F. Gallo, Dalla Patria allo Stato. Bertrando Spaventa, una biografia intellettuale

Marco Diamanti

Der_Kampf_zwischen_Karneval_und_Fasten_(1559) Il suo taglio originale e il materiale inedito sul quale lavora fanno del recente saggio di Fernanda Gallo (Dalla Patria allo Stato. Bertrando Spaventa, una biografia intellettuale, Roma-Bari, 2013) una lieta sorpresa nel panorama degli studi spaventiani. L’obiettivo generale di questo lavoro è quello di attenuare il «vuoto storiografico» che circonda la riflessione storico-politico di Spaventa. La scelta del metodo biografico è legata all’ipotesi che questa riflessione sia indissolubilmente connessa al suo percorso biografico, e che la concentrazione degli studi critici sui temi più strettamente teoretici rappresentino almeno in parte una conseguenza dello scarso rilievo accordato alla biografia dell’autore. I quattro capitoli dell’opera offrono una ricostruzione di altrettante fasi della vita di Spaventa, nella quale la dimensione narrativa non è mai fine a sé stessa, ma funzionale alla comprensione dell’avventura intellettuale del filosofo alla luce delle passioni e delle esperienze che contribuirono a formarne la personalità e si riversarono nella sua elaborazione concettuale. L’orizzonte biografico che fa da sfondo al saggio ha almeno un precedente, rappresentato dall’opera di Giovanni Gentile[1], caratterizzata però da un’evidente polarizzazione del pensiero di Spaventa in direzione della propria stessa proposta filosofica. Fernanda Gallo si inserisce invece nell’indirizzo di ricerca che a partire dagli anni Ottanta cominciò a orientare in un’altra direzione gli studi sul filosofo abruzzese, rifuggendo dalle interpretazioni univoche e dagli approcci ideologici per privilegiare la ricostruzione del contesto in cui il pensiero di Spaventa deve essersi formato e sviluppato, e alla luce del quale esso può manifestare la propria originalità e le proprie caratteristiche distintive.

Il testo offre un’immagine piuttosto netta del pensatore abruzzese, presentato come «un patriota che ebbe come unico scopo ottenere e mantenere la libertà e l’indipendenza del suo paese, ed un cittadino che amò tanto la sua patria da metterne in risalto i difetti e ricercarne i rimedi, al fine di non essere né un dannoso adulatore né un ingrato» (p. 154). La sua vocazione filosofica appare da questo punto di vista vincolata al sentimento patriottico che sin dagli anni della formazione napoletana caratterizzò la sua battaglia contro l’oppressione delle forze estranee alla nazione. L’aspirazione a un’Italia libera, unitaria e indipendente rappresenta per l’autrice la chiave di volta dell’intero programma culturale sotteso alla vasta produzione spaventiana. Gli studi sul Rinascimento compiuti tra il 1851 e il 1856 sono guidati non solo dall’esigenza di mostrare alla nazione il primato italiano nel delicato passaggio all’età moderna, ma anche alla convinzione che l’unica via percorribile per la realizzazione dell’unità italiana fosse quella legata alla nuova concezione della libertà che avrebbe cominciato a operare nella storia dell’umanità proprio nell’Italia rinascimentale. Proprio questa concezione rappresentava la tradizione in cui gli italiani avrebbero dovuto ritrovarsi e alla quale avrebbe dovuto ispirarsi la rivoluzione intellettuale necessaria al rivolgimento politico.

In questa stessa prospettiva viene riletta anche il rapporto con la figura di Hegel e la critica al rifiuto giobertiano di ogni tipo di rapporto con le filosofie straniere. Contro chi pretendeva di promuovere il processo di unificazione nazionale sulla base dell’appartenenza del popolo italiano a un’originaria radice etnica comune Spaventa riteneva che non si dovesse «ricercare un antico passato da rivendicare, né tanto meno una radice etnica che accomuni il popolo italiano» (p. 22). Per favorire la formazione di uno Stato unitario e indipendente occorreva semmai infondere in ogni cittadino la coscienza di quella libertà del pensare e del sentire che venne teorizzata nella prima età moderna dagli autori del nostro Rinascimento, che consente all’individuo di affrancarsi dall’oppressione di ogni autorità estranea alla coscienza e senza la quale non è possibile alcuna libertà politica. In opposizione a Gioberti, che rifiutando ogni dialogo con le filosofie tedesche si lascia sfuggire la libertà quale principio della modernità, Spaventa e il gruppo di giovani liberali napoletani al quale apparteneva vedono in Hegel il punto culminante di una tradizione che affonda le proprie radici nell’Italia rinascimentale: la repressione dell’autorità ecclesiastica costringe il principio della libertà a migrare dall’Italia per svilupparsi in terre lontane e più libere, ma la filosofia tedesca traeva i suoi principi proprio dalla filosofia italiana del Rinascimento, e studiarli, non è quindi opera antipatriottica.

Se gli studi sul Rinascimento dovevano rivelare al popolo italiano la grandezza del proprio passato, l’analisi della filosofia italiana doveva mostrare che l’Italia contemporanea non era completamente estranea a questa grandezza. Come per il fratello Silvio, per Bertrando «gli italiani avrebbero realmente compreso la rivoluzione moderna del pensiero, e tutto ciò che essa comportava, solo se l’avessero potuta filtrare attraverso una filosofia nazionale e contemporanea» (p. 112). Nella Prolusione ed introduzione alle lezioni di filosofia nella Università di Napoli, stampata nel 1862 e ripubblicata nel 1908 da Gentile con il titolo La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, il filosofo espone la propria teoria della «circolazione del pensiero italiano», volta a dimostrare che i filosofi italiani del Rinascimento furono i precursori della filosofia moderna, e che i pensatori a lui contemporanei quali Galluppi, Rosmini e Gioberti erano in consonanza col pensiero europeo.

Anche se «era persuaso che la vera libertà politica degli italiani sarebbe dipesa soprattutto dalla loro capacità di rinnovarsi nella sfera culturale e morale», e la rivoluzione da lui auspicata riguardava dunque innanzitutto «la sfera intima dell’umano», Spaventa non mancò di confrontarsi con la riflessione sullo Stato. Il terzo capitolo dell’opera passa in rassegna i vari aspetti di questa riflessione concentrandosi soprattutto sul manoscritto delle lezioni sui Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel tenute all’Università di Napoli tra il 1862 e il 1863 e sugli Studii sull’etica hegeliana, pubblicati nel 1869. In questo capitolo la filosofia del diritto elaborata nel manoscritto attraverso l’analisi dei Lineamenti hegeliani viene interpretata come lo sbocco naturale della teoria della circolazione del pensiero e della prospettiva di filosofia della storia delineata al suo interno. Questa interpretazione revoca in dubbio la periodizzazione dell’attività intellettuale di Spaventa unanimemente accolta dalla critica, che vede la teoria della circolazione come il compimento del programma torinese, rispetto al quale l’inizio del magistero presso l’Università di Napoli (1860-61) segnerebbe invece una netta cesura. La comprensione della nuova teoria dello Stato moderno costruita negli scritti sulla filosofia del diritto hegeliano come un nuovo e più specifico campo di applicazione della teoria della circolazione impone di estendere il periodo in cui Spaventa si impegna a realizzare il programma torinese fino al 1863. Secondo l’autrice, inoltre, la ragione della scarsa attenzione accordata agli Studi dalla letteratura specialistica risiederebbe nel fatto che il programma politico di Spaventa uscì sconfitto dopo l’unità. Lo stesso tono di sconfitta che traspare dalle pagine del Proemio avrebbe tratto in inganno gli interpreti e contribuito a far sottovalutare l’opera. Riprendendo una tesi già avanzata in un precedente articolo[2], nel quale proponeva di leggere l’opera del ’69 − con l’eccezione del Proemio − come una rielaborazione del manoscritto del manoscritto del ’62-’63, Gallo mostra che il messaggio delle lezioni non era di sconfitta, ma di speranza, e che «l’opera forse più sottovalutata del pensiero di Spaventa rappresenta invece il fulcro dell’aspirazione etica e civile di tutto l’hegelismo napoletano, e il più grande contributo del Meridione alla scienza dello Stato nel pensiero politico risorgimentale» (pp. 129-30).

Come mostra bene la ricostruzione dell’ultimo periodo della sua vicenda intellettuale, la delusione per aver visto disattesa la sua proposta politica dai governi successivi all’Unità d’Italia ci fu, e fu anche molto forte, ma non comportò subito la cessazione della sua battaglia per la causa del Risorgimento. La teoria dello Stato Spaventa di non era riuscita a trovare una risposta nella politica risorgimentale, ma egli continuò la propria lotta su un altro fronte, quello della parola e della scienza: la stessa polemica dell’ultimo Spaventa contro il positivismo, che raggiunge toni particolarmente accesi quando il positivismo fu associato alla Sinistra storica, viene compresa a partire dal suo orizzonte politico. Coerentemente con il caratteristico riferimento biografico, il libro si chiude con la ricostruzione della svolta che segnò l’abbandono spaventiano delle proprie originarie aspirazioni democratiche, e della serie di sviluppi bruschi e sconcertanti  – come la sconfitta della Destra storica o la defezione dell’amico Francesco De Sanctis passato alla Sinistra – che acuirono la sua «sensazione di una degenerazione morale e politica in atto, di un tradimento degli ideali risorgimentali e del loro fallimento, portando il vecchio liberale ad accentuare il suo tratto conservatore e monarchico».

Chi leggerà il libro di Fernanda Gallo cercando di soddisfare le sole aspettative filosofiche ne rimarrà probabilmente deluso: gli aspetti sistematici del pensiero di Spaventa, segnalati talvolta di passaggio o in nota, lasciano il posto alle esperienze che ne fecero un filosofo per il quale «l’amore per la scienza e quello per la patria furono un solo ed unico amore, convinto che la filosofia fosse uno strumento efficace al risorgimento nazionale e che questo risorgimento fosse mezzo efficacissimo a proteggere quella libertà del pensiero che è indispensabile alla scienza» (p. 154). Questo limite rappresenta però, al tempo stesso, il vero punto di forza di questa pregiata biografia intellettuale, che traccia un’agevole ricostruzione della vita di Spaventa e offre al tempo stesso numerosi spunti per riflettere sulla sua filosofia politica.


[1] G. Gentile, Bertrando Spaventa, Vallecchi, Firenze, 1920.

[2] Fernanda Gallo, Il manoscritto De Anima di Bertrando Spaventa, in “Logos”, 2011, n. 6, pp. 323-36.

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