Il tesoro tradito della rivoluzione. “Noi credevamo” di Mario Martone

Massimo Cappitti

Mario Martone, nel film Noi credevamo, tratto da un romanzo di Anna Banti, guarda al Risorgimento attraverso gli occhi di tre giovani meridionali che, mossi dall’indignazione per la ferocia dell’esercito borbonico, decidono di aderire alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Le loro vite, segnate dal passaggio catastrofico dalla speranza e dall’entusiasmo iniziali allo scacco finale, diventano esemplari del fallimento di una generazione, che non si proponeva soltanto il raggiungimento dell’unità nazionale ma il progetto più ambizioso di una Italia «indipendente, libera, repubblicana»

Il film ha il merito di sottrarsi alla fastidiosa retorica che accompagna la celebrazione dell’unità nazionale. Retorica che accomuna tanto chi quel periodo storico esalta incondizionatamente, quanto chi, all’opposto, vi scorge l’origine dei mali che continuano ad affliggere l’Italia. Eppure, le due posizioni, nonostante l’insistenza sulla loro incomponibile e irriducibile opposizione, sono più vicine di quanto appaia e, soprattutto, di quanto loro stesse sospettino. Entrambe, infatti, restituiscono del Risorgimento una visione parziale, che ne mortifica i molteplici aspetti contraddittori e spesso tra loro in conflitto. Ovvero di quell’evento rinnovano la drammatica e irrisolta – perché aperta a esiti diversi – complessità, poiché ignorano la pluralità di voci, prospettive e opzioni che lo hanno caratterizzato. Fautori e denigratori del Risorgimento si chiudono pertanto nella loro sterile contrapposizione fondata, però, sulla comune presupposizione dell’esistenza di un’identità omogenea e coesa, poco importa se si tratta della nazione italiana, padana e meridionale. Ricorre insistentemente nell’attuale discussione l’inquietante appello alla riscoperta e alla valorizzazione delle radici, della patria, delle comunità di appartenenza, la cui evocazione finisce per legittimare ideologie e pratiche anche feroci di esclusione. Nella storia ridotta a spettacolo ciascuno cerca i propri riferimenti, sottraendoli al contesto entro il quale avevano preso forma. Tornano, così, a presentarsi, in maniera grottesca ma per questo più pericolosa, la nostalgia degli austriaci o dei Borbone, del papa Re o dei Savoia.

Ovviamente, quasi nessuno sottolinea più quanta parte ha avuto, in quel momento storico, l’aspirazione a una trasformazione anche rivoluzionaria che sollevasse la parte maggioritaria della popolazione da una miseria antica. La questione sociale scompare e, con essa, il riconoscimento della dolente e persistente estraneità dei ceti popolari alla vita pubblica – estraneità tenacemente promossa e imposta dai ceti dominanti – e, insieme,viene meno la memoria dei tentativi di emancipazione – spesso violentemente repressi anche nell’Italia repubblicana – della classe operaia e dei contadini.

Non a caso, come il film ben evidenzia, il popolo tace, impotente spettatore di una condizione che permane identica: se, infatti, l’immodificabilità dei rapporti di proprietà e di produzione lo condanna allo sfruttamento se non alla servitù, quella dei rapporti politici ne fa l’oggetto della violenza statale, dei Borbone, prima, e dei piemontesi, poi. La cinepresa spesso scorre sui volti impietriti dal dolore misto alla diffidente e rassegnata perplessità di fronte a chi, come i padroni, è «giacobino a Parigi» e «qui ruba l’olio ai propri contadini». Gli stessi mazziniani, come rimprovera loro la principessa di Belgioioso, falliscono l’incontro con i «popolani». «Pochi e litigiosi», come lei stessa li definisce, si illudono che il popolo apra loro il cuore. La principessa oppone a chi vuole conquistare la libertà «con il pugnale» l’azione lenta e costante, che richiede «tempo e fatica», dell’educazione popolare. Solo questa, infatti, può determinare una vera «illuminazione» e condurre a una «libertà ben regolata» dove tutti diventano «consapevoli dei diritti e dei doveri». Anche i carcerieri ironizzano sull’isolamento velleitario dei rivoltosi: «tutti dottori» con la mente sconvolta dai libri letti.

Martone sottolinea la tragica complessità degli eventi, ne rintraccia gli esiti nelle singole esistenze, mostra come la storia scompagina e riconfigura le biografie, come concorda e dissolve credenze e forme consolidate, ritenute immodificabili, sorprendendo, così, coloro che hanno preteso di piegare gli avvenimenti ai propri progetti. Nella lacerazione prodotta dalle scelte dei diversi soggetti, si ridefinisce, allora, anche il rapporto tra passioni e ragione: se questa rivendica la pretesa di guidare l’azione con la persuasione che la realtà si offra, trasparente, al suo sguardo, le passioni ne minano l’autorevolezza, portando a evidenza la vulnerabilità della ragione, quando essa si confronti con gli effetti inattesi e l’irrevocabilità delle conseguenze dell’agire.

Incarnano, tra gli altri, l’inadeguatezza e lo spaesamento di fronte all’imprevedibile disporsi degli avvenimenti, i tre protagonisti e la figura di Mazzini. Salvatore muore pugnalato da Angelo, mentre Domenico diventa garibaldino, senza mai abdicare alla coerenza di rivoluzionario e, soprattutto, senza mai rinunciare alla qualità etica del suo impegno, anche quando ciò determina il suo isolamento.

Stretto tra la convinzione che solo un’azione pacifica e di lunga durata può condurre alla repubblica, da un lato, e, dall’altro, l’impellenza degli avvenimenti e la conseguente necessità di un’azione efficace, anche violenta, Mazzini è incapace di decidere. Egli rimane prigioniero di questa ambivalenza, sospeso tra le due opzioni, tormentato dalla paura e dall’esitazione che, come nella repubblica romana, sarà fatale ai suoi seguaci. Mazzini assiste impotente allo sgretolarsi del suo progetto, incalzato sia da tensioni radicali, sia dagli opportunismi di chi, come Crispi, si avvia ad assumere posizioni di potere. Egli, quindi, non può che prendere atto dell’inconcludenza dei suoi tentativi fino a dichiarare, poco prima di morire, che «il periodo dell’azione legale è finito» e che, pertanto, occorre «far saltare in aria» il re e il parlamento.

Angelo è tormentato, invece, dalla necessità del perseguimento a ogni costo del fine. Per questo accetta non solo di sacrificare la propria vita ma, qualora le circostanze lo vogliano, giustifica il ricorso all’omicidio. E infatti lui stesso uccide. La purezza dell’agire ha bisogno della spietatezza della giustizia. Egli si mette, pertanto, al servizio esclusivo dell’idea al punto di trasformarsi nello strumento della sua realizzazione. Angelo crede di assolvere al disegno della storia che, per raggiungere il proprio fine, contempla la necessità di sacrificare i singoli, anche se innocenti, quando questi rischino di ostacolare il suo corso. Eppure, come gli viene ricordato, egli porta nel suo animo «qualcosa di febbrile, di sporco, di sanguinoso», di «ridicolo» persino, come se, al pari di un personaggio dostoevskijano, la sua adesione incondizionata alla causa e l’idolatria dei mezzi per ottenerla, lo avessero trasformato in un professionista del terrore. L’etica assoluta – troppo assoluta, forse, per essere alla portata degli uomini e quindi sempre tradita – ha lasciato definitivamente il campo al calcolo burocratico dei mezzi. Se le strade intraprese si sono rivelate fallimentari, perché hanno differito nel tempo il loro obiettivo, allora meglio il gesto omicida gratuito per eccellenza – la bomba lanciata in mezzo alla folla – piuttosto che condividere la prudenza estenuante di Mazzini o le esitazioni dei propri compagni, incapaci di reggere la gravità e la serietà della loro missione.

Fallito il progetto collettivo, restano le scelte individuali, speso ispirate dalla paura, dall’isolamento, dal sospetto che un complotto sia stato la causa della disfatta. Tutti, come è evidente nel carcere, diffidano di tutti. Solo la sobria fermezza di Domenico e di pochi altri impedisce che si scateni la caccia al delatore. Da qui, da questa speranza tradita, discendono l’amarezza disincantata, la coerenza, ma anche l’opportunismo, il pentimento, la disponibilità a riacquistare la propria libertà a spese di quella altrui. Rimane, però, ancora la speranza e il dovere di «ricominciare da capo». Ogni tentativo fallito, infatti, impone non solo il riesame delle situazioni in cui quel tentativo ha preso forma, ma obbliga chi vi ha partecipato a «guardarsi interiormente» per comprendere «gli errori commessi», da dove essi provengano e quali vie siano esperibili per porvi rimedio. Solo così si può tornare a tessere il filo della «guerra mortale che si combatte segretamente da secoli».

La prospettiva del regista allora si allarga dal Risorgimento alle epoche di crisi rivoluzionaria, caratterizzate da feconde e drammatiche ambivalenze, quelle epoche nelle quali le vecchie concrezioni di senso perdono la presa, rivelando così la loro infondatezza: non più creazioni eterne, bensì opere integralmente storiche e perciò oggetto di revoca. Il Risorgimento italiano, allora, diventa un capitolo di quella fase della storia europea che ha fatto della trasformazione sociale il suo imperativo. Si tratta, allora, di ripercorrere a ritroso la storia per rinvenire in quel frangente, in quella molteplicità feconda di possibili, le cause della miseria presente e, insieme, il suo rimedio, sottraendo così alla discussione le troppo riduttive interpretazioni, dettate più dalla miserabile battaglia politica dell’oggi che da una seria comprensione della storia.

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