Una mistica della trasformazione. Recensione a Emiliano Alessandroni, Potenza ed eclissi di un sistema, Milano, Mimesis, 2016


Valerio Marconi

Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”
valerio.marconi92@gmail.com

 
 
 
 
 
 
 
 
1. Potenza ed eclissi di un sistema e il problema del divenire
 
Potenza ed eclissi di un sistema. Hegel e i fondamenti della trasformazione[1], come sintetizza mirabilmente Remo Bodei, si pone la seguente domanda: «Che cosa è, in senso rigoroso, il Divenire e quale il suo rapporto con l’Essere?» (Bodei 2016, 9). Tale domanda non può non far pensare a quella che probabilmente è la più radicale negazione del divenire nella storia del pensiero occidentale, la filosofia di Emanuele Severino. Emerge già da questo rilievo una virtù del lavoro di Alessandroni: esso si confronta proprio con Severino tenendo presenti tanto lo sfondo eleatico e platonico quanto quello gentiliano del pensiero del filosofo bresciano. Cruciale, inoltre, si rivela il ruolo di Arturo Massolo come interprete di Hegel nel confronto teoretico con Giovanni Gentile proprio nel capitolo conclusivo intitolato I principi della trasformazione hegeliana tra Giovanni Gentile e Arturo Massolo, che contiene le 17 pagine di risposta a Severino. Una seconda virtù è proprio l’attenzione rivolta da Alessandroni al panorama intellettuale italiano, che lungi dal limitarsi ai filosofi nominati si rivolge anche a figure del calibro di Cesare Segre e Franco Fortini, solo per citare alcuni dei più noti. In questo senso risulta notevole il capitolo intitolato Incomprensione dei processi di trasformazione e incomprensione dei testi. Cultura postmoderna e crisi della critica letteraria, forse il più militante nel suo tentativo di costruzione di una critica hegeliana al postmoderno che sappia concretizzarsi in una critica letteraria improntata alla semiotica della contraddizione, riscoprendo il valore epistemologico della contraddizione per la comprensione del testo: «Tutto questo presuppone il concepimento dell’impianto complessivo dell’opera come un insieme conflittuale, un serbatoio, più o meno capiente e pulsante, di contraddizioni intercomunicanti, le quali intrattengono a loro volta una relazione sotterranea, per lo più inconscia, con le contraddizioni extratestuali, in un sottile e mediato rapporto di corrispondenza tra Werkgeist e Weltgeist» (Alessandroni 2016, 94).

In questa sede si è scelto di valorizzare proprio la suddetta attenzione al panorama intellettuale italiano mostrata da Alessandroni, pur limitandosi a quello filosofico; nello specifico si farà affidamento sia su una particolare presenza sia su una particolare assenza. Se la presenza, che è quella di Severino, è strettamente legata al tema centrale del libro di Alessandroni, l’assenza, che è quella di Marco Vannini, non è stata selezionata arbitrariamente. Infatti, come nota lo stesso Bodei, l’anti-hegelismo viene da Alessandroni «preso come simbolo della sostituzione della realtà con lo storytelling postmoderno, della cancellazione ideologica dei conflitti, della mediazione contro l’immediatezza irrelata e della mistica contro la razionalità» (Bodei 2016, 11). Con il riproporre l’antinomia tra ragione e mistica (ridotta così a irrazionalità e sentimento) si rischia di tralasciare un aspetto che, secondo l’esegesi di Vannini, è centrale nella concezione hegeliana dello spirito: il mistico.
 
 
2. Severino e la storicità dell’Idea assoluta
 
Tanto per Severino quanto per Hegel il divenire nel suo darsi fenomenico è frutto di una decisione[2], ma dal punto comune di questa decisione si dipartono le radicali divergenze – logica ed epistemica – che separano dialettica hegeliana e dialettica severiniana.

Alessandroni (2016, 106) coglie lucidamente il fondamento di entrambe le divergenze[3]:
 

Comprendiamo più facilmente ora la celebre affermazione hegeliana sulla filosofia come ‘ihre Zeit in Gedanken erfaßt’, ciò che non significa alcuna forma di relativismo, quanto piuttosto l’esistenza di una inestricabile relazione fra sviluppo dell’ordine storico e sviluppo dell’ordine logico. In questo caso la lotta per l’affermarsi di un nuovo quadro della storia è anche lotta per l’affermazione di un nuovo quadro di pensiero.

Tale inestricabile relazione si rivela un nodo in grado di legare a sé e tra di loro la Fenomenologia dello Spirito, la Scienza della Logica, l’Enciclopedia del ’30 e i Lineamenti di Filosofia del Diritto; nella sua rilevanza e attualità è stata così colta da Hans Küng (2012, 220):
 

La storia come atto, come processo dialettico, come autorappresentazione e autorivelazione dell’Assoluto. Inserendo la storia nell’Assoluto e rendendo l’Assoluto stesso storia, Hegel ha contribuito in maniera decisiva e stimolante a una presa di coscienza, ben al di là di ogni «filosofia della storia», di ciò che in seguito andrà sotto il nome di storicità e, in particolare, di storicità della verità, e che, proprio alla luce di Hegel, non si potrà per principio connettere con le idee del relativismo, negante tutto ciò che è permanente, e con un’insicurezza generale.

Alessandroni (2016, 85) valuta il contributo hegeliano in maniera simile proprio nell’atto di criticare «l’‘ontologia dell’incertezza radicale’ a cui il postmodernismo dà vita»: «È una perdita della ragion dialettica, quella a cui si assiste, e, assieme ad essa, una caduta in discredito dell’oggettivismo tramandato dalla tradizione hegeliana». Infatti c’è una differenza concettuale tutt’altro che indifferente tra relativismo (relativizzare verità e valori a un contesto storico e alle culture e sottoculture disponibili o riesumabili in esso) e il relazionalismo hegeliano, ossia il porre come inestricabile la relazione tra dialettica e storia (razionale e reale). Tale relazionalismo è costantemente tenuto presente da Alessandroni nel capitolo I principi della trasformazione hegeliana tra Giovanni Gentile e Arturo Massolo; esso è enunciato a chiare lettere da Hegel (2011a, 1065) stesso nelle ultime righe della Fenomenologia:
 

La via che conduce alla meta – al sapere assoluto, cioè allo Spirito che si sa come Spirito – è il ricordo degli spiriti così come essi sono in sé stessi e compiono l’organizzazione del loro regno. La loro conservazione, secondo il lato della loro esistenza libera che si manifesta nella forma dell’accidentalità, è la storia; secondo il lato della loro organizzazione concettuale, invece, tale conservazione è la scienza del sapere fenomenico; tutt’e due insieme, cioè la Storia compresa concettualmente (die begriffne Geschichte), formano il ricordo e il Calvario dello Spirito assoluto, formano la realtà, la verità e la certezza del suo trono, senza il quale esso sarebbe la solitudine priva di vita. Soltanto

 

dal calice di questo regno degli spiriti

spumeggia fino a lui la sua infinità.

A tale relazionalismo si arriva anche per deduzione: assumendo, come si legge nell’Enciclopedia del ’30, che «la storia delle religioni coincide con la storia del mondo» (Hegel 2007, 905) e che «il contenuto della Filosofia è lo stesso di quello della Religione» (Hegel 2007, 919) si ha che il contenuto della filosofia è la storia del mondo. A questa evidenza sillogistica, dove la religione fa da medio, si aggiunge la mirabile corrispondenza tra i quattro regni storico-mondiali, come esposti nei Lineamenti di Filosofia del Diritto (§§ 354-360), e i quattro momenti del metodo del capitolo sull’Idea assoluta nella Scienza della Logica. Vi è, infatti, un elemento sintomatico di tale corrispondenza nell’esposizione della filosofia della storia alla fine dei Lineamenti che Livio Sichirollo (1985, 48) non ha mancato di mettere in evidenza: la caratterizzazione del regno romano non soltanto è originale rispetto alle fonti impiegate da Hegel ma con essa si giunge ad un riconoscimento della radicale alterità del mondo romano rispetto a quello greco. La quadripartizione della storia del mondo è, per Sichirollo (1985, 52-53) la condizione di possibilità della comprensione del darsi concreto della filosofia:
 

Quel mondo ideale, cioè la filosofia, che chiude il paragrafo [360], chiude la WG [Weltgeschichte], e chiude, non dimentichiamolo, l’intera Filosofia del diritto, è proprio lì ad indicare che attraverso e solo grazie a questa filosofia della storia della filosofia del diritto noi (il filosofo) arriviamo a comprendere non la filosofia in ciò che essa insegna (diciamo la storia della filosofia o le filosofie nella loro storia) ma la possibilità e la realtà storiche della sua apparizione come filosofia moderna – quindi […] non della filosofia hegeliana, ma in e dopo Hegel, della filosofia in generale.

Il regno romano ha come principio «l’approfondimento entro di sé dell’esser-per-sé che sa verso l’astratta universalità e con ciò verso l’opposizione infinita di contro all’oggettività quindi parimenti abbandonata dallo spirito» (Hegel 2010, 270) rivelandosi come il secondo negativo di cui parla il seguente passo della Scienza della Logica: «In quanto ora quel primo negativo è già il secondo termine [come lo è il mondo greco], quello contato come terzo può essere contato come quarto, e così invece di prender la forma astratta come una triplicità, si può prenderla come una quadruplicità. Il negativo, ossia la differenza, è contato in questo modo come una dualità» (Hegel 2011b, 949).

Tale secondo negativo, di cui il regno romano è l’incarnazione storica, è infatti detto «negatività assoluta» (Hegel 2011b, 949)[4]. Alla distinzione tra regno greco e regno romano nell’ordine storico corrisponde, nell’ordine logico, la consapevolezza che la forma del metodo in quanto triplice «è certamente soltanto il lato superficiale, esteriore, della guisa del conoscere» (Hegel 2011b, 949) essendo la dualità del negativo il fondamento della quadruplicità. Senza l’ordine storico l’ordine logico non avrebbe modo di comprendersi nella filosofia (che appunto scaturisce dall’ordine storico), eppure è proprio l’ordine logico ad inscriversi nella storia per potersi comprendere. Come nota Adriaan T. Peperzak, nello spirito oggettivo hegeliano non esiste un’istituzione che faccia da «giudice» per le «cause» tra Stati: i conflitti tra i popoli sono oggetto di un giudizio infallibile che determina il corso della storia come realizzazione dello Spirito assoluto, che così fa valere il proprio diritto assoluto[5]. In questa scrittura della storia ad opera dello spirito assoluto si rivela «la sua eternità che supera in sé il tempo senza annientarlo» (Peperzak 1992, 120), nel testo della storia si mostra «‘il logico’ che – come ‘Dio prima’ e dopo ‘la creazione’, vale a dire come il logos assoluto ed eterno – è e conosce ogni verità ed effettività» (Peperzak 1992, 121)[6].

È, insomma, mediante la propria storicità che l’Idea assoluta giunge a realizzarsi pienamente come Spirito assoluto.

Veniamo ora alle divergenze tra Hegel e Severino che sul relazionalismo hegeliano, appena ripercorso, trovano il loro fondamento. Si vedrà che tanto la divergenza logica quanto quella epistemica colgono due tratti distintivi della dialettica dei due autori. Per quanto tangenziale al presente contributo, si pone il problema di una tipologia delle dialettiche dato che i tratti logici e i tratti epistemici delle due dialettiche qui considerati potrebbero applicarsi a tutte le dialettiche note o possibili[7].

Divergenza logica. Tale divergenza è stata colta con grande chiarezza da un logico del calibro di Francesco Berto[8] rifacendosi proprio alla nota distinzione tra dialettica dei contraddittori e dialettica dei contrari. La dialettica di Hegel è, per Berto (2003, 218), una dialettica del divenire, del mutamento:
 

Per questo lato, la dialettica hegeliana si configura non solo quale teoria del significato come unità di opposti, ma anche quale teoria della struttura o forma del divenire, o teoria che pone il significato come diveniente. […] Si capisce allora, anzitutto, perché la dialettica hegeliana privilegia i contrari: li privilegia appunto in quanto intende esprimere la forma del mutamento. Hegel pone cioè i contrari come ‘cominciamento’ e ‘risultato’ del processo di toglimento della contraddizione dialettica, perché li intende come terminus a quo e terminus ad quem del divenire.

La dialettica di Severino è dialettica dei contraddittori e proprio in quanto tale risulta essere dialettica dell’immutabile, tra i contraddittori non c’è intermedio (come invece può esserci tra i contrari) e se non c’è intermedio non c’è via per la quale si possa passare dall’uno all’altro. Posto che Severino dismette dal principio di non contraddizione la temporalità (la cui presenza è tacciata di fisicalismo), si giunge alla netta alternativa eleatica: è o non è. Due sole sono le vie, una è vera e l’altra è falsa, per sempre; del resto, la follia dell’Occidente sta nel pensare un tempo in cui venga meno l’opposizione assoluta ed eterna tra positivo («è») e negativo («non è»). Che l’immutabile appaia, che si dia divenire fenomenico (il divenire appare ma non è)[9] è pura contingenza e, come si è visto, solo la decisione da parte dell’immutabile lo consente ma esso resta immutabile, ha già da sempre deciso.

Divergenza epistemica. Il procedimento dialettico può essere inteso in senso epistemico sotto un duplice aspetto, quello del rapporto conoscente-conosciuto e quello del rapporto principio-risultato. Se il conosciuto nel procedimento dialettico resta immutato una volta che il conoscente l’ha conosciuto e se il conosciuto è un principio, allora il risultato sarà la conoscenza del principio posseduta dal conoscente. Sarà utile fare degli esempi: il motore immobile di Aristotele è immutabile e quando viene conosciuto dall’uomo è l’uomo che muta (il motore, soprattutto se immobile, rimane sempre lo stesso); se l’immutabile severiniano mutasse una volta conosciuto non sarebbe ciò che è. Il tipo di procedimento dialettico appena esposto, che si potrebbe chiamare dialettica del principio, si contrappone alla dialettica del risultato: se il conosciuto muta una volta che il conoscente l’ha conosciuto e se il conosciuto è un principio, allora tale principio sarà il risultato del conoscere da parte del conoscente. Nella dialettica del principio si produce la conoscenza del principio, mentre nella dialettica del risultato si produce il principio conosciuto, il principio è risultato e (nel caso di Hegel) conoscente e conosciuto si identificano nella conoscenza assoluta. L’Idea assoluta è quel sommo principio, quell’immutabile, che per conoscersi deve divenire ma divenendo (mutando) diviene ciò che è. L’immutabile sarebbe quella solitudine priva di vita alla quale allude l’epilogo della Fenomenologia, sarebbe sostanza senza soggetto, non sarebbe Spirito assoluto se non mutasse: la conoscenza del conosciuto/principio è trasformazione del conosciuto/principio in sé stesso.

Alla luce di queste divergenze, nonché del loro fondamento, è possibile valutare l’efficacia della risposta di Alessandroni alla critica severiniana del concetto hegeliano di divenire.

Tale risposta si articola in modo assai puntuale ma raggiunge la sua piena efficacia nel paragrafo Ineludibilità di una logica del falso (Alessandroni 2016, 137-139). Ciò per due motivi:
 

  • La logica del falso è un problema teorico che fa capo a un passaggio fondamentale in Severino, quello dal monismo eleatico (solo l’essere è) al pluralismo platonico (gli enti sono, tanto le idee quanto le loro copie partecipano dell’essere). Il non essere come diverso è il guadagno del Sofista platonico e costituisce il primo tentativo nella storia della filosofia di una logica del falso. Per giunta, è stato proprio il pluralismo severiniano a consentire a Gustavo Bontadini di confutare l’opposizione assoluta tra positivo e negativo come formulata dal filosofo bresciano[10] e Alessandroni, che pure non cita Bontadini, si mostra consapevole di ciò: «Il tentativo […] che Severino ha compiuto per tenere assieme Platone e Parmenide, la molteplicità e l’illimitatezza, non appare convincente» (2016, 136-137).
  •  

  • Il falso è un dato di cui una filosofia sistematica deve tenere conto, essa deve spiegare perché si dà in maniera totale o parziale falsità nelle altre filosofie o negli altri pensieri e ciò a fortiori se l’autore di tale filosofia sistematica giunge a dire: «originariamente, si deve dire che io sono l’unico filosofo e la mia è l’unica filosofia» (Severino 2012 [1958], 25). Quindi, il falso si rivela un ottimo terreno di prova per due diverse visioni sistematiche del reale: quale delle due sa rendere conto della falsità altrui e, dunque, della propria verità?

Nel paragrafo in questione Alessandroni fa emergere che la logica del falso di Severino, almeno confrontata con quella hegeliana, risulta assai povera in quanto incentrata sull’uso della categoria psicopatologica di follia, la ben nota follia dell’Occidente. La logica del falso in Severino sarebbe, se sviluppata al di fuori della categoria di follia, una sorta di autoconfutazione visto che la logica del diverso del Sofista viene utilizzata da Bontadini per confutare il discorso severiniano. Tanto il divenire quanto il falso (che ne fa parte) sono puri accidenti per l’immutabile severiniano, mentre in Hegel sono momenti essenziali dell’autocoscienza dell’Idea nello Spirito assoluto.

Relativamente al secondo motivo di efficacia del paragrafo in questione sarà bene considerare la seguente critica severiniana alla dialettica hegeliana così rielaborata da Berto (2003, 234-235):
 

Essa non sa esibire l’autentica motivazione della contraddizione dialettica, perché pretende che la posizione concreta del significato sia il risultato del divenire, in cui la contraddizione è tolta. Al contrario, solo se la RSF, la relazione fra opposti, è presupposta, è l’originario (anzi, è legata alla stessa posizione concreta del PNC [Principio di Non Contraddizione]), allora la sua negazione produce una contraddizione. […] La deduzione del divenire fallisce […] perché lo presuppone, e, in quanto, è teoria della forma logica del divenire, ‘ogni passo del metodo risulta inesplicabile’.

Alla luce delle considerazioni svolte nel presente contributo emerge che quanto sostenuto da Berto è sostanzialmente la differenza tra dialettica del principio e dialettica del risultato, ora questi due modelli epistemici della dialettica non possono che accusarsi di petitio principii l’un l’altro[11]; in questo le due dialettiche si rilevano essere dei paradigmi che non possono veramente dialogare tra loro, nel dover scegliere tra i due si impone quindi di vedere a cosa portano e quale dei due riesca a rendere conto di un dato rilevante per entrambi. Si conceda pure che il divenire non venga veramente dedotto in Hegel, resta che dal divenire hegeliano si rende pienamente ragione del darsi del falso nella concretezza del Calvario della Verità verso se stessa e, dunque, del darsi della falsità del sistema severiniano in quanto figura dell’alienazione filosofica[12]. La prospettiva hegeliana di Alessandroni è capace di ricomprendere in sé quella severiniana e superarla, mentre Severino nel voler fare i conti con la storia della filosofia occidentale è costretto a misurarsi con qualcuno con cui la propria dialettica del principio non può discorrere: con un folle. Ciò non esula dalla divergenza logica tra dialettica dei contradditori e dialettica dei contrari, la prima non può veramente rendere ragione del divenire poiché sarebbe come cercare la ragione nella follia; eppure c’è del metodo nella follia dell’Occidente.
 
 
3. Lo Spirito hegeliano secondo Marco Vannini
 
Nel presentare la lettura dello spirito hegeliano offerta da Marco Vannini, filosofo e storico della mistica tra i più prolifici in Italia, e la sua rilevanza per i temi di Potenza ed eclissi non c’è punto di partenza migliore che rilevare la concordia dei discordi che lega Vannini a Galvano della Volpe. Della Volpe (1952, i-ii) ha avuto modo di scrivere – si prega di perdonare la lunga citazione – nel suo secondo saggio sulla filosofia mistica di Meister Eckhart:
 

Ancor oggi si sente parlare molto (anche da marxisti) di ‘negazione della negazione’. Ma questa formula, se ha da significare qualcosa di preciso, non può non mantenere sostanzialmente il significato ch’essa ebbe per Hegel, che l’apprese dal primo che se ne servì: dal filosofo mistico maestro Eckhart, che intendeva con essa di asserire che, se il principio del mondo è spirituale, esso è principio di unità originaria delle cose e però negazione di quel negativo che è, per definizione mistica, la accidentale molteplicità delle cose! Si pensi all’Idea hegeliana, unità originaria e assoluta; e anche mutando quel che c’è da mutare si vedrà il perché della adozione razionalistica hegeliana di quella tipica formula mistica. Hegel si illuse di poter usare quella formula per spiegare il ‘flusso’ o movimento della realtà, in quanto con essa poteva pensare superata – platonicamente – la ‘rigidità’ delle sostanze aristoteliche o dei concetti tradizionali, ché in verità essa non gli servì (né ad altro poteva servirgli) che a tentar di giustificare la restituzione del molteplice categoriale, ossia del ‘negativo’ proprio dell’‘intelletto’, nell’unità (originaria!) dell’Idea o Ragione o Autocoscienza che si dica. (E la ‘mistificazione’ inerente alla sua ‘dialettica’, la natura di ‘falso mobile’ di questa, fu proprio scoperta dal giovane Marx, il cui avvertimento, di aver egli stesso soltanto ‘civettato’ con ‘espressioni’ hegeliane come quella in questione, non fu sempre ascoltato dai seguaci, che non si resero conto che formule come ‘negazione della negazione’ ecc. potevano esser usate da studiosi del materialismo storico come metafore tutt’al più).

Tale monito non può non riguardare Alessandroni (2016, 107-108), che scrive: «Con buona pace delle accuse di Marx, troppo spesso incline a leggere Hegel con le lenti di Feuerbach, risulta nel filosofo della Fenomenologia una anti-idealistica consapevolezza che non sia la coscienza a determinare l’essere bensì l’essere sociale a determinare la coscienza». Lungi da parlare in questa sede di teologia mascherata, va ammesso che tanto della Volpe quanto Vannini leggono in Hegel una teologia superata e perciò conservata. Infatti, così si esprime Vannini (2010, 314) nella sua Storia della mistica occidentale[13]:
 

Che la filosofia hegeliana sia all’interno della tradizione mistica cristiana – anzi, ne rappresenti per molti aspetti il compimento – è un’affermazione che suonava fino a non molto tempo fa un po’ strana, per la diffusa opinione che si trattasse di un pensiero ‘immanentistico’, se non addirittura ateo. Ma la cosa parla da sé, ed è vero anzi che non si capisce Hegel fuori del suo contesto proprio, che è quello mistico-speculativo. Che lo speculativo (ossia il pensiero che comprende l’intero, il vero) sia la stessa cosa del mistico, lo scrive Hegel stesso, ed è impossibile equivocare su questo.

Vannini ha in mente il già citato Küng nel formulare la propria interpretazione, ma non si può certo dire che lo studioso fiorentino incarni lo stereotipo dello hegeliano di destra (ruolo verso il quale, tra i due studiosi, si protende sicuramente di più Küng)[14]. Autori radicalmente divergenti come della Volpe e Vannini pongono, però, uno stesso problema ad Alessandroni: l’inestricabilità tra Spirito assoluto e mistica speculativa. Entrambi, però, si rivelano critici del misticismo hegeliano; ciò si è già visto nel caso di della Volpe e lo si può scorgere nel seguente passo di Vannini (2013, 169) sulla filosofia:
 

Tutto comprende, tutto spiega, ma solo perché qualcosa è finito: esso si lascia riconoscere, ma non ringiovanire. È come se, implicitamente, Hegel riconoscesse determinata anche la comprensione, il pensiero nella sua attività totalizzante. È come se lo spirito, tutto avendo in sé com-preso, fosse sazio, ovvero stanco (satt=sad), perfetto, ovvero morto (teleios). Come se gli fosse venuta meno la gioia della vita, la lieta apertura delle cose. E si comprende bene il perché: nuove visioni del mondo, nuove religioni, costringerebbero a cominciare tutto da capo, mettendo tutto da parte, rinunciando a ogni conciliazione col presente. Occorrerebbe mettere in gioco l’esistenza concreta e i suoi legami; pensare la filosofia non più solo come comprensione (il proprio tempo compreso nel pensiero), ma come vita, alla maniera – guarda caso – di quegli antichi filosofi.

Il Sapere assoluto è l’Idea assoluta pervenuta a se stessa come identità (mediazione) di idea pratica e idea teoretica e in ciò è piena Aufhebung della sapienza arcaica greca, che come la sapienza orientale è immediatamente teoretica e pratica. Le nuove visioni del mondo e le nuove religioni a cui fa cenno Vannini sono proprio ciò che Alessandroni (2016, 85) squalifica come «esplosioni di misticismo, mitomania, esotismo e culti orientali (peraltro inconsapevolmente intessuti di “razzismo latente” – o meglio “orientalismo latente” – nella riproposizione indebita degli archetipi essenzialistici propri della tradizione discorsiva colonialista». Storia del mondo e storia delle religioni vanno di pari passo e i simboli dell’Oriente che entrano nella storia dell’Occidente hanno lo stesso oggetto della filosofia, ossia la trasformazione. Merito non piccolo di Giangiorgio Pasqualotto è l’aver mostrato come le figure di pensiero dell’Oriente siano simboli trasformazionali, superando dialetticamente (non sarebbe fuori luogo parlare di Aufhebung) l’antinomia tra simboli soggettivi e simboli oggettivi[15]. Pasqualotto non è certo un hegeliano e si opporrebbe con forza all’idea che la filosofia debba elevare al concetto queste rappresentazioni orientali, ma per chi volesse essere hegeliano oggi si pone forse proprio questa sfida – posto che la verità del soggettivo e dell’oggettivo è la trasformazione e che l’assoluto giunge alla realtà mediante l’esercizio del proprio diritto sulla storia, come suggerisce Peperzak.

Insomma, se il postmoderno (la presente epoca) è l’epoca dell’Übermensch e di altre figure di pensiero che guardano oltre l’uomo europeo, bisogna con una filosofia della mistica che è trasformazione prepararsi all’avvento dell’Übergott, del Tao e del nirvāṇa. Simboli del tempo presente (o forse dell’eterno presente, dell’eterno nel tempo, dell’immutabile nel mutevole, della strutturazione originaria del divenire) da interpretare, da portare alla chiarezza del concetto. La grande sfida è quella di evitare di confondere il sovrarazionale con l’irrazionale, che è momento del sovrarazionale quanto lo è il razionale; solo così il sovrareale è pensabile (per quanto non conoscibile) al di là di rappresentazioni estatiche e surreali[16].
 
 
 
Bibliografia
 
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Note al testo
 
[1] Mimesis, Milano 2016, pp. 190, ISBN 978-88-5753-743-6.  
[2] Nell’Enciclopedia (1830) si legge: «l’Idea assoluta si decide a emancipare liberamente da sé il momento della sua Particolarità, cioè della prima Attività determinante e della prima Alterità: è il momento dell’Idea immediata come suo riflesso, l’Idea che è sé come Natura» (Hegel 2007, 417), mentre Severino scrive: «Se la totalità del divenire non appartiene necessariamente all’intero, e se l’immutabile intero è ciò per cui quella totalità è, che la totalità del divenire sia, è una decisione dell’immutabile» (Severino 2012 [1958], 410).
[3] Questa è la conclusione a cui giunge Alessandroni dopo aver considerato la nascita della filosofia dall’angoscia e dallo sgomento (con esplicito riferimento al thaûma severiniano) per le contraddizioni oggettive in cui l’uomo vive e in cui è destinato a perire qualora non giungesse a scioglierle.
[4] Per una considerazione della negatività e del quarto nell’Idea assoluta con riferimento alla storia si veda Gray Carlson (2007, 593-603), che tiene particolarmente presenti riguardo al rapporto fra logica e storia Burbidge (1995) e Butler (1996).
[5] Cfr. Peperzak (1992).
[6] Va, tuttavia, tenuta presente la critica dell’interpretazione demiurgica del logico hegeliano in Taranto (1976).
[7] Per un confronto storico-teoretico tra dialettiche antiche e dialettiche moderne si veda Berti (1987). Da questo fondamentale studio risulta che ciò che rende le dialettiche tali è il dimostrare mediante l’uso della contraddizione, ma ciò che le divide (tra antiche e moderne, tra antiche e antiche e tra moderne e moderne) è il modo in cui intendono la contraddizione. Infine, si segnala che anche nel testo di Berti (1987, 299-303) l’aspetto logico e l’aspetto epistemico svolgono un ruolo di rilievo nel confronto tra filosofie strutturate dialetticamente.
[8] Cfr. Berto (2003, 211-229).
[9] Cfr. Severino (2012 [1958], 404-406).
[10] «Chi nega […] l’opposizione di contraddizione (tra essere e non essere), non afferma la stessa opposizione ma solo una opposizione di diversità (la diversità che corre tra quei due esseri che sono la negazione e l’affermazione, ognuno dei quali non è l’altro). Il motivo per cui la Tua [Bontadini si rivolge a Severino] istituzione della formula ontologica non regge, è, come si scorge, in ciò: che non si può equiparare la coppia essere-non essere (ovvero: positivo e negativo) alla coppia affermazione-negazione, perché la negazione non è non-essere (non è un negativo!, non è il nulla)» (Bontadini 1971, 164). Da ciò emerge la negabilità della struttura originaria severiniana.
[11] La dialettica del principio, come nel caso di Berto e Severino, accusa la dialettica del risultato di aver presupposto il divenire ossia il risultato a cui vuole giungere, mentre per la dialettica del risultato la dialettica del principio considera il principio come qualcosa di radicalmente altro dal risultato del procedimento dialettico: se la dialettica hegeliana presuppone il divenire (cfr. il relazionalismo di cui sopra) la dialettica della struttura originaria ha come presupposto l’opposizione assoluta di positivo e negativo ma per la scienza hegeliana non si possono dare presupposti. Entrambe le dialettiche rispondono all’imperativo platonico della filosofia come ricerca dell’anipotetico, ma in Hegel l’anipotetico è risultato consistendo nell’unità del principio e della sua conoscenza mentre in Severino (come in Aristotele e Platone) l’anipotetico è già là come condizione del suo stesso essere ricercato o negato e l’unico esito positivo (risultato) del procedimento dialettico è la conoscenza del principio, il cui essere è presupposto. Che si presupponga il risultato per giungervi e realizzarlo o che si presupponga il presupposto per dimostralo tale, ossia necessario, ciò che non muta è l’essere petitio principii dal punto di vista del procedimento opposto. Assumendo qualsiasi delle due dialettiche si assume a priori che l’altra presupponga id quod erat demonstrandum.
[12] Cfr. Alessandroni (2016, 139). Ovviamente è Alessandroni ad offrire una lettura hegeliana del nostro tempo e non Hegel stesso, ma resta che è dall’idea hegeliana di divenire segua piuttosto direttamente la falsità di quella severiniana. Da questo punto di vista pare emblematico che Berti (1987, 221), un autore che si rifà a quella che qui si è chiamata dialettica del principio, riconosca la grandissima capacità esplicativa della dialettica hegeliana in sede storica.
[13] Per una difesa filologica e circostanziata della lettura vanniniana si veda la seconda edizione di questo testo uscita nel 2015 per i tipi di Le Lettere.
[14] La mistica speculativa e, dopo Hegel, veramente filosofica è Aufhebung della religione e nello specifico del cristianesimo: è il fuori che è dentro il cristianesimo, ma in questo fuori il cristianesimo perviene veramente a sé stesso al di là della religione come menzogna, ossia Scrittura e Chiesa – cfr. Vannini (2014).
[15] Cfr. Pasqualotto (2010, 9-27).
[16] Per una ulteriore chiarificazione del concetto di mistica (con ampio riferimento a Vannini, ma non solo) e il sovrareale/sovrarazionale si rimanda a Marconi (2015, 50-61). Hegel stesso distingueva tra misticismo speculativo e pseudo-misticismo romantico, per tale distinzione si rinvia a Muratori (2012).

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