensare un corpo come in sé stesso determinato, determinato cioè a prescindere dal nostro pensiero, senza pensare che esso sia, in sé stesso, determinato nello stesso modo in cui lo pensiamo determinato. Il nostro pensare un corpo come di per sé stesso determinato in un certo modo non è che il certo modo di pensarlo determinato, il modo in cui ne determiniamo il concetto. In questo senso, la doppia definizione dell’accidente come modus vuoi del corpus vuoi della cogitatio era anticipata già in DC, 7, 1, p. 146. In questo luogo si diceva infatti che «le cose» (e sottintendi: le stesse cose) «possono essere considerate (…) o come accidenti interni della mente, (…) o come specie delle cose esterne». Come abbiamo già visto, è questa distinzione tra considerazioni diverse della stessa cosa, ovvero tra pensiero della realtà e realtà pensata, che fonda il rapporto tra spazio ed estensione, distinti come la stessa cosa, ma considerata nel primo caso come «accidente della mente», ossia una determinazione dell’idea del corpo, nel secondo come determinazione o «accidente del corpo che esiste fuori della mente» (DC, 8, 4, p. 157). Su questo rapporto tra pensiero e realtà, vedi Y. C. Zarka, La décision… cit., p. 185, dove per un verso si afferma una «separazione reale tra la rappresentazione e la cosa», in forza della quale come «l’esistenza del mondo non è necessaria per pensare la rappresentazione», così «l’esistenza della cosa è assolutamente indipendente dalle condizioni della rappresentazione»; e per altro verso che «l’ente non è concepibile se non nella misura in cui potrà essere rapportato alle condizioni formali della rappresentazione».
  56. Cfr. DC, p. 187
  57. Nel senso in cui in Leviatano, cit., p. 549 si legge che «la quantità non è che la determinazione della materia, ossia del corpo».
  58. La traduzione italiana recita in realtà «l’accidente per il quale imponiamo ad un corpo un determinato nome», presupponendo con ciò che l’individualità del corpo sia qualcosa che si impone alla mente dall’esterno, che cioè precede, come da essa indipendente, la considerazione (o nominazione) di cui viene fatto oggetto. Il testo latino, in cui manca naturalmente l’articolo determinativo, non presenta nessun elemento che imponga questa scelta.
  59. Apparirà senz’altro strana, a prima vista, l’idea della permanenza di un medesimo corpo quale soggetto di essenze diverse; meno strana, però, se la considera nella sua equivalenza ad un’altra idea, ben più familiare: l’identità della materia come sostrato del variare delle forme. Equivalenza, come vedremo, che non toglie affatto tutti i problemi.
  60. Di cui citiamo qui ampi stralci: «quando diciamo che un animale, o un albero, o un altro corpo specifico  è generato o distrutto, anche se sono corpi, non si deve intendere che da un non corpo possa venire un corpo, o che da un corpo possa venire un non corpo, ma che da un animale può venire un non animale, da un albero un non albero ecc., cioè che gli accidenti per i quali chiamiamo una cosa animale, un’altra albero, ed un’altra ancora in un altro modo, sono generati e distrutti, e che, perciò, agli stessi non convengono più i nomi che prima convenivano loro: e, poi, non può essere generata o distrutta la grandezza per la quale chiamiamo qualcosa corpo. (…) E perciò (…) un corpo non può essere né generato né distrutto, ma esso ci appare soltanto, in un modo o in un altro, sotto diverse specie e, perciò, lo si nomina in un modo o in un altro, di modo che ciò che ora è uomo subito dopo si può chiamare non-uomo, ma non ciò che ora è corpo subito dopo non-corpo». In tutto questo brano, come si è già accennato nella nota precedente, la traduzione italiana tradisce costantemente l’originale latino, che ignora l’uso degli articoli determinativi o indeterminativi. Ad essere occultato, in questo modo, è lo stesso nucleo teorico dell’argomento: per la sua grandezza, ad esempio, il corpo è individuato solo come «corpo», oppure come «un corpo»? e ad apparire «sotto diverse specie» è un corpo determinato o, semplicemente, il corpo, ovvero il «corpo preso in generale»?
  61. Per essere (divenuto) un altro, dovrebbe al tempo continuare ad essere sé stesso (un albero), l’invariato soggetto del divenire, ed altro da sé (non albero), e dunque al tempo stesso permanere ed essere distrutto.
  62. Come riconosce chiaramente M. Malherbe (Hobbes et la philosophie première… cit., p. 24), la stessa ipotesi dell’annhilatio mundi, da cui l’intera hobbesiana «filosofia prima» prende l’avvio, non può fare a meno di presupporre quelle stesse cose che essa pure suppone annullate. Dalla supposizione di un completo non-essere, ossia di una compiuta inesistenza di qualsivoglia corpo, infatti, non ci sarebbe nessun avvio della filosofia, ma solo l’assenza di ogni pensiero. Solo la termporalizzazione di quel non-essere (l’«annientamento» è appunto ciò che fa passare un ente al non-essere), e dunque in ogni caso la presupposizione di una realtà corporea esterna, consente di avviare la riflessione filosofica come riflessione sul pensiero indipendentemente dalla realtà esterna. Per pensare la realtà delle idee dei corpi devo infatti pensare anche la realtà dei corpi stessi, sia come oggetto di quelle idee, come loro contenuto, sia come loro cause, come quegli oggetti reali che producono la modificazione del mio corpo di cui l’idea è la manifestazione. In quanto sono le prime categorie ad essere dedotte, prima ancora che sia introdotta quella di corpo, spazio e tempo vengono certamente definite, a questo livello ancora preliminare, senza alcun esplicito riferimento ai corpi: lo spazio come idea di una cosa che esiste in quanto esiste, il tempo come idea del movimento di questa cosa stessa. Poiché però, come Hobbes dirà in seguito, e come noi abbiamo visto sopra (cfr. supra, nota 43), ad esistere, in senso proprio, sono solo i corpi, lo spazio non è che l’idea del corpo in quanto semplicemente esteso, ossia in quanto semplicemente corpo, ed il tempo non è che l’idea dello stesso corpo, considerato nel suo mutamento locale. Anche se «spazio e tempo non sono corpi» (A. E. Taylor, T. Hobbes, London, 1908, p. 53), allora, spazialità e la temporalità non possono essere se non idee del corpo. (Cfr. A. Pacchi, Convenzione e ipotesi nella formazione della filosofia naturale di T. Hobbes, Firenze, 1965, pp. 90 e sgg. dove si dice chiaramente che l’«idea di spazio si identifica con l’idea di corpo»). Non ha senso, da una parte, pensare i corpi e il loro mutamento a prescindere dallo spazio e dal tempo, ossia dalle condizioni formali della loro rappresentazione. Altrettanto insensato, però, sarebbe il tentativo di pensare i concetti di spazio e tempo senza quello del corpo, visto che tra tali concetti non si può porre differenza differenza. Le idee di spazio e tempo, ossia i presupposti i più astratti della scienza del corpo, presuppongono a loro volta, sia come propria causa sia come proprio contenuto, la realtà di ciò di cui devono fondare la pensabilità. Il corpo e il suo moto sono la condizione concreta, o materiale, della rappresentazione dello spazio e del tempo (il soggetto e la causa di cui spazio e tempo, come loro rappresentazione astratta, sono i predicati o gli effetti), ossia delle stesse condizioni astratte, o formali, della rappresentazione del corpo e del suo mutamento (perché, se è solo come spaziale e temporale che possiamo rappresentare un corpo, allora non è se non a causa, o a condizione, di questa sua spazialità e temporalità che lo chiamiamo corpo).
  63. Se l’essenza, come si è visto sopra, è l’accidente in ragione del quale attribuiamo al corpo un determinato nome, si può certo dire che l’estensione, come accidente in ragione del quale attribuiamo a un qualcosa altrimenti indeterminato il nome di corpo, è l’essenza del corpo in quanto tale, l’accidente in ragione del quale consideriamo un qualcosa come corpo: ma ciò solo in senso improprio, perché l’essenza è ciò per cui attribuiamo un determinato nome a qualcosa che già è considerato come corpo, non ciò per cui lo chiamiamo semplicemente corpo.
  64. Ci sia consentita qui una breve notazione. «Il mutamento», e cioè il prodursi o il corrompersi di qualunque accidente, «non è altro che il movimento delle parti di un corpo mutato». «Il tempo», inoltre, «è il fantasma del moto», il quale moto che però è un accidente del corpo, ossia l’esito di un suo mutamento. La circolarità è troppo evidente. La distinzione tra le parti di un corpo, in quanto sono esse stesse dei corpi, non può essere presupposta al moto che genera gli accidenti in forza dei quali esse si distinguono. Neppure il tempo, però, può ovviamente essere presupposto al moto di cui è il fantasma. Un unico corpo non è né in moto né in quiete, perché, per Hobbes come per Galilei, può esserlo solo rispetto ad altri corpi. Di per sé stessa, quindi, l’estensione non può essere pensata se non come un’immota, compatta, eterna unità. Moto e mutamento, temporalità e pluralità sono viceversa altrettanti modi di nominare l’interna diversificazione di quell’unica estensione.
  65. Vedi il modo in cui questo argomento viene sviluppato e chiarito da Kant nella propria Estetica trascendentale: «In primo luogo, difatti, ci si può rappresentare soltanto uno spazio unico, e quando si parla di molti spazi, intendiamo con ciò solo delle parti di un solo e medesimo spazio. Queste parti non possono neppure precedere lo spazio unico e totalmente comprensivo, quasi si trattasse delle sue parti costitutive (onde fosse possibile comporlo insieme); al contrario, le parti possono essere pensate soltanto entro esso» (cfr. I. Kant, Critica della ragione pura, introduzione, traduzione e note di G. Colli, Milano, 1975, p. 79).
  66. Cfr. Leviatano, p. 544: «l’universo, vale a dire l’intera massa di tutte le cose che esistono» –di cui subito dopo si dice che «è tutto»– «è corporeo, vale a dire un corpo». Cfr. anche DC, 26, 1, p. 395,  dove si legge che «il più grande di tutti i corpi (…) è lo stesso universo». L’esistenza di un corpo coesteso con l’interezza dello spazio, d’altra parte, è già implicita nel rifiuto hobbesiano del vuoto, contenuto in DC, 4, 1-5, sul quale vedi J. Bernhard, La question du vide chez Hobbes, reperibile all’indirizzo internet http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/rhs_0151- 4105_1993_num_46_2_4272.
  67. Ci sembra che vada inteso in questo senso il fatto, solo apparentemente banale, che lo stesso corpo che «rispetto a qualunque suo accidente si chiama soggetto» non si chiami «materia» se non «rispetto alla forma» (DC, 8, 23, p. 167): se a prima vista è la forma, o l’accidente, a dover appartenere al corpo in quanto soggetto o materia, qui sono invece il soggetto, o la materia, ad essere determinati a partire da un accidente o da una forma che appartengono non a loro, ma al corpus in genere sumptum.
  68. Cfr. Leviatano, cit., p. 43. Sul concetto di conatus, vedi anche DC, 15, 2.
  69. Cfr. T. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, a cura di A. Pacchi, Milano, 2004, p. 35.
  70. DC, 9, 6, p. 173.
  71.  DC, 9, 6, p. 171.
  72. DC, 9, 6, p. 177.
  73. Cfr. T. Hobbes, Libertà e necessità, a cura di A. Longega, Milano, 2000, pp. 61-3.
  74. Cfr. DC, p. 173.
  75. Leviathan, p. 130.
  76. È interessante notare come nel capitolo X del Leviatano, intitolato «Il potere, il pregio, la dignità, l’onore e la capacità», sia proprio la persona ad essere assunta ad oggetto del discorso: vi si parla infatti di quale sia «il valore o pregio di una persona», che dipende dalla «stima degli altri», di quale sia «il pregio pubblico di una persona» etc. Questo significa che, anche al di qua di ogni considerazione dei suoi diritti e doveri, e considerato ancora in quanto semplice soggetto di un determinato potere, di una certa capacità di agire o di produrre effetti, l’uomo non può sottrarsi alla dinamica del riconoscimento: il potere stesso di cui si parla, infatti, dipende dall’opinione che l’altro ne ha, e non produce i suoi effetti, essendo quindi impotente, se non in quanto riconosciuto. È insomma un potere in cui la dimensione simbolica si è già innestata, amplificandola, su quella meramente materiale.
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