Tra la verità e la politica: le possibilità della critica

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Editoriale

Giovanni Campailla, Guido Grassadonio, Roberto Bravi

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1. Critica, verità, politica

Analizzare la relazione tra verità e politica è un compito vasto, le cui molteplici implicazioni un numero di rivista non potrebbe certamente esaurire. Ciò perché la rivendicazione della verità è sempre stata in politica un’arma potente, a tal punto da interessare in maniera, si potrebbe dire, fondativa la riflessione filosofico-politica. Accanto alla domanda su cosa sia autenticamente la verità, si pone infatti il quesito su chi detenga la verità o su come si produca la verità. È questo il motivo per cui la verità – nel senso della sua attribuzione e della sua pretesa – ha incessantemente costituito il nodo attraverso cui articolare tanto una politica che attesti un ordinamento della verità, quanto una politica che invece ne formuli la sua critica.

La questione generale che, a partire dal rapporto verità-politica, la maggior parte dei saggi presenti nel numero cerca di tracciare è la seconda, e cioè: come articolare una critica all’esistente nel tempo presente? Ma simile questione apre un ampio ventaglio di problemi: quali strumenti, riorientamenti metodologici e categorie di riferimento ci servono; cosa una tale critica deve mettere in campo; cosa essa può e non può fare; quali errori non deve ripetere?

Il tema a cui cerca di rispondere il numero è dunque la maniera in cui la critica incontra il rapporto tra verità e politica. O, se vogliamo: con quale fondatezza, la verità della critica può opporsi alla verità fattuale della politica, ossia ciò che si definisce generalmente con il nome di realtà? L’incontro/scontro tra i due poli, a sua volta, si può declinare in questi termini: quale verità/realtà sarà opportuno indagare per mettere in campo una critica effettiva del potere; in che modo essa dovrà essere indagata; quali strumenti cognitivi del passato sono ancora fecondi; e che tipo di rivendicazione della verità sarà necessario mettere in campo?

Così, passando in rassegna problematiche e concetti intrinsecamente connessi a questo rapporto, cercheremo di mostrare, lungo le righe del presente editoriale, come, fra le altre, la questione della critica si ponga in qualche modo come l’interstizio tra la verità e la politica, ridefinendo ogni volta in maniera diversa il significato stesso di entrambi i termini. E dunque come da questa strada si entri da una porta principale dentro dibattiti ancora oggi vivi e infiammati. Talmente attuali e discussi che sarebbe presuntuoso immaginare di aver rappresentato l’intera costellazione delle posizioni contemporanee con il presente numero. Ma abbiamo l’ambizione di dire che l’insieme dei saggi qui presentati non soltanto esprimano bene la vastità del tema (senza chiuderla), ma riescano anche a costruire due o tre percorsi diversi per provare a dare risposte effettive alle questioni.

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2. Fondare la critica?

Il difficile nodo che ad una teoria critica1 si pone di fronte nel momento in cui incontra il rapporto verità-politica, è quello del suo bisogno o meno di fondarsi. L’alternativa che qui si apre per il nostro discorso sulla possibilità interstiziale della critica, può essere così sintetizzata: è in ogni caso necessario un riferimento ad una normatività che giustifichi una specifica ontologia oppure una critica, per esser tale, deve uscire dalla ricerca della sua validità orientandosi verso un discorso a-normativo e polemico nei confronti di una qualsiasi ontologia sociale? E se ci si orienta verso un’ontologia o una normatività, quale scegliere e sulla base di quali valutazioni?

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2.1.

Nel numero una prima maniera di accostarsi alla questione relativa alla necessità o meno per la critica di fondarsi in maniera veritativa, è quella tracciata dall’articolo di Davide Tarizzo: Sofferenze ontologiche: un approccio clinico al materialismo. In esso viene presentata una distinzione fra l’approccio clinico e l’approccio operativo alla società, ovvero fra una diagnosi dei malesseri sociali e la mera descrizione del suo funzionamento. Un approccio clinico, per Tarizzo, non ha bisogno di una tensione normativa, perché «non implica alcuna conoscenza descrittiva o prescrittiva del buon funzionamento della macchina sociale». Non occorre allora definire, per intenderci, cosa sia il “sano”, la «salute sociale»: «Per studiare le disfunzioni sociali non occorre conoscere il segreto della salute sociale, basta riconoscere l’esistenza della sofferenza umana come materia dell’analisi sociale». È questa una delle possibili declinazioni del materialismo, «inteso come materialismo delle sofferenze sociali, dei malesseri politici, delle patologie storiche». Tale approccio materialista è definito col nome di Teoria Critica. Rivolgendosi a quest’ultima, nella prospettiva di Tarizzo abbiamo tre grandi orientamenti: una critica nel nome di una ontologia che afferma la verità della storia, e cioè il marxismo; una critica nietzschiana che nega l’esistenza di una verità nella storia focalizzandosi piuttosto sulla sua storicità, la cui tematizzazione egli rintraccia in Adorno e Derrida; e una critica posta sul carattere fantasmatico dell’ontologia storica, che per l’autore è formulata tanto da Freud e Lacan quanto da Foucault. Delle tre, il punto di vista che a Tarizzo sembra più convincente è il terzo, il quale non reclama un’essenza del corso storico e neanche sostiene che questo non sia (o non sia ancora) vero, ma porta alla luce il punto di rottura in cui la verità della storia emerge come la sua non-verità, il suo essere come non-essere e la sofferenza come limite di impossibilità della storia. La terza opzione, a suo parere, colloca la verità sul piano della finzione, poiché – potremmo dire – una verità nascosta, se postulata in quanto tale, non può che essere contingente. Non è escluso quindi qui un orientamento ontologico, sebbene non si tratti di fondare una verità, ma casomai di squalificarla e farla emergere nella sua costante incompletezza. E’ il reale (per dirlo in termini lacaniani), il reale della sofferenza, che denuncia con la sua stessa esistenza le false pretese di un discorso di totalizzazione storica. Si tratta di una critica che è clinica perché assume in qualche modo la posizione dell’analista, che ha di fronte a sé la sofferenza e che ne assume il ruolo soggettivo (vuoto, da realizzare, ancora al livello di pura interdizione).Rivendicare una sofferenza reale, muovere il pensiero a partire da essa, comporta chiaramente un certo modo di considerare o meglio di riconsiderare l’essere.

Il valore negativo della verità che qui si affaccia è del resto, nella sua derivazione lacaniana, proprio di un altro pensatore che ha conosciuto, nell’epoca recente, vasta popolarità: Slavoj Žižek. Proprio questa pretesa di occupare il luogo del vero e conseguentemente ogni tentativo di critica, come sintomo dell’ideologia dominante, è stata ad avviso di Paul Bowman, nell’articolo qui pubblicato (Come non leggere Žižek), la cifra costante del discorso žižekiano, che gli ha permesso di costruire e portare avanti un discorso teorico privo di falsificabilità, secondo l’espressione popperiana. Questa attitudine del filosofo sloveno, a ricondurre ogni risposta critica alla sua critica ad una reazione di carattere sintomatico alla verità emersa, non gli ha risparmiato accuse, provenienti soprattutto dall’ambiente accademico anglo-americano, di “totalitarismo” neanche troppo latente o inconfessato: accuse queste, volte a mettere in guardia da un “pericolo” che il tono ironico e spesso ridanciano dell’autore potrebbe mascherare, garantendogli il successo che ha. Ma riconducendo questo rapporto di Žižek con i suoi critici, alla derivazione lacaniana del suo metodo, Bowman cerca di comprendere anche il perché del successo di Žižek e come egli sia stato in effetti in grado di creare una complicità con i suoi lettori (non estranea a quella che si stabilisce nel rapporto analitico), sebbene essi siano spesso e volentieri i bersagli preferiti della sua critica (studiosi della cultura e dei prodotti culturali in genere). Tutto ciò ha permesso a Žižek di essere letto (e molto) pur non essendolo di fatto, cioè non essendo letto come generalmente si leggono e si valutano i lavori di altri filosofi. L’articolo di Bowman – che è di fatto una difesa dei cultural studies contro gli attacchi mossi dal filosofo sloveno – si presta dunque ad essere una critica di questo approccio critico-clinico, nel caso specifico della sua versione mainstream offerta da Žižek.

A sostenere che la verità si situi nello spazio di enunciazione del discorso e non alle sue spalle, è in particolare Fréderic Gros, il cui contributo (Soggettività e verità: alcuni concetti inediti) si rivolge proprio ad alcuni concetti che Foucault avrebbe sviluppato nel Corso del 1981, senza però riprenderli nei volumi dedicati alla Storia della sessualità. Mettendo a punto la metodologia da impiegare nello studio della concezione stoica della coppia matrimoniale, Foucault secondo Gros evidenzierebbe come non ci si debba preoccupare tanto di cosa ci sia dietro un determinato discorso, poiché il reale a cui questo si riferisce non ne costituisce la ragion d’essere. La verità del discorso matrimoniale stoico, cioè, non ne rivela la realtà: «non vi è alcun rapporto di necessità tra il reale e l’emergenza di un discorso vero che ne rende conto». La verità, in questo senso, sarebbe un «evento», che si genera in maniera non-complementare, ma supplementare, rispetto al reale. Proprio in virtù di un simile carattere supplementare, l’enunciazione della verità sarebbe perciò immediatamente politica: ossia la presentazione della coppia matrimoniale stoica direbbe già di per sé, senza che se ne debba scoprire l’essenza nascosta, la verità delle condizioni di soggettivazione e di oggettivazione che essa implica.

Il modo di interrogare la verità proposto da Foucault è quello che parte da ciò che egli definisce «stupore epistemico» e nel caso in questione ciò significa che, per quanto possa sembrare naturale che nel momento in cui la coppia matrimoniale emerge nel contesto storico romano con una inedita importanza, bisogna chiedersi il perché dell’attenzione specifica che la precettistica stoica gli riserva. La domanda che  è necessario porsi non è dunque relativa al problema se la descrizione dell’istituto matrimoniale sia o meno aderente alla realtà storica di questo (e se cioè abbia o meno un’attendibilità a questo riguardo) o se i valori messi in campo da questo discorso siano da accettare o respingere. Il punto invece sta proprio nel chiedersi, quello che sembrerebbe superfluo: perché gli stoici se ne occupano? Quali cambiamenti produce la messa in campo di questo interesse, ad un livello politico immediato?

Questo genere di interrogazione è definito da Foucault «storia politica della verità» ed è da lui sposato almeno come intento, nel testo preso in considerazione da Gros. Questo approccio è rivolto a far riemergere le stratificazioni successive che hanno sanzionato un certo stato di cose, mostrando come esso non si presenti affatto come un «dato naturale»,  ma storicamente costruito, non necessario, contingente. A questo punto è alla sperimentazione politica di nuove forme di vita, che spetta definire una nuova «esperienza» di sé e degli altri, assunto il venir meno di un fondamento ontologico delle precedenti.

In questo senso si possono forse avvicinare la prospettiva di Tarizzo e quella di Foucault-Gros: anche Foucault sarebbe infatti, ad avviso di Tarizzo, impegnato a far emergere l’ontologia fantasmatica del potere. Tuttavia una peculiarità importante di Foucault che resiste a questo tipo di schematizzazione, è la sua peculiarità di non «interrogare la sofferenza» (come Tarizzo suggerisce infine di fare), questo può essere tutt’al più il movente «nascosto» (interrogare la costituzione epistemica dell’oggetto-follia, perché certe pratiche cessino di essere esercitate sul corpo dei folli…). La prassi di Foucault non è quella di partire dal “reale”, ma anzi di insinuarsi nei discorsi del potere, farne riemergere i «giochi di verità» e le possibilità molteplici che essi offrono, senza mai abbandonare l’enunciazione positiva di questi discorsi.

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2.2

C’è invece chi segue una via differente che, pur non reclamando una fondazione ontologica e normativa della critica, se ne pone comunque il problema. È il caso innanzitutto della riflessione di Rahel Jaeggi (Il punto di vista della teoria critica: riflessioni sulla rivendicazione di obiettività della teoria critica). Confrontandosi con la tradizione della Scuola di Francoforte, ovvero con la «teoria critica» propriamente detta, la filosofa tedesca comincia la sua analisi a partire da Max Weber, il quale condanna la confusione tra il piano descrittivo e quello etico-normativo. Indagando – sulla base appunto della distinzione weberiana tra giudizi di fatto e di valore – il delicato nesso tra partigianeria e oggettività in seno alla teoria critica, la Jaeggi afferma che se la teoria critica vuol essere partigiana allora la sua oggettività non può che essere pretesa. Ciononostante, nella sua prospettiva, un simile limite alla fondazione normativa della teoria non comporta affatto la rinuncia ad un discorso critico, e cioè alla possibilità di discutere sui valori in termini razionali. Crederlo significherebbe portare in essere una sorta di ontologia «romanticizzata» dell’individuo: «in questo modo le “identità particolari” vengono i un certo senso essenzializzate e pietrificate». Di conseguenza per lei il problema non si riduce alla fondatezza o meno della critica, ma piuttosto a quello di riflettere sulla maniera in cui ci si possa liberare dal discorso “fideistico”. È in questo senso che Jaeggi trasforma la teoria critica in una meta-teoria, capace di adottare uno sguardo estraneo al giudizio e alla stessa prescrizione normativa. Una simile meta-teoria, per la Jaeggi, non può pertanto fondare un’oggettività teorica e normativa in altro modo che descrivendo la struttura interna delle «forme di vita». Infatti, il giudizio su queste ultime, anziché indicare quali debbano essere, prenderà in conto le intime finalità che emergono da queste e ne misurerà l’effettiva capacità di realizzazione: questo perché, in ultima analisi, le forme di vita non vanno intese come singolarità irrazionali, ma come intessute da una razionalità che è possibile interrogare e indagare.

La contrapposizione weberiana fra giudizio di fatto e giudizio di valore è un punto chiave anche dell’articolo che Michael Löwy dedica al suo maestro: Lucien Goldmann, la scommessa socialista di un marxista pascaliano. Crediamo dunque che i due articoli, quello di Löwy e quello della Jaeggi, si incontrino su diversi punti, spesso divergendo, ma toccando tasti analoghi. Diversamente dalla Jaeggi, dalle pagine di Löwy emerge la necessità per Goldmann di caratterizzare in maniera partigiana la teoria critica. Lo spazio fondativo di quest’ultima si collocherebbe così in un equilibrio diverso, senza cercare un appoggio nel ristretto spazio tra la descrizione e la normatività. Per Goldmann ogni teoria ha una tensione normativa, a prescindere dalla sua o meno natura “critica”. Il suo punto di partenza è infatti quello di accogliere uno degli argomenti chiave di Weber, ossia che i giudizi di valore riguardino la fede. Goldmann non mette affatto in discussione tale assunto, pur sostenendo che del resto se in ogni teoria è nascosta una tensione etico/morale/politica (una «visione del mondo»), allora non esiste la possibilità di fondare un discorso teorico, e ancor meno di critica, in maniera oggettiva.

È in questo modo che Goldmann, nei suoi studi sulla «visione del mondo tragica», individua lo strumento che permette di uscire da questa impasse nel pari di Pascal. Una teoria (critica) sociale parte sempre, dal suo punto di vista, da una scommessa su alcuni valori, su un certo significato da dare al Mondo e all’uomo. Fondare una teoria su una scommessa e non su basi ontologiche vuol dire ammettere da principio il «rischio di fallimento», nella consapevolezza che, marxianamente, riuscita e fallimento si daranno e si esprimeranno nella prassi. Per questa ragione, Goldmann recupera tanto il significato di fede quanto quello di religione, mondandoli però di ogni accezione trascendentale. Per questo motivo, sostiene in conclusione Löwy, una simile concezione del pari – insieme all’interesse generale per il pensiero tragico e a un suo recupero all’interno delle tradizioni delle teorie critiche del reale – resta il suo contributo più prezioso e attuale per il dibattito odierno.

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3. Scienza: verità tra ideologia e doxa

Un altro percorso tramite cui leggere i contributi di questa rivista, è quello di osservare nella riflessione sulla critica una preoccupazione relativa al suo essere scienza. Goldmann parla di «scienze umane», Jaeggi pone il problema della validità e dei limiti epistemici della teoria critica. Lo stesso Foucault, presentato da Gros, se non di scienza, parla comunque di un problema di metodologia, in modo da rendere la sua analisi il più possibile rigorosa. Allo stesso modo, Bowman, nel suo contributo intitolato Come non leggere Žižek, attacca proprio la maniera eccessivamente poco precisa con cui il filosofo sloveno propone le sue teorie e le sue analisi.

Alcuni saggi offrono però una declinazione diversa del termine scienza, legata ad un’idea di complessità unitaria dell’episteme e di una sua chiara ed evidente oggettività. In altre parole, mettono in dubbio la separazione fra verità e realtà. Questa posizione ha ricadute importanti tanto sull’analisi politica quanto sulla maniera di concepire e considerare il “discorso falso”. L’idea che esista una scienza del vero implica sempre una precisa teoria del falso, che questo si configuri come semplice doxa o come ideologia. Una simile caratterizzazione riguarda direttamente il discorso politico e il discorso sul politico.

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3.1

Classicamente, nel pensiero di Aristotele l’opposizione fra scienza e discorso falso viene individuata nell’antitesi fra l’aletheia e la doxa. Ma tale opposizione vale per l’intero corpus aristotelico? Per anni si è tentato di separare radicalmente gli scritti politici da quelli etici dello stagirita, in modo da salvaguardare i secondi dalle posizioni ormai inaccettabili dei primi (la questione della schiavitù in primis). Secondo Pietro Giuffrida (Natura e verità. Sul nesso aristotelico tra etica e politica), al contrario, i testi cosmologici, quelli etici e quelli politici vanno visti come un unicum. In Aristotele parlare di politica, come parlare di etica, ha a che fare con la descrizione di fatti naturali. In quanto descrizione della realtà, la filosofia pratica trova il suo essere vera. Cosa ne è allora della libertà soggettiva e della possibilità di una critica all’esistente? Invero, non ne resterebbe molto all’interno di un pensiero che vede il cammino della civiltà umana come già dato, e non sotto la forma del progresso, ma come eternamente circolare (in cui ad ogni evoluzione civile segue una crisi catastrofica che riporta tutto allo stato iniziale, quasi estinguendo il genere umano). Questo perché, per Aristotele, il discorso scientifico inerisce sempre alle realtà che «si ripetono», le uniche ad essere essenziali. Proporre qualsiasi discorso al di fuori di tale “descrizione”, vorrebbe dire piombare su un discorso non scientifico e quindi proporre delle mere opinioni, senza alcun valore filosofico. Senonché, sostiene Giuffrida, la parte finale della Politica sembra aprire uno spiraglio di agibilità fra il descrittivismo naturalista (e sostanzialmente determinista) aristotelico e il radicale normativismo platonico, inaccettabile per Aristotele. Questo spazio coincide, in ultima analisi, con l’interstizio fra verità e politica che stiamo qui provando a descrivere come il problematico luogo della critica.

Secondo la lettura di Aristotele proposta da Giuffrida, è possibile per principio ammettere l’esistenza di “sguardi” diversi, dunque aprire una divaricazione, per quanto labile, fra l’idea di verità e quella di realtà, senza scadere comunque nel relativismo. Solo accettando ciò è a suo parere possibile interrogare ancora il pensiero di Aristotele senza doverlo interpretare come una sorta di apologia dell’esistente, intangibile a qualsiasi dibattito.

Un modo differente di guardare alla scienza, separandola tuttavia – come già Aristotele – dal discorso falso, è quello di Louis Althusser. Esplorandone la genesi delle categorie filosofiche nei suoi primi scritti, l’articolo di Fabio Raimondi (Verità e politica in Althusser: genesi di una problematica 1947-1957) mostra come nel pensiero althusseriano il rapporto tra verità e politica abbia costituito una costante. Rivolgendosi dapprima alla tesi che Althusser dedicò a Hegel (1947), per Raimondi la preoccupazione che emerge da questo primo lavoro althusseriano è quella di pensare, dopo Hegel, la scienza storica come un trascendentale entro cui si svolge concretamente la politica. Per questo giovanissimo Althusser, Marx è riuscito solo in parte in quest’opera: l’idea di scienza sviluppata dall’intero Marx sarebbe infatti rimasta impigliata nella contraddizione hegeliana tra verità e realtà, sebbene però egli sia riuscito a concepire la politica all’interno del «contenuto concreto della totalità storica dominante». Successivamente Althusser (1950) abbandonerebbe la problematica del trascendentale; abbandono che gli permetterebbe di vedere quella marxiana come una scienza «sempre in via di approssimazione» poiché generata dalla e nella verità della pratica. Per questo motivo, confrontandosi polemicamente con Ricouer, Althusser sostiene che la scienza debba partire dall’oggettività (e non dalla soggettività) ma che, per pretendere di essere tale, debba misurarsi con la «verifica». La scienza althusseriana sarebbe così incessantemente confrontata con l’oggettività ideologica, della quale, in quanto suo oggetto che si riforma eternamente, essa ne costituirebbe la verità.

È seguendo la traiettoria di queste riflessioni che Raimondi arriva a notare nelle lezioni del 1955-56 in cui Althusser torna ad occuparsi della filosofia della storia di Hegel, una distinzione tra scienza e ideologia presente nel Marx “maturo” ma assente in quello “giovane” ancora influenzato dalla rivendicazione hegeliana di conoscere la totalità. Ciò che emerge per il nostro discorso è che Althusser, partendo dalla critica hegeliana al giudizio trascendentale kantiano, elabori una scienza anti-hegeliana che materialisticamente sperimenta la sua verità nel campo dell’ideologia; a tal punto da trasformarsi essa stessa in prassi che non necessita di fondarsi in un principio trascendentale e neanche di fermarsi ad una mera descrizione dell’oggettività. Una scienza, si potrebbe dire sintetizzando questa prospettiva, è vera in quanto coincide con quella politica che rivela la falsità dell’ideologia.

Dunque verità come scienza, scienza come verità, come approssimazione storica alla realtà oggettiva, come approccio relativamente “assoluto”. Questo modo di ragionare ri-articola da principio l’antica dinamica tra in sé e per sé di hegeliana memoria, dove l’ideologia è quel per sé di cui l’atteggiamento scientifico deve svelare la parzialità, che qui diventa mistificazione politica. E l’in sé, cui tendere è allo stesso tempo discorso razionale e prassi politica conseguente allo stesso. La conclusione cui giunge Althusser nel testo di Raimondi, e che anticipa la svolta compiutamente anti-hegeliana della sue opere più celebri, è però quella di criticare proprio questa natura di “coscienza”della scienza.

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3.2

Questo modo di vedere, per il quale è possibile un rapporto così stretto fra verità e realtà – sia nell’accezione hegelianizzante e althusseriana, sia in quella aristotelica –, trova nel nostro numero una tenace resistenza: quella espressa dall’articolo di Federica Giardini, Verità e politica, tra necessità e contingenza. Arendt con Weil. Nella sua prospettiva, Hannah Arendt avrebbe visto il rapporto fra politica e verità come sempre problematico, se non di evidente scontro. La politica, quella istituzionale, si appropria del “dire la verità” per imporre il proprio potere. Nei casi meno gravi, la menzogna si presenta come una «negazione della realtà» che afferma la libertà del singolo individuo di porsi come capace di trascendere il mero dato di fatto. Nel caso più aberrante, quello dell’ideologia, la verità/menzogna si presenta invece come scientifica e razionale, in maniera non dissimile da quanto descritto da Althusser. Ma se per Althusser un discorso autenticamente scientifico dissolve l’ideologia, Giardini suggerisce che l’unico modo per opporsi a essa – sfuggendo al rischio di caderci a nostra volta – sia quello di adottare strategie e atteggiamenti radicalmente diversi. Occorre allora ripensare la politica come qualcosa che vada oltre il gioco istituzionale, le dinamiche di potere e i discorsi universalistici, e che sia fatta anche di contingenza e di incontri reali, umani. In questo contesto il discorso politico, pur mantenendo il rigore del discorso scientifico e dell’amore per la verità, deve smarcarsi tanto dal rischio di essere una coercizione, quanto da quello di ridursi a retorica, diventando piuttosto una «parola che è più di un consiglio e meno di un ordine».

Allo stesso modo, il discorso filosofico deve saper essere critica della verità istituzionale. Per fare ciò, prima ancora dell’atteggiamento razionalizzante, deve – suggerisce Giardini, seguendo sempre Arendt ma anche Simone Weil (e, potremmo aggiungere, Walter Benjamin) – criticare la Storia, quella scritta dai vincitori, per dare spazio alla storia dal punto di vista dei vinti. Questo non per «ipostatizzare» la posizione sociologica degli sconfitti, ma per segnalare il vero come oggetto di un campo relazionale, di un rapporto di forza. Rapporto che deve essere esplicitato, esplicitando «il chi di quell’enunciato» e il suo «posizionamento». Il vero storico, insomma, andrebbe letto a parere della Giardini criticamente come una ricostruzione sempre parziale. In questa direzione, confrontandosi con Weil, l’autrice afferma che l’amore per la realtà obiettiva, contro le menzogne ideologiche, vuol dire anche saper accettare le contraddizioni di tale realtà. A noi sembra che qui l’umano sia inteso come qualcosa di non totalmente “razionalizzabile”, pur se non pienamente irrazionale. Pertanto, la conclusione a cui si giunge è che ogni discorso “razionale” debba sapersi sospendere e mitigare i propri giudizi, utilizzando come medium l’incontro umano, la relazione e soprattutto il passare del tempo. Il reale, i simboli, le immagini non vanno interpretati ma guardati: fissati finché «la luce sgorga», per evitare di «diminuire la loro realtà illegittimamente» (dice S. Weil citata da F. Giardini). Ed una volta fissata una “verità”, essa va vista alla luce del tempo che passa. Solo sospendendo il giudizio e mettendolo alla prova del tempo – ossia continuamente in gioco – lo metteremo anche al riparo dall’illusione.

Una via di fuga dall’ideologia che non ha molto a che vedere, ma anzi si oppone, a quanto esposto in precedenza. Un modo di vedere le cose che separa realtà e verità, ma non ponendole come due alterità o immaginando l’una inseguitrice dell’altra. La verità incontra la realtà all’interno di processi relazionali. E non la descrive, meramente. Anzi, produce «un aumento della realtà». E, aggiungiamo noi, questo aumento della realtà ha anche un significato politico. Ma non è nel risultare politico, nell’utilità, che trova la sua verificazione empirica. O almeno, non soltanto, dovendo questa passare anche e soprattutto dall’esperienza empirica dell’incontro con l’altro.

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4. Gli strumenti della critica

Un ulteriore spunto teorico che permette di attraversare il numero e i suoi articoli è quello di porsi il problema di come riflettere sulla contemporaneità attraverso gli strumenti teorico-pratici che la tradizione della riflessione critica e, in generale, della filosofia politica ci ha consegnato.

Come visto nel paragrafo precedente e pur se da prospettive talvolta antitetiche, alla verità viene sempre opposto un “discorso falso” (normativamente), trasformando la verità in uno strumento della politica. Gli ultimi decenni del Novecento hanno però segnato un duro attacco alla “critica dell’ideologia” intesa come “critica del falso”, aprendo la strada ad un bisogno via via crescente di vedere nell’ideologia – o, per dirlo in termini più ampi, nelle dinamiche di costruzione del popolo e di soggettivazione-assoggettamento – una relazione propriamente reale, ossia (si potrebbe anche dire) una verità effettuale. Non ci riferiamo ad alcune derive postmoderniste che hanno ridotto la totalità a mera illusione, ma a riflessioni che provengono da tradizioni diverse – come quelle di alcuni ex allievi di Althusser o quelle di alcuni studi condotti da pensatori neogramsciani e post-marxisti – che, in un modo o nell’altro, hanno messo da parte la concezione dell’ideologia come distorsione o illusione in cui sarebbero immerse delle masse ridotte al rango di «sonnambuli» (per riprendere un’espressione usata da Stuart Hall e singolarmente riapparsa quest’anno nel titolo dell’ultimo romanzo dei Wu Ming).

Ora, quel che secondo noi proviene da queste riflessioni è che ciò che il contesto teorico-politico attuale ci consegna non sia, al di là di quanto potrebbe apparire, un abbandono della critica, ma piuttosto il problema di come pensare nuovamente la critica (e la sua possibilità). La critica della “critica dell’ideologia” ci ha infatti reso consapevoli di come dai limiti di alcune categorie e prospettive non ne derivi uno scacco definitivo; la critica può e deve riattivarsi, interrogando magari nuovi strumenti o rioperando gli stessi.

È tuttavia evidente come quelle categorie servissero a descrivere profondamente la complessità delle strutture di dominio. Ma, se l’atteggiamento descrittivista è divenuto problematico e ciononostante la critica deve necessariamente continuare a rapportarsi – e a rapportare tra loro – alla verità e alla politica, che atteggiamento occorre prendere verso quegli strumenti teorici e pratici che la tradizione filosofica ci ha consegnato?

Come accennato, una della linee caratteristiche del pensiero novecentesco (che trova nel postmodernismo vertici decisivi di radicalità) è stata la critica decostruttiva della categoria di totalità, centrale all’interno dell’impostazione hegeliana del problema della libertà. Il contributo di Giorgio Cesarale (Hegel: totalità e libertà in un mondo trasformato dalla prassi) ci ricorda come tale “concetto” abbia trovato almeno un importante alfiere nello stesso periodo, ovvero G. Lukàcs, che ne ha riattivato le potenzialità già a partire dal giovanile Teoria del romanzo e ne ha fatto la chiave di volta della propria teoria sulla reificazione nel successivo Storia e coscienza di classe. Dobbiamo, allora, considerare tale categoria come un utensile obsoleto, o è piuttosto la sua scomparsa una conseguenza pratica della moderna (e borghese) condizione sociale e può quindi essere riattivata in funzione di critica della stessa società? Cesarale, seguendo Lukàcs, prende per buona la seconda ipotesi e traccia una breve genesi del concetto nel contesto della filosofia tedesca (da Kant a Hegel, passando per Jacobi e Schelling) e arriva alla conclusione che «l’idealismo tedesco non disegna affatto, nei suoi momenti migliori, una totalità chiusa, che, come una gabbia d’acciaio, è capace solo di sospendere il moto libero del soggetto». La libertà in Hegel è – fra i tanti significati che Cesarale rintraccia – il momento in cui, l’idea, diventando pratica, si aliena «da quell’identità con sé che è forma». Nel momento in cui si pone come totalità, l’idea si chiude in se stessa per poi aprirsi di scatto all’altro: un aprirsi all’altro che è, prima che teorico, un fatto meramente pratico.

Hegel ha quindi, per Cesarale, il merito di aver posto un legame fra le categorie di prassi e totalità. Quando nel marxismo questo rapporto assume una valenza nuova, vediamo come la prassi politica si orienti sì verso tale totalità, ma non più per racchiuderla, quanto per distruggerla: «non vi è alcuna chance di continuare a considerare l’oggettività come avente in sé valore perché in essa si esplicita l’attività di essenze libere come le nostre». Il rapporto fra concetto e soggetto «salta» e la prassi politica, che si orienta verso una totalità, arriva, infine a «manomettere l’impianto» logico del sistema hegeliano, portando lo stesso di fronte ai suoi limiti.

Sempre nell’orizzonte di un’interrogazione permanente sulla validità degli strumenti teorici del passato per decifrare il presente e/o intervenire politicamente, il saggio di Giacomo Pisani (Politica e verità nel post-fordismo) delinea un punto di vista in parte alternativo. In esso, l’autore ci mostra come, in effetti, da quando la produzione si è trasformata in senso post-fordista, una descrizione vera come adeguata alla realtà non può che fallire. La produzione, per Pisani, tenta infatti di determinare il diritto assorbendolo totalmente. È tuttavia sfuggendo alla lex mercatoria e vedendo nel diritto un terreno di confronto tramite cui opporsi alla razionalità calcolante, che per lui è possibile creare spazi di vita (come i beni comuni) estranei al mercato. L’operazione di Pisani si svolge però in nome di una riscoperta della differenza ontologica, che a suo modo di vedere – seguendo qui Heidegger – è stata investita da una sorta di «oblio dell’Essere». Curiosamente, laddove altri avrebbero introdotto nel discorso categorie care all’hegelo-marxismo (quali la reificazione), egli ritrova nella tradizione heideggeriana gli strumenti più utili per nominare e descrivere il processo di «oggettivazione» delle relazioni umane a suo dire presente nella nostra società. Scelta che difficilmente può essere considerata casuale, quanto piuttosto sintomatica. Ma scelta soprattutto che cade probabilmente nella rete della critica ontologica: egli infatti è come se suggerisse in ultima analisi che, per produrre una nuova politica, bisognerebbe ritrovare la verità perduta dalla tecnica.

Su un binario differente si muove invece Roberto Finelli (Dalla «Rappresentanza» alla «Rappresentazione»: l’involuzione della politica nel capitalismo flessibile), il quale, in una prospettiva hegeliana, sostiene che, in quanto il movimento di declino dell’ambito politico a favore di quello economico, ci ha reso abbastanza consapevoli di quanto ormai sia logoro il «causalismo» con cui è stato pensato in passato il nesso verità-politica, si debba oggi riflettere su quest’ultimo in maniera dialettica. E pertanto – aggiornando «la teoria marxiana del Soggetto storico “Capitale” con una teoria della rappresentazione e dell’immaginazione legata ad una topologia del dentro/fuori, del vuoto/pieno, del contenitore/contenuto, del corpo/pelle» – pensare il post-fordismo come l’elemento determinante di una società post-moderna in cui il soggetto si rappresenta da sé, in cui cioè non c’è più rappresentanza ma solo rappresentazione. Anche per Finelli però, sebbene per una finalità teorica differente, una descrizione semplice della realtà non è più sufficiente: per lui infatti non si tratta di dire che la frammentazione postmoderna sia superata a favore di un ritorno del Reale, perché permane comunque, nell’ontologia sociale del capitalismo attuale, «un effetto di deformazione iconico-rappresentativa strutturale immanente al capitalismo postfordista». È per questo motivo che, agli occhi di Finelli, la critica non può prescindere da una ontologia sociale. Senza tale riferimento, non si riuscirebbe a capire, a suo parere, come l’apparenza di un processo produttivo partecipe e «concreto»mascherila sua essenza di sfruttamento e di lavoro «astratto».

Che la critica debba rimettere in gioco le categorie della modernità è anche il parere di Stéphane Haber (La reinvenzione dell’alienazione nell’era della rivoluzione digitale). È lo sfruttamento infatti uno degli strumenti teorici indispensabili attraverso cui formulare una diagnosi capace di opporsi al modo in cui il neo-capitalismo si manifesta in Rete. Ma l’attenta e lucida analisi di Haber va oltre questa constatazione: per lui la categoria dello sfruttamento a livello epistemologico non funziona da sé, ma dev’essere accompagnata da quella dell’alienazione oggettiva. Tanto che per lui il difetto del pensiero cyber-libertario, che aveva visto nella rivoluzione di Internet una sorta di liberazione dallo Stato e dal Mercato (L. Lessig e Y. Benkler), così come di quello critico più recente (E. Morozov) è proprio quello di essere arrivato in alcuni casi fino a descrivere la realtà del nuovo sfruttamento, senza però porre alla base di una simile descrizione una categoria fondamentale, che è appunto quella dell’alienazione. È riarticolando quest’ultima, e cioè smettendole i panni di mantra che rende inerti i soggetti e considerandola piuttosto come uno spazio da cui emerge la critica, che è possibile secondo Haber dar conto di come il neo-capitalismo sviluppato dalla «rivoluzione digitale» poggi evidentemente sull’alienazione della capacità produttiva dell’uomo.

Tra la verità del dominio capitalistico contemporaneo e la politica monopolistica dei colossi della Rete entro cui questo si concretizza, a noi sembra che l’operazione teorica e politica di Haber costituisca un esempio interessante di quella possibilità interstiziale in cui si sviluppa la critica. Fondandosi a livello analitico nell’ontologia sociale, ma sviluppandosi in un senso teso decisamente a fuggire da una data ontologia storica e sociale, questa critica incontra il rapporto verità-politica nell’intervallo che separa i due termini.

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5. Conclusioni

In conclusione si può dire che il numero, di cui si è cercato rapidamente di sviscerare i contenuti ed i nodi concettuali fondamentali, offre una ricognizione su una questione tanto antica quanto “scivolosa”, nel senso in cui afferrandola ci sfugge dalle mani per ricadere di fronte a noi. Che si tratti di una critica della verità , di una diffidenza verso di essa, piuttosto che di una rinnovata fiducia nella validità della categoria, poco importa al fine di sottolineare l’importanza di un dibattito, finalmente rilevante che attorno ad essa si svolge.

Non solo si tratta di dire “sì o no” alla verità, oppure di “sospendere il giudizio” e andare a vedere a che prezzo si pronuncia un sì o un no. Ma anche di discutere circa la qualità di questa verità, il suo statuto e se in fin dei conti, tenendo presente la volontà di un cambiamento della realtà, sia accettabile o no rinunciare ad esempio ad una fondazione normativa, fiduciosi nelle nuove possibilità offerte dal reale e dallo sviluppo degli strumenti critici, oppure se ciò significhi sostanzialmente capitolare di fronte ad una realtà svuotata “priva d’essere”, sottomessa al dominio tecnico o reificata.

Dar conto di questo dibattito significa gettare uno sguardo su orientamenti teorici storicamente consolidati (seppure si è tentato il più possibile di evitare l’univocità anche fra i contributi tra loro più vicini e favorire anzi l’incontro e l’implicazione reciproca fra problematiche apparentemente distanti), cercando di restituire alla riflessione filosofica quella “lunga durata”, per dirla con Braudel, per la quale essa esiste e senza la quale non può conseguentemente sopravvivere.

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1Il termine “teoria critica” è di solito utilizzato in relazione al lavoro della Scuola di Francoforte. Nel considerare la propria posizione, articoli come quello di Davide Tarizzo o Rahel Jaeggi fanno riferimento (la filosofa tedesca, in particolare, se ne pone proprio all’interno) anche a tale tradizione. L’uso però qui proposto del termine è più vasto e comprende anche declinazioni dell’idea di critica distanti o molto distanti da quello francofortese. Laddove scriviamo «teoria critica» potremmo dire semplicemente «critica», come abbiamo effettivamente fatto nel primo paragrafo. Essendo però in discussione proprio lo statuto teorico della critica, i suoi strumenti cognitivi e la sua possibile fondatezza ontologica, la dicitura “teoria critica” ci sembra preferibile. Per concludere, anche il termine «critica» in sé si fa carico di una tradizione enorme cui non possiamo dare conto in questa sede, se non in maniera estremamente parziale. Riteniamo che la nostra posizione sull’argomento – la nostra maniera di affrontare il problema – sia facilmente ricavabile dalla lettura del presente articolo.
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