Rileggendo Marx: nuovi testi e nuove prospettive

Download

Michael Heinrich*

Hochschule für Technik und Wirtschaft Berlin
Michael.Heinrich@HTW-Berlin.de

 
 
Permettetemi di iniziare con un’osservazione personale sulla mia lettura de Il capitale. Sono circa 43 anni che leggo Il capitale, e devo dire che non mi sono ancora annoiato. Leggerlo è come compiere un avventuroso viaggio intellettuale, ma per godere appieno di quest’esperienza è richiesto un tipo di impegno diverso da quello a cui ci ha ormai abituato il sistema universitario europeo, per il quale «leggere» significa solamente individuare in maniera grossolana alcune delle tesi principali esposte in un’opera.

Leggere Il capitale significa comprenderne la struttura argomentativa, i diversi livelli di astrazione e, non da ultimo, per un autore come Marx, riconoscere il ruolo giocato dalle metafore all’interno del testo. Marx non ha utilizzato come fonti solo economisti, ma anche filosofi, teologi, e scrittori come Shakespeare e Goethe. Non si tratta solo di abbellimenti destinati al pubblico più colto: molte di queste metafore sono cruciali per comprendere i ragionamenti marxiani.

Di seguito, parlerò in primo luogo di una nuova interpretazione di Marx, e poi di alcuni nuovi testi e intuizioni che potremmo ricavare dalla nuova MEGA.
 
 
1. Le vecchie interpretazioni
 
Se si parla di nuove interpretazioni, devono certamente essercene di vecchie. Le vecchie interpretazioni che ho in mente, sono le letture de Il capitale dominanti nella prima metà del XX secolo. Queste vecchie letture dipendevano dall’intera situazione politico-sociale, dallo stato delle lotte di classe e così via, ma mi limiterò a circoscrivere tre delle caratteristiche che le hanno contraddistinte.

Anzitutto, quando parliamo de Il capitale abbiamo in mente i tre volumi, ma l’influenza del primo volume è sempre stata preponderante, essendo esso apparso con quasi trent’anni di anticipo sul terzo. Il primo volume venne accolto come un’analisi della produzione capitalistica, il secondo come una semplice appendice e del terzo furono presi in considerazione solo alcuni singoli punti che sembravano interessanti. Raramente fu riconosciuta la connessione sistematica che lega i tre volumi.

Il secondo aspetto che mi preme sottolineare è che si parla di tre volumi de Il capitale quando, in realtà, Marx ne prevedeva quattro. Il quarto volume avrebbe dovuto essere una storia delle teorie economiche. Ciò che spesso si è preso come un sostituto del volume mancante sono le Teorie sul plusvalore, che tuttavia non compensano affatto l’assenza di una storia della teoria. In primo luogo, le Teorie sul plusvalore si occupano principalmente di una sola categoria, il «plusvalore»; in secondo luogo, le Teorie sul plusvalore attengono al processo di formazione delle idee di Marx: sono più il registro di un’attività di ricerca sulle categorie economiche, che una presentazione della storia delle dottrine economiche, la quale si dovrebbe basare su una compiuta comprensione delle suddette categorie. Mancandoci per certo questo quarto volume, ci manca anche il punto di vista conclusivo di Marx in merito ai classici, per sottolineare le differenze tra il suo e il loro pensiero. Naturalmente possiamo trovare molte osservazioni a riguardo ne Il capitale, e possiamo ricostruire queste differenze, ma penso che la mancanza di una presentazione di Marx stesso abbia avuto profonde conseguenze sul dibattito posteriore.

Il terzo punto è forse il più importante. Finora è stato trascurato quanto la nascita delle teorie dell’utilità marginale abbia influenzato la ricezione de Il capitale, subito dopo la comparsa del primo volume. Marx ha dato a Il capitale il sottotitolo di Critica dell’economia politica e l’obiettivo polemico di questa critica era l’economia politica classica: Adam Smith, David Ricardo e simili. La sua stessa teoria del valore – Marx non ha mai utilizzato l’espressione «teoria del valore-lavoro», ha sempre parlato di «teoria del valore» dovrebbe essere intesa come una critica della teoria del valore dei classici. Dopo l’ascesa della teoria dell’utilità marginale alla fine del XIX secolo, è emersa una nuova linea di demarcazione tra la teoria del valore-lavoro da un lato e la teoria del valore fondata sull’utilità marginale dall’altro. Poiché anche Marx, come la scuola classica, sottolinea la connessione tra valore e lavoro, la posizione di Marx è stata spesso considerata come una variante particolare dell’economia classica. Questa era l’opinione diffusa tra gli economisti borghesi, e tuttavia anche molti marxisti accettarono questo punto di vista, sostenendo il carattere scientifico non solo della teoria di Marx, ma anche dell’economia politica classica in contrasto con la teoria neoclassica – la quale venne considerata come una sorta di versione «volgare» dell’economia borghese.

La differenza tra Marx e gli autori borghesi è stata in buona sostanza ignorata, e questo ha condizionato il dibattito in maniera così forte che la teoria economica di Marx è stata frequentemente considerata come una variante alternativa dell’economia ricardiana: una variante migliorata, ma pur sempre una variante. L’opinione generale sulla teoria di Marx era che il processo di produzione determina il valore e che denaro e credito non sono altro che una mera appendice della produzione capitalistica di merci. La produzione capitalistica è già di per sé il contenuto “essenziale” che deve essere compreso, mentre denaro e credito non hanno grande importanza teorica. In modo corrispondente la teoria della crisi si basava soltanto sullo stato della produzione capitalistica.

Queste opinioni hanno regnato incontrastate nella prima metà del XX secolo, influenzando così anche le prospettive sul socialismo e il comunismo. Il socialismo venne visto come il risultato necessario della contraddizione tra la produzione capitalistica privata (con l’accento di nuovo posto sulla produzione) e la natura sociale della produzione, ma, allo stesso tempo, nonostante fosse la forma privata della produzione capitalistica a dover essere abolita, si fece davvero poco per metterla in discussione, tanto è vero che ciò che dopo venne chiamato socialismo in Unione Sovietica ebbe molte caratteristiche in comune con forme di produzione schiettamente capitalistiche.
 
 
2. Le nuove interpretazioni
 
A partire dagli anni Sessanta fanno la loro comparsa, specialmente in alcuni paesi europei, diverse nuove interpretazioni de Il capitale: in Francia la scuola fondata da Louis Althusser ed Étienne Balibar, in Italia l’operaismo di Mario Tronti, e nella Germania Ovest quella che è stata poi definita «Neue Marx-Lektüre» – la nuova corrente esegetica inaugurata da Hans-Georg Backhaus e Helmut Reichelt. Poco dopo anche nel mondo anglosassone si sviluppò un nuovo modo di leggere Il capitale e, tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, anche nella DDR e in Unione Sovietica, in concomitanza con la pubblicazione della nuova MEGA, sorse una specie di nuovo filone interpretativo. Tutti questi tentativi portarono a una comprensione sempre più profonda dell’opera di Marx.

Vorrei concentrarmi sulla Neue Marx-Lektüre e sottolineare alcune delle sue caratteristiche principali. Dalla fine degli anni Sessanta, nel corso del dibattito tedesco occidentale, si è sostenuto che – contrariamente a quanto affermavano le vecchie letture – non è possibile parlare di una sorta di “economia marxista” che altro non sarebbe se non una versione alternativa della scienza economica. Si è invece sottolineato come Marx avesse fornito una critica delle categorie fondamentali dell’economia borghese e non solamente dei suoi risultati. Quel che Marx chiama «critica dell’economia politica» non è semplicemente una critica di specifiche teorie, ma dell’intero paradigma della scienza economica borghese. Una critica che comincia già con l’esposizione delle stesse categorie fondamentali di «merce», «valore», «denaro». In questo contesto, la teoria del valore-lavoro non fu più vista principalmente come uno strumento per spiegare le relazioni tra i prezzi, ma piuttosto come una teoria su come si costituisca una società di produttori privati, su come sia possibile che – in una società in cui ciascuno dipende da tutti gli altri, attraverso la divisione del lavoro – la produzione si organizzi su base privata e i produttori si comportino come tanti Robinson Crusoe solitari.

Nel dibattito tedesco, due concetti, che fino ad allora erano stati trascurati, divennero molto importanti. Il primo era il concetto di «feticismo»: feticismo inteso non solo come feticismo delle merci – qualcosa che era già noto a partire dagli studi di Lukács degli anni Venti – ma anche come feticismo del denaro e feticismo del capitale – collegato a ciò che Marx chiamava mistificazione – ai quali si vanno ad aggiungere la mistificazione del valore della forza lavoro come valore del lavoro e la mistificazione della rendita fondiaria. Tutte queste mistificazioni si congiungono, alla fine del terzo volume, in quella che Marx chiamava la «formula trinitaria». Questo significa che non si deve isolare il primo volume de Il capitale dagli altri due, come invece è accaduto per lungo tempo. È necessario leggere i tre volumi insieme, solo così è possibile cogliere la vera importanza di una nozione come il «feticismo».

Il secondo importante concetto che riaffiorò dalle nuove letture tedesche di Marx era la «forma di valore». Le interpretazioni classiche si erano incentrate principalmente sul lavoro come contenuto del valore, sul valore come determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario. Ma sebbene tutto ciò sia vero e non vada trascurato, quando si apre il primo volume de Il capitale e si osserva il primo capitolo, il più ampio dei suoi quattro paragrafi è il numero tre: quello sulla forma di valore. Proprio questo paragrafo fu a lungo ignorato e considerato come una sorta di sintesi del processo storico da cui è emerso il denaro. Eppure, il paragrafo sulla forma di valore non ha nulla a che fare con un tale processo storico, è un capitolo sul rapporto che intercorre tra le categorie di un’economia capitalista. La questione, infatti, è la seguente: perché la categoria «valore» rende necessaria l’apparenza di una forma di valore autonoma? E, inoltre, perché questa forma di valore indipendente deve apparire sotto forma di denaro?

Nel primo capitolo notiamo unicamente la necessità strutturale della forma denaro, e il denaro riappare nel secondo capitolo, come risultato dell’azione dei proprietari di merci. All’interno del dibattito tedesco era molto importante distinguere l’analisi della forma – l’analisi delle forme economiche – dall’analisi dell’azione economica. Ogni teoria economica borghese, infatti, parte dall’azione dell’homo oeconomicus e presuppone una qualche razionalità. Nell’approccio marxiano, orientato alla forma, la razionalità dei proprietari di merci non è una sorta di razionalità naturale, come nelle teorizzazioni borghesi: è invece il risultato di una certa forma economica entro la quale vivono gli agenti.

Un terzo concetto molto importante per il dibattito tedesco – ne parlo qui solamente di passaggio – è stato quello di «capitale» in quanto sistema sociale di dominio impersonale. Il dominio impersonale, specifico del modo di produzione capitalistico, è profondamente diverso dal dominio personale presente in tutte le società precapitalistiche. Torneremo più avanti su questi tre punti.

La mia chiave interpretativa de Il capitale affonda le sue radici nella Neue Marx-Lektüre, sebbene io me ne discosti su alcuni punti. Nel dibattito tedesco, è stato riconosciuto che non è possibile considerare Il capitale un progetto finito e completo. Secondo un’espressione in voga negli anni Settanta, occorreva «ricostruire la logica de Il capitale» a partire sia dai suoi manoscritti preparatori, sia da manoscritti come i Grundrisse. Dubito fortemente che una tale opera di ricostruzione sia davvero possibile. Attraverso il mio lavoro ho cercato di dimostrare che ne Il capitale possiamo trovare profonde ambiguità anche in categorie base come «valore» e «merce», quindi non c’è proprio niente da ricostruire: non esiste un nucleo nascosto che possiamo, alla stregua di cercatori di tesori, estrapolare da tutto il resto. Queste ambiguità non possono essere ignorate, e, secondo la mia opinione, sono radicate nel fatto che, ne Il capitale, possiamo trovare due differenti “discorsi” che si intersecano costantemente: il discorso di una rivoluzione scientifica, che opera una rottura con il campo dell’economia classica, e un discorso invece ancora intrappolato in quel campo. Questi due discorsi non sono semplicemente paralleli o successivi, bensì intrecciati, e producono problemi specifici. È, per esempio, da questo intreccio che, a mio vedere, emerge il celebre problema della trasformazione.
 
 
3. La nuova MEGA
 
Ora vorrei passare alla nuova MEGA, la MEGA2, che, soprattutto per quanto concerne le discussioni in Germania, ha reso possibile grandi passi avanti. Devo dire che tutto ciò che ho scritto su Marx negli ultimi quarant’anni non sarebbe stato possibile senza di essa. MEGA2, grazie alla sua sempre più ampia diffusione a livello mondiale, ha permesso la pubblicazione di nuove edizioni de Il capitale. Esempio di ciò sono le nuove traduzioni apparse in Grecia, in Italia (per mano di Roberto Fineschi), in Brasile, in Slovenia e così via: tutte hanno utilizzato i nuovi testi pubblicati nella MEGA2. La caratteristica più importante della MEGA2 è che si tratta di un’edizione storico-critica. Ciò significa che la MEGA2 non ha la pretesa di presentare un testo quasi finito a partire da alcune bozze: quando si hanno solo bozze, un testo finito non esiste. Quello che la MEGA2 si impegna a fare è presentare lo sviluppo dei testi. Ogni volume ha infatti un apparato contenente tutte le variazioni e le correzioni emerse durante il processo di scrittura.

Ma quali sono i risultati raggiunti dalla MEGA2 per quel che riguarda Il capitale? Dalle discussioni degli ultimi anni sono state approfondite soprattutto due problematiche. La prima riguarda la relazione intercorsa tra Marx come autore ed Engels come curatore. Ora che abbiamo i manoscritti originali di Marx per i volumi II e III de Il capitale, sappiamo che molti sono stati gli interventi compiuti da Engels al fine di agevolarne la comprensione e la leggibilità, modificando, talvolta, la struttura stessa del testo originale. Ad esempio, se si prende in mano la classica edizione del terzo volume, la maggior parte dei titoli dei capitoli e dei sottocapitoli sono stati ideati da Engels. Anche la divisione tra alcuni capitoli e sottocapitoli è stata fatta da Engels, il quale ha, in alcuni casi, rimosso diverse parti del testo, alterato la struttura interna dei capitoli e cambiato molte formulazioni. Non c’è quasi nessuna frase che non abbia subito almeno qualche piccola modifica da parte di Engels, e, sebbene la maggior parte di queste modifiche abbia effettivamente migliorato di molto l’intelligibilità del testo, in alcuni casi, esse ne hanno anche profondamente alterato il significato.

Il secondo punto riguarda invece l’idea stessa con cui la MEGA2 ha avuto inizio, secondo la quale ci sono tre bozze de Il capitale: i Grundrisse 1857-1858, il Manoscritto del 1861-1863 – con le Teorie del plusvalore come sua parte – e il Manoscritto del 1863-1865. Dopodiché inizia la stesura de Il capitale, portando alla pubblicazione dei tre volumi redatti da Marx ed Engels. Credo che questa congettura si sia dimostrata sbagliata. Non abbiamo, semplicemente, Il capitale e tre bozze databili a partire dal 1857, ma dobbiamo distinguere due progetti principali. Il primo, il progetto di una critica dell’economia politica in sei libri (1857-1863) con il testo de Il capitale concentrato intorno al concetto di «capitale in generale» contrapposto alla competizione tra i molti capitali. Il secondo, il progetto in quattro volumi de Il capitale (1863-1881), non più legato al piano dei sei libri e soprattutto non più connesso al concetto di «capitale in generale». Marx abbandona il concetto di «capitale in generale» dopo il 1863. Esso non appare più nei manoscritti, nelle lettere o in nessun testo pubblicato. Secondo la mia opinione, esso è stato rimpiazzato dall’analisi della relazione tra il capitale individuale (individuelles Kapital) e il capitale sociale totale (gesellschaftliches Gesamtkapital) su differenti livelli di astrazione, cosicché non esiste soltanto una divisione tra capitale individuale e capitale sociale totale, ma diverse divisioni a diversi gradi di astrazione.

Fin qui ho parlato solamente delle conseguenze del rapporto Marx-Engels e dello sviluppo dei testi, ora vorrei riportare anche alcune prospettive riguardanti il contenuto della teoria che possiamo ricavare dalla MEGA2.

Una di queste è importante e riguarda la teoria del valore. Nel 1887 venne pubblicato per la prima volta il manoscritto del 1871-1872, in cui Marx rielaborava la prima sezione in vista della seconda edizione de Il capitale. Si tratta di un manoscritto molto importante per una più profonda comprensione della teoria del valore. In primo luogo, esso mostra con quanta meticolosità Marx abbia rielaborato l’esposizione ella teoria del valore. Inoltre, in quattro pagine di questo manoscritto possiamo trovare una sorta di “auto-commento” di Marx, possiamo osservare il Marx lettore di Marx. Marx riconosce che la propria presentazione del valore nelle prime pagine della prima edizione era fuorviante, in quanto si poteva avere l’impressione che il valore fosse un attributo di una singola merce. In questo manoscritto di rielaborazione Marx afferma molto chiaramente che non si può nemmeno parlare di una singola merce: «Un prodotto del lavoro considerato per sé, isolatamente, non è dunque valore, quanto non è merce. Esso diventa valore solo nella sua unità con altri prodotti del lavoro, ovvero nel rapporto in cui prodotti del lavoro diversi, come cristalli della stessa unità di lavoro umano, sono reciprocamente posti uguali» (Marx 2011b, 1158).

Dove avviene questa equiparazione? Può aver luogo solo nello scambio, e ciò significa che senza scambio non possiamo parlare né di merce né di valore. Il valore non è solo il risultato della produzione capitalistica: è il risultato della produzione e dello scambio capitalistici, come è affermato molto chiaramente in questo manoscritto di revisione, molto più chiaramente che in qualsiasi altro luogo di Marx che io conosca.

La riflessione contenuta nel Manoscritto 1871-1872 ha influenzato il testo della seconda edizione de Il capitale. Marx introdusse alcune modifiche. Per esempio, nella sezione sul feticismo c’è un famoso paragrafo in cui si dice che solo quando i prodotti sono scambiati acquistano un valore oggettivo. Prima dello scambio, ovviamente, questo valore oggettivo non esiste se non nella testa dei produttori, che producono perché vogliono produrre valore. Solo attraverso lo scambio si verifica l’esistenza oggettiva del valore (cfr. Marx 2011a, 84). Questa aggiunta è frutto del lavoro di emendazione.

Se uno degli argomenti su cui possiamo imparare molto attraverso la nuova edizione è la teoria del valore, un altro è senza dubbio la teoria della crisi, sulla quale non intendo qui dilungarmi. Quando si discute la teoria della crisi di Marx, quali testi vengono utilizzati? Di solito si utilizzano il terzo libro de Il capitale e le Teorie sul plusvalore. Il terzo volume si basa sul manoscritto degli anni 1864-1865; le Teorie sul plusvalore, invece, sono state scritte tra il 1861 e il 1863. Tuttavia, Marx continuò a lavorare sulla teoria della crisi anche dopo il 1865. Già nel 1866, infatti, in Gran Bretagna scoppiò una crisi che fece cambiare, in una certa misura, il punto di vista di Marx sulla teoria. Fino ad allora, Marx aveva sempre considerato le crisi finanziarie come una sorta di epifenomeno di ciò che accadeva a livello essenziale nella produzione, e quella fu la prima volta in cui si rese invece conto di trovarsi di fronte a una crisi finanziaria, la quale, solo in seguito, aveva contagiato il settore produttivo. Dopo aver appreso che esisteva anche questa possibilità, Marx iniziò a trascrivere numerosi brani sulla finanza e sul mercato monetario, brani finora inediti che appariranno nella sezione quarta della MEGA2. Grazie ad essi sappiamo che l’attività di ricerca di Marx sulla crisi non si arrestò nel 1865, come vorrebbe la lettura tradizionale, ferma ai manoscritti di quell’anno.

L’ultima questione che vorrei ricordare, sulla quale i testi della MEGA2 sono in grado di dirci molto, riguarda la validità della famosa «legge della caduta tendenziale del saggio di profitto». Si è discusso molto sul se questa legge possa essere realmente provata, se Marx sia riuscito a darne prova, e se, in caso contrario, sia possibile apportarvi qualche modifica. Ho anche pubblicato su questo argomento. Personalmente ho grandi dubbi, e penso che la validità di questa legge non possa esser data per scontata. Ad ogni modo, dalla MEGA2 possiamo apprendere almeno che ci sono alcuni indizi del fatto che Marx stesso dubitasse della validità di questa legge.

Per prima cosa, l’ultima volta che Marx menzionò la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto fu nel 1868, in una lettera ad Engels, nella quale forniva una panoramica generale del terzo libro, ma, in tutte le discussioni sulla crisi degli anni Settanta del XIX secolo, nelle sue lettere e nei suoi manoscritti, egli non farà mai più riferimento a questa legge.

Secondo, dopo il 1867 Marx scrisse alcuni brevi autografi in cui fece calcoli sul rapporto tra tasso di plusvalore e tasso di profitto, e nel 1875 emerse anche un corposo manoscritto con molti esempi matematici. In questo manoscritto, diventa piuttosto evidente che, anche assumendo con Marx una crescita della composizione organica [del capitale], una caduta del saggio di profitto non seguirebbe necessariamente.

Come terzo indizio, abbiamo un’annotazione, ampiamente trascurata nei dibattiti, inserita a mano da Marx nella sua copia della seconda edizione del primo volume (Engels riproduce questa osservazione come nota a piè pagina, si veda Marx, 2011a, 696-697, n. 77c). Nella nota, Marx dichiara che il capitale con una composizione organica maggiore otterrebbe un maggiore tasso di profitto[1]: esattamente il contrario di quanto affermato nel terzo volume de Il capitale, nel 1865.
 
 
4. L’attualità de “Il capitale” di Marx
 
Possiamo a questo punto volgerci a considerare più in dettaglio l’attualità de Il capitale. Molti critici sostengono che forse nel XIX secolo poteva anche essere un libro interessante, ma che, da allora, l’economia è cambiata così profondamente che non possiamo più imparare granché dalla sua lettura. Una simile critica conduce alla seguente domanda: quale è l’oggetto d’indagine de Il capitale? È il capitalismo britannico di metà XIX secolo? Se così fosse allora sarebbe vero che Il capitale è ormai un testo superato, una sorta di reperto storico. Tuttavia, Marx nella sua Prefazione all’edizione del 1867 afferma che gli esempi che ha preso dall’Inghilterra dovrebbero solo illustrare lo svolgimento della sua teoria e che l’oggetto de Il capitale non è l’evoluzione del capitalismo, i suoi stadi, più o meno avanzati, ma le leggi che vi si celano dietro (cfr. Marx 2011a, 10).

Nel manoscritto per il terzo libro de Il capitale, scritto due anni prima di questa Prefazione, Marx utilizza una felice espressione per caratterizzare il suo progetto, affermando di voler presentare ne Il capitale il modo di produzione capitalistico nella sua «media ideale» (Marx 2013, 1025). Che cosa significa «media ideale»? Qualcosa che non si deve confondere con una media empirica: Marx non ha confrontato paesi con un capitalismo avanzato per la sua epoca – come Inghilterra, Francia e Germania – per poi raccoglierne i tratti comuni. Questa sarebbe una media empirica. Ciò che Marx aveva intenzione di presentare era una media ideale: ciò che appartiene di necessità al capitalismo, le sue dinamiche di base. Se viviamo ancora oggi nel capitalismo, e se Marx è riuscito almeno in parte ad analizzare questa media ideale, allora Il capitale è ancora un testo importante. Proprio a causa di questo suo livello di astrazione molto alto, dovuto al fatto che Marx non tentò di offrirci una rappresentazione del capitalismo britannico a lui contemporaneo, ma tentò di tratteggiare questa media ideale, Il capitale risulta oggi ancora utile.

Ad ogni modo, questo aspetto positivo de Il capitale presenta anche i suoi svantaggi, visto che, per questo suo alto grado di astrazione, non è in grado di spiegare i dettagli empirici di quanto accade oggi. La maniera in cui il capitale si manifesta empiricamente è chiaramente mutata nel corso degli ultimi 150 anni, e inoltre esistono diverse differenze regionali: il capitalismo dell’America Latina non è uguale a quello dell’Europa occidentale o del Nord America. Per cogliere tutte queste differenze e manifestazioni empiriche non basta Il capitale di Marx, abbiamo bisogno di condurre una nostra indagine su queste differenze, ma Il capitale è perlomeno in grado di fornirci gli strumenti di base per portare avanti una simile indagine. Adesso delineerò alcune caratteristiche del modo in cui Marx ha analizzato questa media ideale.
 
 
5. Ancora sulla critica dell’economia politica
 
Ho già sottolineato come la critica dell’economia politica miri alla critica di un’intera scienza. Ciò significa non semplicemente criticare alcuni risultati di questa scienza, ma soprattutto mettere in discussione le categorie di base e il genere di domande che pone. Possiamo trovarne un buon esempio nel primo capitolo de Il capitale, dove Marx tratta della connessione tra valore economico e lavoro. Marx ammette che la scuola classica di Adam Smith e David Ricardo ha già scoperto che il contenuto del valore è il lavoro umano e non critica questo risultato. Critica il fatto che gli autori classici non si siano chiesti perché il lavoro assuma la forma di valore e perché il tempo di lavoro impiegato assuma la forma della grandezza di valore (Marx 2011a, 92). Marx critica l’assenza di una domanda. Perché quest’assenza è così cruciale? Mancando questa domanda, la differenza tra forme economiche che possiamo trovare in tutte le società umane e forme sociali specifiche, che possiamo trovare solo in determinate società, risulta confusa. Adam Smith, per esempio, vede nella produzione di merci la differenza che intercorre tra l’essere umano e l’animale. Mentre gli uomini producono merci e si scambiano merci, nessun animale è stato mai osservato commerciare qualcosa. Implicitamente, produzione e scambio di merci vengono da Smith considerati come una sorta di forma sociale naturale degli esseri umani, Marx, invece, vede la produzione di merci come una specifica forma storica e sociale di produzione. Questa differenza ha conseguenze politiche: quando vuoi cambiare la società, puoi, ovviamente, cambiare solo ciò che viene prodotto come forma sociale specifica. Quando qualcosa è una forma naturale necessaria all’uomo, come, ad esempio, la produzione di cibo, non può essere abolita. Ma il fatto che la produzione di cibo assume la specifica forma sociale della produzione di merci, può ben essere modificato. Il fatto che questa distinzione tra forma naturale e forma sociale specifica non sia stata fornita dall’economia politica classica, non è il risultato di un errore individuale, di un limite personale di Adam Smith o David Ricardo.

Marx cercò di dimostrare che la produzione capitalistica di merci – ossia la forma di produzione di merci più avanzata – contiene un certo grado di feticismo. Il feticismo come inteso da Marx non è da confondere con il feticismo nel significato datogli da Sigmund Freud, il feticismo come ossessione. Nel XIX secolo con «feticismo» ci si riferiva ad alcune religioni cosiddette primitive, secondo le quali determinati prodotti di legno o di cuoio erano in grado di esercitare un potere magico a cui ci si doveva sottomettere. È un feticismo di questo genere quello che Marx vede all’opera nella produzione capitalistica di merci. Le merci dall’essere un nostro prodotto divengono autonome: i produttori non entrano in relazione tra loro direttamente, ma soltanto attraverso le merci e la loro proprietà oggettiva, il valore. Sono le relazioni di scambio ad essere importanti, non io o l’altro in quanto produttori. Sotto le condizioni della produzione di merci, siamo noi ad essere dominati dalle nostre produzioni. Marx dimostrò come anche società capitalistiche apparentemente illuminate, che ritengono di aver compiuto enormi progressi rispetto alle società dette primitive, sono affette da feticismo.

In termini contemporanei, potremmo dire che la critica marxiana dell’economia politica, ossia la critica della scienza economica in quanto tale, conduce a una critica epistemologica del sapere nella società moderna. Il feticismo che Marx ha rivelato non è una forma di ideologia, e nemmeno di manipolazione. Marx lo ha definito come «forma oggettuale di una cosa» (Marx 2011a, I, 93): la forma oggettuale di una cosa prodotta dalla struttura sociale di produzione di merci.

Altra questione: nella Prefazione al primo volume de Il capitale del 1867, Marx scrive che le figure del capitalista e del proprietario terriero non emergono molto positivamente dalla sua rappresentazione, ma che il vero oggetto della sua ricerca non è costituito dagli individui, i quali contano unicamente in quanto personificazioni di categorie economiche (Marx 2011a, 12). Ciò è molto importante per comprendere il metodo adottato da Marx. C’è una differenza fondamentale rispetto all’impostazione adottata dall’economia moderna, e in particolar modo da quella neoclassica. I neoclassici e gran parte della sociologia moderna seguono quello che oggi si chiama «individualismo metodologico»: si ragiona partendo dal singolo individuo e dai suoi attributi e si suppone che attraverso l’interazione tra gli individui si producano tutte le strutture sociali. Marx afferma il contrario: egli considera gli individui nella società capitalistica come personificazioni di categorie economiche, che seguono una certa razionalità imposta loro dalle categorie che rappresentano. Mediante il loro comportamento, guidato da questa razionalità, gli individui riproducono la struttura sociale data.

Questa impostazione metodologica ha profonde conseguenze sul modo di esposizione: il primo capitolo de Il capitale, volume I, ha come titolo «La merce». Permette di imparare molto in merito alle determinazioni formali della merce: la merce è una peculiare forma sociale del prodotto del lavoro: ha un valore d’uso e un valore di scambio. Questo suo doppio carattere dipende dal doppio carattere del lavoro che produce la merce, e così via. Tuttavia, in questo capitolo nulla viene detto in merito al proprietario della merce, e si dovrà attendere il secondo capitolo, intitolato Il processo di scambio, affinché la figura del proprietario finalmente si palesi. La prima frase del secondo capitolo è molto famosa: «Da sole, le merci non sono capaci né di andare al mercato né di
scambiarsi. Ci dobbiamo rivolgere quindi ai loro tutori, i possessori di merci
» (Marx 2011a, 97). Solo nel secondo capitolo sono analizzate le azioni degli individui, e in ogni caso queste azioni si svolgono all’interno della cornice delle determinazioni formali analizzate nel primo capitolo. Ciò che si legge nella Prefazione è solo un’anticipazione astratta: gli individui sono la personificazione di determinate categorie economiche. Se ciò è vero, allora deve essere possibile analizzare le determinazioni formali economiche senza riferirsi alle azioni dei singoli individui. Inoltre, dovrebbe essere possibile dimostrare che la struttura di base delle azioni individuali non è altro che il risultato delle forme economiche già analizzate. Quanto ho appena detto ha conseguenze enormi, che spesso vengono fraintese. Per esempio, il denaro gioca un ruolo molto importante sia nel primo che nel secondo capitolo, e alcuni lettori potrebbero per questo pensare che si tratti di una semplice ripetizione. Si tratta, tuttavia, di una impressione erronea. Il primo capitolo tratta della necessità della forma denaro, cioè del fatto che il valore ha bisogno di una forma indipendente e generale. Il secondo capitolo tratta del denaro reale e mostra che il denaro reale è il risultato necessario delle azioni dei proprietari che agiscono sotto le determinazioni formali della merce.

Possiamo trovare la medesima struttura argomentativa anche in altre parti del testo, come ad esempio nel capitolo quattro, dove Marx introduce la categoria di «capitale». Solo dopo aver analizzato le determinazioni formali del movimento D – M – D’, Marx passa a considerare la figura del capitalista. In che modo? Il capitalista non viene descritto come il proprietario del capitale. La proprietà è di secondaria importanza. Il capitalista viene piuttosto descritto come il «portatore cosciente» del movimento di capitale, come la persona che assume come scopo soggettivo lo scopo oggettivo della valorizzazione del capitale (Marx 2011a, 169). Cosa sia un capitalista dipende dal capitale, e non da qualificazioni soggettive, come ad esempio, l’avidità.

Tutto ciò determina importanti conseguenze politiche, come era già stato per il feticismo. Una volta comprese le determinazioni formali della produzione capitalistica di merci, capiamo che la critica politica del modo di produzione capitalistico non può essere svolta come una critica dei capitalisti, ma deve essere portata avanti come una critica del capitale in quanto tale. La critica di Marx non è una critica degli individui, è una critica delle strutture. Quando si vuole cambiare qualcosa a livello fondamentale, non basta sostituire le persone, per cui, diciamo, al posto dei proprietari privati poniamo un proprietario statale o collettivo. Occorre cambiare la logica stessa della produzione capitalistica, indipendentemente da chi se ne ritrova al vertice. Ciò che all’inizio sembrava estremamente astratto ha invece implicazioni politiche dirette.
 
 
6. Sfruttamento e dominio di classe: quale è il carattere specifico della produzione capitalistica?
 
È ampiamente riconosciuto che ne Il capitale Marx analizza il dominio della classe capitalista e lo sfruttamento dei lavoratori. Lo sfruttamento e il dominio di classe esistono in ogni società di classe: così come è esistito lo schiavismo nell’antica società greca, è esistito il servaggio nella società medievale ed esistono classi e sfruttamento nella società capitalistica. Non è tanto interessante che lo sfruttamento e il dominio di classe esistano, quanto quali siano le forme specifiche che essi assumono nella moderna società capitalista. È una specificità della società moderna post-feudale il fatto che non esistano, di norma, forme di dipendenza personale come quella istituita attraverso la schiavitù, nella quale lo schiavo è di proprietà del padrone. Nell’era moderna, solitamente, all’interno di una società capitalistica le persone sono considerate cittadini giuridicamente liberi e uguali. Sappiamo che il capitalismo si è servito anche della schiavitù – negli Stati Uniti è stata abolita solo a metà del XIX secolo – ma, per quanto possa farne uso, non ne è dipendente: il capitalismo può sopravvivere senza schiavitù. Ciò fa sorgere la seguente domanda: come sono possibili lo sfruttamento e il dominio di classe in una società in cui i cittadini sono liberi e uguali? Un sostenitore del libero mercato potrebbe rispondere che, quando le persone sono giuridicamente libere e uguali, questo dimostra già di per sé che non può esistere né sfruttamento né dominio di classe.

Al contrario, Marx ne Il capitale tenta di dimostrare che la dipendenza personale e il dominio personale sono stati sostituiti da una forma di dominazione impersonale e anonima. Cosa significa tutto ciò? Guardiamo alla sua analisi dello sfruttamento. I lavoratori sono liberi e uguali. Il singolo lavoratore o la singola lavoratrice stipulano con il capitalista un contratto, con il quale vendono la propria forza-lavoro come merce. Quando questa merce viene venduta al suo valore, come è possibile lo sfruttamento? Marx insiste sul fatto che il lavoratore non vende lavoro: il lavoro non è affatto una merce, ma un determinato processo. Il lavoratore vende la propria forza-lavoro. La forza-lavoro è una merce molto speciale, una merce che ha bisogno di certe condizioni storiche per esistere. Affinché la forza-lavoro sia vendibile come merce è necessario, da un lato, che il lavoratore sia libero in senso giuridico e che, dall’altro, sia libero anche in senso materiale, cioè privo di ogni mezzo di consumo e di ogni mezzo di produzione. A causa di tutto ciò, il lavoratore libero, mosso dalla pressione di queste specifiche condizioni sociali, è costretto a vendere l’unica cosa di cui dispone: la propria forza-lavoro. Il lavoratore in quanto libero cittadino è costretto a sottomettersi allo sfruttamento esercitato dal capitale, non a causa di una dipendenza personale, ma grazie al dominio impersonale delle condizioni storiche.

Lo stesso discorso, d’altra parte, può essere applicato anche ai capitalisti. I capitalisti secondo Marx costituiscono la classe dominante, ma pur essendo classe dominante, sono essi stessi sottoposti a un dominio di tipo impersonale: i capitalisti sono governati dalla forza della concorrenza. Devono massimizzare i profitti non perché sono avidi. L’avidità può essere una loro caratteristica aggiuntiva, e forse ci sono capitalisti avidi, ma non è questo il punto principale. Anche nel caso in cui un capitalista non fosse affatto avido, anche nel caso in cui avesse studiato approfonditamente Marx, se volesse sopravvivere in quanto capitalista dovrebbe comunque cercare di massimizzare i profitti, per non essere distrutto nella competizione. I membri della classe dominante non sono liberi nell’esercizio del loro dominio: devono seguire una certa logica del sistema. A ogni modo, la logica favorisce la loro classe. Quando il processo di produzione capitalistico procede senza intoppi, i lavoratori ne escono esattamente come sono entrati: «doppiamente liberi». Giuridicamente e politicamente liberi, ma necessitati materialmente a vendere la propria forza lavoro. I capitalisti, invece, escono dal processo con più denaro e con la possibilità di acquistare ulteriore forza-lavoro.

Se si vuole cambiare qualcosa nella società capitalistica non basta riconoscere che essa è caratterizzata da sfruttamento e dominio di classe, è necessario riconoscere quale sia la specificità del dominio e dello sfruttamento moderni.

In sintesi, possiamo affermare che Il capitale è molto più di un’opera economica, nel senso attuale del termine: esso ci offre una teoria della società moderna e delle forme moderne di dominio. È questo modello analitico che rende Il capitale un’opera veramente importante per lo studio della contemporaneità, come ho affermato all’inizio.
 
 
7. Ricezione incompleta, costruzione incompleta
 
Fin qui è stata la parte celebrativa del mio intervento, e forse mi chiamerete dogmatico. Effettivamente, io sono un allievo molto dogmatico di Marx. Nella Prefazione del 1867 si legge: «sarà per me benvenuto ogni giudizio di critica scientifica» (Marx 2011a, 13). Se Marx ha chiesto delle critiche scientifiche, è opportuno che ne riceva un po’.

Per prima cosa, è da sottolineare il fatto che nel 1867 apparve solo il primo volume de Il capitale e che questo volume continua a dominare ancora oggi sulla percezione dell’intera opera. Ci sono ancora persone che dicono: «ho letto Il capitale di Marx», sarebbe a dire: «ho letto il primo volume de Il capitale». La lettura isolata del primo volume non è solo è incompleta, ma risulta addirittura fuorviante. I tre volumi de Il capitale formano un’unità inscindibile, come si vede già dai titoli che sono, rispettivamente, Il processo di produzione del capitale, Il processo di circolazione del capitale e Il processo complessivo della produzione capitalistica. Ovviamente, queste parti non sono indipendenti e sono indispensabili tutti e tre i volumi. Se ci si ferma al primo, forse si potrebbe confondere il valore con il prezzo di mercato, oppure il plusvalore con il profitto, senza contare che interesse, capitale bancario e capitale azionario non figurano nel primo volume, appartenendo anch’essi al terzo.

Seconda questione: dovremmo ricordare che il secondo e il terzo volume non sono stati pubblicati da Marx, ma dal suo caro amico e compagno Friedrich Engels dopo la sua morte. Dobbiamo essere molto grati a Engels che, mettendo da parte la propria attività di ricerca e di pubblicazione, si è dedicato alla redazione del secondo e al terzo volume; tuttavia, dobbiamo anche essere critici: Engels non ha pubblicato esattamente ciò che ha trovato, ha cercato di rendere le bozze più leggibili, più chiare per il lettore. Come ho già detto, però, con l’aiuto della MEGA2, che ha pubblicato i manoscritti originali, si può riconoscere che Engels, in alcuni casi, ha modificato il significato o la direzione seguita dal testo originale. Non si è trattato di manipolazione: dove Marx incontrava un problema, Engels a volte proponeva una soluzione, solo che non sappiamo se questa soluzione sarebbe stata accettata da Marx.

Per darvi un esempio del perché è così importante visionare le differenze tra il manoscritto originale di Marx e l’edizione di Engels, diamo un’occhiata alla teoria della crisi. Tutti gli economisti borghesi affermano che in realtà le crisi economiche non costituiscono un problema congenito del capitalismo. Gli economisti neoclassici affermano che un sistema di mercato è di per sé stesso stabile e solo uno shock causato dall’esterno potrebbe determinarne la crisi. Gli allievi di Keynes ci dicono che se uno Stato applica politiche economiche corrette, allora è possibile evitare crisi. Solo Marx ci dice che quando si ha il capitalismo si hanno anche crisi, che le crisi non sono semplicemente frutto di errori, ma appartengono al normale funzionamento del capitalismo: i mezzi utilizzati per massimizzare i profitti sono gli stessi mezzi che generano le crisi. Tuttavia, ne Il capitale, non incontrerete un capitolo intitolato Teoria delle crisi. La trattazione più ampia in merito alle crisi è quella che si può trovare nel terzo volume, al capitolo quindici, che segue la presentazione della famosa «caduta tendenziale del saggio di profitto». Il quindicesimo capitolo è intitolato Sviluppo delle contraddizioni interne della legge. Molti lettori del terzo volume pensano che la teoria della crisi di Marx sia una conseguenza diretta della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. Quest’opinione è diffusa da circa un secolo. Tuttavia, non appena si confronta il manoscritto di Marx con l’edizione di Engels, si vede come già il titolo del capitolo quindici, che sembra collegare la legge sul saggio di profitto con la teoria della crisi, non sia di Marx. Inoltre, come entità a sé stante, quel capitolo quindici non esiste neppure. Quel che nell’edizione di Engels sono i capitoli dal tredici al quindici, nel manoscritto di Marx sono un unico capitolo, senza sottotitoli. Marx sviluppò le argomentazioni a favore della caduta tendenziale del saggio di profitto e, poi, alla fine, scrisse alcune osservazioni riguardo alla crisi. Non si trattava di una trattazione molto sistematica: si era limitato a redigere qualche appunto in vista di future elaborazioni. Engels prese questi appunti, riordinò il materiale, li abbreviò, li riformulo, fece in modo che sembrassero più coerenti e coesi, e, infine, formulò il titolo che allude alle contraddizioni interne della legge.

L’impressione che la teoria della crisi di Marx dipenda fortemente dalla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto è stata prodotta dall’edizione di Engels, e ciò ha influenzato le discussioni del XX secolo. La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto è stata una delle questioni più dibattute, e molti marxisti l’hanno difesa, ritenendola il fondamento indispensabile della teoria della crisi. Questa considerazione è del tutto errata, senza contare che, lo stesso Marx, in una serie di bozze risalenti alla fine degli anni Sessanta e agli anni Settanta – ora pubblicate nella MEGA2 – svolse alcune considerazioni sulla relazione tra il saggio del plusvalore e il tasso di profitto. Al contrario di quanto ipotizzato da Marx nel manoscritto del terzo volume, risulta ovvio che non è affatto facile dimostrare che vi sia una tendenza alla caduta del saggio del profitto.

Vi sono alcune indicazioni sul fatto che lo stesso Marx nutrisse alcuni dubbi in merito alla validità di questa legge: in una bozza del 1875, nella quale voleva esporre le «leggi di movimento» del tasso di profitto, non compare più alcun riferimento in merito a una «legge del caduta tendenziale del tasso di profitto» (cfr. Marx 2003, 129).

Leggendo le osservazioni sulla teoria della crisi nel manoscritto originale del terzo volume de Il capitale, risulta chiaro che la teoria della crisi è incompleta. In questo manoscritto e anche nelle precedenti Teorie sul plusvalore la teoria della crisi è fortemente centrata sulla produzione, mentre il settore bancario e il credito non vi giocano un ruolo rilevante. Nella sezione dedicata al credito nel terzo volume, Marx menziona la crisi, senza però fornirne un’esposizione sistematica.

Marx stilò il manoscritto del terzo volume nel 1864-65, ma almeno fino al 1881 fu molto attivo nella ricerca, e il suo punto di vista sulla crisi si sviluppò oltre quanto incluso nel manoscritto del 1864-65. Già nel ’66, appena terminata la fase di scrittura, scoppiò una nuova crisi economica in Gran Bretagna, la quale aveva – come disse Marx – «un carattere prevalentemente finanziario» (Marx 2011a, 739). Marx fu talmente impressionato da questa nuova crisi economica che si affrettò a inserire una mezza pagina a riguardo nel manoscritto del primo volume, pubblicato nel 1867. Più avanti, riempì le pagine di un interno quaderno con i dettagli della crisi del ’66, e nel corso degli anni Settanta del XIX secolo, studiò nuovi fenomeni di crisi: la sua teoria della crisi nel 1865 non era affatto completa.
 
 
8. Ambizioni crescenti, frammenti geniali
 
Un altro punto che voglio menzionare ha a che fare con la domanda: «Perché Marx non ha finito Il capitale?». Chiaro, Marx era un attivista politico, era impegnato con la Prima Internazionale, anzi, era l’intellettuale a capo della Prima Internazionale. Nel 1871 interruppe il suo lavoro su Il capitale al fine di scrivere – come dichiarazione ufficiale dell’Internazionale – La guerra civile in Francia, la sua analisi, poi divenuta celebre, della Comune di Parigi, nella quale Marx vide i germi di una incipiente società comunista. Un altro fatto che impedì a Marx di completare Il capitale fu che le sue condizioni di salute durante gli anni Settanta peggiorarono, e ci furono lunghi periodi durante i quali non era in grado di lavorare. Quando si guarda l’ultima foto di Marx del 1882, nella quale aveva all’incirca 64 anni, lo si stima molto più vecchio.

In ogni caso, credo che queste due ragioni – l’attività politica di Marx, e la sua cattiva salute – non siano da sole sufficienti a spiegare perché non abbia finito Il capitale. Alla fine degli anni Sessanta del XIX secolo, dopo la pubblicazione del primo volume, era giunto piuttosto vicino alla fine. Aveva redatto un nuovo grande manoscritto (il cosiddetto «Manoscritto II per il volume II») e aveva già iniziato a rielaborarlo per darlo alle stampe («Manoscritto IV per il volume II»). Se avesse continuato a lavorare in questo modo, avrebbe potuto finire il secondo volume nei primi anni Settanta, ma poi dovette abbandonare il lavoro, da un lato per scrivere La guerra civile in Francia, dall’altro per preparare la seconda edizione tedesca del primo volume, oltreché per controllare la traduzione francese del medesimo. Quando Marx riprese a lavorare sul secondo e sul terzo volume, nella metà degli anni Settanta, non si limitò semplicemente a tentare di completare quanto iniziato. Nel mentre, aveva allargato il suo campo d’indagine, ed era consapevole del fatto che nuovi sviluppi fossero in arrivo. Ci sono sempre nuovi sviluppi nel capitalismo, e questi sviluppi influiscono sempre sulla rappresentazione della così detta “media ideale”, come ho detto all’inizio. Ciò vale anche per la crisi. Marx osservò che nella seconda metà degli anni Settanta del XIX secolo, si stava verificando un nuovo tipo di crisi. Nei decenni precedenti le crisi economiche erano state piuttosto brevi, e la ripresa era stata sempre rapida. Alla fine degli anni Settanta, però, iniziò la prima crisi di stagnazione di lunga durata, connotata da una lenta ripresa. La nuova crisi aveva, inoltre, un carattere internazionale. I tassi di cambio e le politiche delle banche nazionali svolgevano un ruolo cruciale. Marx riconobbe che doveva sia estendere la sua analisi al credito e al sistema bancario, sia ampliarne il raggio geografico. Negli anni Sessanta del XIX secolo, la base empirica dei suoi studi era stata il sistema finanziario della Gran Bretagna, la City of London. Negli anni Settanta del XIX secolo, Marx studiò molto intensamente l’economia degli Stati Uniti, che ebbe una rapida espansione. Come annunciato in un’intervista del 1870, rilasciata a John Swinton, Marx voleva utilizzare il sistema bancario statunitense come base empirica per presentare il sistema creditizio.

Oltre a questo, negli anni Settanta Marx studiò intensamente lo sviluppo della proprietà fondiaria in Russia – studio che era destinato a rientrare nell’esposizione della rendita fondiaria nel terzo volume de Il capitale. Il motivo di ciò risiedeva nel fatto che la proprietà fondiaria in Russia aveva forme e sviluppi molto differenti rispetto alla proprietà fondiaria in Europa occidentale. Questo significava che l’emergere del capitalismo assumeva forme molto diverse e che, forse, anche il superamento del capitalismo avrebbe assunto forme diverse in contesti sociali differenti.

Ci sono altri esempi. Negli anni Settanta del XIX secolo, Marx si occupò di scienze naturali e tecnologia, e in particolare della tecnologia delle comunicazioni, nella quale individuò una sorta di rivoluzione in atto. Prestò molta attenzione ai primi esperimenti sulla trasmissione dell’energia elettrica che iniziarono nei primi anni Ottanta, perché pensava che tutto questo avrebbe potuto portare a una rivoluzione dei processi produttivi.

Per farla breve: cosa fece Marx negli anni Settanta? Ampliò enormemente il campo di ricerca ed il materiale che avrebbe dovuto essere incluso ne Il capitale, e ciò diventerà chiaro, una volta che saranno pubblicati tutti i suoi quaderni nella MEGA2. Ritengo che Marx abbia ampliato a tal punto il suo campo d’indagine che non gli fu più possibile gestire da solo una simile ricerca, nonostante il suo genio.

Nella sua edizione del secondo e terzo volume de Il capitale, Engels tentò di riunire insieme tutti i frammenti raccolti, in modo che formassero un’unità. Non voglio criticare Engels: fece il miglior lavoro possibile, solo che, nel dibattito del XX secolo, questa apparente unitarietà de Il capitale portò al dogmatismo tra i marxisti. Sembrava, come se tutti i principali problemi fossero risolti, che fosse sufficiente leggere Il capitale. Se si aveva un’altra opinione, allora si era o male informati, o stupidi, o agenti della borghesia. Naturalmente un atteggiamento così dogmatico ha portato a molte sconfitte: sconfitte politiche e sconfitte scientifiche, perché è chiaro che non tutti i problemi riguardo alla comprensione del funzionamento del capitalismo sono stati risolti.
 
 
9. Il comunismo
 
Infine, voglio parlare di un tema, che di solito non è spesso legato a Il capitale: il comunismo, perché Il capitale è anche una fonte per comprendere il significato del comunismo. Penso che questo sia un punto importante, soprattutto considerando la situazione politica contemporanea. Oggi ci troviamo di fronte a una nuova ondata di movimenti populisti di destra in tutta l’Europa occidentale e negli Stati Uniti, come testimoniato dai risultati elettorali. Questi movimenti hanno saputo rivolgersi a molte persone deluse, offrendo una loro sorta di utopia, un’utopia molto arretrata: l’utopia di uno Stato nazionale simpatico, che potrà risolvere tutti i problemi una volta che i rifugiati e le persone secondo loro non appartenenti al nucleo della nazione verranno espulsi. La sinistra è brava a criticare questa utopia. Tuttavia un’utopia non è fatta solo di argomenti ma anche di speranze. Quest’utopia di destra dà speranza a molte persone. Credo che le buone argomentazioni che le si oppongono non siano sufficienti a combatterla, e che anche la sinistra abbia bisogno di una sua utopia. Esistono già, in questa direzione, alcune formulazioni, a dire il vero piuttosto discutibili, ma io preferirei iniziare con una riflessione su quel comunismo di cui Marx fornisce alcuni indizi ne Il capitale. Questo comunismo non è né quello del cosiddetto “socialismo reale”, per come è esistito in Unione sovietica, il quale è stato un esperimento assolutamente fallimentare, né è un comunismo in un senso puramente filosofico. Abbiamo bisogno, credo, di una discussione su un comunismo che si ponga come un concreto progetto sociale. Ne Il capitale di Marx possiamo trovare una serie di suggerimenti per costruire una società che sappia andare al di là della forma di merce, al di là del denaro e del potere statale. Un dibattito su questa utopia comunista ispirata da Il capitale dovrebbe essere incluso in una nuova interpretazione sia di quest’opera, sia del pensiero di Marx, fornendoci la possibilità di trascendere dispute puramente accademiche e di intervenire nel processo politico. Era questo che Marx aveva in mente, quando chiamò Il capitale (in una lettera a Becker del 17 aprile del 1867) il più «terribile ordigno» mai scagliato contro la borghesia, ed è appunto come ordigno che dovremmo utilizzarlo.
 
 
10. Outlook
 
Con la nuova MEGA si apre la possibilità di cominciare da capo. La MEGA2 è un’edizione scientifica, e non un’edizione di marxisti per marxisti. È un’edizione critica – così come lo sono le edizioni critiche di Hegel, di Leibniz, di Aristotele – fatta prendendo in considerazione tutti i testi, le loro varianti, il loro sviluppo e così via. La MEGA2, pur essendo un’edizione puramente scientifica, ha un impatto politico diretto: permette di leggere Marx oltre ogni dogmatismo, di conoscerlo come produttore di frammenti, di frammenti estremamente utili. Il compito principale ora non è quello di fare ricerche su questi frammenti – cosa che comunque deve essere fatta, e che porto avanti con il mio lavoro – ma di utilizzarli allo scopo di aggiornare l’analisi sul capitalismo e sui modi di superarlo. Un’analisi su cosa significhi socialismo o comunismo oggi, al di là delle esperienze autoritarie del XX secolo. La scienza e la critica si incontrano. La frase che ho citato prima dalla Prefazione de Il capitale, «ogni opinione basata sulla critica scientifica è ben accetta», non è solo un invito da parte di Marx, ma ciò che è necessario per rendere utile Marx oggi.
 
 
 
Notes
 
* Editorial Note: this article comes from the transcription of two 2017 conferences by Michael Heinrich: The actuality of Capital after 150 years, in Brazil; and New readings and new texts Marx’s Capital after MEGA2, in Athens. The transcription was provided by Emanuele Martinelli and it was edited by Riccardo Bellofiore. Translated by Matteo Caiazzi.
[1] Si tratta di una nota alla terza edizione. Nella copia personale di Marx si ha qui la seguente osservazione a margine: «Da osservare a questo punto per quanto si dirà poi: se l’ampliamento è solo quantitativo, in una stessa branca d’affari, con un capitale maggiore o minore, i profitti saranno nella stessa proporzione delle grandezze dei capitali anticipati. Se l’ampliamento quantitativo agisce qualitativamente, salirà allo stesso tempo il saggio del profitto
per il capitale maggiore» {F. E}.
 
 
 
References
 
Marx, K. (2003), Manuskripte und Redaktionelle Texte zum dritten Buch des „Kapitals“. 1871 bis 1895, in MEGA, II, 14, Berlin: Akademie Verlag.
Marx, K. (2011a), Il Capitale. Libro primo, Fineschi, R. (a cura di), in Marx, K. e Engels, F., Opere Complete, vol. XXXI, Tomo I, Napoli: La Città del sole.
Marx, K. (2011b), Manoscritto 1871-1872, a cura di Roberto Fineschi, in Marx, K. e Engels, F., Opere Complete, vol. XXXI, Tomo II, Napoli: La Città del sole, 1123-1194.
Marx, K. (2013), Il Capitale, Vol. III, a cura di Bruno Maffi, Torino: UTET.
 
 
 

Questa voce è stata pubblicata in NUMERO 5, Questioni di metodo. Contrassegna il permalink.

2 risposte a Rileggendo Marx: nuovi testi e nuove prospettive

  1. Pingback: Michael Heinrich: A proposito del film IL GIOVANE MARX « Sandwiches di realtà. il blog di Maurizio Acerbo

  2. Pingback: Heinrich, M. La scienza del valore. Pgreco, 2023 – 42 rosso

Lascia un commento