Teoria della riflessione e teoria della società: una traccia hegeliana

Giorgio Cesarale

Allorché si discute di che cosa sia la filosofia e di quale sia il suo ruolo nel nostro mondo sociale si ascolta spesso ripetere la nota sentenza hegeliana: “la filosofia è il proprio tempo appreso in pensieri”. Benché si tratti di una sentenza di derivazione baconiana, non si può negare che rifletta bene la concezione che Hegel aveva di ciò che la filosofia deve fare rispetto al mondo in cui è collocata e da cui trae alimento: il pensare, proprio perché anzitutto è, non può non essere ancorato all’essere. D’altro canto, l’essere può, anche per Hegel, darsi ed essere colto in molteplici modi: la specificità del pensare è coglierlo come ragione, cioè sotto il profilo delle determinazioni universali che lo fondano e costituiscono. Il pensare cioè depura l’essere delle sue determinazioni accidentali e transitorie per coglierlo nella sua più intima natura. Il che significa che tra pensare ed essere non vi è immediata coalescenza. Il pensare è omogeneo all’essere solo se lo condensa in una rete di pure essenzialità e determinazioni astratte. Ciò vuol dire anche che il pensare si ricongiunge all’essere solo se l’essere si apre alla dimensione dell’essenza. Non basta: per Hegel, il pensare è essere solo se viene abbandonato il terreno della coscienza finita, la quale trasforma, attraverso il suo comportamento teoretico e pratico, ciò che è in ciò che essa suppone essere. Finché vi è coscienza, dunque, l’essenza sarà sempre allineata all’essere per come questo anzitutto si manifesta.

Il luogo teoretico in cui per Hegel si apre un definitivo squarcio fra l’essere e la sua essenza è la logica, la quale consta di determinazioni concettuali il cui principio, per definizione, non riposa sull’essere per come questo anzitutto si manifesta. Qui vi è la radice – come ha ben detto un pensatore contemporaneo, Jean Luc Nancy, da cui pure, per altri versi, siamo lontani – della reinterpretazione cui Hegel ha sottoposto la nozione antica di “logos”. Il logos hegeliano non può, diversamente quello greco-antico, dire l’identità fra essere e pensare che come differenza1. Ma se così è, ogni determinazione concettuale sarà atto, un “farsi” del pensiero che, per rendersi omogeneo e identico all’essere, dovrà anzitutto superare la sua differenza da esso. Determinare concettualmente il proprio tempo è quindi – se si vuole essere, in questo senso, hegeliani – una operazione ben diversa dal semplice “rispecchiamento” dell’essente, dalla semplice trascrizione di ciò che innanzitutto si manifesta. Nel momento in cui ciò accade, il pensiero perde la sua “attualità”, e cioè la sua capacità di produrre contenuti che, sebbene differenti dall’immediatezza dell’essente, pure in ultima istanza mirano a ricollegarvisi.

Hegel riteneva – e in qualche misura si può dire che ne abbia fatto il fondamento del suo sistema – che questo ricollegarsi del pensiero all’essente si sarebbe realizzato più compiutamente là dove l’essente è determinato dal medesimo ente che lo pensa, vale a dire dallo spirito. In particolare, ciò accade in larga misura a muovere dallo spirito oggettivo, e cioè in quella sfera in cui lo spirito, dopo essersi reso libero nel corpo, è finalmente capace di proiettare questa libertà anche sul terreno delle relazioni sociali. Ma se così è – se, cioè, fra pensiero e spirito oggettivo vi è una più intima connessione che fra pensiero e natura e pensiero e spirito soggettivo – ne segue che hegelianamente la filosofia, in quanto più alta attività di pensiero, sarà un ingrediente essenziale per intendere la struttura delle relazioni sociali.

Questa immanenza della filosofia, intesa come teoria della inversione delle forme di organizzazione del fenomeno, alla costituzione delle relazioni sociali e alla teoria che le esprime si è a lungo conservata, secondo noi, nel pensiero post-hegeliano, facendo da lievito alla produzione intellettuale anche di Marx (con la sua teoria della forma di valore e del feticismo, legati a loro volta alla “prassi che rovescia” del proletariato) e di buona parte del marxismo occidentale e della Scuola di Francoforte. Il primo articola il rapporto fra filosofia e teoria sociale lavorando sull’identità soggetto-oggetto (il Lukács di Storia e coscienza di classe, ma anche il Korsch di Marxismo e filosofia) mentre la seconda lo fa lavorando sulle contraddizioni nel rapporto fra natura e spirito. La grande forza di questi tentativi è stata di pensare la storia della civilizzazione capitalistica come inscritta nella struttura di una identità originaria (il proletariato per Lukács o la pienezza di una natura finalmente riscattata per i francofortesi). D’altro canto, il presupporre una identità sociale al concreto svolgimento della storia ha esposto questi tentativi a una heideggeriana “ricaduta” nella “metafisica”, li ha condotti alla crisi. Di fronte a questa crisi, una parte cospicua della teoria critica, e ci riferiamo con ciò ad Habermas, ha voluto riaffermare il legame fra teoria della conoscenza e teoria della società “deflazionando” l’eredità hegeliana, naturalizzando, attraverso il concetto di “interesse della conoscenza”, il legame fra teoria e prassi: poiché la ragione è, fichtianamente, ragione pratica, e quindi sempre fusa con le categorie dell’agire, le condizioni della possibile conoscenza diventeranno dipendenti dalle connessioni pratico-vitali, e cioè dagli interessi a realizzare non solo azioni strumentali efficaci e interazioni riuscite, ma anche i potenziali di sapere (tecnologico ed ermeneutico) che sono implicati dal lavoro e dalla comunicazione. Peraltro anche quest’ultimi sono, in questo contesto, colorati naturalisticamente, in quanto sono pensati come i momenti principali della formazione, sempre dipendente dalla contingenza, del lato soggettivo (comunicazione) e oggettivo (lavoro) del genere umano2.

L’idea da cui abbiamo, invece, preso le mosse nel nostro libro sulla società civile hegeliana (La mediazione che sparisce. La società civile in Hegel, Carocci, Roma 2009) è che esista nel “laboratorio” hegeliano una diversa traccia, non suscettibile di essere interpretata né in modo “metafisico” né in modo naturalistico, per riarticolare un discorso sul rapporto fra filosofia e teoria sociale. Ci riferiamo con ciò alla struttura della riflessione, delineata da Hegel, in primo luogo, nella dottrina dell’essenza del secondo libro della Logica e poi ripresa e rielaborata in diversi luoghi della sua filosofia reale (filosofia della natura e filosofia dello spirito). Hegel ritiene – e lo ha detto chiaramente nella Filosofia del diritto, passando tuttavia quasi inosservato, nel cruciale paragrafo di transizione dalla famiglia alla società civile, il §181 – che questa struttura della riflessione sia il perno teoretico intorno al quale far ruotare la descrizione della società civile, la sua immagine del capitalismo.

Prima però di riassumere, in modo forse più piano di quanto abbiamo fatto nel libro, il contributo che la struttura della riflessione reca per Hegel alla comprensione del capitalismo, ci preme sottolineare che quando qui Hegel parla di “Reflexionsverhältnis”, di “rapporto di riflessione”, non si riferisce affatto in prima battuta a ciò che “riflessione” ha significato nella teoria della conoscenza moderna, di provenienza empiristica o razionalistica. Per “riflessione” Hegel infatti intende una generale struttura logico-ontologica, una certa modalità di disposizione reciproca dei contenuti categoriali, della quale solo un particolare segmento (in particolare quella che egli chiama nella Logica la “riflessione esterna”) rimanda più in particolare alle operazioni compiute dal soggetto conoscente. Di più: la “riflessione” hegeliana presuppone – in modi che, purtroppo, non abbiamo potuto nel libro indagare più a lungo di quanto abbiamo fatto – la consumazione del paradigma soggettivistico della riflessione. Proviamo ad accennarvi qui il più brevemente possibile. Questo paradigma è consegnato alla prima Dottrina della scienza di Fichte, quella del 1794-1795. L’obiettivo di Fichte in questa opera è fornire un resoconto filosoficamente adeguato dell’unità trascendentale dell’appercezione di Kant, una descrizione più “forte” di quella autocoscienza che Kant nella Critica della ragion pura ha individuato come punto archimedeo della sua teoria della conoscenza. Conformemente a questo principio, non si può conoscere il mondo oggettivo secondo categorie se non vi è la coscienza che il soggetto che compie queste esperienze conoscitive sia il punto di riferimento unitario delle sue rappresentazioni. È possibile unire differenti elementi di una rappresentazione o più rappresentazioni, le “sintesi del molteplice” kantiane, solo se il soggetto che compie queste operazioni è uno. In caso contrario, potremmo pensare ai differenti elementi delle rappresentazioni come distribuiti su diversi individui.

Ora, il problema dell’autocoscienza è che della sua unità si può divenire coscienti solo dopo che essa abbia avuto modo di agire come momento che accompagna tutte le rappresentazioni conoscitive. Ciò ha come conseguenza che se proviamo a tematizzare l’autocoscienza, a farla oggetto di indagine, dobbiamo presupporla come già attiva nell’atto che prova a conoscerla. La stessa circolarità si manifesta se riflettiamo sul fatto che l’autocoscienza è tale solo in quanto sapere di sé. In questa veste, se provassimo a porla come oggetto bisognerebbe subito presupporla come soggetto della sua auto-comprensione. È una circolarità, di cui Fichte ha tentato di dar conto nella prima dottrina della scienza con i suoi primi tre principi. L’assolutezza dell’io (espressa dal primo principio: io=io) così come di ciò che ad esso originariamente si oppone (il secondo principio: io=non io) è qualcosa che può essere colto solo grazie a una astrazione dalla coscienza ordinaria, la quale è necessariamente immersa nella finitezza (il terzo principio: l’io divisibile=non io divisibile). Ogni volta che la coscienza finita prova a cogliere la purezza dell’atto dell’io così come la sua originaria opposizione con il non-io scivola in un circolo vizioso. Deve presupporsi per conoscersi.

Questo è un tipico circolo della riflessione: per porsi come tale, l’autocoscienza deve sempre presupporsi come già operante. Si tratta di un problema grande e delicato, di fronte al quale si sono posti criticamente sia Schelling, con la sua filosofia della natura e il suo sistema dell’idealismo trascendentale, sia Hegel con la sua Fenomenologia e poi il suo sistema. Non è possibile, naturalmente, ripercorrere in questa sede tutti i passaggi che questo problema subisce all’interno della storia della filosofia classica tedesca. L’unico punto che ci interessa mettere qui in rilievo è questo: dalle aporie dell’autocoscienza e della auto-riflessione del soggetto il primo Schelling – già peraltro a muovere da L’io come primo principio della filosofia – prova a uscire consegnando la riflessione della coscienza a un piano radicalmente differente da quello dell’Assoluto (la perfetta unità fra soggettività e oggettività), affermando quindi l’impossibilità di fondare teoreticamente la coscienza, come ancora sperava Fichte (in cui si pone la possibilità di giungere a una soluzione del conflitto fra io puro e io empirico perché fra di essi si dà comunque rapporto, anche se conflittuale)3, mentre Hegel tenta di uscirne desoggettivando la riflessione, separando la riflessione dal sapere di sé dell’autocoscienza e facendola divenire parte di una struttura di tipo oggettivo. La riflessione avrà quindi in Hegel a che fare con un certo modo in cui si relazionano le determinazioni logico-concettuali senza necessariamente supporre che ad esse si accompagni il sapere di sé. In questo modo, la teoria della riflessione diventa una teoria particolarmente congeniale alla comprensione di strutture sociali, come quella capitalistica, che si fondano sull’operare di forze anonime e impersonali.

È da qui che si può procedere per provare a sintetizzare i risultati cui crediamo di essere pervenuti valorizzando nell’analisi della società civile il riferimento di Hegel alla sua teoria della riflessione. La riflessione è, anzitutto, un rapporto fra due determinatezze. Nella società civile queste due determinatezze sono il “sistema della onnilaterale dipendenza reciproca”, vale a dire il mercato capitalistico, e l’individualità economica che deve divenire agente mercantile per soddisfare i suoi bisogni. Ma questo rapporto, proprio perché riflessivo, è di tipo particolare: l’individualità economica – che è il prodotto, sul piano concettuale, della disintegrazione dell’unità familiare – è, dice Hegel, qualcosa di solo riflesso, una parvenza del “sistema della onnilaterale dipendenza reciproca”, il quale, precisamente perché “sistema”, è una totalità di relazioni sociali.

Che cosa vuol dire che questa individualità è una “parvenza”? Vuol dire, tenendo a mente l’argomentazione che sulla parvenza stessa Hegel svolge nella Logica, che si tratta di una determinatezza che è tale solo perché altro da ciò che le si oppone, in questo caso il mercato capitalistico. Per Hegel quindi la parvenza è una determinatezza che è identica a sé solo in quanto si nega come qualcosa di autonomamente sussistente. In questo senso, appena la parvenza si pone nella sua auto-negatività trapassa subito in altro, nel suo opposto, nel mercato capitalistico. Sul terreno economico-sociale, Hegel vuole con ciò dirci che tutte le individualità economiche che abitano il mercato capitalistico non hanno, almeno all’inizio dell’esposizione della società civile, alcun criterio positivo di determinazione e sussistenza. Ciò che esse sono è qui spiegato solo dal mercato capitalistico: mirano a riprodursi come agenti economici e a soddisfare i propri bisogni, ma in realtà, in questo modo, non fanno che promuovere il mercato stesso. Allo stesso tempo, anche il mercato capitalistico, è una totalità “riflessa”, cioè auto-negativa, qualcosa che deve presupporre il suo opposto per essere. Se gli individui non perseguissero, infatti, i loro obiettivi economici, la totalità economico-sociale del mercato non potrebbe riprodursi. Come è facile capire, attraverso l’uso di questo elaborato apparato concettuale, Hegel sta provando a filtrare teoricamente il concetto smithiano della “mano invisibile”. Ma la cosa davvero interessante del suo discorso è che egli ci dice che quella che si schizza con l’aiuto del concetto di “parvenza” è solo la prima ed embrionale immagine del mercato capitalistico. Fino a questo punto, infatti, gli individui possono essere determinati solo come possessori di bisogni e non possono perciò attingere quel piano di individuazione e concrezione che li metta in grado di sfuggire al “triste” destino di “parvenze”. Come tali, essi sono reciprocamente omologati, impossibilitati a distinguersi reciprocamente. Ma quando tra bisogno e consumo interviene il lavoro, le cose per Hegel cambiano notevolmente. Del ragionamento che sul lavoro in Hegel abbiamo svolto nel libro vorremmo qui mettere in luce anzitutto tre punti:

1) il concetto di “lavoro” in quanto introduce il terreno delle mediazioni oggettive (l’attività umana plasticamente capace di adattarsi a diverse e molteplici occupazioni e gli strumenti utilizzabili in diversi e molteplici modi) si converte direttamente in quello di “divisione sociale del lavoro”;

2) il rapporto fra le molteplici attività lavorative è conservato grazie al fatto che il lavoro è comandato dal mercato, e in questo senso è astratto;

3) in quanto astratto, il lavoro si fa progressivamente lavoro meccanico. Come tale, esso può essere sostituito dal macchinismo.

Ora, se opera la divisione sociale del lavoro, allora questo implicherà che nella società civile si verranno a consolidare “masse” economico-sociali che fra di loro si differenziano per il tipo di occupazione prestata. In virtù di ciò, per Hegel la società civile prende congedo dall’orizzonte di indeterminata astrazione naturalistica che contrassegnava il suo primo stadio di apparizione. Gli individui sono ora realmente concreti e diversi perché accanto ai bisogni, il possesso dei quali contraddistingue tutti, essi sono ora anche caratterizzati dal possesso di un lavoro, che è diverso per ciascun ramo della divisione sociale del lavoro in cui essi si trovino collocati. Peraltro, la diversità del lavoro fa fiorire anche diverse rappresentazioni del mondo e diversi “stili di vita”, spesso anche contraddittori tra loro (il contadino legato alla natura, il borghese no etc.).

Per Hegel tutto ciò altera profondamente il quadro teorico della società civile: l’individualità che, all’inizio della società civile, si poneva come parvenza della totalità del mercato capitalistico comincia a diventare, in virtù delle determinazioni teoriche acquisite (lavoro, stili di vita etc.), la sua apparenza, e cioè polo di espressione della sua determinazione opposta che, tuttavia, non si traduce più immediatamente in quest’ultima, ma ha ormai conquistato un alto grado autonomia e consistenza con sé. Ma all’irrobustimento della individualità si accompagna anche quello del sistema della onnilaterale dipendenza reciproca: questo non coincide più solo con la “mano invisibile”, ma si è dotato di più potenti vettori di universalizzazione: lavoro astratto, patrimonio (il nostro PIL) etc.

Poiché i due poli tra i quali si muove la concettualizzazione della società civile (l’universalità del sistema della onnilaterale dipendenza reciproca e la particolarità dell’individualità economica) si sono irrobustiti, la mediazione che fra di loro si svolge può acquisire ora il suo vero spessore: per Hegel infatti una vera mediazione si dà solo quando fra i membri di essa sussiste una reale autonomia reciproca. Nel libro, abbiamo cercato di verificare questo punto analizzando tutte le ripercussioni che ogni trasformazione in un lato della mediazione induce nell’altro. Il passaggio, per esempio, dal patrimonio alla amministrazione della giustizia allarga enormemente le funzioni dell’universale. Ma l’universale deve essere “saputo e voluto” dall’individuo; dunque bisogna presupporre che l’individuo maturi in sé una disposizione d’animo ad esso più adeguata. È per questa ragione che Hegel introduce il tema della “fiducia” che ogni agente mercantile deve nutrire verso l’universale giuridico.

Ora, Hegel sembra in grado di tenere in funzione questo meccanismo di mediazione fino all’altezza della polizia e della corporazione. La polizia si occupa dell’approntamento delle generali condizioni di riproduzione economico-sociali (infrastrutture, welfare etc.), mentre la corporazione incide soprattutto sulla trasformazione dell’habitus e della mentalità degli agenti economici. Quando però si tratta di compiere il passaggio allo Stato la mediazione, a nostro avviso, si inceppa: l’idea hegeliana che il passaggio si possa eseguire semplicemente riflettendo sul fatto che il principio dello Stato, la conciliazione fra particolarità e universalità, è già depositato in ciascuna delle molteplici corporazioni della società civile sembra indicare che fra corporazione e Stato vi è un rapporto di carattere puramente evolutivo. Ma fra corporazione e Stato non vi è solo evoluzione, ma anche rottura. Lo Stato deve, infatti, realizzare la conciliazione fra universalità e particolarità a un livello qualitativamente diverso rispetto a quello della corporazione, perché mentre questa’ultima rimane vincolata a interessi economico-sociali determinati, lo Stato deve occuparsi del bene di tutta la comunità politica. La corporazione è una istituzione parziale della società che si occupa di un interesse altrettanto parziale; lo Stato è, invece, una istituzione parziale della società che si deve occupare della totalità delle relazioni che, entro una data società, si stabiliscono fra gli individui. Affinché, dunque, la figura dello Stato venga enucleata devono essere forgiati strumenti di totalizzazione più potenti di quelli di cui Hegel, nel passaggio in questione, sembra disporre. In assenza di questi strumenti, il passaggio dall’universale limitato e finito della corporazione a quello infinito dello Stato si dispone nelle forme di un salto indeducibile.

Ciononostante, riteniamo che la lezione teorica che Hegel ci consegna nella società civile sia di grande significato: è nel suo pensiero filosofico-sociale, infatti, che troviamo per la prima volta dispiegata l’idea che la totalità sociale capitalistica, in quanto inscritta nelle categorie della teoria della riflessione, produce forme fenomeniche che dissimulano la sua essenza. Le prime forme, e cioè la circolazione mercantile segnata dalla “mano invisibile” etc., in cui la società civile si manifesta sono, come s’è detto, suscettibili di essere interpretate solo tramite il concetto di “parvenza”, cioè attraverso qualcosa la cui più intima natura è di dileguare. Solo procedendo verso il lavoro, la divisione sociale del lavoro e il capitale sociale generale, l’essenza della società civile troverà forme di manifestazione a sé più corrispondenti. La “parvenza” sociale viene così rovesciata: la riflessione permette quella inversione delle forme di organizzazione del fenomeno, quella defeticizzazione del reale, che, come abbiamo detto sopra, la teoria critica ha sempre, nei suoi momenti storicamente più alti, tentato di conseguire. È perché insegna a corrodere tutte le forme della “parvenza” sociale che il pensiero filosofico di Hegel rimane ancora fondamentale per lo sviluppo della teoria critica della società.


  1. J. L. Nancy, L’inquietudine del negativo, trad. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 1998, p. 33.
  2. Lo snodo principale nella trasformazione “naturalistica” del programma della teoria critica è in Habermas Conoscenza e interesse, trad. it. di G. E. Rusconi, Laterza, Roma-Bari 1970
  3. Cfr. su ciò A. Massolo, Il primo Schelling, Sansoni, Firenze 1953, pp. 21-22.
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