EDITORIALE “Riconoscimento”: limiti di un paradigma

 

Roberto Finelli – Francesco Toto

Il paradigma del riconoscimento, qual è stato elaborato nell’ultimo ventennio in particolare da Axel Honneth, insieme come nuovo canone della ricerca sociale e nuovo principio dell’emancipazione etico-politica, raccoglie l’eredità, nell’ambito culturale tedesco del secondo dopoguerra del XX sec., di due correnti teoriche che sono la sociologia critica della Scuola di Francoforte e la cosiddetta «Rehabilitierung der praktischen Philosophie».

L’assunzione dell’Anerkennung quale principio fondamentale d’integrazione dell’essere sociale e norma dell’agire emancipativo, in particolare nella configurazione che le ha assegnato Honneth, fa suo infatti, da un lato, uno dei filosofemi principali in cui si potrebbe sintetizzare il movimento degli autori che a partire dagli anni ‘60 hanno dato vita al movimento della Riabilitazione della filosofia pratica e che potremmo riassumere nella proposizione che il riconoscere è distinto, anzi assai spesso precede il conoscere: ossia che nelle relazione pratiche e intersoggettive tra gli esseri umani si dà un tipo di legalità e di razionalità – di phrónesis, per usare il termine aristotelico – autonoma e d’altro tipo dalla razionalità che nel lessico platonico-aristotelico è definita come l’epistéme e che costruisce legalità lungo l’asse teoretico-conoscitivo soggetto-oggetto. Nel convincimento quindi che nella relazione soggetto-soggetto/i entrino in gioco bisogni, finalità, procedure, figure dell’autocoscienza e dell’identità personale profondamente diverse da quelle che strutturano la relazione conoscitiva soggetto-oggetto, frequentemente esposta, secondo la critica antipositivistica, a un dispositivo di dominio e a una gestione solo manipolatorio-strumentale dell’oggettività.

Per altro verso è assai noto quanto il paradigma dell’Anerkennung si disponga in profonda continuità con la storia concettuale e ideale della Teoria critica: ovvero coll’essersi assegnato soprattutto attraverso l’opera di Honneth, lo scopo precipuo di superare le difficoltà che affettano l’etica del discorso di Habermas, a muovere dalla sua tesi di fondo di voler collocare e limitare lo spazio dell’emancipazione e trasformazione sociale al solo ambito dell’agire comunicativo.

In tal senso, quanto a valorizzazione della dimensione del conflitto, non si può non riconoscere quanto Honneth abbia acutamente riflettuto su un allargamento e, insieme, su una radicalizzazione, dell’elaborazione moderna del concetto di libertà, che valesse appunto a coniugare insieme riconoscimento e conflitto: senza ovviamente ripetere l’impianto conflittuale, ma ancora gravato dall’ipoteca della lotta tra le classi, avanzato da Kojéve.

Alla civilizzazione e all’antropologia liberale connotata dal valore fondamentale, ed unico, della libertà da un lato e alla civilizzazione comunista caratterizzata dal valore altrettanto unico e fondamentale dell’eguaglianza dall’altro, Honneth ha associato un’ulteriore determinazione di valore, consistente nella definizione della libertà come assenza, più profonda possibile, di censure, scissioni e rimozioni interiori. Tale riflessione, d’ispirazione palesemente psicoanalitica, rimanda al valore, né dell’autonomia né della solidarietà, ma dell’autenticità, quale possibilità per ciascuno di realizzare il proprio progetto di vita senza pagare l’alto prezzo di autoritarismi interiori, marcati da una condizione emotiva di pesante dualismo e scissione esistenziale.

Questa ulteriore determinazione del concetto di libertà – della libertà come assenza di censura sull’asse verticale di costituzione dell’individualità – appare costituire l’acquisizione più originale del pensiero di Honneth, in quanto è riuscita a mettere a tema una dimensione, poco frequentata e meditata anche da parte di autori di filosofia sociale e politica, che, pur facendo del riconoscimento il principio di valore del loro discorso, lo hanno in genere coniugato in chiave comunitarista. Motivo per cui per questi l’etica del riconoscimento ha significato essenzialmente un insieme di pratiche sociali e giuridico-politiche capaci di espandere il circuito democratico e di accogliere le aspirazioni legittime di soggetti collettivi e di comunità discriminate a vario tipo, per motivi di razza, di lingua e nazionalità, di religione, di genere e sessualità.

Con Honneth invece il “riconoscimento” viene curvato in un senso più esistenziale e maggiormente legato all’interiorità personale. Si risolve nell’insieme di quelle relazioni di accoglimento o di rifiuto, sull’asse orizzontale-sociale, di una vita individuale, che corrispondono sull’asse verticale alla maturazione di sentimenti personali di accettazione e stima o di rifiuto e di repressione del proprio sé. Si può dire insomma che in Honneth il riconoscimento intersoggettivo e interindividuale si fa chiave d’accesso e di possibilità per il riconoscimento intrasoggettivo e intrapsichico.

La radicalità del conflitto che Honneth ha inteso assegnare all’etica del riconoscimento, soprattutto rispetto, come dicevo, all’etica del discorso di Habermas, ha trovato dunque il suo fondamento nella radicalità verticale e intrapsichica dell’essere umano, ovvero nella possibile istituzione di pratiche e di istituti giuridici volti a consentire e a facilitare più il discorso del soggetto rispetto a se medesimo, più la possibilità del dialogo interiore tra le varie istanze di un singolo, che non, se non in seconda istanza, il discorso e il dialogo tra il sé e gli altri da sé. Come se, finalmente storicismo ed esistenzialismo, socializzazione e individuazione giungessero seriamente a fecondarsi insieme. E si potesse concepire l’identità del soggetto individuale nella capacità di attingere il proprio luogo del senso, certo nelle relazioni sociali e nelle identificazioni intersoggettive, ma, fondamentalmente, nella verticalità di un proprio corpo emozionale che, affrancato da autocensure, disistime e misconoscimenti interiori, possa costituire il vertice d’orientamento e di valutazione ultima del nostro vivere.

Qui dunque riconoscimento significa, in primo luogo, un esser riconosciuto dall’altro/i come condizione di quel riconoscersi e accettarsi nella più propria individualità, che è condizione a sua volta del riconoscere l’altro, nel senso di lasciarlo andare libero nella realizzazione del proprio progetto di vita. Perché una individualità, che tendenzialmente coincide con la propria emotività e non la riduce ad oggetto di censura e manipolazione, non ha necessità di manipolare e ridurre a oggetto l’altro da sé; ma anzi trova nell’affermazione vitale e nell’autorealizzazione dell’altro lo sgombero da relazioni di dominio, di proiezione e di saccheggio dall’altro verso sé, indispensabili all’approfondimento verticale del proprio sé.

Solo che tale nodo dell’esser riconosciuto – riconoscersi – riconoscimento dell’altro, in cui si gioca la possibilità, finora utopica, di un concerto non asimmetrico di socializzazione e individualizzazione, a ben vedere è ben più complicato, nella sua articolazione effettiva di pratiche possibili e di istituti socio-giuridici realizzabili, della sua enunciazione concettuale e a parole.

Lo stesso Honneth, che pure ha attinto la versione più originale e avanzata dell’odierna Anerkennungsphilosophie attraverso la meditazione, come s’è detto, di un concetto di libertà sinonimo di autenticità esistenziale nel verso dell’individualizzazione verticale, appare non riuscire, nello svolgimento della sua tematica, a mantenersi all’altezza del programma antropologico ed etico-politico che s’era proposto. Condizionato ancora dalla sopravalutazione habermasiana dell’agire comunicativo sull’agire strumentale, e non attento ad approfondire il meccanismo contemporaneo del giungere a totalità in ogni sfera della vita del dominio dell’“economico”, non è riuscito a impedire che la sua etica del conflitto tornasse a vestire di nuovo, anche se ovviamente contro la sua intenzione, i panni di un’etica del discorso.

Così come estremamente problematica appare la riattualizzazione che lo studioso di Francoforte ha proposto della Filosofia del diritto di Hegel giacchè è assai difficile vedere nel testo hegeliano di filosofia politica quella duplice negazione che un’etica del riconoscimento non può non implicare, come ha giustamente sottolineato in tal senso Ludwig Siep: vale a dire la negazione di sé dell’individuo nel suo egoismo liberista e liberale a favore del collettivo e dell’istituzione sociale e la negazione di sé dell’istituzione sociale quanto ad universalità astratta ed omologante.

Di tutto ciò prova a discutere questo terzo numero di “Consecutio temporum”, che dedica un buon numero dei suoi saggi alla tematica del riconoscimento, alla ricerca dei vantaggi e degli svantaggi teorici di questo paradigma.

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