Axel Honneth
In recenti discussioni inerenti il materialismo storico è stata messa in questione la relazione sussistente fra la critica di Marx all’economia politica e una teoria sociale critica volta all’azione politica. La tesi che vi sia “una crisi nella teoria della rivoluzione” indica che l’analisi del capitale, il punto nodale del progetto teoretico di Marx, non può più pretendere di avere un ruolo guida nella formulazione di una teoria sociale critica che ambisca all’interpretazione dello stato attuale del capitalismo maturo il quale è orientato verso l’azione pratica. La funzione della critica all’economia politica nella teoria della lotta di classe è sempre stata oggetto di controversie nella storia del marxismo, ma non era mai stata posta in discussione in maniera così profonda. Anche se la nozione metodologica fondamentale circa la mutua traducibilità – se non addirittura la convergenza tematica – dell’analisi sistematica del capitale con una teoria della rivoluzione di carattere pratico forma la base della tradizione marxiana, è esattamente questa complementarietà ad essere messa in dubbio. Le categorie di una teoria della crisi basate su le analisi del capitale, sembrano non essere più adeguate a descrivere le mutate aree di crisi e i potenziali conflittuali inerenti le società del tardo capitalismo. Quest’incongruenza ha finito col dominare sia il versante teoretico che quello politico della discussione marxista.
La concezione del lavoro di Marx ha assunto una posizione centrale tra le varie questioni teoretiche concernenti la rilevanza del Marxismo in quanto teoria emancipativa degli esseri umani. Nella sua forma originale, il concetto rappresenta una congiunzione categoriale tra la critica dell’economia politica e la teoria materialista della rivoluzione: il concetto di lavoro non avrebbe dovuto solo designare la dimensione di pratica sociale all’interno della quale il mondo umano viene tratto fuori dalle sue radici naturali e socialmente riprodotto, ma avrebbe anche dovuto determinare il livello di azione al quale un sapere, in grado di trasformare la dominazione, si sarebbe potuto sprigionare, e rendere di conseguenza possibile anche l’espansione evolutiva della libertà sociale. Marx spera di comprendere il lavoro non solo dal punto di vista della crescita economica, ma anche dalla posizione normativa di uno sviluppo di sé pratico ed emancipativo [Bildung]. La critica dell’economia politica è di conseguenza intesa a descrivere la subordinazione del “lavoro vivo” al principio capitalista dello sfruttamento, e allo stesso tempo atta a rivelare gli assunti fondamentali di una teoria materialista della rivoluzione.
Il risultato dello stato privilegiato di questa categoria è che per Marx, e per la tradizione che può essere a lui ricondotta, il concetto di lavoro necessariamente esegue funzioni multiple, che vengono realizzate in maniere diverse. Al livello della teoria sociale, Marx vorrebbe usare il termine “lavoro sociale” per designare la forma di riproduzione caratteristica dell’esistenza umana – l’appropriazione cooperativa della natura. Qui, la struttura tecnica e l’organizzazione sociale del lavoro divengono la chiave per una teoria della storia umana. Nella sua teoria della conoscenza, specialmente nella critica a Feuerbach, Marx descrive il lavoro sociale come il contesto pratico all’interno del quale gli esseri umani raggiungono un accesso cognitivo alla realtà. Così la conoscenza che deriva dall’appropriazione cooperativa della natura diviene la base per una critica materialista della scienza. Al livello pratico normativo infine, Marx cerca di assegnare al lavoro sociale la funzione di un processo d’apprendimento consapevole, nel quale i lavoratori si accorgono del fatto che le loro capacità e i loro bisogni vanno ben al di là delle possibilità concesse dalle strutture sociali date. In questa parte, le prospettive emancipative sprigionatesi nel processo di produzione sociale diventano il fondamento di una teoria della rivoluzione sociale.
Poiché assolve tale triplice funzione, il concetto di lavoro ha assunto una posizione predominante nel pensiero Marxista. Ma tale preminenza non è rimasta immune agli attacchi nel susseguente sviluppo della teoria sociale critica. Perlomeno nelle tradizioni filosofiche nelle quali le basi teoretiche per l’azione della struttura concettuale di Marx non siano ancora state rimpiazzate da forme oggettivistiche, il primato del concetto di lavoro nella teoria sociale e nella teoria della conoscenza è stato messo in questione. Nel campo della teoria sociale, la categoria di azione comunicativa è stata aggiunta a quella di lavoro sociale come risultato della svolta intersoggettiva intrapresa dalla teoria critica;1 in altri casi come quello dell’interpretazione strutturalista di Marx, è stato rimpiazzato da una gamma di forme di praxis necessarie alla riproduzione sociale.2 Nel campo dell’epistemologia, le condizioni sociali per la costituzione della conoscenza sono state, o trasferite nella sfera della distribuzione sociale con lo scopo di stabilire una teoria socio-genetica,3 o ampliate con la dimensione d’interazione simbolica, allo scopo di stabilire un pragmatismo materialista.4
Tuttavia, dal punto di vista della connessione immanente fra la critica dell’economia politica di Marx e la teoria sociale orientata alla pratica, solo la terza funzione del concetto marxista di lavoro, quello che enfatizza il contenuto emancipativo del lavoro sociale, è di un interesse sistematico. Hans Jϋrgen Krahl ha cercato di esaminare il concetto di lavoro in Marx mediante questa prospettiva nel saggio “Production and Class Struggle”(Produzione e lotta di classe). Egli si domanda “se Marx abbia avuto successo nel presentare la dialettica del lavoro, i.e. lavoro sociale, non soltanto in quanto fatalità nell’utilizzazione del capitale [ein kapitalverwertendes Unglück], ma anche in quanto forza anticapitalistica, emancipativa e produttiva, ovverosia, se Marx sia riuscito a provare che le forze di produzione di per sé possano anche essere un mezzo di liberazione”.5 Vorrei contribuire indirettamente alla risoluzione di questo problema cercando di ricostruire una concezione critica di lavoro, contrariamente alla diluizione del concetto che ne è occorsa dopo Marx. Premettendo una breve presentazione della prospettiva marxista (I), dovrò seguire l’elaborazione del concetto di lavoro nella storia sociale post-marxista (II) fino al punto in cui Jürgen Habermas introduce una nuova dimensione a quest’orizzonte categoriale con il suo concetto di azione strumentale. Mediante una critica di questo concetto (III), infine, dovrei riuscire a delineare i contorni di una concezione critica del lavoro.
I
Marx ha cercato di stabilire le basi (teoretiche-per l’azione) del materialismo storico all’interno della struttura concettuale fornita dal moderno concetto di lavoro. Nella sua personale comprensione del lavoro sociale, egli combina implicitamente i vari elementi concettuali, per mezzo dei quali i filosofi sociali moderni avevano cercato di comprendere il processo di mutamento storico che si era gradualmente rivelato, mostrando che il fondamento pratico di qualunque sviluppo sociale è il frutto della produzione socialmente organizzata e non dell’attività politica e simbolica di classi dominanti. I filosofi moderni avevano reagito a questa concreta esperienza storica rimuovendo dal concetto di lavoro le connotazioni negative che ancora possedeva nella tradizione antica e cristiana, e rivalutandolo con decisione come un progresso attivo e sociale.6 In un certo senso, il progetto teoretico marxiano segna la conclusione di questo processo di reinterpretazione concettuale.
Marx si occupa in particolare dell’economicizzazione del concetto di lavoro, per mezzo della quale l’economia politica classica riconduce al lavoro in quanto fattore di produzione, sia l’esperienza epocale dell’espansione geografica che l’accelerazione della crescita economica. Le pratiche simboliche, politiche o contemplative dei gruppi dominanti sono viste come improduttive e vengono quindi rimosse dalla loro posizione predominante nella valutazione del comportamento umano, per essere rimpiazzate innanzitutto dal lavoro agrario e poi dal lavoro artigiano e industriale in quanto attività produttrici di valore. Questa rivalutazione del lavoro nella teoria economica trova la sua espressione finale nella teoria del valore-lavoro [Arbeitswertlehre].
Tuttavia, Marx porta anche nel concetto economico di lavoro quell’elemento emancipatorio che aveva permesso a Hegel di comprendere il lavoro come un aspetto costitutivo dell’autocoscienza. Nel suo modello di esternazione [Entaüsserungsmodell], Hegel, concependo l’attività lavorativa su un oggetto come oggettivazione dei contenuti della coscienza, ritraduce il concetto politico-economico di lavoro nel linguaggio teoretico coscienziale della filosofia trascendentale. Dato che Hegel suppone, contrariamente alla filosofia tradizionale, che il prodotto del lavoro abbia un significato retroattivo per il soggetto che lavora, egli è in grado di interpretare il lavoro come realizzazione materiale [Veranschaulichung] di abilità cognitive, e quindi anche come un processo di auto-sviluppo intellettuale.7 Marx adotta questa dimensione di significato nel concetto di lavoro quando critica l’organizzazione capitalista del lavoro come relazione socialmente alienante che gradualmente astrae il lavoratore dal carattere costruttivo e oggettivante del processo lavorativo.
Ma Marx fu grado di giungere al contenuto profondamente critico della sua concezione di lavoro solo con l’aiuto dell’intelaiatura teoretica che acquisì da un’altra teoria filosofica del suo tempo, il materialismo antropologico di Feuerbach. Difatti, non fu la storia dell’auto-sviluppo dello spirito come era stato pensato dalla filosofia dell’identità bensì la comprensione antropologica del processo vitale umano a servire da sfondo interpretativo sul quale Marx poté raffigurare l’attività oggettivante del lavoro come la capacità specificamente umana di oggettivare. È esattamente questa capacità che nella società capitalista è espropriata al lavoratore in maniera fraudolenta. Il concetto di specie prettamente antropologico di Feuerbach, il quale doveva esser volto ad esporre gli attributi del concetto di spirito hegeliano come un fraintendimento delle caratteristiche naturali dell’uomo, è quindi la terza componente intellettuale del concetto di lavoro in Marx. Solo a questo punto si raggiunge la complessità concettuale che permette di concepire l’attività corporale del lavoro sulla natura sia economicamente, come un fattore di produzione, sia moralmente, come un processo di auto-sviluppo intellettuale.8
Il concetto di lavoro sociale [gesellschaftliche Arbeit], nel quale Marx integra gli elementi centrali della moderna idea di lavoro, determina la struttura categoriale della sua teoria sociale. La forza suggestiva che scaturisce dalla nozione secondo la quale gli esseri umani divengono consapevoli dei loro bisogni e capacità attraverso il processo del lavoro sociale per mezzo del quale riproducono la loro stessa esistenza, consente al concetto di lavoro di divenire il paradigma categoriale del materialismo storico di Marx. In accordo con gli assunti filosofici sui quali si fondano sia la teoria antropologica dell’alienazione negli scritti giovanili di Marx, sia la sua teoria dello sviluppo capitalistico negli scritti economici, la storia del mondo è definita come l’auto generazione, auto-preservazione, ed auto-emancipazione della società attraverso il lavoro. Nei suoi scritti giovanili, egli argomenta positivamente riguardo la soggettività potenziale data all’uomo nella specifica capacità umana di lavorare. Nei suoi scritti economici, fornisce un’analisi negativa della repressione di suddetto potenziale lavorativo mediante l’ascesa del capitale. In entrambi, con l’ausilio del modello antropologicamente radicalizzato di lavoro inteso come esternazione, Marx interpreta l’epoca storica del capitalismo come una formazione socio-economica che rende strutturalmente difficile o addirittura impossibile per il lavoratore identificare se stesso nei suoi propri prodotti.9 In nessun passaggio dei suoi scritti, tuttavia, Marx descrive esplicitamente i limiti categoriali che differenziano questo modello di lavoro sociale da altre tipologie di attività. Egli non discute nemmeno i limiti all’interno dei quali la sua concezione del lavoro debba o possa essere applicata per la spiegazione di comportamenti individuali o collettivi. Invece questo concetto paradigmatico appare in tutti i suoi lavori come una figura di pensiero accompagnatrice che assume forme differenti durante i vari stadi attraverso i quali il suo progetto teoretico è stato elaborato.
Tramite l’utilizzo di quest’oscura figura del pensiero Marx offusca i confini tra quell’attività coinvolta nel lavoro sulla natura e quell’altra tipologia che, nelle Tesi su Feuerbach, egli tematizza esplicitamente, sotto la definizione di attività critico-pratica, come praxis politico-emancipativa. Proprio nelle Tesi il concetto teoretico di azione rivoluzionaria viene fuso in modo bizzarro con il concetto di lavoro, utilizzato in questo frangente con un intento epistemologico, sotto la vaga e generica concezione di ‘praxis’.10 Come conseguenza di questa formulazione dell’accezione emancipativa del lavoro, Marx apparentemente non suppone più semplicemente che nel processo espansivo del lavoro cooperativo sulla natura gli esseri umani riconoscano le loro capacità nei loro propri prodotti, bensì attribuisce addirittura alle attività lavorative un immediato potere rivoluzionario. Egli muove dalla formazione indiretta della soggettività nel lavoro, un processo ancorato nell’attuazione delle competenze pratiche, per poi risalire al tema del ruolo costitutivo del lavoro nella formazione della coscienza politica. Visto che poi il paradigma filosofico basilare della sua teoria omogeneizza tutte le modalità d’azione in conformità con il modello di un soggetto che lavora su una realtà concreta, Marx si trova costretto a seguire un linea di pensiero consequenziale [folgenreich] che tenta di esplicare la struttura dell’azione pratica emancipativa unicamente sullo sfondo categoriale del concetto di lavoro. » solo questo monismo categoriale, sul quale molti interpreti recenti di Marx hanno concentrato la loro attenzione,11 che gli offre la possibilità di supporre che il lavoro sociale in un senso emancipativo abbia anche una funzione rivoluzionaria. Marx ha voluto assicurare questo effetto rivoluzionario del lavoro sociale mediante due modelli argomentativi teoretici di azione; modelli, i quali devono ovviamente essere distinti da quella concezione economica che ha decisamente influenzato i suoi scritti successivi, e che andava appunto a concentrarsi sulle crisi sistemiche amplificate dalla crescita delle forze produttive tipica del capitalismo. Questi modelli teoretici d’azione possono essere individuati, da una parte in connessione con la teoria antropologica sull’alienazione dei Manoscritti di Parigi, dall’altra in diverse dichiarazioni sparse concernenti il processo di produzione industriale presenti nel contesto degli scritti politico-economici.
Nel primo modello argomentativo Marx cerca di comprendere il lavoro come un processo formativo non mediato nel quale i lavoratori, in quanto risultato dell’incontro con sé stessi nei prodotti del loro lavoro, diventano in grado di riconoscersi individualmente e collettivamente come soggetti di un’azione storico-costruttiva. Quest’idea può essere vista come una sorta di applicazione storico-empirica della teoria evolutiva della coscienza presente nella dialettica signoria – servitù della Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Marx deduce da questa basilare concezione filosofico-storica che la storia umana debba essere compresa come un processo che comporti la susseguente oggettivazione di tutti gli specifici poteri essenzialmente umani nell’‘attività vitale del genere umano’.12 Tuttavia, l’istituzione socio-economica della proprietà privata distorce questo processo storico di s-viluppo delle capacità e dei bisogni umani, poiché il lavoratore non è più libero di oggettivare sé stesso nei suoi propri prodotti, ma produce invece proprietà materiali solo per le classi abbienti. Questo fatto storico-sociale, che Marx racchiude nella formula del lavoro alienato, è velato e reso in forma astorica dall’economia politica dal momento che assimila il lavoro individuale e lavoro salariato [Erwerbstatigkeit]. Contro questa riduzione concettuale Marx viene a sostenere, per quanto non chiaramente, l’idea, condivisa con Hegel, di un sovrappiù emancipativo dell’attività lavorativa. A partire da una situazione di alienazione, l’emancipazione sociale si suppone raggiungibile solo attraverso le attività nelle quali il potenziale umano è allo stesso tempo represso e apparentemente preservato, ovverosia nel lavoro sociale, – così può essere letta la frase “autoalienazione, estraniazione dell’essenza, oggettivazione e dissoluzione della realtà umana come auto-redenzione”.13 Questo pensiero conduce infine Marx a pretendere che l’emancipazione dei lavoratori, l’auto-liberazione di coloro che agiscono in una condizione lavorativa alienata, rappresenti nello stesso atto storico anche la liberazione dell’umanità, dato che l’abolizione delle condizioni alienate nel lavoro sociale garantisce anche la continuazione del processo storico di oggettivazione di tutti i ‘poteri essenziali’ dell’umanità.
Ora, in nessun tratto dei Manoscritti di Parigi, Marx chiarisce ulteriormente la tesi chiave di quest’argomentazione: ovverosia, che l’emancipazione dei lavoratori dovrebbe essere passibile di spiegazione sulla base di relazioni immanenti di lavoro alienato. Marx non si è mostrato capace di attraversare argomentativamente il guado fra il carattere antropologicamente fondato del lavoro in quanto atto di oggettivazione, e la situazione storica concernente il lavoro sociale alienato. Questo spazio avrebbe dovuto essere colmato al fine di attribuire un effetto illuminante e rivoluzionario all’organizzazione del lavoro sociale stabilitosi sotto il capitalismo. Nella dialettica signoria/servitù, Hegel mostra che il servo acquisisce un’autocoscienza indipendente in opposizione al signore mediante l’autodisciplina e la fiducia di sé scaturenti dal lavoro sulla natura.
Questa dialettica fornisce quindi a Marx un tema di sfondo filosofico-storico, ma non una chiave interpretativa per le analisi empiriche delle relazioni sociali capitaliste. Una connessione immediata a questo modello di pensiero è interdetta a Marx per la semplice ragione che, date le basi delle sue prospettive teoretiche, deve riuscire a rendere comprensibile una coscienza sociale premente per la trasformazione di una situazione lavorativa alienata; esattamente non come avviene nel caso di Hegel dove un individuo è in cerca di un riconoscimento intersoggettivo con il signore. Thomas Meyer ha messo insieme le condizioni che hanno ostacolato Marx nella sua reinterpretazione della dialettica fra signoria e servitù la quale avrebbe reso giustizia alle sue intenzioni:
(1) In relazione all’antitesi rivoluzionaria, nella realizzazione del principio del proletariato, Marx mira a raggiungere non una mediazione con la coscienza del signore ma piuttosto la sua sostituzione con la nuova coscienza del servitore; (2) per questa ragione la coscienza del signore che è stata oggettivata attraverso l’azione mediatrice del servo strumentalizzato non può divenire anche parte dell’autocoscienza di quest’ultimo mediante l’incontro coi prodotti concreti del suo lavoro, dato che qui non si ha a che fare con il riconoscimento del signore al livello delle condizioni già stabilite da lui, ma piuttosto (3) ha a che fare con la realizzazione di un orientamento che in linea di principio è nuovo e che viene negato nel principio lavorativo corrente. Ancor più, in Hegel, (4) la possibilità per il servo di ottenere un’adeguata autocoscienza, presuppone la pre-esistenza di siffatta coscienza prima ancora dell’inizio del lavoro stesso, anche se dalla parte del signore.14
Marx lascia quindi anche insoluti i problemi teoretici che gli si presentano con l’utilizzo della dialettica hegeliana di signoria e servitù quando, nel successivo sviluppo della sua teoria, egli rimuove i due aspetti sconnessi nel concetto di lavoro dei Manoscritti di Parigi dalla loro intelaiatura antropologico-normativa di riferimento e li proietta nella storia sociale empirica del lavoro. L’idea di lavoro intesa come avente il carattere fondamentale di un processo materiale di attuazione, che negli scritti precedenti rappresentava lo sfondo per l’investigazione sul lavoro sociale alienato, è mantenuta da Marx negli scritti economici tramite ‘l’empiricamente ricca’ immagine del lavoro regolato degli artigiani, intimamente familiari con il loro prodotto. Da qui in avanti l’immagine guida normativa per l’analisi di Marx è stata arricchita dell’idea di un’attività lavorativa unificata, autonomamente progettata e svolta dal lavoratore. Al posto del concetto antropologico di un’oggettivazione di specifici bisogni umani ‘nell’attività vitale della specie’, emerge quindi nei Grundrisse, in particolare nella critica al concetto di lavoro dell’economia politica classica, l’idea di un processo produttivo guidato dalla conoscenza stessa del lavoratore e in grado di comprendere la totalità delle capacità umane di azione:
Adam Smith non sospetta neppure che tale superamento di ostacoli sia in sé attuazione della libertà — e che inoltre gli scopi esterni vengano sfrondati dalla parvenza della pura necessità naturale esterna e siano posti come fini che soltanto l’individuo stesso pone — ossia come autorealizzazione, materializzazione del soggetto, e perciò come libertà reale la cui azione è appunto il lavoro. […] Un lavoro realmente libero, per esempio il comporre, è al tempo stesso dannatamente serio e comporta uno sforzo intensissimo. Il lavoro di produzione materiale può assumere questo carattere solo nel caso in cui 1) è posto il suo carattere sociale, 2) ha carattere scientifico e al tempo stesso è lavoro generale, sforzo dell’uomo non come forza naturale addestrata in modo determinato, ma come soggetto che nel processo di produzione non si presenta in forma puramente naturale, originaria, bensì come attività che regola tutte le forze della natura.15
Il concetto di lavoro alienato così centrale nei Manoscritti di Parigi si suppone caratterizzi il capovolgimento per mezzo di cui un’attività lavorativa costituente la soggettività diviene al contrario una diretta dall’oggetto. Negli scritti economici Marx ha alterato questo concetto in modo da farlo aderire alla realtà capitalista del lavoro frammentato e meccanizzato. Sotto la definizione di ‘lavoro astratto’ nella quale l’analisi cerca di determinare il caratteristico processo capitalistico di astrazione dai contenuti concreti delle attività lavorative nei termini di una realizzazione di valore, Marx descrive la graduale dissoluzione di tutte le attività lavorative artigiane nel processo di produzione capitalista:
Questo rapporto economico – il carattere di estremi di un rapporto di produzione che contraddistingue il capitalista e l’operaio – si sviluppa quindi in forma tanto più pura e adeguata quanto più il lavoro perde ogni carattere d’arte; la sua abilità particolare diviene sempre più qualcosa di astratto, di indifferente, ed esso diviene in misura sempre crescente attività puramente astratta, puramente meccanica, e perciò indifferente, indifferente alla sua forma particolare; attività puramente formale o, il che è lo stesso, puramente materiale, attività in generale, indifferente alla forma.16
Questo tipo di attività lavorativa, separata dalla conoscenza empirica del lavoratore e frammentata in cieche operazioni componenti, forma da qui in poi per Marx il polo di contrasto a quella forma di lavoro sociale che egli descrive usando il modello di lavoro artigianale. Come conseguenza di una siffatta analisi, tuttavia, egli rimane intrappolato nel dualismo di due forme storiche di lavoro sociale senza possedere i mezzi concettuali per considerare il processo di sviluppo che potrebbe mediare fra loro. A questo punto Marx ha smesso di perseguire le sue idee radicali precedenti come ad esempio quella di comprendere il processo lavorativo direttamente come un processo formativo in grado di sprigionare motivazioni pratico-morali. Fosse stato questo il caso, egli sarebbe stato anche costretto a caratterizzare il processo di produzione capitalista come un contesto comunicativo, fra i lavoratori, nel quale non sarebbe andata persa l’ipotesi che la caratteristica delle procedure inerenti il lavoro artigianale fosse quella di un processo di oggettivazione. In altre parole, i lavoratori avrebbero sempre già anticipato le caratteristiche delle procedure di lavoro auto-contenute, auto-dirette che incarnano la conoscenza del lavoratore. Siffatto corso di pensiero, tuttavia, non può essere rintracciato in Marx. Invece, per riuscire ad attribuire nonostante ciò un potere radicalizzante al processo del lavoro nella cornice dei suoi scritti economici, egli lì passa a un modello strumentale di argomentazione nel quale il processo di produzione capitalista da solo ancora sostiene il ruolo di strumento che organizza e disciplina il proletariato.
Questo secondo modello concettuale non sostiene più dall’interno l’immediata tensione tra lavoro artigiano organico e attività industriale meccanizzata, ma persegue invece direttamente le fasi del processo di produzione capitalista. Il cambio di prospettiva che in tal modo Marx porta a termine è forzato metodologicamente dalla ristrutturazione della sua teoria sociale all’interno dell’analisi del capitale, che procedendo come una critica immanente è solamente in grado di tematizzare relazioni di azione sociale in accordo con la determinazione formale del capitale.17 In siffatto modello argomentativo, Marx calcola che l’organizzazione capitalista del processo di produzione lavorativo avrebbe dovuto, come dire, ‘socializzare’ la classe lavoratrice in un soggetto collettivo disciplinato, organizzato e tecnicamente qualificato. Tre ipotesi concernenti il processo di sviluppo dell’industria capitalista convergono in questo sforzo esplicativo: la prima, in particolare, è quella che la centralizzazione e concentrazione del capitale avrebbe dovuto raggruppare sempre più lavoratori insieme in ogni posto di produzione dato, dando in tal modo evidenza visibile al ‘potere del proletariato’. In secondo luogo, gli sviluppi delle qualificazioni necessarie per il lavoro nell’industria capitalista avrebbero consentito sia la formazione delle capacità dei lavoratori per la cooperazione sia lo sviluppo dell’autodisciplina. Terza ed ultima ipotesi, lo sviluppo progressivo della tecnologia nella produzione avrebbe spinto le istituzioni educative orientate all’industria a inculcare più di mere competenze attive strumentali, e con ciò incrementare l’accesso del proletariato alle riserve di conoscenza sociale. Come conseguenza di questi assunti Marx può dunque assumere come dato un processo di continua reazione tra esperienze di oppressione, elaborazione intellettuale e la disciplinata preparazione alla resistenza. Questo processo si sarebbe quindi dovuto risolvere nella rivolta della classe sociale dei lavoratori salariati contro il capitalismo. È nel contesto di questa parte della sua teoria della rivoluzione che Marx parla della ‘scuola della fabbrica’:
Con la costante diminuzione del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce anche il peso della miseria, dell’oppressione, dell’asservimento, dell’abbrutimento e dello sfruttamento. Ma cresce anche l’insofferenza di una classe operaia in costante aumento e che è formata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalista.18
In posti come questo, nel contesto dei suoi scritti riguardanti la critica all’economia politica, Marx si è tenuto stretto a un concetto teoretico di lavoro che pone ambizioni rivoluzionarie. Tuttavia, in luogo di un modello argomentativo che cerchi di spiegare la possibilità di un’emancipazione sociale direttamente sulle basi del potenziale educativo del lavoro, lì è emerso il meno ambizioso modello della classe lavoratrice che diviene tecnicamente qualificata e disciplinata mediante il lavoro industriale. Nella teoria economica dei suoi scritti posteriori, Marx ovviamente non vuole più consegnare al lavoro sociale il potenziale di apprendimento pratico-morale che deve per forza di cose presumere esso abbia qualora voglia spiegare l’ambizione emancipativa del proletariato sulla base delle azioni-esperienze di lavoro. Ora invece, egli vuole ora attribuire al lavoro sociale solo il potenziale di apprendimento insito in un processo di educazione tecnica volto a supportare strategicamente la lotta del proletariato per la liberazione.
Il primo modello di argomentazione lo conduce nella difficoltà per cui si trova a dover presupporre nel lavoro un potenziale formativo di carattere pratico-morale che eserciti un potere normativamente illuminante in grado di andare oltre le ingiuste relazioni del capitalismo proprio in quelle situazioni di alienazione dove, secondo la sua analisi, l’organizzazione capitalista del lavoro ha svuotato l’attività lavorativa della sua capacità di attuare concretamente i poteri umani essenziali e lo ha così privato del suo potenziale formativo. Il secondo modello argomentativo di Marx, dall’altra, si mostra incapace di supportare le ambizioni stabilite con il privilegio assegnato al lavoro sociale nella teoria della rivoluzione. A questo livello argomentativo Marx è solo in grado di suggerire come il proletariato impari intellettualmente a raffinare la sua già sviluppata coscienza critico-normativa, e a tradurre strategicamente questa coscienza in capacità volte a un’attività pratico-rivoluzionaria. In quale modo, tuttavia, si suppone che il processo formativo per questa stessa coscienza emancipativa sia ancorato nelle azioni-strutture del lavoro sociale, rimane ancora, in questo modello argomentativo, poco chiaro così come lo era nei suoi scritti giovanili.
Marx non è mai stato in grado di districarsi dalle basiche difficoltà concettuali nelle quali lo avevano chiaramente condotto le pretese rivoluzionarie della sua idea di lavoro. La sua rivalutazione emancipativa del concetto di lavoro ha posto su di esso forti richieste teoretiche. In tutte le fasi dello sviluppo della sua teoria, Marx ha cercato di ricondurre il processo di apprendimento socialmente rivoluzionario, che avrebbe dovuto condurlo oltre il capitalismo, alle relazioni immanenti del lavoro sociale, senza tuttavia aver sviluppato un modello argomentativo convincente per giustificare questa connessione.
Questo dilemma concettuale rappresenta un’eredità nella storia del marxismo che ha provocato numerosi ed estesi tentativi di rendere plausibile il significato emancipativo del lavoro sociale per poter riuscire a tenersi sulla relazione immanente fra critica dell’economia politica e teoria della rivoluzione. Nella schiera di questi sforzi interpretativi la versione oggettivista della teoria della rivoluzione simboleggia la fase riduzionista nel pensiero Marxista. Gli insignificanti concetti psicologici della teoria dell’immiserimento19 e le versioni tecnologiche del materialismo storico20 sono esempi di interpretazione che hanno eliminato risolutamente la questione concernente la relazione fra lavoro sociale ed emancipazione sociale, per la quale Marx aveva cercato una risposta nella tensione fra forme di lavoro organiche come quella artigianale e il lavoro frammentato della industria capitalista. In queste interpretazioni oggettiviste di Marx tale questione è stata sostituita da quella concernente gli effetti rivoluzionari risultanti dallo sviluppo delle forze di produzione capitaliste. In questa maniera le dimensioni della problematica marxista viene completamente persa di vista, dato che le condizioni per la possibilità di processi di emancipazione politica non sono più pensati accadere al livello delle esperienze sociali di soggetti agenti, ma piuttosto sono stati proiettati ad un livello di autonomi processi sistemici. Oltre il corso di questa tradizione c’è, per esser sinceri, anche una tradizione filosofica contrastante nella storia del marxismo che ha cercato anch’essa di rispondere alla questione, posta implicitamente nella teoria di Marx, riguardo la relazione fra lavoro ed emancipazione ad un livello argomentativo pratico-filosofico.
II
La base empirica della concezione di lavoro di Marx è rappresentata dall’istanza storica per la quale entrambi le forme di lavoro significative, sia quella artigianale che quella atomizzata, industriale, si trovarono ad aver luogo contemporaneamente nella prima fase dell’industrializzazione capitalista. In un certo senso la complessità di questo concetto centrale è l’espressione categoriale dell’eguale status fattuale di queste differenti forme di lavoro sociale a quel tempo. Questa costellazione è collassata negli ultimi trent’anni del diciannovesimo secolo con la seconda avanzata dell’industrializzazione. L’uso programmato e organizzato di tecnologie di sviluppo per l’accumulazione di capitale, che cominciò con le scoperte di nuove fonti energetiche, gradualmente sospinse lontano dai centri di produzione diretta tutte quelle forme di artigianato intime con l’oggetto e concretamente controllabili, sulla cui base Marx e Hegel avevano ovviamente concluso che il lavoro può essere un processo di oggettivazione costruttiva, e le spinse in aree economiche marginali di produzione secondaria (manutenzione, processi preparatori e simili).21 Con l’ascesa dell’industria su larga scala e la transizione alla produzione di massa, la singola, completa procedura di lavoro fu divisa in operazioni parziali, individualmente controllabili, e adattate al ritmo meccanico forzato della macchina. Quest’intensificazione del processo di lavoro umano guidata dal criterio dell’efficienza fu la base della rapida e relativamente stabile crescita economica nel periodo della prosperità fra il 1896 e il 1913. Da quel periodo, sotto la pressione della logica del profitto, nuove conoscenze tecniche e scientifiche furono costantemente applicate al processo di razionalizzazione delle tecniche di produzione industriale.
Lo stimolo decisivo al raggiungimento dell’incremento della produttività per mezzo di un’approfondita razionalizzazione del lavoro concreto, venne dalle ricerche industriali di Taylor, che confluirono nel concetto di amministrazione scientifica. In suddetto concetto veniva proposta di centralizzare tutte le conoscenze riferite alla produzione in un’amministrazione unificata della fabbrica, per ridurre quindi ogni passo nel processo di produzione e tutte le operazioni di lavoro ai loro elementi basilari con l’aiuto dell’osservazione esatta del tempo e dei movimenti; rideterminare la successione dei passi specifici per evitare perdite di tempo, e riuscire in questo modo a scoprire l’organizzazione del lavoro economicamente più efficiente. Harry Braverman ha descritto tre aspetti fondamentali del cambio strutturale nell’organizzazione del lavoro che sono seguiti all’istituzione dei princìpi di Taylor. (1) Il processo di produzione industriale nel suo complesso è stato sistematicamente separato dalla conoscenza tecnica del lavoratore. Braverman chiama questo “la dissociazione del processo lavorativo dalle competenze dei lavoratori. Il processo lavorativo è reso indipendente dall’abilità, dalla tradizione e dalla ‘conoscenza’ del lavoratore”.22 (2) Nell’organizzazione dell’impianto industriale, la progettazione tecnica è stata severamente separata dall’effettiva esecuzione del lavoro, di modo che infine, (3) la leadership istituzionalizzata della fabbrica nel monopolio conoscitivo renda possibile il controllo capillare dell’intero processo lavorativo. “È nell’epoca della rivoluzione tecnico-scientifica che l’amministrazione fissa per sé il problema di cogliere il processo nel suo complesso e di controllare ogni suo elemento, senza eccezione.”23 La razionalizzazione economica del lavoro industriale capitalistico, che Braverman vede come la conseguente espropriazione di una conoscenza, condivisa e tradizionalmente acquisita della forza lavoro da parte della direzione di fabbrica scientificamente educata, ha condotto ad una rottura altamente differenziata del processo lavorativo. Nei decenni scorsi, il livello di qualificazione dei lavoratori non si è innalzato uniformemente ad un livello parallelo a quello della meccanizzazione della produzione, ma si è invece polarizzato. Nuove forme di lavoro non qualificato si sono aggiunte ai semplici compiti manuali e alle operazioni lavorative parziali e ripetitive che costituiscono la maggior parte dei lavori, mentre i complessi compiti intellettuali che sono più aperti all’iniziativa personale si sono concentrati nelle mani di relativamente pochi soggetti.24 Con questo cambiamento nella costellazione del lavoro sociale, la relazione causale che Marx credeva esistere tra l’intensificazione della produttività lavorativa e un costante incremento del livello di qualificazione dei lavoratori ha cessato di essere empiricamente plausibile. La nozione rivoluzionaria per cui una socializzazione intellettuale e strategica sia possibile all’interno della cornice del lavoro industriale capitalista si è impantanata nella realtà di una dequalificazione di massa. Allo stesso modo, con l’universalizzazione del lavoro meccanizzato, l’implicita tensione concettuale all’interno della quale il giovane Marx aveva cercato di intendere il lavoro sociale come un processo di apprendimento pratico e morale, ha perso tutto il suo vigore originario. Si può dunque affermare che è stato il fondamentale cambiamento strutturale nel lavoro industriale capitalista ad aver infine portato alla luce le difficoltà categoriali nelle quali Marx era rimasto impigliato quando aveva cercato di sviluppare una teoria della rivoluzione sulla base del suo concetto di lavoro.
Tuttavia, questo stesso processo di cambiamento radicale nelle forme del lavoro sociale ha anche ridotto decisamente il ruolo che il concetto di lavoro ha giocato nello sviluppo della teoria sociale dopo Marx. Come risultato dell’influenza dei principi di Taylor sull’organizzazione del lavoro industriale, la razionalizzazione delle tecniche di produzione che si assesta relativamente presto nello sviluppo del capitalismo ha raggiunto un livello al quale la maggior parte dei lavori hanno perso qualsiasi somiglianza con l’attività manuale auto-sufficiente. Sotto la pressione esercitata dall’esperienza di questa rapida meccanizzazione del lavoro industriale, i filosofi e gli scienziati sociali hanno dall’inizio del secolo gradualmente incominciato a enfatizzare eccessivamente gli aspetti funzionali del concetto di lavoro, sia economicamente che tecnicamente, privandolo così del senso emancipativo che Hegel e Marx avevano rivendicato per esso e permettendo a questi aspetti del suo significato di migrare nel regno del criticismo culturale.
La storia della sociologia fornisce un incredibile esempio di questa graduale ‘pulizia’ del concetto di lavoro dai tradizionali contenuti normativi. Nella teoria socio-scientifica del processo lavorativo, l’altro lato (il rovescio della medaglia) di questa riduzione concettuale è stato l’aggiornamento degli atti di lavoro allo status di successi o prestazioni, la cui organizzazione sociale è ora investigata esclusivamente dal punto di vista dell’assicurazione di una produttività incrementata. Questo mutamento concettuale è accompagnato da ricerche socio-filosofiche che hanno intenzionalmente messo in discussione lo speciale status categoriale garantito al concetto di lavoro in filosofia dalla fine del diciottesimo secolo.
La sociologia del lavoro è dapprima emersa, all’inizio di questo secolo, nella forma di un’investigazione empirica che assumeva come problema il senso culturale e psicologico del lavoro di fabbrica per il proletariato industriale. La pioneristica ricerca di Adolf Levenstein e dell’Associazione per la società e la politica [Verein fur Sozialpolitik] attua un’analisi socio-scientifica delle mutate condizioni di lavoro, ottenuta mediante casi esemplari e indagini d’opinione, nel contesto di un’intelaiatura teoretica socio-culturale che effettuava indagini riguardo gli effetti sociali del lavoro industriale meccanizzato. Siccome le categorie centrali di quest’apparato teoretico mantengono inalterato un concetto di lavoro che, attribuendo il potere di formazione della personalità ad attività produttive che trasformano la natura, ancora porta con sé la tradizione socio-filosofica del diciannovesimo secolo, questi studi sono in grado di dischiudere analiticamente le conseguenze negative della razionalità sfrenata del processo lavorativo industriale. Nella sua interpretazione sociologica del ‘godimento lavorativo’, Christian von Ferber ha esaminato queste implicazioni normative che la prima generazione di sociologi industriali ha permesso entrassero nell’apparato categoriale soggiacente le loro ricerche empiriche. Durante la fase iniziale della sociologia tedesca, il concetto di lavoro mantenne intatte le speranze teoretico-emancipative che la filosofia sociale di Marx e Hegel, sulla scorta di un’industrializzazione precoce, avevano fissato sugli effetti emancipativi e formativi del lavoro sociale – anche se considerevolmente al di sotto del livello riflessivo raggiunto nei loro scritti. “Il lavoro è una componente essenziale del processo culturale, per mezzo del quale ogni lavoratore, almeno per principio, partecipa all’unità della cultura. Il lavoro rappresenta un mezzo privilegiato per lo sviluppo della personalità contribuendo allo spiegamento della vita emozionale e all’esperienza intellettuale del lavoratore. In breve: accanto alla sua funzione economica, il lavoro assume un valore chiave sia culturale che etico; è allo stesso tempo il risultato e il dispiegamento delle forze storiche”.25
Questo concetto culturale di lavoro, che le ricerche nella sociologia industriale di inizio secolo condividono come presupposto comune, riporta von Ferber alla tradizione che attribuisce un’immagine artigiana alla società piccolo-borghese. Quest’immaginario esercitava ancora un’influenza nella sociologia accademica, che era stata dotata dell’autorità interpretativa riguardo la società, anche se i suoi presupposti socio-strutturali avevano storicamente già perso il loro significato. L’interesse di carattere cultural-teoretico e costitutivo per la conoscenza di questa prima sociologia del lavoro, traeva il suo potere interpretativo finalizzato a una teoria sociologica, così come le sue limitate possibilità di applicazione, da una prospettiva normativa che idealizzava una specifica situazione di produzione caratterizzata da procedure di lavoro artigiane permeate di senso, di modo che su questo sfondo positivo sarebbero emerse con maggiore chiarezza le conseguenze sociali del lavoro industriale meccanizzato. I risultati critico-interpretativi di siffatta sociologia industriale vennero fuori da una fertile scambio reciproco tra questioni cultural-teoretiche e una sociologia del lavoro di natura empirica. Tuttavia, secondo la prospettiva suggerita dalla sociologia della conoscenza di Ferber, questi sforzi sono destinati a non portare risultati, dato che, con la trasformazione socio-culturale del capitalismo, l’immagine di una società piccolo-borghese che ambisca ad una trasparenza tangibile in tutte le azioni sociali non trova più un gruppo sociale rappresentativo. Con la marginalizzazione del lavoro manuale poi, anche l’accezione culturale di lavoro perde il suo significato per la sociologia industriale. Il tema interpretativo che, nella forma di un lavoro manuale ideale, aveva fin lì guidato la sociologia industriale fu quindi mutato nella nostalgia utopica della critica socio-scientifica della cultura, per la quale questo ideale forniva semplicemente un’immagine contrastante con un mondo permeato dalla tecnologia.26 Al posto di una sociologia del lavoro di carattere cultural-teoretico, emerse da quel momento una sociologia industriale e organizzativa depurata da qualsiasi principio normativo.
In questo sviluppo teoretico la sociologia perse l’orientamento verso problemi di natura socio-filosofica i quali – fino a quando mantenne come presupposto teoretico di base un concetto di lavoro che trascendeva le forme contingenti di lavoro sociale – avrebbero potuto proteggerla dalla sua placida integrazione nel processo capitalista di razionalizzazione. Ora, tuttavia, la sociologia industriale è sistematicamente integrata nella spirale della razionalizzazione tecnica della produzione nella quale ogni lacuna scientificamente evidenziata nell’efficienza del processo di lavoro capitalistico è colmata da una nuova e economicamente più efficiente organizzazione del lavoro. Concetto di lavoro che in questa maniera si fa strada lungo le ristrette ricerche sociologiche riguardo il processo lavorativo industriale, fino a quella dimensione che è sempre (pre)stabilita in qualsiasi momento dall’avanzante ciclo della razionalizzazione nel sistema di produzione capitalistico. Tale concetto impedisce quindi di provare a guardare oltre l’organizzazione del lavoro stabilita in un dato momento, come anche vieta qualsiasi tentativo di mettere in discussione l’estensione della meccanizzazione del lavoro industriale.
La trasformazione della sociologia industriale in una scienza di razionalizzazione produttiva ebbe come punto di partenza storico gli Hawthorn Studies, intrapresi sotto la guida di Elton Mayo durante la fase di prosperità goduta dall’industria degli USA nel periodo seguente la Prima Guerra Mondiale. Questi studi inciamparono più o meno inintenzionalmente sull’idea che la comunicazione e l’organizzazione morale potessero essere trattate come condizioni di prestazioni lavorative in grandi ambiti industriali.27 Da quel momento in poi la sociologia industriale si è gradualmente spostata verso la dimensione-azione del lavoro industriale per riuscire a mettere sistematicamente sotto controllo sia le falle nella produttività economica che i pericoli politici all’efficienza che possono emergere in qualsiasi momento. Il campo d’indagine per la sociologia industriale è stato ripetutamente ‘stratificato tematicamente’ (thematisch Aufgestockt)28 attraverso l’introduzione di prospettive analitiche addizionali dalla sociologia e dalla psicologia, pur non avendo sostanzialmente perso la linea guida – improntata all’intensificazione organizzativa della produttività lavorativa – stabilita dai principi di Taylor.
Questa tendenza è stata interrotta solo da pochissimi studi sociologici sull’industria che riflettevano l’influenza di una teoria sociale generale.29 In generale tuttavia, il concetto di lavoro in queste ricerche ha continuato ad essere determinato esternamente dalle priorità d’indagine stabilite dalla razionalizzazione tecnologica del processo di produzione. In precedenza, da Hegel, attraverso Marx, fino all’inizio della sociologia industriale tedesca, il concetto di lavoro aveva sempre incluso la possibilità di una forma di attività significativa e autoregolata intimamente correlata col proprio oggetto, una possibilità che trovava la sua espressione empirica nella chiara e visibile completezza del lavoro artigiano. La sociologia si è da allora sbarazzata di questa connessione normativa.
La graduale neutralizzazione del concetto di lavoro nella sociologia sotto la pressione diretta delle procedure che seguivano i principi di Taylor, è stata accompagnata dai tentativi effettuati nella filosofia sociale di contestare e smantellare attraverso vari mezzi lo speciale status emancipativo assegnato al concetto di lavoro nel diciannovesimo secolo. Pietre miliari lungo questo sentiero di disincanto sono certe parti della filosofia fenomenologica di Max Scheler e del lavoro più importante di Hannah Arendt, Vita della mente.30 Per Max Scheler, il giudizio critico verso lo speciale status normativo apparentemente accordato al lavoro sociale dalla teoria socialista e liberale a partire dal diciottesimo secolo, era una preoccupazione di lunga data. La categoria di ‘attività’ è il polo negativo sia della sua etica materiale dei valori che della sua teoria sociologica della cultura. Nella critica della distinzione etica accordata al lavoro, Scheler si riferisce indirettamente allo stesso processo storico-sociale che egli critica nella sua sociologia della cultura – l’intrusione nell’ordine morale della società di forme di conoscenza tecniche, orientate razionalmente ad un obiettivo. Questa fissazione negativa rappresenta già il punto di vista determinante del suo saggio del 1899, “Lavoro ed Etica”,31 nel quale l’espresso obiettivo è di effettuare una critica dell’ideologia politica moderna di lavoro. Egli spera di raggiungere in quest’area una riconciliazione tra filosofia ed economia politica, con lo scopo di poter quindi aprire la via ad un sistematico rinnovamento del tradizionale concetto cristiano di lavoro. Scheler si basa su una forma di analisi concettuale non metodologicamente sofisticata per mostrare come il lavoro sia in genere e necessariamente un tipo di comportamento regolato e controllato dall’esterno. Nella sua visione, le istituzioni oggettive di pratiche della comunità assegnano un significato all’esecuzione del lavoro, e l’oggetto naturale regola la struttura temporale e oggettiva dell’atto lavorativo. Secondo Scheler, il tipo di azione denominato lavoro non è per principio un’attività autodeterminata aperta all’iniziativa, ma è più adeguatamente e semplicemente caratterizzabile come una fatica onerosa e un duro sforzo. Di conseguenza, nessun significato normativo volto alla costruzione della soggettività può essergli ascritto. “Per il lavoro, le scale [di valore] tendono quindi sempre nella direzione dell’avversione; ed è così giustificato il suo uso linguistico che rende spesso ‘lavorare’, uguale a ‘soffrire’ e a ‘sforzarsi’, così come si trova nell’antica idea popolare, espressa nel libro dell’umanità, che il lavoro sia il risultato maledetto del peccato originale.”32
Scheler ha ovviamente definito lavoro come quell’attività lavorativa che ha raggiunto questa forma rappresentativa solo nell’era dell’industria meccanizzata. Una delle conclusioni della sua analisi concettuale, quella secondo cui “la conoscenza dell’obiettivo perciò tende a mettere in pericolo e non a rinforzare il vero carattere dell’atto lavorativo”,33 rivela chiaramente il vero sfondo della sua argomentazione. (Per essa) è solo con l’inizio della razionalizzazione della tecnologia produttiva secondo i principi di Taylor che ha luogo sia il sistematico distacco della conoscenza lavorativa dall’effettiva esecuzione del lavoro, sia la graduale frammentazione di un lavoro denso di significato in operazioni parziali. Quando gli ascrive lo stato deficitario di una forma di azione non riflessiva, apparentemente Scheler reinterpreta i risultati di questo processo come caratteristiche essenziali del lavoro di per sé.
È a questo punto, e solo qui, che le considerazioni di Scheler riguardo la filosofia morale coincidono con la filosofia dell’azione di Hannah Arendt. Mentre Scheler tenta di ristabilire la tradizionale valutazione cristiana del lavoro, gli studi della Arendt cercano di ottenere una contemporanea critica riabilitativa del concetto aristotelico di ‘praxis’. Partendo da una diagnosi del presente nella quale retrocede dall’idea di una società meccanicamente autoregolata, Arendt vuole, con l’aiuto di un approccio storico concettuale, trarre fuori dal denso tessuto intrecciato delle modalità di azione degli uomini, la forma di un’interazione umana mediata linguisticamente attraverso cui solamente il mondo umano potrà sopravvivere in quanto struttura pubblica e politica. Tuttavia, Hannah Arendt ha anche predisposto fin dall’inizio l’apparato concettuale della sua teoria dell’azione in una maniera tale che l’attività lavorativa possa essere afferrata al suo interno solo nella forma in cui apparirà per la prima volta nell’era della produzione industriale meccanizzata. In Vita Activa, Arendt distingue sistematicamente tre fondamentali categorie di azione, separando l’attività intersoggettiva dall’opera (work) e dal lavoro (labour), entrambi caratterizzati dall’essere fondamentalmente non-sociali. In quest’analisi, sia l’opera che il lavoro sono tipi di attività nei quali la realtà naturale viene manipolata secondo regole tecniche. Essi hanno tuttavia differenti obiettivi. Mentre il lavoro è descritto come una forma di azione umana nella quale l’uomo ottiene le necessità per la sopravvivenza, nell’‘opera’ egli crea, dai materiali del mondo naturale, un ambiente stabile ma tuttavia artificiale:
L’opera delle nostre mani, distinta dal lavoro del nostro corpo – homo faber che fa e letteralmente “opera” come distinto dall’animal laborans che lavora e “si mescola con’ – fabbrica l’infinita varietà delle cose la cui somma costituisce il mondo artificiale dell’uomo.34
L’azione vera, dall’altro lato, è libera da ogni contatto con le cose. Parlare e fare sono intrecciati, in quanto gli esseri umani s’incontrano l’un altro e rivelano la loro mutua soggettività sotto la protezione delle qualità comuni che scoprono insieme. Questa è la forma di comportamento nella quale la Arendt è realmente interessata. » in tale contesto che ella ritorna al concetto aristotelico di ‘praxis’, – per il quale l’azione vera [praxis] non ha alcun prodotto ed è significativa di per sé, in quanto opposta alla produzione [poiesis] nella quale si cerca di perseguire un obiettivo esterno all’azione stessa,35 – per riuscire a mostrare che lo stato propriamente umano nella storia viene raggiunto solo nella ‘praxis’ della comprensione reciproca impostata nelle strutture di azioni linguisticamente mediate. » vero che le forme di azione legate alla materialità come l’opera e il lavoro sono state valutate in misura preminente da filosofi moderni come Locke, Smith e Marx, perché assicuravano le basi materiali per la riproduzione della società umana. Ma, secondo Arendt, solo un’azione di tipo comunicativo fra soggetti permette alla specie di sopravvivere in una maniera che sia allo stesso tempo aperta da un punto di vista storico e appropriata per l’umanità. Questo è il modello di comportamento che per primo riesce a garantire la chiara comunicazione di interessi umani, fornisce un’identità culturale a gruppi sociali, e crea spazio per innovazioni pratiche di carattere politico.
Ma una vita senza discorso e senza azione, dall’altro lato –certamente il solo modo di vita che genuinamente ha rinunciato a ogni apparenza e a ogni vanità nel senso biblico del termine – è letteralmente morta per il mondo; ha cessato di essere una vita umana perché non è più vissuta fra gli uomini.36
Questa filosofia dell’azione fornisce l’impianto categoriale per l’analisi della situazione presente, nella quale Hannah Arendt diagnostica la modernità come alienazione dal mondo umano. Con lo sviluppo della società industriale, secondo Arendt, la sfera di azione [praxis], che è sempre fragile e instabile perché costantemente aperta a iniziative pratiche e libera da ogni mediazione oggettiva, viene gradualmente saturata dalle forme di comportamento non-sociali – prima dal lavoro e poi dall’opera. Queste forme finiscono coll’assorbire gradualmente tutte le tradizionali forme di vita che da sole potrebbero fornire un contesto per l’interazione e di conseguenza assicurare una meritevole riproduzione del mondo. L’intera critica contenuta in Vita Activa è diretta contro la marcia vittoriosa della tecnologia, dinanzi alla quale si ritira quell’ulteriore dimensione di significato che la teoria sociale del lavoro di Marx aveva aggiunto all’aspetto puramente funzionale della riproduzione economica. Hannah Arendt riduce la categoria di lavoro al mero impiego meccanico di forza lavoro riproducibile. Allo stesso tempo, nella sua visione, l’azione umana in generale è stata ridotta al modello comportamentale rappresentato da questa modalità di lavoro automatizzato.
Arendt isola la possibilità di esperire veramente sé stessi nel lavoro mediante contatto diretto con il risultato di quella stessa attività – una possibilità che Marx aveva incluso nello spettro di significati del suo concetto di lavoro – nel tipo di azione che denomina ‘opera’. Questa tipologia da sola, sostiene, “può dare senso di sicurezza e soddisfazione, e può anche diventare una fonte di fiducia in se stessi per tutta la vita.”37 Le componenti dell’azione, che erano originariamente indivise nel lavoro artigiano, sono così, nell’impianto concettuale della Arendt, separate permanentemente in due tipologie di attività. Con questa decisa rottura tra lavoro riflessivo, corporeo, e lavoro realmente ‘manuale’, tra work e ‘labor’, fatto nell’interesse di istituire una teoria filosofica dell’azione, Arendt rende già permanente una situazione che esisteva inizialmente solo come un prodotto storico del lavoro industriale organizzato secondo i principi di Taylor. La linea di demarcazione teoretica che ella traccia fra work e ‘labor’ semplicemente delinea i risultati formali sociali di questo processo storico. Con i suoi propri concetti, Arendt ha reso sé stessa incapace di penetrare criticamente sotto questa superficie. Per questo motivo, la Arendt in Vita Activa può criticare l’intrusione nella vita pubblica di modelli di comportamento tecnici e meccanici, ma non la graduale meccanizzazione del lavoro stesso.
Le analisi di Hanna Arendt e di Max Scheler si situano fra quelle ricerche socio-filosofiche che, mediante la rimozione categoriale di ogni accezione emancipativa dal lavoro, hanno tratto solo conclusioni positive dal ridotto livello di umanità presente nelle forme industriali di lavoro. Ma il cambiamento nel ruolo sociale del lavoro che costituisce lo sfondo storico delle loro tesi è divenuto anche il punto di partenza teoretico dove al Marxismo filosofico-critico si presenta il problema, insoluto da Marx, della connessione fra lavoro sociale ed emancipazione sociale. L’eredità dei tentativi di Marx di ritrarre l’organizzazione capitalistica del processo lavorativo come perlomeno un processo potenzialmente rivoluzionario di auto-sviluppo sociale, mette a confronto questa parte della tradizione marxista con il compito di far aderire la teoria dell’azione, che è la base della teoria della liberazione di Marx, alla realtà del lavoro industriale capitalista, la cui forma è divenuta maggiormente chiara dal tempo di Marx. Per quanto riesco a comprendere, possiamo distinguere due essenziali strategie concettuali che sono state utilizzate per trovare una soluzione a questo problema all’interno di una filosofia sociale marxista guidata dal concetto di praxis: (1) il riportare tutte le potenzialità emancipative, che Marx assegna ad atti di lavoro concreto, alla ‘praxis’ di un soggetto lavorativo collettivo o trascendentale; o (2) il restringimento unilaterale del concetto di lavoro ad azioni dirette esclusivamente alla dominazione pratica della natura, come fatto, ad esempio, da Max Horkheimer e Theodor Adorno nella loro Dialettica dell’Illuminismo. All’interno di una struttura di riferimento come quella delle relazioni di produzione capitalista, entrambi le soluzioni falliscono nel risolvere adeguatamente l’irrisolta tensione teoretica all’interno del concetto di lavoro di Marx, ma piuttosto s’innalzano verso la filosofia della storia.
Il primo approccio semplicemente separa dalle forme empiriche di lavoro la potenziale soggettività che Marx, seguendo Hegel, aveva assegnato all’attività lavorativa, e la proietta sull’attività riflessiva di un processo di azione sovraindividuale. I progressi emancipativi della riflessione sono trasposti dal concreto atto di lavoro al processo di apprendimento collettivo di una classe sociale, come in Storia e coscienza di classe di Lukács, o al modo di vita con il quale gli esseri umani in generale costituiscono il mondo, come nei saggi giovanili di Marcuse e nei lavori sulla teoria Marxista di Sartre. Il prezzo che questi pensatori devono pagare per ‘salvare’ il concetto emancipativo di lavoro nella filosofia della storia, è una teoria della società che è scarsamente ancora applicabile alla realtà del lavoro industriale. Anche se queste due tipologie d’interpretazione marxista hanno differenti motivazioni filosofiche, entrambe possono aggrapparsi saldamente alla connessione tra lavoro sociale e liberazione sociale solo in quanto trasferiscono ad una sorta di azione collettiva, concepita come lavoro, le qualità che Marx attribuisce ad un lavoro artigiano auto-sufficiente denso di significato.
Per Lukács questa procedura prende la forma di un «proiettare l’auto-direzione dello spirito [Selbstbewegung des Geistes] così come ritratto nella Logica di Hegel, sul processo riflessivo del proletariato, il quale raccoglie tutti gli elementi particolari del lavoro sociale in un unico processo di pensiero.»38 precisamente attraverso il suo impegno in attività lavorative che sono state ridotte nel loro status a comodità, lo stadio più avanzato del lavoro alienato, che il proletariato è in grado di scoprire e rivelare la forma di reificazione che, con la generalizzazione delle relazioni di comodità, permea tutte le relazioni sociali, ed è anche in grado di riconoscere se stesso come soggetto creatore di valore per questo sistema di vita. Questo processo collettivo di riflessione, che è ancorato nel processo lavorativo, è ripreso e sviluppato dal materialismo storico affinché esso possa assumere l’aspetto teoretico rappresentativo dell’auto-comprensione del proletariato.
Per contrasto, in un paio di saggi scritti sotto l’influenza dell’ontologia esistenzialista di Heidegger,39 Herbert Marcuse aveva conferito alla categoria di lavoro il senso di una struttura fondamentale della storicità umana. Con questa reinterpretazione del concetto di lavoro egli aveva anche perseguito il progetto di una teoria della rivoluzione in cui il proletariato fosse in grado di assumere il ruolo di soggetto di un’azione storica – questa volta perché nei processi di lavoro sociale esso attualizzerebbe continuamente tutte quelle caratteristiche che aderiscono al Dasein umano, come ad esempio un’attività lavorativa, nella sua interezza.40
La strategia concettuale condivisa da tutti questi approcci, nonostante le loro differenze, è infine mostrata in maniera assolutamente chiara dal saggio di Sartre “Materialismo e rivoluzione”,41 che introduce elementi centrali dell’hegelo-marxismo nella tradizione fenomenologica dell’interpretazione di Marx.42 Come il giovane Marcuse, Sartre interpreta ontologicamente il lavoro in quanto modalità di azione fondamentale nell’esistenza umana. In più, tuttavia, e in accordo con Hegel, egli ascrive al lavoro le caratteristiche di un’attività nella quale il lavoratore fa esperienza della sua libertà nella lavorazione dell’oggetto naturale. In questa maniera, per Sartre il lavoro si dimostra essere identico a una liberazione. E visto che il proletariato è la classe sociale dei lavoratori, esso è qualificato ad essere a priori il soggetto collettivo del processo rivoluzionario.
In verità, l’elemento liberatorio per gli oppressi è il lavoro. In questo senso, è il lavoro ad essere fin dall’inizio rivoluzionario. Ovviamente è comandato, e assume inizialmente la forma di una sottomissione del lavoratore […] Ma allo stesso tempo, il lavoro offre uno stimolo alla liberazione concreta anche in casi così estremi, perché significa già una negazione della capricciosa e accidentale volontà del signore. Il lavoratore coglie sé stesso come la possibilità di cambiare la forma di un oggetto materiale lavorandolo secondo determinate regole generali. In altre parole: è il determinismo della materia che gli presenta la prima immagine della sua libertà.43
Anche se segue una rotta differente, l’argomentazione di Sartre conduce alle stesse conseguenze delle teorie rivoluzionarie di Lukács e Marcuse. Poiché tutti e tre vorrebbero mantenere una connessione immanente fra l’emancipazione sociale e il lavoro sociale senza dover accettare la supposizione oggettivista di un progresso garantito attraverso lo sviluppo delle forze produttive, (essi) trasferiscono il potenziale per la liberazione, che non credono più celarsi nella realtà del lavoro industriale, ad un soggetto collettivo che si suppone riunire tutti i processi lavorativi empiricamente separati. Questo soggetto assume quindi lo stesso ruolo concettuale che veniva occupato in precedenza dal lavoratore individuale. In questa versione, dunque, il concetto di emancipazione attraverso il lavoro richiede un concetto monolitico di soggetto proletario rivoluzionario che non è più legato ad esperienze attuali di lavoro nel piano industriale.
La filosofia della storia che Theodor Adorno e Max Horkheimer presentano nella Dialettica dell’Illuminismo potrebbe forse essere definita come l’antitesi di queste concezioni. Se è vero da una parte che Horkheimer e Adorno offrono una critica della reificazione che si accorda con l’interpretazione effettuata da Lukács di Marx, dall’altra, nel loro impianto categoriale, il lavoro non ha alcun ruolo in quanto modalità d’azione potenzialmente emancipativa. Al contrario, diviene la base pratica e attiva della dominazione, e di conseguenza rappresenta la sua forma storica originaria.
Lo stesso processo di reificazione che Lukács deriva dalla generalizzazione storica dello scambio di comodità, è tracciato da Adorno e Horkheimer nel confronto dell’agente con la natura. Nella loro ottica, l’emancipazione dell’uomo civilizzato dal potere superiore della natura può essere ottenuta con successo solo attraverso il lavoro in cui il controllo tecnico sulla natura esterna sia combinato con la soppressione dei bisogni e impulsi della natura interna. I progressi cognitivi atti a raggiungere questa finalità liberatoria sono connessi dall’inizio con un’attività lavorativa che ha le caratteristiche di un genere di razionalità che, senza distinzioni, oggettivizzi sia l’ambiente naturale che quello sociale nella prospettiva di stabilire un controllo esterno. L’emancipazione dell’uomo civilizzato, di conseguenza, è fin dal principio assicurata solo al costo dello sviluppo di una ragione strumentale. La parte nascosta del progresso sociale, nel quale l’uomo accresce sistematicamente il suo controllo sulla natura esterna, è un processo di reificazione sociale, nel quale egli perde gradualmente del tutto la sua natura interna perché la tratta allo stesso modo di come tratta il mondo esterno.44
La prospettiva filosofica-storica dalla quale Horkheimer e Adorno, attraverso le relazioni sociali del capitalismo, cercano di guardare alle condizioni socio-culturali originarie degli uomini – per riuscire a spiegare le origini di questo processo di reificazione sociale – ha rimosso dal lavoro tutte le influenze sulla formazione della soggettività che la tradizione marxista gli aveva precedentemente ascritto. Il lavoro rappresenta per loro solo il tipo di attività nel quale il lavoratore impara a modellare e dominare i propri istinti per riuscire ad intervenire in senso manipolativo nei processi naturali. La possibilità di un lavoro che sia interamente guidata da un piano soggettivo, e che riveli gradualmente le capacità proprie di un soggetto nella realizzazione di quel piano, è scomparsa dalla loro ottica teoretica.45
In verità, con questa mossa la teoria critica cade in un bizzarro paradosso argomentativo. Dato che continua ad aderire per principio al paradigma filosofico del lavoro così come si trova nella teoria marxista, ovverosia ad un modello di azione plasmato esclusivamente in base al lavoro su oggetti naturali, può solo presentare la contrastante immagine di una società liberata dal complesso di reificazione sociale nei termini della relazione di un individuo sociale verso la natura esterna. Da quando Adorno con la sua filosofia ha categorialmente reinterpretato il lavoro sociale come la fondazione pratica del dominio, ma senza abbandonare la struttura concettuale costruita esclusivamente intorno alla relazione del soggetto con la natura, egli si è trovato costretto a sviluppare un’estetica filosofica che delineasse teoreticamente la possibilità di un incontro non strumentale, mimetico con il mondo naturale. Se la presa oggettivante di complessi naturali attraverso il lavoro conduce allo stesso tempo sempre alla distorsione delle relazioni sociali per mezzo della dominazione, allora è solo uno stato di cooperazione estetica con la natura esterna che potrà permettere allo stesso tempo un’interpretazione, libera dalla dominazione, della natura interna. L’idea guida di una teoria critica elaborata nel contesto di questa prospettiva filosofico-storica è quindi quella di una ‘riconciliazione con la natura’.46
La teoria critica della Dialettica dell’Illuminismo condivide nella sua teoria dell’azione la struttura concettuale utilizzata nelle esplorazioni intraprese da Lukács, Sartre e Marcuse sulla teoria marxista. Per queste proposte teoretiche, il lavoro sociale da solo rappresenta la dimensione della ‘praxis’ sociale mediante cui il mondo umano può essere formato a partire dal contesto di vita naturale e indi socio-culturalmente riprodotto. L’architettura categoriale all’interno della quale questa fondamentale idea trova espressione è modellato in accordo con relazioni di lavoro socialmente organizzate sulla natura esterna. La sua base è costituita dal soggetto che si relaziona pragmaticamente al suo ambiente naturale. Il modello di azione presupposto da tutti loro necessita quindi di queste proposte teoretiche per collegare la possibile realizzazione dell’emancipazione sociale ad una forma di consapevolezza che è indubbiamente costruita tramite relazioni attive verso la natura esterna, ma ad un punto che trascende le reali, storiche, relazioni lavorative stabilite dalla razionalizzazione generalizzata del processo di lavoro in accordo con i principi di Taylor. I mezzi teoretici che vengono impiegati nel tentativo di risolvere questo problema sono le concezioni filosofico-storiche di un processo lavorativo idealizzato e sovraindividuale da una parte, e dall’altra l’idea estetica di una modalità mimetica – libera da dominazione – di venire a patti con la natura.
Il modello soggetto-oggetto che da origine a queste strategie concettuali è fatto saltare per la prima volta dal tentativo di Jϋrgen Habermas di basare la teoria critica su una fondazione teoretico-comunicativa. Ha risolutamente tratto le sue conclusioni dalla riduzione del concetto di lavoro che, seguendo l’esperienza della razionalizzazione del processo lavorativo, ha plasmato la struttura concettuale della filosofia sociale del ventesimo secolo. Habermas accetta la distinzione aristotelica tra ‘praxis’ e ‘poiesis’, che Hannah Arendt ha rivitalizzato, nell’ordine di consentire la comprensione intersoggettiva come una modalità d’azione in grado ottenere lo status nella teoria dell’emancipazione che il lavoro sociale aveva avuto nella teoria marxista. Questo spostamento di paradigma lascia il segno sull’intera architettonica della teoria di Habermas,47 ma al costo, alla fine, di eliminare categorialmente quelle forme di resistenza ed emancipazione che sono radicate nella struttura del processo di lavoro capitalista.
III
La base storica sulla quale Marx suppone che vi sia una connessione fra lavoro sociale ed emancipazione sociale è cambiata così tanto dal diciannovesimo secolo che praticamente nessuna delle teorie sociali critiche di questo secolo continua a porre alcuna confidenza nel potenziale liberatorio e formativo-per la coscienza del processo di lavoro sociale.
Questo cambiamento sociale nelle forme concrete del lavoro ha avuto un effetto distruttivo simile sul concetto di lavoro. Nel suo concetto di lavoro, Marx manteneva la tensione categoriale fra lavoro alienato e non alienato – fra lavoro artigianale integrato e organico, e frammenti di attività atomizzata e meccanizzata – pur non possedendo i mezzi concettuali per descrivere il processo di mediazione della riflessione stessa. Questa tensione è stata gradualmente risolta in favore di un concetto unilaterale che riflette a malapena le effettive relazioni del lavoro sociale. Nel corso di questo complesso sviluppo teoretico, il concetto di lavoro ha perso l’aspetto critico del suo significato, la sua importanza per la potenziale trascendenza delle forme di lavoro istituite nella società. Le categorie di lavoro ‘astratto’ o ‘alienato’, con le quali Marx critica l’organizzazione capitalista del lavoro, sono praticamente scomparse dal linguaggio teoretico della filosofia sociale di orientamento marxista perché non sembra esserci un criterio propriamente umano, ovverosia di lavoro non alienato, che sia indipendente dalle norme di una particolare cultura. Allo stesso modo, le effettive asserzioni e idee riguardo il lavoro portate avanti da soggetti che sono impegnati nella produzione sociale organizzata secondo regole stabilite da un’amministrazione di fabbrica formata tramite una gestione scientifica, hanno perso qualunque significato per le moderne teorie sociali. Sono state trasferite ai metodi empirici della ricerca industriale sotto la rubrica di ‘aspirazioni occupazionali’ e non giocano più un ruolo decisivo nella diagnosi critica dei maggiori conflitti nel sistema sociale contemporaneo. Esempi di questo dislocamento tematico all’interno della teoria sociale critica sono oggi offerti dall’approccio, adottato nell’interpretazione dell’analisi del capitale di Marx, conosciuto come ‘realismo concettuale’,48 così come da certi sforzi diretti verso una trasformazione del materialismo storico sotto il tema guida dell’‘appropriazione’ (Aneignung).49
Nel contesto di questi sviluppi teoretici, la ricostruzione del materialismo storico di Habermas riveste un posto particolarmente importante. Qui, il tradizionale modello di azione Marxista, basato esclusivamente sul lavoro umano sopra la natura, è esteso ad includere i processi di comprensione intersoggettiva. Ma il progresso rappresentato da questa ‘svolta intersoggettiva’ nella teoria sociale critica è pagato dalla scomparsa del potenziale conflittuale ancora reperibile nel lavoro sociale dalla teoria dell’azione.
Il tema basilare della teoria sociale di Habermas è radicato nella stessa esperienza contemporanea alla quale risponde anche la teoria dell’azione di Hannah Arendt nella Vita Activa.50 Il livellamento della distinzione fra progresso tecnologico ed emancipazione sociale, tipico delle società tardo-capitaliste; l’impoverimento delle condizioni di vita nella sfera sociale comunicativa e la sua sostituzione con sistemi organizzati di azione razionale-strumentale, – questi sviluppi sono così centrali e così pericolosi per le società contemporanee che Habermas concentra sulla loro interpretazione la sua ricostruzione del materialismo storico. Questo compito è svolto con l’ausilio della distinzione fra lavoro e interazione: più esattamente fra azione strumentale e comunicativa.51 Prima che Habermas adotti questa distinzione nella sua critica a Marx, egli la sviluppa già nei suoi lavori epistemologici che sono intesi a preparare il terreno per una critica pragmatica del positivismo che sia essa stessa in grado di deviare dalla tradizionale critica dell’ideologia caratteristica della teoria critica.52 A differenza di Adorno, che alla fine si trova d’accordo con Sohn-Rethal, Habermas non collega il concetto di scienza positivista alla compulsione verso l’astrazione, tipica dello scambio di beni. Lo riconduce invece a quelle operazioni di pensiero che sono connesse con l’intervento manipolativo sulla natura. Le regole per l’esecuzione di atti strumentali, che rappresentano per Habermas la base culturale invariante della produzione sociale, giocano lo stesso ruolo nella sua teoria pragmatica della conoscenza di quello che svolgono le regole di astrazione, generalizzate nello scambio capitalistico, nella teoria socio-genetica della conoscenza di Sohn-Rethal. Di conseguenza, nella prospettiva argomentativa di Habermas, il modo di pensare scientista non fa altro che fissare operazioni di pensiero che sono già presenti pre-scientificamente nel controllo sulla natura. Secondo questo modello, il positivismo si espone alle critiche quando viene esteso alla realtà sociale. È la pretesa universalistica del positivismo ad essere epistemologicamente falsa, e non le regole conoscitive formulate nella sua teoria della scienza.
Anche se queste considerazioni furono originariamente intese solo a stabilire le basi per una critica del positivismo, esse spinsero anche Habermas a localizzare epistemologicamente le scienze umane. Quindi se la costruzione teorica nelle scienze naturali è radicata nel processo storico (sviluppo della specie) dell’appropriazione della natura, allora il processo di costruzione di una teoria nelle scienze umane dovrà essere radicato anch’esso in un processo di esperienza pre-scientifica mediante il quale l’umanità riproduce sé stessa nella pratica. In questa maniera Habermas collega la distinzione marxista tra forze produttive e relazioni di produzione alla distinzione fra forme di azione ‘strumentali’ e ‘comunicative’,53 con lo scopo di giustificare pragmaticamente la differenza fra costruzioni di teorie nelle scienze naturali e in quelle umane, connettendole alla duplice struttura del processo di riproduzione sociale. Così come le scienze naturali seguono l’interesse (costitutivo della conoscenza) degli uomini a controllare la natura, allo stesso modo le scienze umane sono guidate dall’interesse nella preservazione ed estensione della comprensione intersoggettiva, la quale con la linguistificazione [sprachlichung] della forma di vita umana, è divenuta essa stessa un imperativo per la specifica sopravvivenza degli esseri umani.54. Le irriducibili e reciproche regole d’azione, che sono pensate guidare il lavoro strumentale sulla natura, da una parte, e la comprensione comunicativa fra soggetti, dall’altra, determinano le due zone di esperienza prescientifica alla quale Habermas, con l’aiuto dello sviluppo di un pragmatismo trascendentale, connette rispettivamente le scienze naturali e quelle umane. Allo stesso tempo, questa distinzione apre la rotta epistemologica lungo la quale egli tenta di ristabilire la struttura metodologica del materialismo storico. Questo punto di partenza epistemologico definisce le basi sulle quali Habermas inizialmente presenta le determinanti della sua teoria dell’azione. Qui è primariamente interessato nei progressi cognitivi che sono sistematicamente intessuti nell’esecuzione di atti strumentali e comunicativi. Egli sviluppa il concetto di azione di cui necessita per indirizzare questo concetto ad un livello categoriale il quale È collegato, da una parte alla teoria dell’azione di carattere antropologico di Gehlen, e dall’altra alla teoria sociale comportamentista dei seguaci di George Herbert Mead. In quest’ultima tradizione, l’area soggettiva (inerente il soggetto) delle scienze sociali, viene compresa come quell’area dove avviene un processo di strutturazione della realtà che è compiuto direttamente o indirettamente sempre da soggetti sociali per mezzo di atti comuni. Nelle loro rispettive azioni reciproche, i membri di una società interpretano le situazioni in cui agiscono e conseguentemente producono quella realtà sociale che diviene poi l’oggetto del discorso sociologico. Lo speciale statuto teoretico di questa disciplina, quindi, è il risultato del carattere specifico del suo oggetto, il quale è già pre-strutturato dalle interpretazioni degli attori. Habermas accetta questo fondamentale presupposto dell’approccio teoretico di Mead.55 Egli concepisce l’azione sociale come un processo di comunicazione nel quale perlomeno due soggetti trovano un’intesa riguardo loro attività volte ad uno scopo, per mezzo di un accordo espresso simbolicamente su una comune definizione della loro situazione. Questo processo d’interazione simbolicamente mediata richiede costantemente prestazioni interpretative da parte degli attori partecipanti, nelle quali devono rivelare vicendevolmente gli obiettivi preposti alle loro azioni al fine di raggiungere una comprensione reciproca. Habermas porta avanti questo modello d’azione lungo la strada intrapresa dai filosofi del linguaggio che si occupano della ricostruzione di atti linguistici. In tal forma, il modello determina la struttura categoriale della sua teoria sociale. Egli concepisce la gamma complessiva dei modi della praxis sociale dal punto di vista di questo tipo di azione. Tutti gli atti sociali non orientati verso una comprensione reciproca divengono quindi deviazioni pratiche da essa. Per Habermas, il modello di azione comunicativa è inteso ricoprire il maggiore numero possibile di campi dell’attività sociale. In un certo senso, quindi, il numero di processi interpersonali che non possono essere colti al suo interno indica il grado di reificazione in una società – l’estensione alla quale il contesto di vita sociale è semplicemente riprodotto lungo linee socioculturali predeterminate, invece di essere coordinato da azioni volte alla comprensione reciproca. In questa maniera il concetto di azione comunicativa diviene, sia empiricamente che normativamente, il concetto chiave nell’interpretazione del materialismo storico di Habermas – assumendo in un certo senso la stessa posizione che il lavoro occupa nella teoria marxista. Da una parte, il concetto aiuta a chiarire il processo per mezzo del quale complessi sociali possono da soli raggiungere una riproduzione culturale e un’integrazione sociale consentendo, almeno in certi settori dell’azione sociale, processi di azione comunicativa. Allo stesso tempo il modello comunicativo di azione fornisce uno standard analitico secondo cui, il grado di libertà posseduto da specifiche strutture sociali può essere valutato misurando il contenuto comunicativo delle loro forme d’interazione.56
L’importanza che il concetto di azione comunicativa gioca per la teoria dell’emancipazione nella teoria sociale di Habermas, tuttavia, conduce a una corrispondente decrescita nell’importanza del concetto di lavoro.57 Nella struttura categoriale della sua teoria, il lavoro designa meramente il sostrato – lo sviluppo delle forze sociali di produzione – dal quale i processi di liberazione comunicativa sono quindi normativamente distinti. Dato che sono intesi a produrre modi di comprensione che siano liberi dalla dominazione, Habermas distingue il potenziale di una razionalità pratico-morale propria degli atti comunicativi, dal potenziale per una razionalità tecnica connessa con interventi manipolatori sulla natura. Le strutture sociali si assicurano la sopravvivenza economica solo per mezzo dello sfruttamento di quella conoscenza strumentale che i lavoratori si formano con l’obiettivo di ottenere la dominazione sulla natura. Con questa separazione analitica del processo di sviluppo socio-culturale in due dimensioni della razionalizzazione, Habermas libera la teoria sociale critica dalla confusione teoretica causata dall’oscuramento effettuato da Marx riguardo i confini tra progresso tecnologico e liberazione sociale:
Mentre l’agire strumentale corrisponde alla costrizione della natura esterna e lo stadio delle forze produttive determina la misura della disposizione tecnica sulle forze della natura, l’agire comunicativo corrisponde alla repressione della propria natura: il quadro istituzionale determina la misura di una repressione attraverso la potenza naturale della dipendenza sociale e del dominio politico. Una società deve l’emancipazione dalla potenza naturale esterna ai processi di lavoro, ossia alla produzione di sapere tecnicamente valorizzabile (compresa la “trasformazione delle scienze naturali in macchinario”); l’emancipazione della costrizione della natura interna riesce in misura della sostituzione di istituzioni basate sulla violenza con un’organizzazione della interazione sociale, che è unicamente legata ad una comunicazione libera dal dominio. Ciò non avviene direttamente attraverso l’attività produttiva, bensì attraverso l’attività rivoluzionaria di classi in lotta (compresa l’attività critica delle scienze riflettenti). Entrambe le categorie della prassi sociale prese insieme rendono possibile ciò che Marx, interpretando Hegel, chiama l’atto di autoproduzione del genere umano.58
Il processo di cambiamento rivoluzionario pratico, la liberazione di una società da una forma repressiva di organizzazione, è dunque basato sulla conoscenza pratica e morale che viene a costituirsi dall’esperienza di strutture d’interazione sistematicamente distorte. Il processo di apprendimento normativo, nel quale gli attori insieme fra loro prendono coscienza dell’obiettivo della comprensione reciproca essendo questo immanente in azioni comunicative sociali, produce quindi le intuizioni morali che potrebbero condurre alla liberazione dalla dominazione sociale. Habermas dissolve completamente la connessione categoriale che Marx cerca di stabilire fra lavoro sociale e liberazione sociale. Per il primo, l’auto-sviluppo della coscienza sociale rivoluzionaria segue una logica di azione fondamentalmente differente da quella di un lavoro socialmente organizzato sulla natura.
Habermas non si trova più davanti alle difficoltà nelle quali incorre una filosofia sociale marxista, fintanto che insiste a voler conservare una connessione filosofico-storica immanente fra lavoro ed emancipazione, e nonostante la sua sfiducia nel potenziale emancipativo delle relazioni di lavoro attuali. La distinzione fra lavoro ed interazione rende la teoria sociale di Habermas immune da quelle interpretazioni strumentali dei processi rivoluzionari di apprendimento sociale che sono costituiti sulla ristretta base concettuale del modello di azione del lavoro. Allo stesso tempo, tuttavia, il concetto di lavoro occupa un posto talmente marginale in essa che la moralità pratica insita nell’azione strumentale, sulla cui base i lavoratori avrebbero potuto reagire alle loro esperienze d’immiserimento causate dal lavoro strumentale nel regime capitalista, è completamente esclusa dalla sua struttura concettuale.
Habermas accetta il concetto di lavoro formulato nella teoria antropologica dell’azione di Arnold Gehlen. L’idea basilare di Gehlen, così come è espressa nella sua opera maggiore Der Mensch,59 è che il sistema delle forze guida, il sistema percettivo cronicamente sovrastimolato e il sistema motorio essenzialmente amorfo con i quali gli esseri umani sono fisicamente dotati, li forzino ad intraprendere attività finalizzate allo scopo che diano forma ai loro bisogni, strutturino le loro percezioni e dirigano i loro apparati motorii. Attraverso l’azione gli esseri umani si liberano dai rischi della sopravvivenza che sono una conseguenza della costituzione organica di un essere incompleto. Per Gehlen, quindi, l’azione è il principio unificatore dell’organizzazione della vita umana. Ma egli descrive la struttura dell’azione come un sistema solipsistico di relazioni nel quale l’azione stessa è immaginata essere in principio l’isolato armeggiare di un soggetto con e sulla natura.60 L’azione strumentale è il medium all’interno del quale un sistema, costituito da forze guida, percezioni e un apparato motorio, il quale minaccia sempre di andare fuori controllo, riorganizza sé stesso. Habermas fa uso di questo sistema di concetti antropologici per completare la sua teoria dell’azione con una definizione delle attività dirette verso oggetti fisici. Il concetto di azione comunicativa traccia le forme d’interazione sociale in una struttura di regole antropologicamente radicata. Per tipi di azione che siano diretti verso un oggetto, il concetto di azione strumentale svolge la medesima funzione. Nell’azione strumentale, il soggetto testa la sua attività in accordo con il successo con cui può manipolare le cose per raggiungere uno scopo precedentemente determinato. Qui l’atto del lavoro è dipendente dalla conoscenza delle regole tecniche che sono acquisite per mezzo di tentativi empirici (superamenti di errori) con oggetti fisici.61 Nei processi lavorativi socialmente organizzati, questi atti strumentali sono quindi coordinati fra i singoli lavoratori secondo regole di cooperazione sviluppate nell’interesse del comune obiettivo della riproduzione.62
Al livello teoreticamente più sviluppato sul quale Habermas lavora, il concetto di azione strumentale ovviamente preserva la dimensione di significato economica e antropologica con le quali Marx aveva rivestito il suo concetto di lavoro. Habermas, come Marx, comprende il lavoro in termini d’insufficienza organica di una specie che è perciò forzata a riprodursi economicamente per mezzo di azioni strumentali. Tuttavia Habermas elimina dal suo concetto di lavoro quella dimensione teoretica sulla base della quale Marx, nei suoi giovanili scritti hegeliani, interpretava gli atti di lavoro come un processo in grado di oggettivare le capacità umane. Per questa perduta dimensione di significato, Habermas non fornisce alcun corrispettivo. Il modello di lavoro basato sull’esternazione, che rappresenta, dopo tutto, la base normativa della critica marxiana al lavoro alienato nei Manoscritti di Parigi, viene mantenuto col suo spostamento teoretico verso l’economia politica nella forma dell’idea, empiricamente giustificata, del lavoro artigianale, nel quale l’attore, autonomamente e con notevole abilità, rende concrete le conoscenze che ha acquisito da solo empiricamente mediante la lavorazione su un oggetto. Marx quindi mette in risalto positivamente quest’atto di lavoro olistico con il caso estremo, presente in un regime capitalista, di un’attività lavorativa astratta, svuotata di ogni significato. Suddetta differenziazione fra tipologie di lavoro non può essere rintracciata in Habermas. Ad esser sinceri, il concetto di azione strumentale sarebbe anche basato sulla nozione di un tipo di attività nella quale il lavoratore controlla e regola indipendentemente le sue relazioni con l’oggetto del proprio lavoro, ma Habermas non fa assolutamente un utilizzo sistematico di quest’implicazione concettuale. Egli classifica lo spettro di attività interpersonali secondo il grado della forma di un atto di comprensione reciproca non coatto che hanno assunto, ma differenzia la gamma storica delle forme lavorative solo in base al loro tipo di organizzazione sociale, non secondo il grado con cui soddisfano le condizioni di un lavoro non distorto.63 Tuttavia, allo stadio più avanzato, con l’istituzione di sistemi lavorativi che realizzano gli ideali di Taylor, la razionalizzazione del lavoro e della tecnologia produttiva, guidata dalla pressione dell’accumulazione capitalista, ha raggiunto una soglia tale per cui la gran parte del lavoro industriale ha perso il suo carattere di essere completo in sé. Le frammentate operazioni strumentali alle quali il lavoro sociale è stato ridotto dal processo di razionalizzazione, è stato separato cosi tanto dal controllo autonomo e dalla conoscenza empirica dei lavoratori che questi non possono più comprendere l’intera struttura di una procedura lavorativa. Habermas ha abbandonato i mezzi categoriali per cogliere analiticamente questa dissociazione sistematica dei contenuti del lavoro dai modi di azione strumentali. Egli applica il concetto di azione strumentale nella tradizione di quelle recenti concezioni socio-filosofiche che hanno neutralizzato in maniera così completa l’accezione normativa dal lavoro, da poter sussumere acriticamente sotto di esso qualsivoglia forma di attività che abbia perlomeno a che fare con la manipolazione di un oggetto.
Un concetto critico di lavoro deve saper cogliere categorialmente la differenza fra un atto strumentale nel quale il lavoratore struttura e regola l’attività di sua iniziativa, secondo le sue conoscenze, all’interno di un processo autosufficiente, e un atto strumentale nel quale né i controlli, né lo strutturarsi dell’attività relazionata all’oggetto viene lasciata all’iniziativa del lavoratore.64 Marx aveva ovviamente inteso preservare questa distinzione nella gamma di significati che aveva assegnato al suo concetto di lavoro lungo tutta la sua vita, anche se non ha fatto pieno uso del concetto per poter sviluppare una teoria dell’emancipazione. Habermas si limita qui ad un concetto di azione strumentale che può essere applicato, senza distinzioni, a qualunque relazione manipolativa con un oggetto.
Quest’eliminazione delle distinzioni fra forme empiricamente differenti di lavoro nel concetto di azione strumentale è significativo perché è in relazione con un’importante distinzione all’interno della ricostruzione habermasiana del materialismo storico. Habermas, dopo tutto, usa la distinzione epistemologicamente sviluppata fra azione strumentale e comunicativa per attuare una distinzione normativa, nel regno della teoria evolutiva, fra lo sviluppo della coscienza emancipativa e la mera espansione di un sapere tecnico. Nelle strutture d’interazione simbolicamente mediata, la conoscenza morale è costruita a partire dai risultati intuitivi di carattere comunicativo raggiunti dagli attori, i quali gradualmente acquisiscono consapevolezza di obiettivi di comprensione reciproca che sono fondamentalmente contrari rispetto a quelli delle strutture accettate nell’azione sociale. Nelle strutture d’azione del lavoro sociale, dall’altro lato, i risultati scaturenti dalla manipolazione di oggetti naturali che sono generalizzati ad un livello simbolico, vengono assemblati in un sapere tecnico volto ad incrementare il controllo sulla natura. Questa distinzione è il fondamento della concezione habermasiana del materialismo storico.65 Tuttavia, se Habermas avesse differenziato internamente la categoria di azione strumentale tanto quanto ha distinto normativamente lo spettro delle azioni sociali, egli avrebbe dovuto riconoscere l’esistenza di un tipo di sapere pratico-morale che è basato non sulla consapevolezza di relazioni comunicative sistematicamente distorte, ma sull’esperienza della distruzione di veri e propri atti lavorativi nel corso della razionalizzazione delle tecniche di produzione. Quella consapevolezza dell’ingiustizia sociale che si forma dalla sistematica espropriazione della propria attività lavorativa,66 tuttavia, è totalmente trascurata dalle categorie di Habermas. Se accettiamo l’argomentazione che possano essere chiamati atti di lavoro solo quegli atti strumentali che l’attore da solo forma e dirige, allora emerge la possibilità di un processo di auto-sviluppo intellettuale nel quale i lavoratori possono sistematicamente mantenere il loro diritto al controllo del processo lavorativo, in altri termini, al carattere lavorativo dei loro atti strumentali.
Il processo di riflessione emancipativa, che Habermas suppone avvenga negli atti di comunicazione, si fa strada in maniera radicale attraverso relazioni interattive che sono state distorte da una struttura sociale data, al fine di riacquistare l’obiettivo immanente della comprensione reciproca dalla società organizzata repressivamente. Se l’argomentazione è stata corretta fino a questo punto, allora a questo processo riflessivo dovrebbe corrispondere un processo d’azione orientato moralmente nel campo del lavoro sociale che dovrebbe recuperare il significativo contenuto lavorativo dell’azione strumentale al di fuori delle forme sociali stabilite attraverso il dominio. La valida ambizione normativa che in questo modo trova espressione, emerge da una vulnerabilità morale che cresce, non dalla soppressione delle modalità comunicative di comprensione reciproca, ma dall’espropriazione nei lavoratori della loro propria attività di lavoro. La conoscenza morale che è costruita sulla base di tali esperienze È incarnata negli atti di lavoro che reclamano la loro autonomia perfino nella realtà organizzativa delle forme di lavoro determinate dall’esterno. Ma questa logica interna non corrisponde né alla logica degli atti di comunicazione volti alla coordinazione di azioni intenzionali mediante comprensione reciproca, né alla logica di azioni strumentali volte alla dominazione tecnica dei processi naturali. Senza volermi impegnare con rivendicazioni sistematiche, vorrei fare un provvisorio utilizzo del concetto di ‘appropriazione’ che è stato adottato nella sociologia francese, al fine di caratterizzare la logica di suddetto tipo di azione il quale, se da una parte si lega con i processi di azione strumentale allo stesso tempo si estende ben oltre di essi.
In un saggio intitolato ‘La resistance ouvriére à la rationalisation: la reappropriation du travail,’67 Philippe Bernoux descrive uno studio empirico, svolto per mezzo di osservazioni partecipanti, questionari standardizzati e interviste aperte, che ha analizzato il significato di pratiche lavorative quotidiane nelle quali i lavoratori in un’impresa industriale sistematicamente violavano e sovvertivano le regole della produzione determinate dall’amministrazione e incarnate nell’organizzazione tecnica del lavoro. Lo studio distingueva quattro tipologie di violazione, che pur avendo un impatto pratico non contribuivano ad interrompere il processo lavorativo: una contrastante organizzazione del tempo per mezzo della quale i lavoratori determinavano essi stessi, nel limite del possibile, il ritmo del lavoro; dimostrazioni simboliche nelle quali sia gli individui che i gruppi prendevano possesso degli spazi lavorativi,68 tecniche utilizzate nel processo lavorativo sviluppate per iniziativa dei lavoratori; e, in ultimo, riorganizzazione cooperativa e surrettizia della tecnologia di fabbrica.69 In tutte e quattro le dimensioni, i lavoratori apportano ovviamente una competenza comprensiva la quale in ogni situazione particolare si rivela superiore al sapere scientifico dell’amministrazione.70
Bernoux interpreta questa gamma di pratiche oppositive che sono state intessute nel processo lavorativo come uno sforzo cooperativo da parte dei lavoratori per riprendere il controllo sulla loro propria attività lavorativa: “La nostra ipotesi ritiene che una delle più importanti dimensioni dei conflitti passati e presenti emerga dalla dimensione dell’appropriazione. Ognuno di questi conflitti esprime una volontà di organizzare e controllare la produzione, di definire se stesso come un gruppo autonomo che si staglia in contrasto con l’organizzazione, di essere riconosciuto in quanto portatore di diritti come momento essenziale della produzione.”71 Nell’ampio fronte di sequenze di azioni strumentali che cercano di ricondurre un processo lavorativo etero-determinato all’interno dell’orizzonte di un’attività lavorativa autonomamente pianificata e controllata, i lavoratori urgono una pretesa che è immanente alla loro attività. La conoscenza morale, quindi, che è sistematicamente incarnata in queste violazioni pratiche della regolamentazione lavorativa non punta a liberare i lavoratori da barriere nelle azioni comunicative, bensì (punta) alla loro emancipazione da ostruzioni in azioni strumentali.
Le pratiche di appropriazione [Aneignungspraxis] che queste ricerche nella sociologia industriale portano alla luce72 sono entrate apparentemente in maniera così poco cospicua nei processi quotidiani del lavoro capitalista da essere rimaste largamente al di sotto della soglia di espressione che deve essere dapprima attraversata affinché la sociologia le registri in quanto conflitti nell’azione sociale e in quanto violazioni normative. Per tale ragione, suddette zone di resistenza pratica hanno teso ad essere finora documentate nella letteratura piuttosto che nella ricerca sociale empirica.73 Se, tuttavia, le esperienze ivi testimoniate e le conclusioni raggiunte nello studio di Bernoux non ingannano totalmente, allora il lavoro industriale privo di senso ottenuto mediante la razionalizzazione secondo i principi tayloristi, è accompagnato sullo sfondo da un processo d’azione contrastante nel quale i lavoratori cooperativamente cercano di riprendere il controllo sulla loro attività. Perciò, abbastanza curiosamente, un momento di ripresa pratica sembrerebbe risiedere all’interno dell’ingiustificato dominio del lavoro alienato.
La struttura categoriale che Habermas propone per la sua ricostruzione del materialismo storico è scarsamente adeguata a cogliere il tipo di conoscenza morale che è applicata in questa forma di “criticismo pratico”. Nella versione impiegata da Habermas, il concetto di azione strumentale è di per sé tematicamente troppo sottile per essere in grado di cogliere la tensione morale inerente alle relazioni di lavoro date. Istituire il materialismo storico sul fondamento di una teoria della comunicazione ha perlomeno il vantaggio di dirigere l’attenzione sulle strutture di un processo evolutivo di liberazione comunicativa che non è più attribuibile ad una classe specifica. Ma la sua debolezza concettuale, per come la intendo, consiste nel fatto che i suoi concetti di base siano disposti fin dall’inizio come se il processo di liberazione dalle relazioni lavorative alienate, che Marx aveva in mente, fosse già storicamente completo.
— Questo testo di Honneth, proposto qui per la prima volta in traduzione italiana ad opera di Robert Gianni, è apparso nel 1980 in edizione tedesca con il titolo “Arbeit und instrumentales Handeln. Kategoriale Probleme einer kritischen Gesellschaftstheorie”, in A.Honneth-U.Jaeggi (hrsg.): Arbeit, Handlung, Normativitaet: Theorien des Historischen Materialismus, Frankfurt/M., Suhrkamp, pp. 185-233. Il tempo trascorso non ha sottratto interesse al contenuto del saggio. Per tale motivo la redazione non ha avuto esitazione nel pubblicarlo.
- Cfr. Jürgen Habermas, Conoscenza e interesse, trad. it., Laterza, Roma-Bari, 1983, in particolare cap.1, e Albrecht Wellmer, “Communication and Emancipation: Reflections on the ‘Linguistic Turn’ in Critical Social Theory,” in John O’Neill (ed.), On Critical Theory, University Press of America, New York 1989, pp. 231-263. ↩
- Cfr. Louis Althusser e Etienne Balibar, Leggere il Capitale, trad.it., Mimesis, Milano 2006. ↩
- Cfr. Alfred Sohn-Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale, trad. it., Feltrinelli, Milano 1977. ↩
- Jürgen Habermas, Ivi; cfr. anche, Karl-Otto Apel, Transformation der Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1972, vol.2. ↩
- Hans-Jürgen Krahl, Produktion und Klassenkampf, in Konstitution und Klassenkampf Frankfurt am Main, 1971, p.387 sgg. ↩
- Per la storia di questo concetto, cf. Werner Conze, “Arbeit”, in Lexikon der politisch-sozialen Begriffe der Neuzeit, vol.1 Stuttgart, 1982, pp.154 sgg.; Manfred Riedel, “Arbeit“, in Handbuch philosophischer Grundbegriffe, vol.1 München, 1973, pp.125 sgg. ↩
- Cfr. Manfred Riedel, “Hegel und Marx. Die Neubestimmung des Verhältnisses von Theorie und Praxis“, in System und Geschichte. Studien zum historischen Standort von Hegels Philosophie, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1973, p.9 sgg.; Karl Löwith, Von Hegel zu Nietzsche, 7th ed. Hamburg, 1978, p.286 sgg. ↩
- In aggiunta ai lavori di Riedel e Löwith sopra citati, cfr. anche R. N. Berki, “On the Nature and Origins of Marx’s Concept of Labor”, Political Theory 7(1), 1979, pp.35 sgg. ↩
- Questa è la tesi sostenuta da Ernst Michael Lange nella sua Habilitationsschrift, Arbeit-Entäusserung-Entfremdung, Ms., 1978. Cfr. anche dello stesso autore “Wertformanalyse, Geldkritik und die Konstruktion des Fetischismus bei Marx”, Neue Heft für Philosophie 13, 1978, pp.1 sgg. ↩
- Karl Marx, Tesi su Feuerbach, trad. it. in Opere, vol.5, Editori Riuniti, Roma, 1972, pp. 1-6. ↩
- Cfr. Jürgen Habermas, Conoscenza e interesse, tr. it., Laterza, Roma-Bari 1983, cap.1 e dello stesso autore, “Work and Interaction: Remarks on Hegel’s Jena Philosophy” in Theory and Practice; Albrecht Wellmer, Critical Theory of Society, Herder&Herder, New York, 1971, cap.2; Rüdiger Bubner, Handlung, Sprache und Vernunft, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1976, pp.74 sgg. ↩
- Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. it. in Opere, vol.3 Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 249-376. Cfr. anche Karl Marx, Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, trad. it. in Opere, vol.5 Editori Riuniti, Roma 1972. ↩
- Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, op. cit., p.371. ↩
- Thomas Meyer, Der Zweispalt in der Marx’schen Emanzipationstheorie, Kronberg, 193, pp.174 sgg. ↩
- Karl Marx, Lineamenti (Grundrisse) di critica dell’economia politica, trad. it., Einaudi, Torino 1976, pp. 609-610; cfr. anche pp. 477-478 e pp. 706-708 per immagini contrastanti riguardo la produzione meccanica. Cfr. Inoltre, Karl Marx, il Capitale, trad. it., Editori Riuniti, Roma, 1980, vol. I, pp. 463-471 e pp. 542-549. ↩
- Karl Marx, Grundrisse, trad. it., op. cit., p.246. Cfr. anche pp. 706-708 e pp. 31-32. Sul concetto di ‘lavoro astratto’ di Marx, cfr. la chiara e concisa trattazione di Hartmut Neuendorff, Der Begriff des Interesses, Frankfurt am Main, 1973, pp.130 sgg. ↩
- Su questo cfr. Michael Theunissen, “Krise der Macht. Thesen zur Theorie des dialektischen Widerspruchs”, in W. R. Beyer (ed.) Zur Logischen Struktur des Kapitalbegriffs bei Karl Marx, Frankfurt am Main, 1970. Cfr. anche il saggio di Georg Lohmann, “Gesellschaftskritik und normative Mabstab, in Axel Honneth e Urs Jaeggi (eds.) Arbeit, Handlung und Normativität, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1980, pp. 234-299. ↩
- Karl Marx, Il capitale, trad. it., op. cit., p.825. ↩
- Cfr. ad esempio Wolf Wagner, Verelendungstheorie-die hilflose Kapitalismuskritik, Frankfurt am Main, 1976. ↩
- Cfr. Andreas Wildt, Produktivkräfte und Soziale Umwälzung, pp.211 sgg. ↩
- Harry Braverman, Labor and Monopoly Capital: The Degradation of Work in the Twentieth Century, Monthly Review Press, New York, 1974, part II. Ho tratto importanti approfondimenti dalla ricerca di Braverman, anche se in particolare le sue sezioni sulla macroeconomia sono state messe sotto accusa. Cfr. ad esempio, Rod Combs, “Labor and Monopoly Capital”, New Left Review, 107, 1978, pp.79 sgg. Ho inoltre tratto notevoli indicazioni dal lavoro di Georges Friedmann, Problemes Humains du Machinisme Industriel, Gallimard, Paris, 1946, cfr. in particolare l’introduzione. ↩
- Harry Braverman, Op. cit., p.113. ↩
- Ivi, p.171. ↩
- Friedrich GerstenBerger ha mostrato questo per lo sviluppo dei requisiti qualificativi nella Repubblica Federale Tedesca dopo il 1950, nella sua critica all’incremento della qualificazione, “Produktion und Qualifikation”, Leviathan 3(2), 1975, pp.121 sgg. ↩
- Christian von Ferber, Arbeitsfreude. Wirklichkeit und Ideologie, Stuttgart, F. Enke 1959, p.16. ↩
- Ivi, Cap. 2, §5; un esempio concreto è fornito da Hans Freyer, Theorie des Gegenwärtigen Zeitakters, Stuttgart, Deutsche Verlags-Anstalt 1955, cap.1. ↩
- Su quest’argomento in generale confronta l’eccezionale studio di Gert Schmidt, Gesellschaftliche Entwicklung und Industriesoziologie in den USA, Frankfurt am Main-Köln 1974. ↩
- Gert Schmidt ha utilizzato questo termine per il processo per il quale la sociologia industriale, incastrata nell’avanzante ciclo della razionalizzazione del sistema di produzione capitalista, ha costantemente incontrato nuove dimensioni del processo lavorativo che erano ‘capaci di razionalizzazione’. Cfr. Gesellschaftliche Entwicklung und Industriesoziologie, p.92. ↩
- Cfr. ad esempio il lavoro di Friedmann, Goldthorpe e Touraine. ↩
- Hannah Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 2009. ↩
- Max Scheler, Lavoro ed Etica, Saggio di filosofia pratica, trad. it., Città Nuova Editrice, Roma 1995, pp.5-105. Il saggio di J. P. Meyer, Das Problem der Arbeit in der deutschen Philosophie der Gegenwart (in Die Arbeit 8, 1931, pp. 128 sgg. rappresenta sia per ragioni storiche che teoretiche un‘interessante discussione di carattere marxista sul concetto di lavoro così come lo si trova nei lavori di Scheler e Heidegger. ↩
- Ivi, p.174. ↩
- Ivi, p.178. ↩
- Hannah Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 2008, p.97. ↩
- Cfr. Rüdiger Bubner, Handlung, Sprache und Vernunft, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1967, cap. 2, sez. 1. ↩
- Hannah Arendt, Vita Activa, cit., p.128. ↩
- Ivi, p.100. ↩
- Gyorgy Lukács, La reificazione e la coscienza del proletariato, in Storia e Coscienza di Classe, trad. it., Sugarco, Milano 1967, pp. 107-197. ↩
- Intendo in particolare i seguenti saggi di Herbert Marcuse: Über die philosophischen Grundlagen des wirtschaftwissenschaftlichen Arbeitsbegriffs in Schriften, vol. I, pp.556 e sgg.; The Concept of Essence, in Herbert Marcuse, Negations: Essays in Critical Theory, Beacon Press, Boston 1968, pp. 43-87. Marcuse in seguito ha preso le distanze dal concetto socio-filosofico rintracciabile in questi saggi. Questo mutamento è marcato nei suoi scritti dalla sua considerazione sistematica nei confronti della razionalizzazione empirica del lavoro di stampo Taylorista in Einige gesellschaftliche Folgen moderner Technologie, in Schriften, vol. 3, pp. 286 sgg. ↩
- Su quest’argomento, cfr. Johann Arnason Von Marcuse zu Marx Neuwied und Berlin, 1971, capp. I-II. ↩
- Jean-Paul Sartre, “Materialism and Revolution,” in Literary and Philosophical Essays, Collier Books New York, 1962, pp.198-256. ↩
- Cfr. Winfried Dallmayr, Phänomenologie und Marxismus in geschichtlicher Perspektive, in Bernhard Waldenfels, et al., Phänomenologie und Marxismus Frankfurt am Main, 1977, pp.13 sgg. ↩
- Jean-Paul Sartre, Op. cit., pp. 237-238. In uno dei suoi saggi, Leo Kofler ha incorporato questa concezione socio-filosofica di Sarte – più che altro in connessione con il lavoro di Lukács – in un’ipotesi sociologica, rivelando così chiaramente la sua implausibilità empirica. Cfr. Die Frage des Proletariats in unserer Zeit, in Leo Kofler, Der Proletarische Bürger, Wien, Europa Verlag 1968. ↩
- Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1997. Sull’alterato concetto di lavoro in Horkheimer e Adorno, cfr. anche Theodor W. Adorno “Marginalien zu Theorie und Praxis,” in Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1977, vol. 10, No.2, pp.759 sgg. ↩
- Queste pretese, tuttavia, sono applicabili solo alla fase della Teoria Critica segnata dalla Dialettica dell’Illuminismo che, – se seguiamo la sequenza suggerita da Helmut Dubiel – che è emersa negli scritti agli inizi degli anni ’40. Cfr. Helmut Dubiel, Theory and Politics: Studies in the development of Critical Theory, MIT Press, Cambridge, Ma 1985. Riguardo la prima concezione di lavoro di Horkheimer, cfr. Johann P. Arnason, Von Marcuse zu Marx, cap. 2. ↩
- Cfr. Thomas Baumeister e Jens Kulenkampff, “Geschichtsphilosophie und philosophische ƒestetik“ Neue Heft für Philosophie vol. 5, 1974 pp.74 sgg. ↩
- Esamino in maniera più approfondita questa transizione nel mio saggio “From Adorno to Habermas: On the transformation of Critical Social Theory,” in The Fragmented World of the Social, SUNY Press, New York, 1995. Cfr. anche A. Wellmer, Communication and Emancipation”. ↩
- Cfr. Stefan Breuer, Die Krise der Revoluntionstheorie. Breuer comincia con la supposizione che la tendenza, identificabile nell’analisi marxiana del capitale, verso la ‘reale sussunzione‘ di tutte le relazioni lavorative attraverso il capitale sia divenuta oggi una realtà storica. Come conseguenza dell’“impossibilità di collocare anche un solo momento non astratto, non reificato nel completo mondo del capitale” (Breuer, p. 115) egli suppone che ogni critica del capitale che sia ancora di carattere pratico sia destinata a fallire in maniera imbarazzante. ↩
- Intendo in particolare il lavoro di Andreas Wildt, Produktivkräfte und soziale Umwälzung. In questo saggio Wildt fa delle raccomandazioni per una trasformazione concettuale del materialismo storico che si suppone rendere possibile la spiegazione di movimenti sociali rivoluzionari in termini del dispiegamento storico di un potenziale per un’appropriazione non violenta, sensibile e mimetica – perciò intenzionalmente non più lavorando all’interno della struttura esplicativa dell’economia politica. Il motivo di fondo per questa proposta nasce dalla convinzione che le tesi le ipotizzanti che lo sviluppo delle forze produttive cade in contraddizione con le relazioni produttive della società non possa spiegare adeguatamente i processi di trasformazione sociale rivoluzionaria. La strategia argomentativa di Wildt implica innanzitutto che si dissolvano le connessioni tra teoria della rivoluzione e critica dell’economia politica che, nella tradizione marxista, erano forgiate mediante la supposizione che le stesse forze di produzione possedessero un potenziale emancipativo. Quindi egli sviluppa una versione del materialismo storico ispirata principalmente dagli scritti giovanili di Marx, e cosi purificati da qualsivoglia assunzione politico-economica. In suddetta versione egli stabilisce come principio esplicativo delle trasformazioni sociali il conflitto tra poteri di appropriazione (Aneignungskräften), che sono stati evocati durante la storia del genere umano e che sono attualizzati nella struttura di una data società, e relazioni di appropriazione (Aneignungsverhältnissen), che sono specifici in ogni società. La categoria di appropriazione ha assunto, in un segmento della recente discussione marxista (J. P. Arnason e H. Lefébvre), lo status di concetto chiave affermando la possibilità di una relazione col mondo di carattere non strumentale e cognitivo-estetica. Nell’approccio di Wildt vengono apparentemente riuniti insieme in un pensiero tutti quelle potenziali azioni il cui approccio non violento e sensibile alla realtà rappresenta sempre un momento di praxis critica nei confronti della dominazione. L’obiettivo di questa trasformazione teoretica è di rendere il materialismo storico concettualmente in grado di rispondere alla diversità degli atti di resistenza anti-capitalisti che sono motivati non da esperienze di oppressioni nell’arena della produzione capitalista, ma piuttosto da specifiche esperienze di gruppo della repressione di bisogni vitali sensibili, di forme non violente di interazione e di possibilità di espressione estetica, ovverosia esperienze di costrizione basate sullo sviluppo del potenziale soggettivo (Subjektivitätspotentialen).
Le mie perplessità concernenti questa proposta di trasformazione del materialismo storico – la quale è stata finora proposta solo in una maniera abbozzata e programmatica – sono rivolte nei confronti di due debolezze nell’argomentazione di Wildt, entrambi convergenti al medesimo punto. Da una parte, egli ignora dall’inizio il livello teoretico-di potere dell’argomentazione nella quale, per Marx, ha luogo la determinazione delle condizioni che rendono possibile la resistenza sociale, anch’essa derivata dalla sua analisi riguardo il capitale. Le supposizioni di Marx riguardo il potenziale rivoluzionario della classe lavoratrice, erano anche connesse con la determinazione delle opportunità per l’organizzazione e risorse di potere strategico che erano messe a disposizione di questa specifica classe dalla struttura sociale capitalista. Qualunque tentativo di correzione che cercasse di mettere in relazione il materialismo storico con le zone di resistenza tipiche del tardo capitalismo che escludono completamente questo livello dell’argomentazione marxista, potrebbero farlo solo a patto di una certa naïvité teoretica.
Dall’altro lato, non mi è chiaro come il concetto di appropriazione possa in generale essere utile a spiegare la formazione di gruppi sociali con aspirazioni di trasformazioni rivoluzionarie, dato che si riferisce già all’esistenza di modalità esistenziali e forme di praxis che non sono strumentali e, quindi, esteticamente espressive nel più ampio senso del termine. Nel significato che Wildt attribuisce al concetto chiave di ‘appropriazione’, la struttura del processo di apprendimento che è in grado di esplicare la possibilità di forme di vita sociale alternative non è tenuta in considerazione – l’esistenza di una vita-praxis che arricchisce la soggettività può essere identificata dopo il fatto. Per questa ragione mi sembra che la gamma di fenomeni sociali che questo concetto è in grado di determinare teoreticamente sia troppo esigua. Non tematizza né le varie implicazioni normative che potrebbero entrare nelle modalità sperimentali di azione estetica, né le zone di conflitto socio-strutturali nelle quali suddetti ‘poteri di appropriazione’ possano scoppiare. Non sono in grado di vedere come queste due problematiche possano essere risolte all’interno della struttura concettuale provvisoriamente fornita da Andreas Wildt. ↩
- Richard J. Bernstein ha evidenziato questa convergenza tematica in The restructuring of Social and Political Theory, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1978, p.185. ↩
- Per un riassunto generale cfr. Thomas McCarthy, The critical theory of Jürgen Habermas, MIT Press, Cambridge MA 1979, cap.1, parte 2. ↩
- Cfr. Jürgen Habermas, Analytische Wissenschaftstheorie und Dialektik, in Zur Logik der Sozialwissenschaften, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1970, pp.9 sgg; cfr. anche Gegen einen positivistisch halbierten Rationalismus, op. cit., pp.39 sgg. ↩
- Cfr. Jürgen Habermas, Labor and Interaction: Remarks on Hegel’s Jena Philosophy of Mind”, in Jürgen Habermas Theory and Practice, Beacon Press, Boston 1974, pp.142-169; Jürgen Habermas, “Technology and Science as ‘Ideology’,” in Jürgen Habermas, Toward a Rational Society, Beacon Press, Boston 1970, pp.81-122; e Jürgen Habermas, Conoscenza e interesse, op. cit., cap.1. ↩
- Cfr. Jürgen Habermas, Ivi, pp. 293-324 ↩
- Cfr. George Herbert Mead, Mind, Self and Society, Chicago University Press, Chicago 1962. ↩
- Cfr. Jürgen Habermas, Historical Materialism and the Development of Normative Structures, in Jürgen Habermas, Communication and the Evolution of Society, Beacon Press, Boston 1978, pp. 95-129. ↩
- Questa critica è già stata mossa da diversi autori, anche se nessuno di loro si è rivelato in grado di proporre un migliore concetto di lavoro. Cfr. John Keane, “On Tools and Language: Habermas on Work and Interaction”, New German Critique, 1975, pp.82 sgg.; Ben Agger, “Work and Authority in Marcuse and Habermas”, Human Studies 2, 1979, pp. 191 sgg. Le opere di Johann P. Arnason rappresentano un’eccezione. Cfr. in particolare “Marx and Habermas”, in Axel Honneth and Urs Jaeggi (Ed.), Arbeit, Handlung und Normativität, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1980, e il suo, Zwischen Natur und Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1976, cap.3. ↩
- Jürgen Habermas, Conoscenza e interesse, op. cit., pp. 55-56. ↩
- Arnold Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, Ninth edition, Frankfurt am Main, 1971. ↩
- Questo punto è stato proposto da Dietrich Buhler nella sua interpretazione degli scritti giovanili di Gehlen, “A. Gehlen: Die Handlung”, in J. Speck, ed., Grundprobleme der grossen Philosophen, Philosophie der Gegenwart II, Gottingen, 1973, pp. 230 sgg. ↩
- Cfr. Jürgen Habermas, Conoscenza e Interesse, op. cit., pp. 293-324. ↩
- Jürgen Habermas, “Toward a Reconstruction of Historical Materialism,” in Communication and the Evolution of Society, pp. 131-132. ↩
- Cfr. Jürgen Habermas, “Historical Materialism and the Development of Normative Structures”. ↩
- La ricostruzione di una siffatta concezione critica del lavoro dovrebbe innanzitutto reinterpretare li concetto di ‘totalità del lavoro’ (Ganzheit der Arbeit), che Georges Friedmann ha sviluppato sul modello del lavoro artigiano all’interno della struttura di una teoria dell’azione sociologicamente sviluppata. Cfr. Georges Friedmann, Grenzen der Arbeitsteilung, Frankfurt am Main, 1959. Sulla posizione storica e la struttura sistematica della sociologia di Georges Friedmann, che ha istituito la tradizione francese della sociologia del lavoro, cfr. Klaus D¸ll, Industriesoziologie in Frankreich, Frankfurt am Main, 1975, cap.2, sez.2. Purtroppo, la tradizione francese nella sociologia del lavoro è rimasta virtualmente senza influenza nella Repubblica Federale. Una precedente e, data la prospettiva della mia argomentazione, sorprendente eccezione è rappresentata da un saggio di Jürgen Habermas, “Die Dialektik der Rationalisierung,” 1954, ristampato in Jürgen Habermas, Arbeit-Erkenntnis-Fortschritt, Amsterdam, 1970, pp.7 sgg. ↩
- Cfr. Jürgen Habermas, “Historical Materialism and the Development of Normative Structures”. ↩
- Su questo vedi le suggestive riflessioni di Barrington Moore in Injustice: The Social Basis of Obedience and Revolt, White Plans, 1978. ↩
- Philippe Bernoux, La résistance ouvrière à la rationalisation: la réappropriation du travail, in Sociologie du Travail 4, 1978, pp.397 sgg. ↩
- Su questa particolare tematica si compari il saggio di Gustave-Nicolas Fischer, L’espace comme nouvelle lecture du travail, in Sociologie du Travail 4, 1978, pp. 397 sgg. ↩
- Philippe Bernoux, op. cit., p. 77. ↩
- Cfr. anche Rainer W. Hoffman, Die Verwissenschaftlichung der Produktion und das Wissen der Arbeiter, in G. Böhme e M. V. Englehardt (Ed.), Entfremdete Wissenschaft, Frankfurt am Main, 1979, pp. 229 sgg. ↩
- Philippe Bernoux, op. cit., p. 80. ↩
- Ho potuto trarre degli utili suggerimenti anche da un saggio di Birgit Mahnkopf che trae conclusioni da ricerche nella sociologia culturale da parte del Centre for Contemporary Cultural Studies a Birmingham, Inghilterra. Cfr. Birgit Mahnkopf, Geschichte und Biographie in der Arbeiterbildung, in A. Brock, H. D. Müller and O. Negt (ed.), Arbeiterbildung, Reinbeck bei Hamburg, 1978. ↩
- Cfr. per esempio Robert Linhart, Eingespannt. Erzählungen aus dem Inneren des Motors, Berlin/W., 1978, e Miklòs Haraszti, Stüklohn, Berlin/W., 1975. ↩