Per un sapere dei sensi, a cura di Domenico Chianese e Andreina Fontana

 Giorgia Aloisio

 delacroixNell’ambito della psicoanalisi, si è da sempre manifestata una netta predilezione per la parola a discapito dell’immagine: l’ascolto del paziente da parte dell’analista, l’analisi del suo ‘verbale’ attraverso la libera associazione o il resoconto dell’attività onirica, hanno da sempre messo a fuoco l’attenzione sull’aspetto della comunicazione verbale tra i due poli della relazione analitica. Questa focalizzazione sulla parola ha inevitabilmente creato un vuoto nella teoria e nella pratica professionali: manca una ‘teoria delle immagini’, lamentano Chianese e Fontana.

La comunicazione, il λόγος, possiede anche un fondamentale aspetto dal quale non possiamo prescindere, soprattutto nella professione terapeutica, quello non-verbale, che costituisce una straordinaria risorsa soprattutto nella cura del paziente grave, come ricorda De Giorgio: la comunicazione umana, sebbene per gran parte basata sul codice linguistico, si manifesta anche sul versante iconico. La rappresentazione per immagini, nella storia dell’uomo, ha radici incredibilmente antiche: prima di comunicare tramite sistema di segni linguistici codificati, l’uomo primitivo era uso rappresentare graficamente pensieri, emozioni, sogni. Se pensiamo alle Grotte di Lascaux, nel sud della Francia e all’arte rupestre tipica dell’età paleolitica, ogni dubbio in merito sarà rapidamente fugato.

Grotte di Lescaux

La riflessione di Domenico Chianese e Andreina Fontana, a partire dal libro Immaginando (2010) e proseguendo con Per un sapere dei sensi (2012), si incardina proprio in questo percorso, nel tentativo di offrire spazio all’aspetto iconico-estetico al fine di integrarlo nel pensiero e nella pratica terapeutici. Il sapere estetico non può e non deve essere ritenuto inferiore a quello logico-razionale-linguistico: la dimensione immaginativa e quella percettiva possono arricchire in misura talora straordinaria il rapporto terapeutico e non rappresentano una contrapposizione alla sfera di pensiero e linguaggio. Oggi, infatti, si parla comunemente di ‘estetica psicoanalitica’ (Recalcati 2007).

L’immagine, prodotto così primordiale, parte di un ‘pensiero primitivo’ come lo definì Freud ne L’interpretazione dei sogni (1899), è capace di veicolare tale e tanta forza affettiva come nessun altro linguaggio. Se pensiamo alle straordinarie installazioni di Bill Viola e a quella ‘sensazionale’ carica emotiva che tali immagini sono in grado di trasmettere allo spettatore al di là dello schermo, il discorso non necessita davvero di ulteriori chiarificazioni.

Torniamo a riflettere sulla teoria freudiana e soffermiamoci, in particolare, sul funzionamento dell’apparato psichico: partendo dalle origini del pensiero di Sigmund Freud (Progetto di una psicologia e L’interpretazione dei sogni), sappiamo che la psiche funziona in base a due modalità contrapposte, il processo primario e il processo secondario. Nel primario a dominare la scena sono il sistema inconscio e il principio di piacere; l’energia psichica si presenta in forma ‘libera’ e tende alla scarica pressoché immediata. Il sistema preconscio insieme al principio di realtà, invece, gestiscono il processo secondario e ‘legano’ l’energia psichica, sottoponendola a regole.

Citando Laplanche e Pontalis, nel processo primario ‘l’energia psichica fluisce liberamente, passando senza ostacoli da una rappresentazione all’altra secondo i meccanismi di spostamento e condensazione’ (p. 436): scopo di questo processo è soddisfare in modalità allucinatoria gli istinti libidici di base rimasti insoddisfatti in epoca infantile. La teoria freudiana del sogno ce ne dà un’esemplificazione molto chiara e i meccanismi cardine nella genesi del prodotto onirico includono, tra gli altri, proprio spostamento e condensazione che sono molto distanti dai meccanismi che generano e governano la parola: il sogno, «via regia» per la conoscenza dell’inconscio, funziona in base al linguaggio iconico-rappresentativo, nulla di diverso né di nuovo, quindi, rispetto alle raffigurazioni presenti sulle pareti delle caverne paleolitiche. L’immagine, nell’attività onirica, non solo non possiede uno statuto inferiore alla parola, ma addirittura potremmo considerarla ad un livello in qualche maniera superiore, in quanto è proprio la rappresentazione iconica a ‘far da padrona’ nella sfera del sogno.

Non dimentichiamo che Freud, già nel 1891, nella sua opera ‘neurologica’ L’interpretazione delle afasie aveva distinto «rappresentazione di cosa» da «rappresentazione di parola», sottolineando che negli stati normali, a livello neurologico, la formazione della parola è successiva alla rappresentazione dell’oggetto alla quale la parola si riferisce: in tal modo, Freud aveva già attribuito fin da allora una certa priorità all’immagine a discapito del λόγος.

ritratto di freud

Il lavoro dell’analista consiste nel ‘disfare’, nello srotolare quanto elaborato successivamente dal processo secondario (e quindi dall’istanza regolatrice dell’Io), per raggiungere il ‘cuore’ dello psichismo del paziente, l’inconscio e le sue pulsioni mai sopite, i conflitti di natura libidica dell’epoca infantile che cercano un «innocuo appagamento» (così come lo definisce Freud in Compendio di psicoanalisi), dunque i nuclei più primitivi all’origine dell’attuale disagio dell’analizzato. Tramite l’attenzione liberamente fluttuante, l’analista entra nel mondo del paziente: un processo che poco ha a che fare con raziocinio e codici linguistici, molto, invece, con l’inconscio, le emozioni, la perdita di controllo e confini, la capacità di «partorire immagini», per usare la terminologia di Russo (2013).

Come è possibile entrare in contatto con questi aspetti mai rappresentati e/o difficilmente rappresentabili da parte della psiche dell’analizzato? Certamente non attraverso il linguaggio codificato, una forma di comunicazione distante, fredda, formale, mediata, emotivamente povera; prima di tutto è indispensabile che il terapeuta assuma un atteggiamento profondamente empatico, che sappia cioè ‘mettersi nei panni’ dell’analizzato (Caretti, Murzi, 1988); ma non solo.

La tecnica analitica classica costituisce un irrinunciabile punto di partenza per chi svolge la professione terapeutica, ma non ci si può fermare qui: ogni paziente, infatti, costituisce un mondo a se stante e ogni individuo produce un diverso controtransfert nel terapeuta che lo ha in carico. Questa diversità rappresenta una fonte di ricchezza per il lavoro analitico perché libera la creatività e può agevolare l’espressione di contenuti psichici complessi, soprattutto di quelli più primitivi e, di conseguenza, meno coscienti e quindi meno rappresentabili linguisticamente, come nel caso di esperienze di percosse, abusi, (subiti, testimoniati), intensi conflitti familiari.

Per entrare in contatto con questi stati primitivi, antichi, ‘privi di voce’, l’analista può tentare diverse strade, alcune delle quali possono condurre anche a modificare profondamente il setting terapeutico: le chiavi di volta per intraprendere questo tipo di percorso sono rappresentate da creatività, sperimentazione e audacia del terapeuta.

Le tecniche sono e sono state tra le più varie: l’utilizzo del semplice abbassalingua da parte di Winnicott e la sua ‘tecnica dello scarabocchio’, il gioco (Melanie Klein) e, in particolar modo, la terapia basata sulla sabbia (Aite), l’ascolto dei rumori del paziente (De Giorgio), il suo silenzio (Ferenczi, 1916; Reik 1926), il disegno (Albrigo), il collage, la fotografia, la lettura di diari e annotazioni del paziente, l’uso di racconti, fiabe, poesie, … e molto altro ancora.

escher

M. C. Escher, ‘Drawing hands’ (1948)

Il fondatore della psicoanalisi non era immune dalla fascinazione generata dal mondo delle immagini. In base alla pubblicazione dei resoconti di alcuni dei soggetti trattati analiticamente da Freud (Gardiner 1974), risulta che quando i pazienti venivano ricevuti dal professore avevano spesso l’impressione di entrare nello studio di un archeologo piuttosto che in un gabinetto medico: non a caso C. Botella  definisce ‘archeologica’ la pratica freudiana classica. Ma torniamo a Freud: egli non faceva mistero del fatto di essere un appassionato collezionista di oggetti antichi, quali suppellettili, reperti archeologici, piccole creazioni artistiche e infatti, durante le sedute, invitava spesso i suoi analizzati ad alzarsi dal lettino e a raggiungerlo alla scrivania, dove prendeva in mano alcuni di questi manufatti e, mentre li manipolava e li osservava, portava avanti la cura dei suoi pazienti, ritrovando in qualche modo egli stesso, attraverso quegli antichi oggetti, le immagini della propria personale archeologia mentale, i suoi «reperti  infantili» (Pierri, 2003). Secondo Cremerius (1985), Freud, più che un medico, uno specialista di area scientifica, era assimilabile alla figura di un artista: come dire che dobbiamo ancora una volta constatare che Freud non era poi così ‘freudiano’ come ci appare ai giorni d’oggi e come ci è stato tramandato negli anni.

schizzo di freud

Schizzo di Freud nel suo studio.

La potenza delle immagini è stata inoltre fortemente valorizzata, tra gli altri autori non freudiani, da C. G. Jung, psicologo analista che studiò per vent’anni la simbologia del mandala (parola sanscrita che significa «cerchio») e vi dedicò quattro saggi.

Nel testo di Chianese e Fontana, Aite rievoca suggestivamente Freud e l’episodio del rocchetto, un ‘gioco terapeutico’ tramite il quale il bambino, attraverso la manipolazione di questo oggetto, aveva imparato a gestire l’angoscia connessa con l’allontanamento della madre. Aite collega questa esperienza a quella che si realizza attraverso la terapia della sabbia: il ‘gioco’ con la sabbia, un materiale così plastico e manipolabile, la possibilità di costruire propri scenari psichici grazie anche all’utilizzo di oggetti, permette al paziente di accedere alla dimensione più primitiva dello psichismo, rendendo presente ciò che è passato e lasciando fluire emozioni che difficilmente il soggetto si sarebbe lasciato ‘sfuggire’ in altra modalità.

Giocare, per il bambino e per l’adulto, costituisce un modo per rappresentare realtà dolorose che, in questa forma, è possibile esprimere, manipolare, trasformare, assoggettare al processo di elaborazione, sotto lo sguardo incoraggiante del terapeuta: una forma di esibizione di ‘feci buone’ all’analista-genitore, come suggerisce Costis.

La rappresentazione grafica, in psicoterapia, può assumere la stessa valenza del sogno: disegnare, in fondo, è quasi come sognare in stato di veglia, ma possiamo anche considerare l’immagine come la linea di confine, la demarcazione che separa/unisce il conscio e l’inconscio (Vergine). È impossibile non citare Lacan e le sue concezioni di arte e psicoanalisi: le due discipline sono intimamente connesse e implicate. Secondo Recalcati (2007), gli artisti potrebbero coadiuvare il lavoro dei ‘colleghi’ psicoanalisti e dare un fondamentale contributo alla loro disciplina.

In conclusione, la rilevanza dell’aspetto estetico, iconico, figurativo, a ben guardare, era presente già ai primordi della ‘scoperta dell’inconscio’ (per dirla con Ellenberger) e ha continuato ad esistere anche negli anni successivi: nessun ‘tradimento’, dunque, alla nostra antica fede, tutto sta nel ritrovare quella prospettiva e riportarla nel qui ed ora della professione terapeutica. Non potrà che giovare alla clinica e arricchire il nostro intenso rapporto terapeutico, grazie al suo potenziale espressivo e creativo che innegabilmente porta con sé.

BIBLIOGRAFIA

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