E si trasformò in un orecchio. Il corpo sonoro e la riflessione sull’onda

A.M. Sassone

(abstract. A  partire dal riconoscimento delle soggettività e dalle relazioni mente-corpo, l’A.  pone l’accento sulla dimensione verticale del suono e della voce e sulle risonanze dell’analista che diventano strumenti d’elezione di ogni percorso analitico. La teoria, sostenuta da concetti mutuati dalla fisica e dalle neuroscienze, è affiancata anche dalla narrazione di un caso clinico che permette al lettore di entrare nella stanza d’analisi per cogliere la qualità e la complessità dell’ascolto nella relazione analitica.)

Per rintracciare il tema di questo intervento  – che sarà incentrato sulle  relazioni tra le leggi della natura e la natura del corpo, anche di quello emozionale – sono andata con la mente indietro nel tempo, sia a quando  non ancora ventenne, dopo la maturità,  conseguii il diploma per insegnare  nelle scuole per l’infanzia,   sia alla successiva esperienza di psicologo scolastico.

Lavorare con bambini tanto piccoli mi aveva molto presto sollecitata a velutare la centralità del corpo, nonché a considerare come, e quanto, le relazioni si organizzassero intorno a trasmissioni pre-linguistiche e, non a caso,   tale tema fu all’epoca oggetto della mia tesi di laurea.

Da tali premesse, nel lavoro clinico sono andata sempre più a sviluppare una modalità di ascolto interiore che tende a prestare particolare attenzione al “corpo sonoro”, ovvero ai messaggi inclusi nei suoni della voce, nei suoni delle parole, nelle pause, negli intercalari, nel ritmo (Di Benedetto 2004). Aspetti, questi, che costituiscono l’atto fonopoietico, capace al contempo di denotare, connotare ed evocare in virtù della relazione tra mondo interno e mondo esterno.

Ma, assumendo quale oggetto di ricerca il corpo sonoro,  è evidente quanto la relazionalità tra interno ed esterno si mostri anche nel rapporto tra emissione vocalica e percezione acustica: il pro-jecto della voce è simultaneamente un intro-jecto per l’impossibilità di sottrarci all’ascolto dei nostri stessi suoni.

Il suono ci tocca, ci invade e ci penetra, tant’è che il bambino autistico nel mutacismo ostinato o nell’atto di chiudersi le orecchie sembrerebbe negarsi anche la possibilità di “sentire” se stesso. In questo senso è come se l’affetto in gioco non potesse prescindere sia dai limiti che dalle possibilità del corpo.

All’inizio della vita  le frasi sono  percepite solo come una sequenza continua di suoni, ma un simile  limite percettivo diventa nell’evoluzione esperienza che fonda il riconoscimento del  fraseggio musicale nel linguaggio. La musicalità dei suoni, come scrive Di Benedetto, sembrerebbe infatti offrire una sorta di struttura logico-linguistica agli aspetti spontanei dell’espressività vocale, correlati soprattutto ad alcuni affetti primari, quali la paura, il dolore e la gioia che caratterizzano i fondamentali processi di sviluppo della vita psichica e che trovano il loro versante patologico nell’angoscia, nella depressione e nella mania (Di Benedetto 2002, p.163).

E’ dunque la sostanza fonica delle parole, più che la loro valenza semantica, a narrarci delle vicissitudini degli affetti.

L’affettività, come scrive  Gullotta (1992, p.181),  è una funzione globale  in grado di penetrare la vita fin dalle sue radici e il termine affekt nella concezione di Jung va ben al di là dei presupposti freudiani per le connotazioni semantiche che investono la totalità del vissuto psicosomatico.

Nel corso dei seminari alla Tavistok del 1935 Jung, nel rispondere ad una domanda di Bion,  affermava  “I due fattori quello psichico e quello organico presentano una singolare contemporaneità… li vediamo separati per la nostra totale incapacità di pensarli contemporaneamente” (Jung 1935, p.78) ; e più oltre “Qualsiasi cosa abbia una intensa tonalità affettiva è difficile da trattare perché questi contenuti sono misteriosamente associati a reazioni fisiologiche… è come se quel particolare complesso avesse un proprio corpo…come se… fosse localizzato nel mio corpo… e non è facile cacciar via qualcosa che è radicato nel mio corpo”(Idem, p.84).

Il corpo per Jung, come sarà per Bion, sembra andarsi a connotare come il luogo radicale dell’emozione e in sintonia con tale simultaneità di ascolto si potrebbe dire che è nel corpo che l’inconscio sintomaticamente trova una via di incarnazione.

In analisi per dare corpo alla parola, per dare forma all’indifferenziato dobbiamo a volte ri-tornare e ri-partire dal corpo, regredire dal mentale al sensoriale, ad un livello percettivo somatico.

Il fondamento della vita psichica sembra dunque essere costituito da un tessuto connettivo asimbolico, di natura affettiva, un sostrato sul quale possono poi radicarsi le funzioni mentali simboliche (Di Benedetto 1991).

Se  la vita psichica si radica nell’arcaico fondamento somatico le tonalità dell’ arco di vita emozionale possiamo provare a coglierle a partire dalla relazione con le leggi costitutive dell’umana corporeità.

Armonie e disarmonie, accordi e disaccordi, assonanze e dissonanze, sintonie e distonie, con il proprio sé e con l’altro da sé possono registrarsi e regolarsi a partire dall’ascolto del proprio corpo, che può divenire strumento di conoscenza allorché si dà come cassa di risonanza del mondo emozionale.

Andare ad orecchio per un analista diventa così la possibilità di cogliere,  nel rumore caotico delle parole o nello stridio delle incongruenze o nel canto delle sirene,  le sonorità dello spartito emotivo sottostante per riuscire ad intonarsi con il mondo privato, privato anche a se stesso, del paziente.

Parlo di “spartito” emotivo proprio per la duplice accezione del termine: lo spartito rimanda alla musica, ma lo spartito è anche ciò che è stato diviso – ovvero non detto, non portato, scisso – dalla complessità della rappresentazione di sé. Non a caso quando una persona “confessa” il proprio indicibile usualmente si dice che ha  “cantato”.

Entriamo per un momento nel corpo umano: l’unico organo   che in sé configura sia il labirinto che la spirale – immagini  fortemente evocative delle processualità della vita psichica – è l’orecchio. La chiocciola o coclea situata nell’orecchio interno consente di convertire le vibrazioni in impulsi elettrici che verranno inviati al cervello per mezzo del nervo uditivo. Per effettuare questa conversione la chiocciola si comporta come un analizzatore spettrale. Il suono viene scomposto in una somma di armoniche ed è la scomposizione armonica che noi ascoltiamo.  Il  sistema di conversione è dunque una funzione dell’apparato uditivo, ma la percezione del suono è individuale. Come sottolinea Roberto Laneri (1998, p.174) “Una volta trasmesso al cervello l’esito del suono è di natura psichica, nei suoi poteri evocativi, emotivi e trasformativi”.

Poiché la chiocciola nel feto si forma a partire dalle otto settimane, sembra potersi ipotizzare che la prima relazione si instauri non con un oggetto che nutre ma con un oggetto sonoro, come affermato  da  Mancia (1981) e  dalla Maiello (1995).

Ma si potrebbe anche dire che, a livello embrionale, la embrionale percezione  di sé potrebbe darsi dalla rilevazione del proprio movimento tramite la possibilità di sentire le vibrazioni e le variazioni pressorie presenti nel liquido amniotico.

L’Io arcaico, frammentato, caotico, indifferenziato, in linea in parte con la concezione di Fordham sul sé primario o originario,  potrebbe avere già in sé una potenzialità di autoriconoscimento attraverso una funzione che potremmo definire di “riflessività sonora”.

In sintonia con tale universo percettivo primario, soprattutto i pazienti più gravi ci conducono ad attivare una forma di “riflessività sonora” che permette di ascoltare le parole  al pari di parole-suono nonché di udirne, attraverso la forma fonetica,  le potenzialità di significati che, risuonando al  nostro interno, ci dirigono  verso percorsi altri, imprevisti ma anche  imprevedibili  per  il nostro pensiero o per le visioni di teoria della tecnica che pur ci supportano.

E sono sempre i pazienti che ci inducono a dare corpo al nostro sentire affinché il loro sentire prenda corpo: procediamo con-tatto per toccare le parti sofferenti,  usiamo il fiuto e andiamo ad orecchio, riconosciamo il gusto forte e amaro della rabbia, quello acido dell’invidia, il gusto carammellato del come se o l’insipido dell’anaffettivo.

Il senso, la ricerca del senso, in analisi sembra dovere incontrare i sensi, sia reali che metaforici.

E centrale dunque diventa il “sentire” per il suo declinarsi su una molteplicità di piani:  quello sensoriale, quello  più specificatamente uditivo-sonoro, quello emotivo. Sentire rimanda al senso del tatto, primo veicolo di esperienza e conoscenza. Sentire rimanda all’ascolto. Sentire rimanda alla possibilità di percepire e ri-conoscere l’affetto in gioco nel qui e ora, come nel passato. L’atto del conoscere, iscrivendosi nel solo registro cognitivo,  si differenzia pertanto in modo fondamentale dal vissuto del sentire nonché dal sentire vissuto.  Jung (1951, p.32) in tal senso paragona ad un flatus vocis tutti quei concetti che derivano da una conoscenza solo intellettuale dei fatti psicologici: psicologicamente non possediamo nulla che non abbiamo sperimentato nella realtà; si potrebbe dire che l’affetto deve farsi dato sensibile affinché lo si possa esperire e dunque conoscere  non vuol dire ri-conoscere fintanto che resta precluso l’accesso al sentire.

Sentire è dunque il verbo che mantiene congiuntamente aperti i referenti e i significanti dell’esperienza corporea e dell’esperienza psicoaffettiva. In questa prospettiva le diverse attribuzioni che denotano  il termine permettono anche di connotarlo entro un registro simbolico. Sentire si offre a noi quale parola-chiave  capace di mettere insieme, legare, il fattore organico e il fattore psichico.

Rimanendo nell’ambito di quanto fin qui detto mi sembra particolarmente esplicativo   il  sogno di una paziente con me in analisi da alcuni anni.

Non vorrei soffermarmi troppo su L. e la sua storia, ma può essere utile  tratteggiarne alcuni aspetti: L. è una donna di trentasei anni, dai bei lineamenti del viso e dalle piacevoli forme del  corpo, piuttosto realizzata nella sua professione  sembrava aver  avuto bisogno  di aderire ad una maschera di donna  libera e autonoma. I suoi tratti isterici e narcisistici, giocati anche in analisi, le impedivano dolorosamente di costruire relazioni durature. La seduttività era la sua arma, giocata indifferentemente con uomini e donne, uno strumento che aveva la funzione di garantirle riconoscimenti, annebbiandola però nel riconoscimento di sé.  Usava il pensiero in modo difensivo, lo brandiva come una spada e nell’ascoltarla   mi trovavo spesso con la mente a darle ragione, anche sedotta dal rigore della sua logica, ma se prestavo ascolto al suono delle sue parole la sentivo sempre stonata dalla realtà che andava narrando.

Era sempre sovratono e io sentivo che era il suo modo per porsi alla massima distanza da quel sottotono depressivo così  presente nel suo spartito emotivo. Come scrive Aristotele nel De Anima (III, 426, a27-b9):  “La voce è una specie di accordo (simphonia) e l’accordo è una proporzione (logos). E’ per questo motivo che ogni eccesso, sia l’acuto che il grave, distrugge l’udito… Ciò avviene perché il senso è una specie di proporzione e gli eccessi lo dissolvono e lo distruggono”.

Per cui solo ciò che si presenta con questo particolare nulla osta – dato dal “timbro” del suono – risulterebbe allora legittimo (Sparti 2007, pp.92-93).

Il provocatorio e animoso modo di porgersi  di Lavinia sembrava condensare il penoso conflitto  tra il desiderio di trovare qualcuno in grado di reggerla e il terrore che il suo desiderio potesse trovare una qualche forma di appagamento. Aprirsi al mondo del bisogno equivaleva alla caduta della sua vitale difesa onnipotente.

Un giorno L. mi portò questo sogno.

Vedo una donna partorire. Forse è mia madre. La neonata viene messa in una specie di incubatrice, somigliava a un forno a microonde. Forse è prematura. La dottoressa che sta lì sembra dimenticarsi di aprire la porta e lascia passare alcuni minuti, quando apre la porta… la bambina era diventata un orecchio. Mi arrabbio moltissimo con la dottoressa, non mi ricordo quello che le ho detto, ma ero furiosa: quei minuti in più avevano trasformato la bambina in un orecchio.

Ricorro qui al sogno di L.  per aprire alcuni interrogativi e alcune  riflessioni sul sentire.

Al termine del sogno sentii come un colpo forte, teso, alla bocca dello stomaco, di quelli che lasciano senza fiato, senza parole. Il passaggio dal colpo alla colpa fu per me repentino: che aveva combinato questa dottoressa distratta? Che avevo combinato? Quale evento in analisi si era “combinato” con la storia emotiva della paziente?    Lavinia si stava scontrando con qualcosa fuori e dentro di sé.

Nel nostro precedente incontro ricordai che avevo distrattamente protratto per alcuni minuti la seduta, cosa era potuto accadere in quella manciata di minuti?  La cottura all’interno di un contenitore ha sempre un potere trasformativo, ma l’incubatrice da luogo che protettivamente in-cuba può trasformarsi in luogo generatore di incubi. L’angoscia sembrerebbe stare nella dissociazione dell’affetto, come se senza più il corpo del sentire restasse solo l’ingigantita centralità di quel che viene udito.

Ascoltare, udire e sentire  sembrano a volte potersi fondere e confondere, ma  quel che viene detto non è detto che sia sentito,  da chi parla come da chi ascolta. La parola può essere priva di corpo, la parola può  mascherare, mentre la voce, il suono della voce,  può  smascherare. La parola può avere la funzione di addormentare la mente e il cuore sia dell’analista che del paziente, il suono della voce quello di risvegliare il sentire, anche attraverso  una sorta di reverie sonora.

Su altri piani, quelli associativi,  il sogno  aveva portato la paziente a ritornare alla sua nascita, un’esperienza particolarmente traumatica. Dai racconti della madre L. aveva saputo che non voleva nascere: dopo tre giorni di doglie il dottore  aveva detto che il battito non si sentiva più, il bambino era forse morto. E subito dopo lei era invece nata naturalmente, “femmina, con la testa deforme, la più brutta tra tutte le neonate”.

Tale narrazione in che modo aveva “deformato” la testa, la mente, di L.? Quel che aveva udito cosa le aveva fatto sentire? Che rappresentazioni di sé aveva potuto indurre? E cosa aveva sentito in quella manciata di minuti prima della nascita quando era stata data per morta? Per la madre era L. che non voleva uscire, nella fantasia di L. era la madre che voleva trattenerla.

I due opposti vissuti presentavano un dato  comune: restare dentro oltre il termine era una minaccia per l’integrità fisica e psichica. Si tratta di minuti, attimi, potenzialmente fatali che trascorrono alla presenza di un padre-dottore-analista che dimentico del trascorrere del tempo non introduce né separazione né senso del limite.

Dall’esperienza clinica ho appreso che  quando si soffre il limite – perché intrappolati nell’immaturità di una vita psichica rimasta adesa  a stati emotivi primari – il limite  sembra potersi esprimere  solo attraverso  fantasie di morte.

Se il mondo degli affetti è segnato dall’ambivalenza, il sogno come portato delle vicissitudini degli affetti riesce il più delle volte a configurare congiuntamente il negativo e il positivo dell’immagine.

E dunque  questa neonata che si trasforma in un orecchio, che diventa “tutta orecchio”, a quale altro ascolto ci invita?

C’è un modo di dire: “sono tutto orecchi”, sia come piena disponibilità all’ascolto, sia come tentativo di controllo della e sulla realtà. Farsi tutto orecchio, se da un  lato come abbiamo visto sembra escludere dalla rappresentazione l’interezza del corpo e del sentire,  dall’altro rimanda invece all’esatto opposto, ovvero ad una attivazione dell’intero corpo e dei diversi sensi tesi a captare quel che non si dà apertamente, quasi potesse narrarci del bisogno di privilegiare   la sensibilità acustica.

Devo ad un testo della filosofa Adriana Cavarero (2003, p.7 e segg.) l’incontro con una novella di Calvino (2001, pp.51-77): Un re in ascolto. Il re siede immobile sul suo trono e tende l’orecchio per decifrare e interpretare i suoni che lo circondano, controllando acusticamente il suo regno. Il palazzo è come un grande orecchio, “ha padiglioni, trombe, timpani, chiocciole e labirinti”(Idem) e ogni suono è un indizio di fedeltà o di congiura. “Molte e incerte sono le spie da interpretare: sussurri, rumori, vibrazioni, tonfi e laghi di silenzio. Ci sono anche voci umane nel palazzo. Ma ogni voce che sa d’essere ascoltata dal re acquista uno smalto freddo, una vitrea compiacenza… non tanto per quel che dice, ma proprio nella sua materialità sonora” (Cavarero, op.cit.p.7). Come in un “incubo” sonoro, l’orecchio si amplifica per poter decodificare e interpretare, rivelando  a mio avviso che l’ esser tutto e solo orecchio rimanda anche a quella sospettosità sempre presente laddove regna sovrano il nucleo  paranoideo.

Dal racconto di Calvino all’orecchio analitico non dovrebbe forse sfuggire la minaccia costituita da un ascolto prevalentemente autoriferito dell’analista che rischia di privare la coppia analitica dello spazio del sentire. Il ricorso ad un tecnicismo disanimato  fa dell’analista un re in ascolto che,  assiso sul proprio trono, resta immobile perché impossibilitato a mobilitare le risorse del  suo sentire. E il paziente è indotto suo malgrado a divenire un cortigiano compiacente con il potere: “le gole della corte  non sono più capaci di emettere la voce vera e inconfondibile della vita”(Idem, p.8).

La voce è, infatti, un’asserzione vitale che ci inaugura biologicamente (Sparti, op.cit., p.80) poiché,  come scrive Calvino, comporta “le vibrazioni di una gola di carne”, quella che mette in gioco l’ugola, la saliva, l’infanzia, la patina della vita vissuta, le intenzioni della mente, il piacere di dare una propria forma alle onde sonore (Calvino, op.cit).

Le onde, appunto.

Noi viviamo tra le onde,  capaci di trasportare informazioni o energia:  onde sonore e onde elettromagnetiche – onde luce, onde radio,  microonde,  onde cerebrali.

E sono le onde a narrarci della relazione tra  gli elementi della natura e la natura dell’uomo. Acqua,  luce, suono e cervello trovano infatti nelle onde la loro comune traccia di esistenza. Al pari della vita psichica che si  rivela anche attraverso la comparsa di  onde emotive (Sassone 2005, pp.5-16).

Ma la superficie dell’acqua, la luce e il suono, sono attraversate da un altro filo che le collega: la proprietà riflessiva. Al pari della mente umana.

Il primato per lungo tempo dato alla vista dalla concezione analitica si era andato a tradurre anche nella elaborazione teorica e clinica della funzione materna di rispecchiamento che,  nel rimandare alla proprietà riflessiva della sola luce, e quindi dello specchio, di fatto sembrava andare  ad evocare la centralità del solo registro visivo.

Va però esplicitato  che la madre, al pari di un analista,  per vedere e dunque per  poter rispecchiare deve  primariamente “sentire” e in questo senso sembra paradossale che proprio il suono nel termine “rispecchiamento” non avesse trovato un suo spazio  di rappresentanza.

Forse oggi sarebbe più opportuno parlare di “riflessività”: un termine capace di includere nella semiosi anche le proprietà riflessive del suono, oltreché quelle della mente – come sottolineato dai teorici dell’attaccamento e in particolare da Fonagy.  L’ipotesi per cui lo sviluppo dell’identità sia da mettere in relazione con i diversi piani della riflessività permette di restituire al suono un ruolo prioritario nella genesi identitaria.

E non a caso la scansione temporale della genesi presente nelle strofe della poesia di Miss Miller prevede che l’Eterno creò prima il suono: “Quando l’Eterno creò il suono/ Miriadi di orecchie sorsero per udire/ E per tutto l’Universo/ Rimbombò un’eco forte e chiara/ Ogni gloria al Dio del suono” e solo successivamente la luce. E Jung cita i diversi paralleli che pongono la creazione del suono, come lui scrive, “in prima linea” (Jung 1912/1952, pp.54-56).

Ma cosa è che chiamiamo “suono”?

Il “suono” trova la sua definizione nella sensazione generata dalla vibrazione prodotta da un corpo in oscillazione. Perché si verifichi qualsivoglia  tipo di suono vi deve essere un corpo, la sorgente del suono, che vibra. Quando un corpo vibra la sua vibrazione si propaga nell’ambiente circostante sotto forma di onda di pressione ed è all’onda che noi diamo il nome di suono. Possiamo pertanto ascoltare un suono solo se esiste un mezzo attraverso cui la vibrazione del corpo può propagarsi e generalmente il mezzo è l’aria.

Ma un suono a differenza della luce può propagarsi in qualsiasi tipo di mezzo: solido, liquido o gassoso, anche se con velocità diverse. Tant’é che per misurare le profondità marine viene usato il sonar, poiché la luce può attraversare la superficie ma non può raggiungere le profondità.

La luce, che pur evoca l’illuminismo, la ragione, la conoscenza e la coscienza, sembrerebbe rimandare dunque alla sola dimensione orizzontale: è il suono e con esso il sentire che apre alle profondità. E nella pratica clinica ne troviamo continuamente conferma: se non raggiungiamo il sentire del paziente, se non entriamo con lui in risonanza,  l’ interpretazione per quanto illuminata non illumina il mondo delle ombre.

Senza un corpo che vibra, pertanto, non può esserci suono e senza suono la riflessione, che comporta la possibilità di ri-suonare, non può verificarsi. In condizione statica infatti nessun corpo risuona: deve essere battuto, sfregato, percosso, deve insomma essere animato Sparti, op.cit. p.80).

Nell’interessante percorso etimologico che Jung  intraprende per rintracciare i nessi associativi tra bocca, parola e fuoco – a partire anche da espressioni come: parole ardenti, lingue di fuoco, fuoco divorante – associa tra l’altro il radicale indoeuropeo “vel”, con il suo significato di risonare, fluttuare, ondeggiare  al radicale “sveno”, rumori, apparentato come scrive al latino sonus, sonorus ( Jung 1912/1952, op.cit., pp.164-167).

Da tale percorso possiamo trarre alcune considerazioni sulle radici lessicali che qualificano l’ascolto analitico: l’attenzione “fluttuante” è “radicata” in quei movimenti d’onda che permettono di entrare in risonanza con il paziente.  Ma va anche detto che il movimento d’onda, ovvero l’ondeggiare,  si dà significativamente legato alla risonanza e al fuoco, e dunque al calore.

Una madre intimamente fredda, anche nel registro linguistico,  non potrà mai risuonare perché impossibilitata a sintonizzarsi sulle onde trasmesse dal figlio.

Nelle leggi del suono la risonanza si verifica quando vengono trasmessi impulsi con una frequenza uguale alle vibrazioni dell’intero sistema. Nel sistema fusionale pertanto la risonanza può darsi  quando le vibrazioni d’onda diventano sintoniche.

Jung aveva avanzato l’ipotesi che il cervello fosse equiparabile  ad “una sorta di commutatore in cui la tensione o l’intensità relativamente infinita della psiche in sé viene trasformata in frequenze o estensioni percepibili”(Jaffé 1997, p.223).

Le attuali ricerche sui neuroni mirror nell’area di Broca  hanno dimostrato che tali neuroni rispondono  anche in  presenza del solo suono. I neuroni specchio pertanto non funzionano solo come ponte tra aree di processazione visiva e aree motorie, ma vanno a costituire anche un ponte tra i cervelli degli individui per un collegamento e una comunicazione a diversi livelli. Gallese (2006, pp.543-580) parla di una “simulazione incarnata”, ovvero della possibilità che i neuroni a specchio audiovisivi forniscano un’esperienza interiore diretta e quindi una diretta comprensione non solo delle azioni ma delle intenzioni e delle emozioni altrui. Questo apre alla possibilità che in una relazione i neuroni a specchio audiovisivi  possano portare a simulare, e dunque incarnare, le stesse emozioni.

E’ opportuno qui ricordare anche le onde cerebrali,  onde elettromagnetiche a frequenza variabile che va da 0,5 cicli al secondo a 17 Hz. Quando il cervello è sottoposto ad impulsi sonori o elettrici di una certa frequenza la sua naturale tendenza è quella di sintonizzarsi, di entrare in risonanza d’onda (al pari di quando si fa vibrare un diapason posto accanto ad uno silenzioso e quest’ultimo inizia a vibrare alla stessa frequenza). E le onde cerebrali modificano la loro frequenza in rapporto a stati di attività e inattività, stati d’animo, emozioni.

Il trasporto di informazioni e di energia, e dunque calore,  soprattutto nella relazione primaria sembrerebbe viaggiare anche sulla frequenza delle onde cerebrali, all’interno di un sistema, sia fusionale che cerebrale, a naturale sintonizzazione.

Ma restiamo ancora sulle  leggi del suono.

Il fenomeno dell’eco si verifica allorquando un  corpo sonoro si trova  davanti ad un ostacolo in grado di riflettere onde accidentali.

Se intendiamo il neonato come corpo sonoro, il suono da lui emesso si disperderebbe se non ci fosse una madre capace di farsi superficie e corpo riflettente, di farsi Eco. Le onde  sonore del neonato – che sono onde di pressione – nel colpire la madre inevitabilmente vanno a creare un campo che è al contempo sonoro, energetico ed emotivo. Un campo in cui i diversi elementi presenti non possono essere pensati se non congiuntamente.

La frequenza, l’intensità, l’ampiezza delle onde sonore, elettromagnetiche e emotive  attive nella relazione diventano le variabili che consentono  alla madre di svolgere la propria funzione riflessiva. E tale funzione rischia di venire meno ogniqualvolta le onde emotive assumono proporzioni elevate per una spaccatura, una faglia interiore, che sviluppa un sovraccarico d’energia di investimento. Terremoti o maremoti viscerali producono onde capaci di distruggere o sommergere la possibilità di sentire, vedere e ascoltare se stessi e l’altro.  E’ così che la madre, impegnata unicamente dai propri vissuti complessuali, ripiegata narcisisticamente su se stessa, difensivamente lontana dal proprio sentire non riesce più ad ostacolare la dispersione del suono emesso dal bambino.

Il ritorno ad uno stato fusionale,  a volte con alcuni pazienti necessario per riparare – sia in senso progressivo (riparare la trama di un tessuto psichico sfaldato) che regressivo (rifuggire nella simbiosi piuttosto che rifuggire dalla simbiosi) –  permette di attraversare l’esperienza  fondante  dell’unìsono, nella quale il porre l’accento sull’uni-sòno e sull’uni-suòno, se pur fatta a discapito di un principio ordinatore di separatezza,  introduce alla possibilità di una sintonizzazione con il non ancora dicibile.

Quando paziente e analista diventano distonici, quando la riflessione dell’analista si va a giocare solo sul piano mentale, il silenzio che cala nella seduta sembra divenire deprivato  dal suono del silenzio: il corpo sonoro tace, le corde emotive non vibrano. Nell’indifferenza e nel congelamento degli affetti la riflessione d’onda resta muta, impedendo quel mutamento che  forse solo una relazione capace di accordarsi sulle assonanze, consonanze e sulle risonanze può essere in grado di attivare.

** Anna Maria Sassone, è Didatta dell’Associazione Italiana di Psicologia Analitica e membro dell’International Association for Analytical Psychology. E’ stata Segretario Nazionale del Training, membro del Comitato Direttivo e del Comitato di redazione della Rivista Studi Junghiani, ha fondato con alcuni colleghi lo spazio di consultazione analitica dell’AIPA. Ha pubblicato numerosi articoli, partecipato a congressi e trasmissioni radiofoniche occupandosi di teoria della clinica, della formazione dell’analista e delle relazioni tra mando interno e mondo esterno. Ha curato i volumi Psiche e guerra. Immagini dall’interno, Manifestolibri, e Alchimie della formazione analitica, Vivarium. Vive a Roma, dove svolge la  professione di analista. am.sassone@tiscali.it

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