Il mondo mistico del Capitale: scienza, critica e rivoluzione in Lucio Colletti

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Gianluca Pozzoni*

Università degli Studi di Milano
gianluca.pozzoni@unimi.it

 
 
Abstract: Taking the cue from some of Lucio Colletti’s unpublished letters and writings, this article will focus on Colletti’s work from the 1967-1973 period. Here, Colletti interprets Marx’s theory of value in terms of a «real abstraction» – i.e. in terms of the alienation of individual private labours. By turning this abstraction into an object and by reifying it, capital becomes for Colletti an inherently “upside-down” social reality, whose knowledge can only be acquired through the critique and upturning of its idealism. The originality of Colletti’s Marxism lies in the powerful link it establishes between political economy and critique, between Marxism and the critique of idealism, between science and revolution.
 
Keywords: Lucio Colletti; italian marxism; labour theory of value; dialectics; Marx-Hegel relation
 
 
 
1. Introduzione
 
Nel 1984, la University of California Press dava alle stampe il saggio Marxism and Totality di Martin Jay, storico delle idee a Berkeley e già autore di una imprescindibile biografia della Scuola di Francoforte intitolata L’immaginazione dialettica (1973, pubblicata in italiano nel 1979: Jay 1979). In Marxism and Totality, Jay metteva a tema, come dichiarato nel sottotitolo, le avventure di un concetto – quello di «totalità» – da Lukács a Habermas: per l’autore, la centralità di questo concetto all’interno dell’elaborazione teorica costituiva il tratto più distintivo del cosiddetto “marxismo occidentale”. Come notava già Perry Anderson (1979) nel testo che ha dato popolarità al termine[1], il “marxismo occidentale” era rappresentato prevalentemente da esponenti di estrazione borghese – con l’unica eccezione di Gramsci – la cui produzione intellettuale era caratterizzata da un taglio per lo più accademico e non rivolto immediatamente a quella “classe operaia” in cui il marxismo tradizionalmente identificava il potenziale soggetto rivoluzionario[2]. Per Jay, proprio un tale distacco era l’elemento che forniva a questi teorici marxisti la libertà di pensiero e la spregiudicatezza necessarie ad avanzare la pretesa di poter raggiungere un punto di vista complessivo sulla totalità del reale, e sulla società in primis.

Ciò che a prima vista può stupire del testo di Jay è l’inclusione nella sua rassegna di un capitolo interamente dedicato a quello che viene definito marxismo scientifico dell’Italia postbellica, ossia alla rielaborazione originale dei fondamenti della teoria marxista fornita da Galvano Della Volpe e dal suo allievo Lucio Colletti (cfr. Jay 1984, 423-461). Per quanto riguarda il secondo, in particolare, l’inclusione stessa nel campo del “marxismo occidentale” è resa immediatamente problematica dalla critica esplicita che Colletti muove a questa tradizione, considerata affine più che alternativa al “marxismo orientale” in virtù di una comune – e aborrita – ascendenza hegeliana. Nella seconda parte de Il marxismo e Hegel (1969) si legge infatti a proposito di Lukács:
 

[…] è pur vero – e il capitolo dedicatogli da Storia e coscienza di classe ne è una conferma – che ciò che, d’altra parte, ha fatto ostacolo a un’effettiva intelligenza del pensiero di Kant, è stata la pregiudiziale ‘critica dell’intelletto’ (e, insieme all’intelletto, naturalmente, del principio di non-contraddizione e, quindi, anche della scienza) che il marxismo ha derivato acriticamente da Hegel, sia nella forma del cosiddetto ‘marxismo occidentale’ sia nella forma del ‘materialismo dialettico’ di tipo sovietico. (Colletti 1973b, 347)

Più in generale, l’ascrizione del marxismo dellavolpiano e collettiano a una linea di pensiero caratterizzata da una particolare attenzione per la categoria di «totalità» è resa ulteriormente problematica dalle venature hegeliane che questo concetto porta con sé, in forte dissonanza con la concezione scientistica e radicalmente anti-hegeliana del marxismo fornita da Colletti e ancora di più da Della Volpe. Se infatti Jay sottolinea l’influenza hegeliana e prima ancora romantica sull’elaborazione del concetto di «totalità» da parte di Marx, l’impronta dell’Idealismo tedesco è ancor meno in discussione per quanto riguarda il già citato Lukács, ideale capostipite della tradizione occidentale del marxismo.

Ciò che distingue in modo decisivo il marxismo dalla scienza borghese», scrive Lukács in apertura di uno dei saggi che compongono Storia e coscienza di classe,
 

non è il predominio delle motivazioni economiche nella spiegazione della storia, ma il punto di vista della totalità. La categoria della totalità, il dominio determinante ed onnilaterale dell’intero sulle parti è l’essenza del metodo che Marx ha assunto da Hegel riformulandolo in modo originale e ponendolo alla base di una scienza interamente nuova. (Lukács 1967, 35)

Ci si potrebbe allora chiedere in che misura tale categoria possa aver assunto un posto di rilievo nel radicale anti-hegelismo del marxismo dellavolpiano. Occorre infatti ricordare che Della Volpe approdò al marxismo tardivamente, intorno ai cinquant’anni, a seguito della sua adesione al PCI durante gli ultimi mesi della Resistenza. A quel tempo, Della Volpe aveva già alle spalle una ragguardevole produzione filosofica, soprattutto di impianto storiografico e volta principalmente a indagare le origini della corrente “mistica” all’interno della filosofia speculativa: una linea, secondo Della Volpe, «che tramite Eckhart e Cusano risale fino alla congiunzione del vangelo di Giovanni con le Enneadi: la linea seguita dalla mistica speculativa più o meno eterodossa o filosofia mistica in senso stretto» (Della Volpe 1972b, 214-215). In questa “linea”, Della Volpe inseriva a pieno titolo anche Hegel. Sulla scorta dell’interpretazione già avanzata da Rosenzweig e da Dilthey, Della Volpe ravvisava le origini della filosofia hegeliana nel Romanticismo – soprattutto Hölderlin e Schiller, ma anche Humboldt, Novalis, Schlegel e persino Goethe – nonché nella tradizione del misticismo tedesco, come è chiaro fin dal titolo del suo Hegel romantico e mistico (1929). Evidenza di questa connessione si avrebbe proprio nella svalutazione hegeliana della «certezza sensibile» e della conoscenza meramente intellettiva degli oggetti determinati dell’esperienza, in favore della ragione relazionale e unificatrice – in ultima analisi, in favore della totalità. Per Della Volpe, questa mossa non fa che reiterare il peccato originale della filosofia mistico-speculativa, che ricerca l’arché del mondo nella sfera dello spirituale e nel principio dell’unità originaria delle cose, e per ciò stesso svaluta la “molteplicità delle cose”. Come dirà Colletti, lo hegelismo è una forma di scetticismo pirroniano rivolto contro il contenuto veritativo della certezza sensibile e contro l’esistenza di oggetti esterni alla coscienza.

A questa linea “mistica” di pensiero, Della Volpe ne contrappone un’altra che fa della rivalutazione della molteplicità il suo punto di forza e che accomuna in modo inedito Hume e Marx. Proprio assumendo la “positività del molteplice”, infatti, l’empirismo humeano avrebbe fornito una concezione induttivistica dell’attività conoscitrice dell’intelletto, che dall’astrazione di caratteristiche generali dai fenomeni particolari – molteplici, appunto – ritorna alla positività del reale come banco di prova e tribunale di validazione di tali astrazioni, fornendo così il presupposto per la loro assunzione in forma di conoscenza veritativa. In questo modo, la teoria della conoscenza di Hume rappresenta per Della Volpe «il primo passo decisivo verso una coscienza speculativa della scienza moderna; è già conferma critica delle intuizioni metodologiche di Galileo e Newton» (Della Volpe 1972c, 438).

È precisamente l’applicazione di questo metodo sperimentale di conoscenza alla realtà capitalistica, secondo Della Volpe, ad aver fatto di Marx il «Galileo delle scienze morali», secondo la nota formula[3]. Tanto la filosofia sociale di Hegel quanto l’economia politica tradizionale sarebbero infatti state incapaci di pervenire a una concezione scientifica della società in virtù del loro apriorismo speculativo: assumendo come punto di partenza la categoria universale di «Stato» (Hegel) o astraendo le categorie della produzione capitalistica dalla loro storicità (le famose “robinsonate” attribuite da Marx agli economisti classici), essi avrebbero violato il monito scientifico a partire dal “dato”, dal molteplice positivo, assumendo surrettiziamente come reale ciò che invece è puramente ideale. Al contrario, le astrazioni di cui pure l’economia politica marxiana si costituisce sono elaborate a partire da una società determinata, storica – quella capitalistica – e successivamente messe a verifica empirica nella loro capacità di interpretare il processo attraverso cui le determinazioni concrete di partenza sono venute costituendosi. Così, ad esempio, la categoria marxiana di «lavoro» è un’astrazione costruita a partire dal lavoro salariato come determinazione storica, non a prescindere da essa; ed è in virtù di ciò che essa si rivela in grado di riassumere e spiegare il processo storico concreto con cui si è prodotto il sistema di produzione capitalistico (Cfr. ad es. Della Volpe 1973a, 458-460).

Alla luce di questa celebrazione epistemologica del “molteplice”, dunque, si può tornare alla questione iniziale. Se infatti si può in qualche misura parlare di «totalità» all’interno del marxismo dellavolpiano, questa sussiste solo sul piano ideale come «principio di identità tauto-eterologica», un principio che delinea un metodo scientifico che procede per «astrazioni determinate», «storiche», e che disegna «un movimento circolare dal concreto all’astratto e dall’astratto al concreto» (Della Volpe 1973a, 458). Ciò, per Della Volpe, rappresenta il cuore del metodo marxiano e del metodo scientifico in genere; esso deve essere assunto nella sua interezza, pena la ricaduta in una filosofia speculativa. In nessun modo, però, la totalità può essere riferita alla realtà in quanto tale che, contro Hegel, rimane in sé costituita di una molteplicità di determinazioni concrete che non si risolvono entro un rapporto dialettico tra le parti. Come cercheremo di mostrare, il percorso intellettuale di Lucio Colletti muove da una sostanziale fedeltà a questa posizione per approdare sul finire degli anni ’60 a una rielaborazione originale del suo marxismo che, pur mantenendo ferma la critica allo hegelismo, assume la centralità di alcune figure della dialettica hegeliana per l’analisi della realtà capitalistica.

Sarà anzi in virtù di questo “anti-hegelismo nello hegelismo” che l’analisi scientifica del capitalismo può fornire per Colletti anche i presupposti per la sua critica: se il misticismo inscritto nell’idealismo hegeliano cattura accuratamente l’essenza della produzione capitalistica, è perché quest’ultima si configura in sé come un “mondo mistico”, idealistico, rovesciato. Stante la validità di questa constatazione, occorrerà allora rimettere sui piedi una realtà che è, nella sua essenza, capovolta sulla testa. Scienza del capitale, critica dell’economia politica – o meglio, economia politica critica – e giustificazione della prassi rivoluzionaria trovano qui il loro punto di raccordo.
 
 
2. Lucio Colletti: il primo periodo ‘dellavolpiano’
 
Nell’analisi di Martin Jay, il problema della prassi in rapporto alla teoria – ossia di una concezione della totalità che sia anche “normativa” oltre che logica – è questione che rimane esizialmente aperta nel marxismo dellavolpiano. Sarà in effetti questo il problema con cui dovrà confrontarsi il suo allievo Colletti, il quale giungerà a riconoscere che l’aspetto politico del marxismo – il comunismo – non può che essere un tutt’uno con l’aspetto scientifico – l’analisi del capitalismo. Si torna così all’antica questione del rapporto tra teoria e prassi, tra marxismo e comunismo, che già Rudolf Hilferding aveva posto come nettamente separati. Come gran parte del marxismo della Seconda Internazionale – vera e propria bestia nera di Colletti nel periodo centrale della sua produzione – nella Prefazione al suo Finanzkapital, Hilferding aveva negato recisamente l’identità tra socialismo e marxismo, il quale sarebbe «solo una teoria delle leggi della società», svincolata da giudizi di valore e pertanto priva di indicazioni pratiche:
 

Poiché una cosa è riconoscere una necessità, altra cosa è porsi al servizio di quella necessità. È possibilissimo infatti che uno, pur essendo convinto della vittoria finale del socialismo, si schieri contro di esso. Peraltro, la conoscenza, che il marxismo fornisce, delle leggi che muovono la società, assicura sempre una posizione di vantaggio a chi la possiede; e tra i nemici del socialismo, i nemici più pericolosi sono proprio quelli che attingono di più al frutto di quella conoscenza. (Hilferding 2011, 6)

Per Colletti, come vedremo, vale esattamente l’opposto. Lungi dall’essere una volontaristica postura politica assunta di fronte e a lato dell’ineluttabile inverarsi di una necessità storica, il comunismo rivoluzionario è per Colletti il complemento richiesto dalla teoria marxista perché la realtà sociale si presenti come razionalmente intelligibile. Per Colletti, o almeno per il Colletti a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70, ciò che caratterizza l’esito di un approccio marxista alla società capitalistica è l’idea che la teoria del valore-lavoro, dello sfruttamento e dell’alienazione mettano in luce le “contraddizioni interne” del capitalismo. Ma è proprio perché il capitalismo si presenta quale realtà costitutivamente contraddittoria, irrazionale, un “mondo mistico” e “a testa in giù” che esso può essere razionalizzato scientificamente solo attraverso la risoluzione di tali contraddizioni, cioè, in ultima analisi, attraverso il superamento del capitalismo stesso che rimette la realtà sui suoi piedi. È in questo modo che la teoria scientifica pone immediatamente la necessità del comunismo quale prassi rivoluzionaria e trasformatrice della realtà.

Tuttavia, sarà proprio questo tentativo di ricomposizione in un’unica totalità di economia politica e critica, di scienza e rivoluzione, a determinare il progressivo allontanamento di Colletti dal marxismo a partire dai primi anni ’70, fino al distacco definitivo. A partire circa dal 1973, infatti, Colletti matura la convinzione che l’idea stessa di “contraddizioni interne” presenti nel modo di produzione capitalistico non sia che una proiezione nella realtà dell’idea di «contraddizione logica». Ciò, ovviamente, in aperta violazione a qualunque approccio scientifico, basato appunto sul principio di non-contraddizione, ossia sull’idea che non si possano dare allo stesso tempo A e non-A. Compiendo questa mossa, Marx avrebbe per Colletti tradito le premesse scientifiche per un’analisi del capitalismo, irrimediabilmente viziando il marxismo di irrazionalismo e determinandone la bancarotta.

Ma andiamo con ordine. Nella sua attenta ricostruzione della parabola intellettuale collettiana, Martin Jay si avvale di informazioni che lo stesso Colletti gli ha fornito nel corso di una corrispondenza preparatoria alla stesura del volume e intrattenuta tra la primavera e l’estate del 1982. Dalle lettere di Colletti, messeci cortesemente a disposizione da Jay, emergono elementi particolarmente utili per provare a tracciare i contorni del contributo positivo che Colletti ha fornito alla critica marxista dell’economia politica. Nella lettera del 23 maggio 1982, ad esempio, Colletti propone di scandire la propria biografia intellettuale in tre periodi:
 

1) Il primo periodo comprende l’introduzione del 1958 all’edizione italiana dei Quaderni filosofici di Lenin, poi ripubblicata come prima parte de Il marxismo e Hegel del 1969, ma anche scritti come Il marxismo come sociologia (pubblicato su «Società» nel 1959 e poi incluso come saggio di apertura alla raccolta Ideologia e società del 1969) e la Prefazione a La dialettica dell’astratto e del concreto nel Capitale di Marx di Il’enkov, pubblicata da Feltrinelli nel 1961.
 

2) Il secondo periodo ha inizio con l’introduzione del 1967 alle Voraussetzungen di Bernstein (pubblicate in italiano da Laterza nel 1968), e prosegue nel 1968 con la stesura della seconda parte de Il marxismo e Hegel (uscito nel 1969), fino alle introduzioni all’antologia Il marxismo e il «crollo» del capitalismo (1970) e all’edizione inglese degli Early Writings di Marx (uscita per Pelican nel 1975, ma composta nel 1971).
 

3) Il terzo periodo ha inizio nel 1973 con il già menzionato ripensamento nel problema della contraddizione, materializzatosi nel 1974 con la famosa Intervista politico-filosofica con Perry Anderson per la «New Left Review» e con il saggio ad essa apposto, Marxismo e dialettica.
 

Torneremo più avanti su questa terza fase, che rimane in realtà largamente (e proficuamente) interlocutoria prima di giungere, sul finire degli anni ’70, alla conclusione che è impossibile “salvare” il marxismo. Per il momento, è utile sottolineare come il Colletti del primo periodo si muova, per sua stessa ammissione, entro una fedeltà pressoché totale alle posizioni dellavolpiane. Come scrive nella già citata lettera a Jay, infatti, le tesi di questo primo periodo possono essere così riassunte:
 

Marx è il Galilei del mondo storico-sociale. Il marxismo è scienza. Estende il metodo della scienza dal mondo naturale a quello storico-umano. I concetti del Capitale sono concetti scientifici: ‘astrazioni determinate’. Il marxismo è materialismo storico. E fa perno sull’analisi scientifica della società moderna. Viene respinto il Diamat. Il ‘materialismo dialettico’, la ‘dialettica della natura’ è una filosofia romantica della natura: un prodotto del dilettantismo filosofico di Engels. Affermo il massimo distacco tra Marx e Hegel. La tesi di fondo è che non si può fare scienza con la dialettica di Hegel. Se Marx è scienziato, deve essere lontanissimo da Hegel. Parlo (è vero) di ‘dialettica scientifica’, ma in senso metaforico. La ‘dialettica’, di cui parlo, è l’unità di induzione e deduzione del metodo scientifico. Gli scritti di Marx, per me decisivi, sono la Kritik del 1843 e la Einleitung (1857) ai Grundrisse.[4]

Come si vede, ricorrono qui pressoché tutti i tópoi dellavolpiani che fanno del marxismo una forma di «galileismo morale». Anzi, in virtù di ciò si potrebbe estendere all’indietro questa prima fase fino alla prima metà degli anni ’50, in cui Colletti operava già nell’alveo di un marxismo che si voleva scientifico (ispirato soprattutto al Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo), e valutava positivamente il Della Volpe di Logica come scienza positiva, che egli lesse quando questa uscì nel 1950. Di quest’opera, Colletti inizialmente apprezzò in modo particolare la rivalutazione del Kant critico di Leibniz, e organizzò con Ugo Spirito – di cui allora era assistente volontario – una discussione del libro presso l’Istituto di filosofia[5]. Negli anni immediatamente successivi, Colletti – che era entrato nel PCI in quel periodo, a ridosso dello scoppio della Guerra di Corea – sarebbe intervenuto con una serie di articoli su «Società», rivista culturale legata al partito. In questi, Colletti conduce una polemica contro Dewey e contro Giulio Preti – accusati di «idealismo» – sulla scorta proprio di Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin, recensito sempre per «Società» nel 1954 (cfr. Colletti 1952, 1953 e 1954a, rispettivamente), fino a fornire nello stesso anno una lettura pienamente dellavolpiana della Einleitung di Marx del 1857 (Colletti 1954b).

In questi anni, vicende intellettuali e politiche si intrecciano fittamente. Con i fatti del 1956 in Ungheria e l’abbandono del PCI da parte di molti intellettuali, Della Volpe e i suoi allievi, incluso Colletti, vengono accolti nel comitato di redazione di «Società». Questo nuovo assetto della rivista cessò sostanzialmente di generare un vero dibattito intellettuale sulle sue pagine, e durò fino alla chiusura di «Società» nel 1962. Colletti ricorda così questo avvenimento:
 

Stava cominciando ad emergere una nuova leva di giovani intellettuali comunisti […] influenzati dalle posizioni di Della Volpe. Messo in allarme dalla spinta a sinistra di questi giovani, che giunsero ben presto a dominare la Federazione Giovanile del partito, il gruppo dirigente decise di sciogliere «Società» come la loro principale fonte di ispirazione teorica. (Colletti 1974a, 7-8)

Ma a dispetto dell’emarginazione intellettuale del marxismo dellavolpiano all’interno della cultura “ufficiale” del PCI e delle tendenze neoleniniste dei seguaci più giovani di Della Volpe, questi manterrà sempre una fedeltà organica all’ortodossia sovietica e non abbandonerà mai il PCI fino alla morte, avvenuta nel 1968. Ancora nel 1964, infatti, Della Volpe (1973b) difendeva il concetto di «legalità socialista» come sintesi di libertà, eguaglianza e democrazia che si realizza nello Stato socialista e nel centralismo democratico, e che egli vedeva incarnata nello spirito della Costituzione sovietica (prima del 1936 e poi del 1960). Quanto al superamento di quest’ultima nella società comunista, Della Volpe (1973b, 273-274) faceva affidamento al Progetto di programma presentato al XXII congresso del PCUS del 1961.

Al contrario, Colletti andava maturando in quegli stessi anni un’ostilità sempre maggiore nei confronti dello stalinismo e della linea impressa da Togliatti al PCI:
 

Nel periodo tra il 1956 e il 1964, arrivai gradatamente a realizzare che tanto il regime sovietico quanto i partiti comunisti occidentali erano incapaci di compiere le trasformazioni profonde che erano indispensabili per tornare al marxismo e al leninismo rivoluzionario. […] E così, quando raggiunsi la convinzione che non esistevano possibilità di trasformazione, neppure lenta e graduale, né del regime sovietico né dei partiti comunisti occidentali, verso un rinnovamento della democrazia socialista, la milizia nel Pci non ebbe più senso per me, e lasciai il partito in silenzio. (Colletti 1974a, 10)

Due anni dopo, nel 1966, Colletti viene chiamato a dirigere «La Sinistra», rivista di area terzomondista e guevarista edita da Samonà e Savelli, cosa che gli valse accuse di trotskismo: «Se entri all’Università di Roma», racconterà a Perry Anderson, «vedrai delle scritte dipinte da alcuni studenti – maoisti e neostalinisti – che chiedono: «picconate Colletti». C’è un’epidemia di anti-trotskismo tra i giovani, in Italia: e così sono comunemente considerato un trotskista» (Colletti 1974a, 56). La collaborazione con la rivista, con il contributo di articoli di taglio prevalentemente politico, terminerà con l’anno successivo e con il passaggio della rivista da mensile a settimanale. Veniamo così a un anno cruciale per lo sviluppo della produzione intellettuale collettiana: il 1967.
 
 
3. Lavoro astratto e alienazione: il secondo periodo
 
Il 1967 è l’anno in cui Colletti scrive la già citata Prefazione a I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia di Eduard Bernstein[6], pubblicato l’anno successivo (Colletti 1972a). Questa lunga introduzione costituisce, a nostro avviso, uno dei testi più belli dell’intero marxismo novecentesco. Data la collocazione politica di Colletti, si tratta ovviamente di una presentazione critica dell’opera di Bernstein; ma la critica politica alla socialdemocrazia si innesta qui su una raffinata critica teorica ai presupposti intellettuali del marxismo della Seconda Internazionale. In questa sede ci preme soffermarci su un punto particolare di questa critica: l’interpretazione della teoria del valore-lavoro.

Per Colletti, con il marxismo della Seconda internazionale vengono gettate le basi di un errore di interpretazione che vizierà non solo le letture di Kautsky e Hilferding, ma anche di Rosa Luxemburg, Lenin, e di tutto il marxismo successivo fino ad arrivare a Paul Sweezy (una possibile eccezione, come vedremo, è Isaak Il’ijč Rubin, i cui scritti però entreranno nel dibattito marxista occidentale solo successivamente, con la loro traduzione dal russo negli anni ’70). Nell’analizzare il modo in cui il prodotto del lavoro umano possa prendere la forma di merce, Marx illustra come i prodotti delle diverse attività lavorative debbano venire eguagliati sul mercato perché ad esse possa essere attribuito un valore di scambio. Occorrerà quindi fare astrazione dalle caratteristiche particolari dei prodotti del lavoro, cioè dai loro valori d’uso, e considerare questi ultimi esclusivamente come prodotti di un certo numero di ore di lavoro, indipendentemente dal fatto che questo sia stato svolto dal sarto, dal calzolaio o dal tessitore: è ciò che Marx chiama «lavoro astratto».

L’interpretazione di Bernstein – ma, come detto, anche del marxismo del secolo successivo fino a Baran, Sweezy e Dobb – è che tale astrazione, come pure la categoria di «lavoro astratto» che ne deriva, sia una mera generalizzazione mentale operata dal ricercatore – in questo caso da Marx – senza che ad essa corrisponda un’entità specifica nel mondo reale. Lavoro astratto è semplicemente il tratto comune individuabile nei lavori concreti, ossia il fatto che tanto il sarto quanto il calzolaio e il tessitore impieghino un certo numero di ore per realizzare i prodotti del proprio lavoro. Anche il «valore» che questi lavori vengono ad assumere nel momento in cui vengono scambiati deve essere inteso come un’astrazione concettuale. «Valore» è il tratto comune ai valori di scambio concreti dei concreti prodotti del lavoro, cioè ai prezzi di concorrenza a cui sono effettivamente venduti i prodotti del lavoro, ma non ha realtà al di fuori di questi.

Ora, scrive Colletti, è evidente che secondo questa lettura la realizzazione del valore avrebbe luogo nella sfera della circolazione, e non in quella della produzione. La teoria marxiana del valore cessa di essere una teoria del valore-lavoro per divenire una teoria dei prezzi: scompare lo sfruttamento, scompare il plusvalore. Le conseguenze politiche che per Colletti derivano da tale interpretazione sono facili da intuire: le diseguaglianze sociali esistenti nel capitalismo devono essere interamente ricondotte a diseguaglianze prodotte nella circolazione, cioè, in ultima analisi, all’arbitrio con cui vengono fissati i prezzi. La diseguaglianza, in altre parole, cessa di essere imputabile al modo di produzione capitalistico in quanto tale e diviene semplicemente un “furto”, per dirla con Proudhon. È così, conclude Colletti, che il revisionismo di Bernstein poté avere buon gioco nell’individuare una soluzione politica alle diseguaglianze sociali nell’intervento dello Stato quale correttivo a tale “furto” anziché nel superamento del capitalismo stesso. La socialdemocrazia trova la sua giustificazione politica nel tradimento della teoria marxiana del valore.

Come interpretare allora il «lavoro astratto»? Se esso non è il prodotto di una semplice generalizzazione mentale, di cosa è il prodotto? Per Colletti, la risposta di Marx risiede precisamente nel fatto che il lavoro astratto non è un’astrazione mentale, ma un’«astrazione reale» nel senso di Alfred Sohn-Rethel (1977); un’astrazione, cioè, che avviene nella realtà del capitalismo e non in quello ideale della teoria economica. La forza-lavoro può essere trattata come merce scambiabile in denaro perché, sul mercato dello scambio, essa è considerata indipendentemente dai lavori privati che gli individui compiono. Mentre come capacità lavorativa privata la forza-lavoro è una determinazione dell’individuo ed è inseparabile da questo, nel momento in cui viene scambiata essa deve cessare di essere una qualità del suo portatore originario: solo in questo modo può divenire mera capacità di lavorare un determinato numero di ore e acquisire un valore di scambio. Perché possa essere messa a valore, la forza-lavoro deve quindi essere separata dai suoi portatori: il lavoro astratto è dunque lavoro alienato.

La vibrazione hegeliana di questa concezione non sfugge naturalmente a Colletti, che infatti vi ritorna l’anno successivo negli ultimi due capitoli de Il marxismo e Hegel – pubblicato nel 1969, ma scritto nel 1968. Per comprendere questa alienazione del lavoro analizzata da Marx in riferimento al modo di produzione capitalistico, Colletti fa ricorso al concetto di «alienazione» elaborato da Hegel in riferimento alla coscienza religiosa nella società cristiano-borghese. La religione, scrive Hegel (2003, 45) nelle Lezioni sulla filosofia della storia, è il luogo in cui un popolo si rappresenta Dio e il vero, e attraverso esso rappresenta anche sé stesso. Così, ad esempio, nella polis greca Dio è identificato direttamente con la comunità etico-politica in quanto tra l’individuo e quest’ultima sussiste un vincolo immediato e naturale, senza separazione tra vita pubblica e privata. Fu l’avvento del cristianesimo, per Hegel, a rompere questa unità attraverso l’introduzione di un principio divino posto al di sopra della comunità terrena del popolo e la ritrazione della coscienza soggettiva in sé stessa.

Questa alienazione della coscienza religiosa in una dimensione oltremondana trova per Hegel la sua riconciliazione nel protestantesimo del mondo cristiano-germanico. Vedendo la realizzazione della coscienza religiosa nella vita associata anziché nella ritrazione da questa, il protestantesimo reintroduce il principio divino nella comunità terrena e lo identifica con le istituzioni della società borghese. Per Colletti, il fatto che Hegel ponga il culmine di questo processo nella stessa società borghese analizzata da Marx è ciò che consente una lettura del concetto marxiano di «alienazione» alla luce di quello hegeliano. Allo stesso modo in cui Hegel può vedere la società borghese come il momento storico e il luogo concreto in cui si realizza l’esito di un processo il cui motore è l’alienazione, Marx può avere buon gioco a leggere i rapporti capitalistici che si realizzano nelle istituzioni di questa società borghese negli stessi termini. «Per strano che possa sembrare», commenta Colletti, «proprio questo è il punto in cui l’opera di Marx e quella di Hegel si toccano, fino a collimare per tutt’intera la loro superficie» (Colletti 1973b, 422).

Come infatti nel mondo pre-cristiano la comunità rappresentava un’unità originaria in cui l’individuo si identificava immediatamente, così nei modi di produzione pre-capitalistici i lavori singoli non sono che articolazioni dirette di un lavoro comune. Come il cristianesimo dissolveva questa unità originaria attraverso il principio della libertà individuale e dell’autonomia del soggetto rispetto alla comunità, così il capitalismo realizza questo principio instaurando rapporti di produzione fondati sul lavoro privato e non pianificato dalla comunità. Come questa scissione operata dal cristianesimo costituiva un’alienazione della coscienza religiosa nella dimensione oltremondana, così il capitalismo opera una alienazione del lavoro privato “al di sopra e al di fuori” degli individui, cioè nel lavoro astratto. E come il protestantesimo germanico ricomponeva questa alienazione riportando Dio nelle istituzioni terrene della società borghese, così il capitalismo oggettiva il lavoro alienato nel feticcio della merce, attorno a cui quelle stesse istituzioni capitalistico-borghesi ruotano.

Ora, il punto importante è che questo parallelismo tra la dialettica hegeliana e il metodo espositivo seguito da Marx nel Capitale non avviene per Colletti su un piano meramente formale – il piano, cioè, del famoso “civettare” di Marx con la terminologia hegeliana. Al contrario, l’idea che la categoria di «lavoro astratto» sia il risultato di un’astrazione reale anziché di una generalizzazione mentale suggerisce che la dialettica hegeliana dell’alienazione si svolga all’interno della stessa realtà capitalistica. È il capitalismo, prima che Marx, ad operare per Colletti secondo una logica dialettica – cioè presupponendo l’alienazione di ciò che è proprio del soggetto e la sua successiva oggettivazione in forma assoluta all’interno della realtà storica; ed è cogliendo questo aspetto che Marx può aver elaborato una teoria corretta e scientifica del suo funzionamento.

L’esito del processo di produzione capitalistico deve, in altre parole, essere inteso con le stesse caratteristiche metafisiche che Hegel attribuiva all’idea di Dio. Come riconosciuto anche da Marx, infatti, nella sua fisicità il prodotto del lavoro è nient’altro che un’entità determinata; è grano, tela, diamante, macchina: un semplice valore d’uso. Attraverso la sua alienazione nel lavoro astratto, però, esso diviene scambiabile perché si presenta esclusivamente come il prodotto di un certo tempo di lavoro; è merce: puro valore di scambio. Nelle parole di Colletti, «Marx, horribile dictu, accetta l’argomento che il valore è un’entità metafisica» (Colletti 1973b, 431). Nella sua esistenza reale, cioè nella sua manifestazione come prodotto concreto del lavoro, il valore è un’entità ambivalente: è valore d’uso e allo stesso tempo la negazione di questo come puro valore di scambio. «Horribile dictu»: orribile a dirsi, soprattutto per le orecchie anti-hegeliane di Colletti, che così scrive: «Questa società delle merci e del capitale è, dunque, la metafisica, il feticismo, il ‘mondo mistico’: essa, ben prima che la Logica stessa di Hegel!» (Colletti 1973b, 431).

Questo «singolare iper-hegelismo» (Bellofiore 2013, 52) cui l’anti-hegeliano Colletti giunge con un punto esclamativo non rappresenta ancora, per lui, un motivo di sospetto nei confronti del marxismo e della sua scientificità. Anzi, la tensione tra analisi scientifica del capitalismo e sua comprensione nei termini di una metafisica speculativa viene qui ritenuta feconda, se non addirittura necessaria a instaurare un raccordo tra comprensione teorica dei meccanismi di funzionamento del capitalismo e suo superamento attraverso la prassi rivoluzionaria. Come infatti l’idealismo di Hegel era una logica “rovesciata” rispetto alla razionalità scientifica perché faceva culminare le molteplici determinazioni storica della realtà in un’idea metafisica che in esse si manifesta, così il capitalismo è una realtà “rovesciata” rispetto alla razionalità scientifica perché si basa su una analoga intrusione nella realtà di quell’entità metafisica che è il valore. Se la mancata comprensione della teoria del valore da parte di Bernstein aveva privato la sua analisi del fondamento scientifico su cui innestare una politica rivoluzionaria, portandolo verso posizioni socialdemocratiche, la corretta comprensione della teoria del valore conduce a considerare il capitalismo come una realtà “rovesciata”, “a testa in giù”, delineando con ciò stesso l’obiettivo di riportarla “sui piedi”.

«Non si tratta», scrive Colletti nell’ultima pagina de Il marxismo e Hegel, «di contrapporre astrazioni ‘determinate’ a astrazioni ‘indeterminate’, una logica ‘corretta’ a una logica ‘scorretta’: la metodologia è la scienza dei nullatenenti» (Colletti 1973b, 434). La vera scienza, come Colletti dirà esplicitamente più avanti, è la rivoluzione che rimette la realtà sui suoi piedi. Come scrive in un articolo pubblicato sul mensile de «Il Manifesto» nel luglio di quello stesso anno (1969) e poi posto significativamente in chiusura della raccolta Ideologia e società:
 

Sottosopra, insomma, è la realtà stessa. Non si tratta, quindi, solo di criticare il modo in cui economisti e filosofi hanno rappresentato la realtà. Si tratta di rovesciare – cioè di raddrizzare e rimettere ‘sui piedi’ – la realtà stessa. ‘Finora i filosofi non hanno fatto altro che interpretare il mondo: adesso si tratta di trasformarlo’. Nelle pagine di sopra abbiamo visto il marxismo come scienza; ora siamo al marxismo come rivoluzione. (Colletti 1972c, 310)

È dunque Hegel, e non il suo rifiuto, che fanno del marxismo l’autentica scienza del capitalismo; si tratta, semmai, di giocare la scienza “contro” la realtà hegeliana del capitalismo: la rivoluzione è l’unico esito possibile del marxismo in quanto “inveramento” di tale scienza.
 
 
4. Contraddizione logica e opposizione reale: la crisi
 
Come già menzionato, Colletti fa iniziare una nuova fase del proprio pensiero intorno al 1973. Ma ancora nelle lezioni tenute agli inizi degli anni Settanta, dedicate al primo libro del Capitale, Colletti forniva una lettura dell’opera di Marx che riproduceva essenzialmente l’interpretazione che aveva sviluppato negli anni tra il ’67 e il ’69 (cfr. Colletti 2011). Allo stesso modo, l’introduzione all’edizione inglese degli Early Writings di Marx – pubblicata nel 1975 ma scritta nel 1971, come Colletti rivela nell’epistolario con Jay[7] – riprende questa lettura e insiste nuovamente sulla centralità del tema dell’alienazione. Contro ogni ipotesi di “rottura epistemologica” tra il Marx “maturo” e gli scritti “giovanili” e contro ogni possibilità di revisione hegeliana del marxismo, Marx mostrerebbe infatti fin dai primi scritti un atteggiamento radicalmente critico nei confronti del metodo hegeliano con cui tutta l’opera successiva si pone in stretta continuità.

È nella Kritik marxiana del 1843, ad esempio, che viene per Colletti (1975) svelata quella sostituzione hegeliana della realtà con l’Idea che nella Miseria della filosofia e nei Grundrisse fornirà la base per la critica all’astrattezza delle categorie economiche adoperate per un verso da Proudhon e per un altro dagli economisti classici. Soprattutto, insiste Colletti, tanto nella Kritik del 1843 quanto nella Judenfrage (scritta nello stesso anno) la critica all’Idea metafisica di Stato viene riferita alla moderna costituzione dello Stato borghese prima ancora che alla filosofia hegeliana del diritto. La stessa fondazione dello Stato moderno su criteri astratti di cittadinanza ne è una testimonianza. Secondo un movimento argomentativo già visto per il Capitale, critica all’idealismo hegeliano e critica della realtà vanno di pari passo: in entrambi i casi, si ha a che fare con un dominio di realtà “rovesciato” in cui una determinazione storica concreta – lo Stato moderno rappresentativo – viene vista come espressione di un principio ideale, astratto e quindi alienato rispetto agli individui concreti che vivono in società.

La lettura continuista dell’opera di Marx, un’eredità che Colletti ha ricevuto da Della Volpe e sempre conservato, viene qui giustificata sotto una nuova luce, che vede negli scritti giovanili il laboratorio in cui si definisce sul piano della critica allo Stato e al diritto un metodo che verrà successivamente applicato alla critica dell’economia politica. Lo stesso concetto di «alienazione» elaborato nei Manoscritti del 1844, scrive Colletti, non è una semplice riproposizione del concetto feuerbachiano di alienazione religiosa quale estraniazione dell’“essenza umana”; al contrario, nella misura in cui tale «alienazione» avviene attraverso il lavoro, essa deve essere intesa come un’estraniazione che avviene nel più ampio quadro dei rapporti di produzione (capitalistici), categoria che per l’appunto Marx “scopre” nei Manoscritti e attraverso cui approda definitivamente al campo dell’economia politica (Colletti 1975).

Facciamo però ora un ulteriore passo indietro di un anno. Nel 1970, l’editore Laterza pubblica un’antologia di testi di economisti riguardanti la tesi “crollo” del capitalismo curata da Colletti insieme a Claudio Napoleoni – una collaborazione su cui torneremo nella conclusione. Si tratta per lo più di testi scritti da autori del Novecento, una selezione che nella sua introduzione al volume Colletti giustifica con l’oscuramento, da parte del marginalismo tardo-ottocentesco, della dimensione storica del capitalismo – e, con essa, della possibilità stessa di un suo “crollo”. Troviamo così cospicuamente rappresentati all’interno del volume autori novecenteschi per lo più marxisti o ispirati al marxismo: Bernstein, Kautsky, Luxemburg, Hilferding, Lenin, ecc. Nonostante infatti l’ipotesi di una fine del capitalismo non sia appannaggio esclusivo del marxismo – sono presenti testi che vanno da Mill a Schumpeter a Keynes – è nella tradizione del marxismo, per Colletti, che il “crollo” si configura nei termini di «un passaggio storico a una nuova forma di organizzazione di una società», mentre per altri è concepibile solo come «un ‘tragico’ evento naturale, come un’improvvisa catastrofe naturale o il finale raffreddamento del sole» (Colletti 1970, LXXXIII).

Ciò che ci preme sottolineare qui è il modo con cui Colletti presenta questa impostazione marxista e, prima ancora, marxiana nei confronti della caducità del capitalismo. «L’atteggiamento di Marx verso il capitalismo», si legge nell’introduzione di Colletti,
 

Risulta dall’intreccio di due diverse prospettive. La prima è la prospettiva rivoluzionaria, la prospettiva di chi intende rovesciare la società borghese per ristabilire su nuove basi i rapporti umani che, in questa società, sono stati capovolti e messi «testa all’ingiù». La seconda è la prospettiva scientifica di chi intende ricostruire il modo in cui il sistema funzione e si sviluppa. (Colletti 1970, LXXXIII-LXXXIV)

Ora, ribadisce Colletti, queste due prospettive non sono giustapposte, ma integrate. La tesi qui è quella che Colletti aveva ormai consolidato in quegli anni e cui abbiamo già accennato in precedenza: «La vera scienza è solo la rivoluzione» (Colletti 1970, XCII).

Ciò tuttavia non rimuove per Colletti la presenza di due diverse attitudini nell’opera di Marx, quella dell’economista che indaga i meccanismi di funzionamento della società, e quella del critico dell’economia politica che ne disvela il carattere “rovesciato”. Sono espressione di questa duplice valenza dell’opera marxiana le diverse accezioni che la teoria del valore assume. Da un lato, infatti, la teoria del valore intende spiegare come il modo di produzione capitalistico possa funzionare nella sua interezza: «[d]al valore ai prezzi di produzione fino ai prezzi di mercato, e dal plusvalore al profitto fino al pareggiamento dei profitti stessi tramite la concorrenza» (Colletti 1970, XCIV), tutto può e deve essere rapportato alla teoria del valore quale “razionalità interna” di un sistema capitalistico che può così rimanere stabile anche in assenza di pianificazione. Dall’altro lato, questa stessa teoria del valore indica ciò che deve essere sovvertito perché i produttori cessino di essere dominati da ciò che è a loro alienato. Da ciò segue un’ambivalenza implicita: la teoria del valore spiega allo stesso tempo l’equilibrio del sistema capitalistico e la contraddizione fondamentale – l’alienazione e il feticismo – su cui tale equilibrio si regge fragilmente.

Naturalmente, Colletti riconosce la positività di questa ambivalenza, che fa appunto del marxismo una vera teoria rivoluzionaria: è grazie a questa natura anfibia che esso può individuare la risoluzione della contraddizione fondamentale del capitalismo nell’azione politica della lotta di classe. Era questo, in fondo, l’elemento di superiorità del marxismo autentico individuato da Colletti rispetto al determinismo “crollista” della Seconda Internazionale che sfociava politicamente nell’attendismo socialdemocratico. Per Colletti, una “teoria del crollo” è effettivamente presente in Marx nella forma della caduta tendenziale del saggio di profitto, ma tale crollo non deve essere inteso come automatico e inevitabile, prescindendo cioè dall’elemento della soggettività politica. Ciò che occorre chiedersi, semmai, è se questa teoria dall’esito aperto in cui la fine del capitalismo viene individuata in un fattore soggettivo possa essere considerata autentica scienza “oggettiva”. Se così non fosse, avremmo una remissione della prospettiva di superamento del capitalismo a un mero ideale regolativo, come per i secondinternazionalisti, e non all’inveramento di una teoria che è a un tempo scientifica e rivoluzionaria.

La questione viene significativamente lasciata aperta da Colletti, o meglio viene da lui ritenuta risolta automaticamente per ragioni eminentemente storiche: l’ultima incarnazione in ordine di tempo della teoria del crollo è individuata nella tesi staliniana, espressa nel XIX Congresso del PCUS, sull’inevitabilità della guerra tra Stati imperialisti come premessa per un loro ineluttabile indebolimento a vantaggio degli Stati socialisti. Dopo di allora, conclude Colletti, «l’insorgere del conflitto russo-cinese e l’abbandono della stessa teoria sulla “competizione economica” dei due sistemi sembrano inaugurare un’epoca assolutamente nuova, mai considerata né dal pensiero di Marx né da quello di Lenin» (Colletti 1970, CXII). Retrospettivamente, queste considerazioni faranno dire a Colletti, nelle lettere a Jay, che la scrittura di questo testo gli fece «sentire sempre più la difficoltà di tener unite l’interpretazione di Marx ‘come scienziato’ e come ‘teorico (filosofo?) dell’alienazione’»[8].

Un colpo deciso nella direzione di una soluzione negativa al problema della riconciliazione dei “due Marx” avviene, come accennato, nel 1973. L’occasione di questo ripensamento è una rilettura da parte di Colletti dello scritto precritico di Kant sulle «quantità negative» (Versuch den Begriff der negativen Größen in die Weltweisheit einzuführen, 1763). Significativamente, saranno proprio le tesi di questo testo di Kant a determinare infine l’abbandono del marxismo da parte di Colletti; lo stesso Kant che, insieme a Lenin, aveva costituito per Colletti un costante riferimento teorico lungo tutto il suo percorso intellettuale e la cui inusuale presenza all’inizio della trattazione marxista di Logica come scienza positiva era stato il fattore decisivo del suo avvicinamento a Della Volpe.

Ciò che è di interesse per Colletti in questo scritto kantiano è la distinzione operata già nelle righe iniziali nel capo primo, dove si legge: «Due cose, di cui l’una annulla ciò che è posto dall’altra, sono opposte. Tale opposizione è duplice: o logica per contraddizione, o reale, cioè senza contraddizione» (Kant 1990, 255). Il primo tipo di opposizione consiste per Kant nell’affermare e negare contemporaneamente il predicato di una cosa: è appunto una contraddizione logica, e come tale sussiste esclusivamente sul piano ideale. La seconda opposizione, che avviene sul piano reale, non configura invece alcuna contraddizione logica: è, ad esempio, l’opposizione tra due forze eguali impresse in un verso opposto ad uno stesso corpo, o tra un credito e un debito di eguale somma contratti da una persona nei confronti di un’altra.

Questa distinzione, per la verità, era già stata evocata da Colletti nell’introduzione ai Quaderni filosofici di Lenin del 1958, dove veniva utilizzata per indicare il fondamento del materialismo nel principio di non-contraddizione e destituire di ogni fondamento scientifico la “dialettica della materia” propugnata da Engels e dai Diamatiker (Colletti 1973b, 45 ss). È proprio questo spunto, anzi, ad essere ripreso da Perry Anderson nel corso della sua intervista a Colletti del 1974, ciò che fornirà l’occasione per il ripensamento concretizzato nel saggio su Marxismo e dialettica che Colletti pone in appendice dell’intervista quale chiarimento della stessa. La tesi esposta in questa nota conclusiva è piuttosto semplice: le contrapposizioni che si riscontrano nella realtà sono per l’appunto «opposizioni reali» nel senso kantiano, cioè opposizioni senza contraddizione (ohne Widerspruch). Le opposizioni dialettiche sono invece chiaramente intese da Hegel e da Marx come determinantisi per contraddizione logica (durch den Widerspruch): sono una compresenza di uno stato di cose e, allo stesso tempo, della sua negazione – come la compresenza nella merce di un valore d’uso e della sua negazione nel valore di scambio.

Ergo: non si possono dare nella realtà contraddizioni dialettiche, non nel senso inteso da Hegel e da Marx. Parlare, come lo stesso Colletti aveva tentato di fare su questa scia, di una realtà “contraddittoria” – “capovolta” e “a testa in giù” – significa violare il principio di non-contraddizione della logica, della scienza e del materialismo. Ecco allora che i due volti di Marx, quello dello scienziato e quello del filosofo hegeliano dell’alienazione, si ripresentano qui come separati da una frattura che è impossibile ricomporre nel segno del materialismo e della scienza. Che cosa ciò comporti e quali conclusioni ciò debba suggerire, Colletti non dice. Il saggio si chiude con un tono incerto che denota lo stesso travaglio intellettuale che traspariva da quasi tutta l’intervista:
 

Mi limito per ora a questa constatazione [dell’esistenza di ‘due Marx’]. Non le attribuisco alcun significato conclusivo. Le scienze sociali non hanno ancora trovato una loro vera fondazione. Quindi non so dire se questa duplicità sia esiziale o vantaggiosa. Il fatto certo, però, è che si tratterà di vedere se e come le due facce possano ricomporsi. Vederlo, seriamente, e non con qualche sotterfugio verbale. (Colletti 1974b, 113)

 
 
5. Il terzo periodo
 
Nell’epistolario cui ci stiamo continuamente riferendo, le circostanze in cui avviene l’intervista e la stesura della nota che la accompagna vengono così descritte da Colletti:
 

Arriva, nella primavera del 1974, l’intervista con P. Anderson. L’intervista non era preparata. Non conoscevo le domande: è il frutto di 4 ore di conversazione. Non ho potuto rivedere né controllare il testo. L’intervista, naturalmente, è piena di contraddizioni, perché mi coglie in un momento in cui sono in piena crisi. Marxism and Dialectic [sic] è scritto in una settimana, nell’autunno 1974, quando l’intervista deve uscire in italiano come piccolo libro. Marxism and Dialectic […] è uno scritto ancora molto oscuro e confuso. Tutta la questione è chiarita in Contraddizione dialettica e non-contraddizione che è pubblicato nel Tramonto dell’ideologia. (Laterza 1980)[9]

Le conclusioni esposte in quest’ultimo testo citato – in cui peraltro a Marx sono dedicate solo poche pagine – non stupiranno il lettore, che vi troverà sostanzialmente un approfondimento delle tesi di Marxismo e dialettica: con Trendelenburg, le contraddizioni dialettiche di Hegel devono essere senz’altro intese come contraddizioni logiche; sulla scorta di Kelsen, anche le contraddizioni individuate da Marx nel capitalismo vengono viste come contraddizioni logiche; attraverso Popper, infine, si ribadisce che non si può fare scienza ammettendo la contraddizione logica. Scompare invece l’ipotesi, che fino a due anni prima Colletti lasciava ancora aperta (cfr. Colletti 1979a), di una diversa fondazione delle scienze sociali rispetto a quelle naturali. È il congedo definitivo di Colletti dal marxismo.

Su questo esito finale pesarono ovviamente fenomeni politici oltre a quelli squisitamente teorici. In un’intervista a «Rinascita» del 1971 Colletti ammetteva un certo imbarazzo di fronte alla difficoltà di conciliare i “due Marx”, lo scienziato sociale e l’ideologo della rivoluzione, e sosteneva come la negazione marxiana dell’automatismo del “crollo” capitalistico ponesse immediatamente «il problema del partito come intellettuale collettivo, proprio nel senso gramsciano, cioè il partito in cui l’elemento di promozione ideologica e di sviluppo della coscienza di classe diventa uno dei fini principali nei confronti della classe» (Colletti 1973a, 301). Sicuramente, l’ostilità di Colletti nei confronti del PCI doveva rendergli difficoltosa l’individuazione di un soggetto politico in grado di svolgere questa funzione.

Un’indicazione autobiografica in questo senso viene anche dall’epistolario Colletti-Jay, nonché da un manoscritto del 1982 ivi allegato che costituisce quella che sarebbe divenuta la Prefazione all’edizione serbo-croata de Il marxismo e Hegel (Colletti 1982). Per una ricostruzione di questo aspetto, nella Prefazione Colletti rimanda qui a uno scritto del 1979 sulle ideologie successivamente incluso nella raccolta Tramonto dell’ideologia del 1980. La mancata realizzazione delle aspettative di Marx su una rivoluzione operaia nell’Occidente industrializzato, la degenerazione burocratica della rivoluzione bolscevica in URSS, la ricerca di un nuovo “soggetto rivoluzionario” nei paesi non-allineati del Terzo Mondo, il mancato sbocco rivoluzionario delle lotte studentesche e operaie del Sessantotto, sono tutti fattori che Colletti (1980) individua in questo scritto come cause politiche della crisi che il campo marxista subì negli anni ’70.

Secondo Colletti, è in questo clima infatti che la critica alla società industriale avanzata da Marcuse e la risposta politica a questa nei termini di un “Grande Rifiuto” proveniente dalle masse proletarizzate delle metropoli e del Terzo Mondo furono accolte con tanto favore dalla Nuova Sinistra (soprattutto italiana) da arrivare a dominarne il panorama intellettuale. Non sorprende allora che, attenuatosi l’entusiasmo iniziale per la rivoluzione culturale in Cina – la quale apriva ora una nuova fase di normalizzazione – e stroncato in un bagno di sangue l’esperimento politico di Allende in Cile, il movimento politico fuoriuscito dal Sessantotto dovette trovarsi in crisi. D’altro canto, l’emergere di vicende legate alla dissidenza sovietica (Arcipelago Gulag di Solženicyn esce in russo alla fine del 1973, subito tradotto nelle maggiori lingue europee) dovette mettere in discussione non solo la posizione ufficiale dei partiti comunisti europei ma, come testimoniato soprattutto dal dibattito francese, il marxismo nella sua interezza. Per Colletti, emergeva qui in tutta la sua dirompenza quella crisi del marxismo che Karl Korsch (1974) andava denunciando già nel 1931 e che ora non poteva più essere ignorata.

Naturalmente, questa ricostruzione deve essere presa con le dovute cautele: si tratta di una razionalizzazione a posteriori di un’intera vicenda politico-intellettuale che Colletti riteneva ormai conclusa, e scritta in una fase in cui Colletti prendeva già posizione a favore della democrazia liberale[10]. Allo stesso modo, ci riteniamo dispensati dal prendere in considerazione qui il profilo complessivo che emerge dalla produzione del Colletti post-marxista, che pure non è esigua ma che sul marxismo non ebbe sostanzialmente più nulla da dire sul piano dell’articolazione teorica. Non vogliamo però, con ciò, eludere il problema delle criticità che Colletti ritenne di aver ravvisato nel marxismo. Al contrario, ci sembra che gli spunti per una loro risoluzione felice fossero a disposizione di Colletti entro i termini di quella originale interpretazione del marxismo come “totalità espressiva” di scienza, critica e rivoluzione che egli aveva elaborato nel periodo successivo al 1967, ed è su questi che ci soffermeremo in conclusione.

Ma entriamo subito nel merito. In quello che ci sembra uno dei punti più alti del suo pensiero, Colletti sviluppa la sua teoria del lavoro alienato come «astrazione reale» e della realtà capitalistica come “mondo mistico”. Nella terza delle lezioni tenute all’inizio degli anni ’70 sul primo libro del Capitale, Colletti affronta precisamente questo tema: commentando il passaggio marxiano sul lavoro astratto, viene ripresa la tesi della coincidenza fra Marx e Hegel sul tema della società come sostantificazione della coscienza religiosa. E si legge:
 

Se le merci sono fatte in tutto e per tutto come è fatto l’uomo per il cristiano, è evidente che esse sono delle entità metafisiche. Questo può lasciare perplessi perché nessuno di noi dubita che le merci sono dei fatti reali, ma è anche vero che non bisogna avere un concetto ingenuo e superficiale di metafisica, come se le metafisiche siano cose inesistenti. Le metafisiche sono cose esistenti; ciascuno di noi può pensare quello che più gli aggrada circa l’esistenza o meno del Padreterno: sta di fatto che anche se non esistesse, esistono dei comportamenti sociali che sono in tutto e per tutto oggettivi, per cui degli uomini si genuflettono e pregano, e anche dimostrare l’inesistenza del Padreterno non vale a negare l’esistenza oggettiva di questi comportamenti. (Colletti 2011, 72-73, corsivo nostro)

Non bisogna avere un concetto ingenuo e superficiale di «metafisica». La metafisica esiste non in alternativa a una realtà sensibile governata dai principi logici della razionalità scientifica, ma in virtù del fatto che essa produce in questa realtà sensibile fenomeni oggettivi e comportamenti sociali che operano, e in questo caso operano come se esistesse una contraddizione logica. Come i cristiani si genuflettono e pregano etsi Deus non daretur, cioè presupponendo un’entità metafisica indipendentemente dalla sua esistenza effettiva, così l’accumulazione capitalistica deve presupporre una realtà altrettanto metafisica come la merce perché possa essere compreso razionalmente. È qui che stava per Colletti la contraddizione dialettica e la necessità di rovesciare il capitalismo: si trattava di rovesciare la realtà e conformarla ai principi della razionalità scientifica. Ma come la tensione tra la realtà sociale del cristianesimo e l’eventuale inesistenza di Dio non costituisce alcuna contraddizione logica, così la contrapposizione dialettica tra la realtà storica del capitalismo e i presupposti logici della razionalità scientifica non costituisce alcuna violazione del principio di non-contraddizione.

La coincidenza tra opposizione dialettica e contraddizione logica era dunque chiaramente negata da Colletti fino a pochi anni prima dell’intervista del ’74. La proposta di questa equazione – in forma ancora larvata – all’interno del saggio su Marxismo e dialettica che accompagnava l’intervista non mancò d’altro canto di suscitare dibattito all’interno del marxismo italiano e non solo. A rispondere furono anzitutto Massimo Mugnai (1975 e 1978), Gabriele Giannantoni (1976), Emanuele Severino (1978), Sergio Landucci (1978), e il gruppo di ricercatori della Scuola di perfezionamento in filosofia dell’Università di Padova, riuniti intorno a Enrico Berti (1977). Pur da prospettive anche radicalmente diverse, tutti questi interventi contestano la presunta violazione del principio di non-contraddizione da parte del metodo dialettico, come Colletti aveva invece sostenuto da un certo punto in avanti. Il dibattito fu occasione di un convegno sul tema della contraddizione tenutosi a Padova nel maggio del 1980, cui Colletti partecipò insieme ad alcuni dei critici citati sopra. Il saggio su Contraddizione dialettica e non-contraddizione, che rappresenta l’ultima parola di Colletti sul tema, costituisce il testo del suo intervento al convegno e, come si è visto, non comporterà alcuna revisione delle posizioni dell’autore, il quale anzi le rafforzerà.

Non entreremo qui nel dettaglio delle possibili soluzioni conciliative di dialettica e contraddizione, il cui rifiuto reciso da parte di Colletti risponde probabilmente a un congedo dal marxismo che era già in atto (è l’interpretazione, ad esempio, di Cristina Corradi in 2005, 247). Ci limiteremo a notare, come è stato già rilevato altrove, che l’identificazione della contrapposizione dialettica con la semplice contraddizione logica – A e non-A – configura una visione estremamente «povera» (Bellofiore 2007, 203) e riduzionistica della dialettica stessa, e che questa identificazione non segue in alcun modo dalle premesse con cui Colletti andava interpretando il capitalismo come una realtà “rovesciata” e come “mondo mistico”, come la sua articolazione nelle lezioni sul Capitale dimostra. A testimonianza della praticabilità di questa interpretazione, vogliamo mostrare come la posizione di Colletti nel suo “secondo periodo” presenti alcuni punti di convergenza con una sotterranea ma nobile tradizione interpretativa nel marxismo che giunge fino ad oggi, e che in una certa misura Colletti stesso ha contribuito ad aprire.
 
 
6. Colletti e il marxismo del Novecento
 
6.1 Claudio Napoleoni
 
Come ricorda Colletti a Martin Jay, la sua interpretazione della teoria del valore ha influenzato profondamente gli economisti italiani; ancora nel 1976, ad esempio, Marco Lippi discuteva e accoglieva l’interpretazione collettiana del lavoro astratto all’interno del suo libro su Marx e il valore come costo sociale reale. Ma il sodalizio teorico più profondo è sicuramente quello con Claudio Napoleoni, con il quale Colletti cura l’antologia sul “crollo” del capitalismo del 1970. Tale sodalizio ha in realtà inizio nel 1969, ed è proprio dal confronto con Colletti che in quel periodo ebbe inizio per Napoleoni un recupero della teoria del valore-lavoro nei termini collettiani dell’identità tra lavoro alienato e lavoro astratto (cfr. Bellofiore 1991, 80-82). Ancora nella primavera del 1971, in effetti, Napoleoni (1992) rimaneva nell’orbita sraffiana ribadendo come la teoria marxiana del valore-lavoro contenesse contraddizioni insanabili, e nel giugno dello stesso anno caldeggiava riforme redistributive di politica economica in sostanziale accordo con la linea “anti-marxista” della «Rivista Trimestrale», che Napoleoni co-dirigeva insieme a Franco Rodano (Napoleoni 1971). Ma nell’ottobre dello stesso anno, intervenendo a un convegno dell’Istituto Gramsci su «Il marxismo italiano degli anni ’60 e la formazione teorico-politica delle nuove generazioni», Napoleoni (1972, 189) si poneva criticamente nei confronti dei giovani marxisti sraffiani proprio in virtù dell’incompatibilità dell’analisi di Sraffa con la tesi marxiana secondo cui «il profitto è l’effetto dello sfruttamento».

In effetti, in una lettera del 23 settembre 1969 a Colletti, Napoleoni aveva riconosciuto all’autore de Il marxismo e Hegel la giustezza dell’affermazione ivi contenuta secondo cui «Sraffa ha fatto un falò dell’analisi di Marx» (Colletti 1973a, 431), avendo egli risolto il cosiddetto «problema della trasformazione» dei valori in prezzi di produzione lasciato aperto da Marx nel senso di un abbandono della teoria del valore-lavoro. Specularmente, l’apprezzamento che Napoleoni andava maturando nei confronti di Colletti a partire dal 1969 consisteva proprio nel riconoscimento del fatto che il «lavoro astratto» non può che essere interpretato come lavoro alienato (cit. in Bellofiore 1991, 81 e Vaccarino 1992, 63). Questa constatazione viene ripresa nell’intervento al convegno sul marxismo degli anni ’60, dove Napoleoni sottolinea appunto il fatto che nell’analisi marxiana il profitto origina da una alienazione del lavoro rispetto agli individui che lo prestano quale avviene nella socializzazione del lavoro privato. Il valore ha dunque origine nel lavoro astratto e nello sfruttamento, ossia al cuore del processo produttivo. Non è pertanto possibile, come gli sraffiani avevano preteso, ridurre analiticamente la sorgente del valore e del profitto ai concreti valori di scambio delle merci o ai prezzi di produzione – un punto, ricorda Napoleoni (1972, 185), ristabilito a livello filosofico «essenzialmente per opera di Lucio Colletti (del quale si veda soprattutto l’Introduzione a Bernstein)».

Sulla base di questa adesione all’interpretazione collettiana del lavoro astratto come lavoro alienato, Napoleoni abbandonerà anche la direzione della «Trimestrale» e la sua tendenza sraffiana, avvicinandosi ulteriormente al marxismo. Ciò lo porterà negli anni successivi a intraprendere un programma di ricerca di economia politica critica[11] che muterà direzione solo con la conclusione, giunta in parallelo a quella di Colletti, dell’esistenza di “due Marx” inconciliabili, lo scienziato e il filosofo dell’alienazione (Napoleoni 1976b). Su questo punto, tuttavia, la conclusione di Napoleoni sarà opposta a quella di Colletti e consisterà in una valutazione positiva dell’aspetto filosofico, sotto il quale per Napoleoni si può conservare la validità di quella stessa teoria del valore-lavoro che mostra invece la sua caducità da un punto di vista prettamente scientifico. Ciò configurerà uno slittamento parziale del tema dell’alienazione dal piano della critica dell’economia politica a quello di una più ampia critica della società, condotta all’insegna di una metafisica di stampo heideggeriano, che nell’ambito del dibattito sulla contraddizione aperto da Colletti condurranno Napoleoni ad affiancare in parte la posizione di Severino, secondo il quale l’unità dialettica degli opposti è una categoria dell’«Essere» e la sua riduzione a contraddizione logica è un’operazione dell’intelletto astratto (Napoleoni 1985).
 
 
6.2 Isaak Il’ijč Rubin
 
Ma ampliando lo sguardo dal dibattito italiano a quello internazionale, un contributo alla comprensione della portata interpretativa di tesi come quelle di Colletti proviene dai Saggi sulla teoria del valore di Marx composti negli anni ’20 dall’economista russo Isaak Il’ijč Rubin. L’occasione per questi Saggi origina nella temperie del dibattito sulla pianificazione e sulle strategie per lo sviluppo economico sovietico, in piena Nep; bersaglio polemico delle riflessioni di Rubin sono proprio quei sostenitori della Nep, come Bucharin, che difendevano il mantenimento parziale di rapporti di mercato tra i contadini. Sul piano della teoria economica, questa posizione veniva fatta discendere da una interpretazione “naturalistica” della teoria marxiana del valore-lavoro, secondo cui nella “legge del valore” che regola la produzione capitalistica vi sarebbe in realtà un “contenuto materiale” valido per ogni società. Tale contenuto consisterebbe nel fatto che il «lavoro astratto» che crea valore può essere visto come un semplice dispendio fisiologico di forza-lavoro umana, e pertanto è costitutivo di ogni modo di produzione anziché essere caratteristico di quello capitalistico. La transizione al socialismo sarebbe stata dunque da attuarsi attraverso l’affiancamento della pianificazione ai rapporti di mercato così da conservare solamente il “contenuto materiale” della legge del valore (cfr. Bucharin e Preobraženskij 1972).

Le posizioni di Rubin muovono precisamente da una critica a questa naturalizzazione della teoria del valore, che egli attua attraverso un recupero della teoria marxiana del feticismo. Sulla base di alcune ambiguità effettivamente presenti nel Capitale, scrive Rubin, i marxisti ortodossi come Bogdanov e Bucharin hanno interpretato il lavoro astratto fisiologicamente, come mero dispendio di forza-lavoro umana. Ciò tuttavia costituisce una reificazione feticistica proprio nel senso denunciato da Marx, ossia una illusione ideologica che «trasforma poi categorie economiche reificate in ‘forme oggettive’ (di pensiero) valide per un dato modo di produzione, storicamente determinato: l’economia mercantile» (Rubin 1976, 6). Al contrario, il concetto di «lavoro astratto» da cui origina il lavoro nella produzione capitalistica «implica una determinata forma sociale di organizzazione del lavoro, propria dell’economia mercantile»; ciò significa, per Rubin (1976, 115; corsivo nostro), che «[n]ella teoria marxiana, la trasformazione del lavoro concreto in astratto non si riduce a un atto di astrazione teorica, che termina all’individuazione di un’unità di misura originale. Si tratta piuttosto di un fatto sociale reale».

Questa formulazione, che evoca platealmente il concetto di «astrazione reale», dovrebbe ormai suonare familiare a chi legge. Come ha scritto Silvano Tagliagambe (1978, 157), infatti, la prospettiva di Lucio Colletti sulla teoria marxiana del valore è «singolarmente vicina a quella avanzata quasi cinquant’anni prima da Rubin». Ma si tratta probabilmente di conclusioni cui i due autori, a cinquant’anni di distanza dall’altro, giungono in modo indipendente: la traduzione italiana dei Saggi di Rubin arriva infatti nel 1976, sulla base della traduzione inglese dal russo voluta da Fredy Perlman per la cooperativa editoriale anarchica Black&Red di Detroit (1972), in un periodo in cui Colletti guardava già con sospetto alla teoria del valore di Marx. Non commenteremo qui sulla rilevanza che può assumere, anche per la riflessione contemporanea, la teorizzazione complessiva cui Rubin giunge qui e altrove[12]. Ci sembra invece utile esplicitare quelle linee di connessione tra la lettura di Marx considerata finora e quella “dialettica della forma valore” cui alla metà degli anni Sessanta giunge, «per altre vie e senza conoscere i lavori di Rubin» (Agazzi 1984, 10), Hans-Georg Backhaus[13].
 
 
6.3 Hans-Georg Backhaus
 
Dieci anni prima della traduzione tedesca dei Saggi di Rubin (1973), anch’essa condotta sull’edizione Black&Red in lingua inglese, Backhaus scova infatti casualmente una rara copia del Capitale nella sua prima edizione del 1867, appartenuta al politico socialdemocratico Herman Brill e ora disponibile nella biblioteca della Casa dello Studente «Walter Kolb» di Francoforte (Backhaus 2016b, 68-69). È dal raffronto di questa con la seconda edizione del 1872 e con gli altri manoscritti preparatori del Capitale che Backhaus delinea i contorni di una ricostruzione-restituzione dell’originaria “critica dell’economia politica” di Marx. Contro le distorsioni economicistiche e gli appiattimenti della teoria del valore su una lettura ricardiana, Backhaus sostiene infatti la necessità di una comprensione specificamente filosofica e dialettica di quella analisi marxiana della “forma di valore” già messa a tema da Rubin. Come Rubin, infatti, Backhaus fa risalire alle ambiguità espositive del Capitale i successivi fraintendimenti della teoria marxiana del valore-lavoro, mentre la ricostruzione del metodo effettivamente seguito da Marx mostrerebbe chiaramente la centralità di categorie dialettiche. Come scrive Backhaus citando il Lenin dei Quaderni filosofici, «non si può comprendere pienamente il Capitale di Marx, se non si è studiato a fondo e compreso l’intera Logica di Hegel», con la conseguenza che «dopo mezzo secolo nessun marxista ha compreso Marx!» (Lenin 1958, 171, cit. in Backhaus 2016a, 81).

Per Backhaus, le critiche mosse a Marx sulla base del problema della trasformazione dei valori in prezzi mancano di vedere come l’incommensurabilità tra i primi e i secondi, tra merce e denaro, deriva da una incommensurabilità realmente presente nella realtà capitalistica tra i lavori privati dei produttori individuali di merci e il loro divenire sociali mediante lo scambio dei loro prodotti come “valori”. La categoria marxiana di «valore» è dunque una categoria intrinsecamente dialettica, una «unità del molteplice» (Backhaus 2016a, 81) e una totalità astratta che contiene in sé molteplici determinazioni concrete, manifestandosi ora come merce (in quanto prodotto del lavoro umano), ora come denaro (in quanto prezzo con cui tali merci si presentano nel mercato dello scambio). Ma essa è tale perché è la produzione capitalistica stessa a richiedere una mediazione tra il lavoro privato dei produttori e il loro carattere sociale nello scambio tra attività e prodotti. Si profila così nella realtà della produzione di merci una «contraddizione fondamentale» (Backhaus 2016a, 89). È evidente, commenta Backhaus (2016a, 95), che questo sdoppiamento in merce e denaro «può venir decifrato soltanto quando si possa dimostrare che questa relazione antagonistica tra cose esprime una relazione tra uomini, la quale a sua volta è similmente strutturata in forma antagonistica»: la merce denota insomma «una realtà sui generis».

Se nei passi appena citati non risuonasse a sufficienza una analogia tanto formale quanto sostanziale con le formulazioni di Colletti ripercorse più sopra, si riporta qui un ultimo passaggio sulle implicazioni pratiche che Backhaus deriva dalla “critica dell’economia politica” così ristabilita nel suo legame con i tratti costitutivamente dialettici della realtà sociale:
 

Parafrasando la quarta Tesi su Feuerbach, si potrebbe formulare come segue la critica di Marx a Ricardo: Ricardo parte dal fatto dell’autoestraneazione economica, dallo sdoppiamento del prodotto in una entità dotata di valore, cioè in una cosa immaginata e una cosa reale. La sua teoria consiste nel risolvere il valore in lavoro. Egli non vede che la cosa principale resta ancora da fare. Il fatto cioè che il prodotto si scinde in se stesso e si fissa in un regno indipendente di categorie economiche, al di là della coscienza, va spiegato appunto soltanto in base all’autolacerazione e autocontraddizione del lavoro sociale. Bisogna dunque anzitutto comprendere proprio quest’ultimo nella sua contraddizione, e poi rivoluzionarlo praticamente eliminando la contraddizione. (Backhaus 2016a, 90)

Queste considerazioni si presterebbero perfettamente a riassumere le stesse conclusioni cui Colletti giunge nelle pagine finali de Il marxismo e Hegel, in cui dall’acquisizione del carattere dialettico dell’analisi marxiana si concludeva sulla sua corrispondenza con il carattere dialettico della realtà sociale, e da questa alla necessità di un suo superamento rivoluzionario. Ciò appare ancora più affascinante se si considera quanto Backhaus ebbe a dire sull’approccio seguito nel suo scritto La dialettica della forma di valore da cui qui si è citato. Nelle parole di Backhaus (2016b, 67), questo lavoro «deve la sua nascita ad alcune idee fondamentali, esposte da Adorno nei suoi due cicli di lezioni, finora inediti, Teoria della società e Alcune questioni de la dialettica, nel saggio Sociologia e ricerca empirica e nel seminario avanzato [Oberseminar] di sociologia».

Ora, le posizioni a dir poco critiche di Colletti nei confronti di Adorno, di Marcuse e di tutta la Scuola di Francoforte sono note. Nell’ambito della sua doppia polemica anti-hegeliana contro il materialismo dialettico e contro il marxismo occidentale, Colletti vedeva nello hegelo-marxismo da Lukács in poi una «reazione idealistica contro la scienza» che accomunava la teoria lukácsiana della «reificazione» alla Dialettica dell’illuminismo alla critica marcusiana della società industriale avanzata, in una comune discendenza dalla critica di Hegel all’«intelletto» (cfr. Colletti 1972b). Ma se il giudizio di Colletti nei confronti dei fondatori della Scuola di Francoforte è inappellabile, per questa seconda generazione di allievi di Horkheimer e Adorno egli spende invece parole elogiative che possono apparire sorprendenti solo in apparenza. Soffermiamoci ancora un momento su questa inedita linea di connessione tutta interna al marxismo europeo.
 
 
6.4 Helmut Reichelt e Alfred Schmidt
 
All’episodio del fortuito ritrovamento di una copia della prima edizione del Capitale da parte di Backhaus nel 1963, Helmut Reichelt (2008, 11) fa risalire gli esordi di quella che è divenuta nota nella letteratura tedesca come neue Marx-Lektüre («nuova lettura di Marx»), un’etichetta che ricomprende tra i suoi iniziatori non solo Backhaus, ma anche lo stesso Reichelt, oltre che Alfred Schmidt, Hans-Jürgen Krahl e Oskar Negt. Proprio a Reichelt, nella già citata rivista a «Rinascita» sulla Scuola di Francoforte, Colletti dedica un apprezzamento dovuto a quello che gli sembra un avvaloramento della propria interpretazione del rapporto Hegel-Marx:
 

Proprio in questi giorni sto leggendo il libro di un giovane marxista tedesco, Helmut Reichelt, intitolato Sulla struttura logica del concetto di capitale in Marx. In questo libro, estremamente documentato, si sviluppa appunto un discorso che tende a sottolineare come ‘l’idealismo di Hegel è la società borghese stessa come Ontologia’, oppure come ‘la dialettica di Hegel in quanto dialettica idealistica è la riproduzione filosofica dell’inversione di soggetto e oggetto che avviene nella realtà capitalistica stessa’. (Colletti, 1973b, 296)

Ora, è pur vero che pochi mesi dopo Colletti rifiuterà di scrivere una prefazione all’edizione italiana del testo di Reichelt, ritenendo che l’autore fosse «rimasto sommerso dalla materia» senza venirne a capo: «Sul capitale c’è poco o nulla; niente di preciso sulla ‘struttura logica’ del capitale» (cit. in Di Bari 2012, 103). Tuttavia, due anni prima Colletti aveva espresso un giudizio più nettamente positivo su quell’altro esponente della neue Marx-Lektüre che è Alfred Schmidt. A differenza di quanto avvenuto con il testo di Reichelt, Il concetto di natura in Marx di Alfred Schmidt viene pubblicato in Italia nel 1969 da Laterza, l’editore storico di Colletti, con una Prefazione dello stesso. Il tono largamente elogiativo con cui Colletti presenta l’opera viene accompagnato da parole di cautela e di rinnovata presa di distanza dalla Scuola di Francoforte, dal momento che si trattava di una revisione della tesi di dottorato scritta da Schmidt sotto la direzione di Horkheimer e Adorno. Come detto, per Colletti la Scuola di Francoforte rimaneva irrimediabilmente viziata di idealismo. Ma nel lavoro di Schmidt egli vedeva invece la possibilità di un connubio tra marxismo e dialettica nel segno del materialismo, «una piccola ma rara vittoria della forma sul caos» che poneva Schmidt in discontinuità con l’elaborazione francofortese: «Non voglio dire che l’Istituto di Francoforte abbia covato nel suo seno una… vipera (sebbene è pur vero che la Provvidenza ha risorse infinite). Dico soltanto che Schmidt mi sembra un marxista sul serio» (Colletti 2017, 62-63).

Per Colletti, i frutti promettenti dell’impostazione di Schmidt derivano dalla sua ripresa della critica marxiana all’identità hegeliana di soggetto e oggetto, di essere umano e natura, che riavvicina Marx a Kant distanziandolo da Hegel. Alla luce di questa ristabilita differenza qualitativa tra sfera umana e sfera naturale, Schmidt può infatti sottrarre la dialettica alla sua ipostatizzazione nel piano fisico-materiale – dove invece era stata posta tanto dal Diamat, con la sua «dialettica della natura», quanto dal “marxismo occidentale”, nel quale la natura trova posto solo come termine dialettico di appropriazione da parte del soggetto umano. La dialettica può così tornare a essere riferita all’ambito di applicazione originariamente inteso da Marx, ossia la sfera della produzione capitalistica. È all’interno di questa, infatti, che l’attività lavorativa umana assume una natura dialettica per via della contraddizione insita nella forma astratta che il lavoro sociale assume. Come merce, infatti, il lavoro astratto contiene in sé tanto un sostrato materiale – la fisicità del suo valore d’uso – quanto un valore di scambio che è determinato invece dai rapporti sociali di produzione. Questa duplicità rende impossibile per Schmidt (2017a, 130) «fissare formalmente» il rapporto tra natura umana e natura, la cui comprensione richiede l’adozione di categorie squisitamente dialettiche (cfr. anche Schmidt 2017b)[14]. Ma per Schmidt (2017a, 135), ciò fa sì anche che la soppressione di questa contraddizione consista «non nella filosofia, bensì nel socialismo quale forma più alta della reale mediazione di uomo e natura; dove l’oggettività della natura non scompare semplicemente, bensì resta come elemento esterno, ciò di cui gli uomini si devono appropriare, anche quando non è più estraneo ad essi».

Come nel caso di Reichelt e Backhaus, troviamo qui conclusioni in profonda sintonia con quelle di Colletti. Ma anche in questo caso, le premesse da cui tali conclusioni discendono erano ereditate da quegli stessi Horkheimer e Adorno cui Colletti guardava con sospetto. Era stato in particolare lo Horkheimer degli anni Trenta – dal quale Schmidt rimase sempre profondamente influenzato (cfr. ad es. Schmidt 1988) – a sottolineare infatti come un’epistemologia materialista non potesse che andare nella direzione di un riconoscimento del ruolo attivo del pensiero e della prassi nella costituzione della realtà storico-sociale (cfr. ad es. Horkheimer 1974a e 1974b, ma anche Adorno 2004; spunti in questa direzione si ritrovano anche nella Dialettica dell’illuminismo). D’altro canto, parlando a «Rinascita» Colletti (1973b, 301) si era mostrato disposto a riconoscere alla Scuola di Francoforte «il merito di riporre con forza l’accento sull’importanza dell’elemento soggettivo ai fini del maturarsi e risolversi del processo storico». Ma poiché questa rimaneva per Colletti macchiata di irrazionalismo, egli ne rifiutava l’impostazione epistemologica complessiva in nome di una maggiore fedeltà alla lezione di Kant. Fu questa professione di kantismo, come abbiamo visto, lo scoglio su cui era destinato a naufragare il tentativo collettiano di cercare una fondazione scientifica del marxismo, ed è da questo ultimo che intendiamo ora prendere le mosse per tentare una conclusione generale del percorso qui tracciato.
 
 
7. Conclusioni
 
Come si è detto, nel momento in cui Colletti equiparava le contraddizioni dialettiche a quelle «contraddizioni logiche» che per il Kant precritico possono esistere solo sul piano ideale, si squadernava davanti a lui il problema dei “due Marx”, lo scienziato materialista della realtà sociale (la quale non ammette contraddizioni logiche) e il filosofo idealista dell’alienazione concepita sotto la specie della contraddizione. Ma prima che la soluzione di questo problema si imponesse a Colletti nella forma di una ineluttabile condanna di anti-scientificità per il marxismo, egli si rifiutava di trarre dalla constatazione di questa ambivalenza marxiana alcuna conclusione definitiva, dal momento che, come ricordato più sopra, era quantomeno ipotizzabile per lui che le scienze sociali trovassero una fondazione autonoma rispetto alle scienze naturali, e si rivelassero quindi in grado di accogliere la contraddizione (cfr. Colletti 1974b, 113). È questa, in fondo, la strada intrapresa dagli autori appena considerati, in particolare da quelli di estrazione filosofica francofortese. Sulla scorta della polemica contro il positivismo di Horkheimer e di Adorno (ma anche di Marcuse), era infatti possibile per questi “nuovi lettori di Marx” ammettere, e anzi richiedere, una indagine della realtà sociale attraverso l’utilizzo di categorie dialettiche: nelle mani della neue Marx-Lektüre, la dialettica diviene il metodo particolare con cui si lascia indagare quell’oggetto altrettanto particolare che è il valore-lavoro, motore della produzione capitalistica e, nelle parole di Backhaus, tratto costitutivo di una «realtà sui generis».

Tale soluzione viene invece respinta da Colletti per le stesse ragioni che hanno sempre animato, pur con intensità variabile, la sua polemica con la Scuola di Francoforte. Alle domande con cui, in una lettera del 3 giugno 1982, Martin Jay invitava Colletti ad esprimersi sulle possibili convergenze con la critica di Adorno a Hegel nella Dialettica negativa, l’interpellato rispondeva:
 

Il mio giudizio negativo sulla Scuola di Francoforte non è cambiato. La posizione di Adorno sulla dialettica a me sembra eclettica. Quando si nega l’identità di soggetto e oggetto, si nega l’unità degli opposti. Impossibile, allora, continuare a parlare di dialettica. Continuare a opporre la Vernunft rispetto al Verstand (come fa Adorno), significa opporre la unità degli opposti alla loro distinzione-separazione. In Drei Studien zu Hegel, Adorno fa molta confusione e molto eclettismo, ma restando sempre dentro il recinto di Hegel. Il fatto che Adorno sia ancora un dialettico hegeliano spiega il suo rifiuto della scienza.

E ancora, su Habermas e la sua presa di distanza dall’anti-scientismo di Marcuse:
 

Habermas è certo più equilibrato di Marcuse. Ma, poiché io respingo la dialettica, respingo anche l’‘ermeneutica’. Respingo una divisione di principio tra scienze della natura e scienze sociali. Trovo molto interessante, a questo riguardo, la posizione di Mary B. Hesse: veda il suo saggio in The Use of Models in the Social Science[s], a cura di Lyndhurst Collins, Tavistock, London 1976. La Scuola di Francoforte è ancora un episodio (e questa osservazione vale, forse, anche per Habermas) della Romantik tedesca.[15]

Nel saggio citato qui da Colletti, la filosofa della scienza Mary Hesse (1976) riconduceva le ragioni delle posizioni anti-naturaliste nelle scienze sociali (tra cui annoverava il marxismo e l’ermeneutica) ad alcuni limiti effettivamente presenti nelle prescrizioni (neo-)positivistiche e neo-empiristiche sulla condotta scientifica. Hesse difendeva però una forma di naturalismo che ella ravvisava nell’utilizzo, condiviso da scienze naturali e sociali, di analogie concettuali che possono svolgere la funzione di modelli scientifici. La diffidenza di Colletti nei confronti di quelle che egli riteneva fondazioni epistemologiche dubbie per una scienza sociale marxista aveva però radici più profonde di queste. Non si tratta infatti, per lui, di ristabilire semplicemente il naturalismo e l’unità (metodo)logica di scienze naturali e scienze sociali, negando – come Hesse – che esistessero de facto differenze radicali tra i due metodi di indagine. Come Colletti non manca di ricordare anche nell’ultima lettera citata qui sopra, il problema di ogni tentativo mosso in senso contrario a questo naturalismo è che esso rappresenta una forma di Romantik, cioè di critica all’intelletto, e dunque un attacco alla scienza. Il punto fermo di Colletti rimane, insomma, il fondazionalismo kantiano che àncora la verità scientifica alle categorie logiche dell’intelletto.

Sarà questo costante e personale materialismo kantiano di Colletti ad avvicinarlo parzialmente, nella sua fase post-marxista e tramite la conoscenza di Marcello Pera, a Popper. Dopo il suo congedo dal marxismo, Colletti non si occupò più sistematicamente di saggistica filosofica, né divenne mai un seguace di Popper. Il “razionalismo critico” di quest’ultimo veniva da lui accolto solo nella misura in cui esso si poneva in continuità con l’impostazione epistemologica di Kant. Ma per questa stessa ragione, Colletti (1996) arrivava a tracciare anche un parallelo decisamente inusuale tra Popper e quello che individuava come l’altra grande figura del materialismo dopo Kant: il Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo. L’attacco rivolto insieme al fenomenismo di Berkeley e allo strumentalismo di Mach, la difesa dell’oggettività della scienza e della sua portata conoscitiva, il fallibilismo, il realismo e la teoria della verità come corrispondenza; tutti elementi che per Colletti avrebbero accomunato in modo inedito Lenin e Popper.

Di Popper, Colletti rifiutava invece – e a ragione – la lettura anti-storica di Platone come profeta del “totalitarismo” (cfr. Popper 2004 e Colletti 1989c), così come diffidava della sua insistenza sulla theory-ladenness delle osservazioni scientifiche, ossia l’idea che queste ultime siano sempre “impregnate” di teoria e non del tutto separabili da essa. In questa tesi, Colletti vedeva i semi dell’“anarchismo metodologico” di Feyerabend e di un sociologismo che conduceva alla bancarotta della conoscenza scientifica attraverso l’indistinzione logica di scienza e pseudo-scienza (Colletti 1989a, 1989b). In questo senso, Kant rimaneva per Colletti superiore a Popper anche come filosofo della scienza: diversamente che da Popper, infatti, la distinzione tra “osservazione” e “teoria” veniva da Kant limpidamente rimarcata – nella forma di una omologa distinzione tra «sensibilità» e «intelletto» – all’interno della sua polemica contro Leibniz[16]. Ma, appunto, sotto molti altri aspetti Popper poteva per Colletti (1989b, 86) essere considerato «un neokantiano». Lo stesso Popper (1988, 14), d’altronde, si era riferito al problema centrale che attraversa la sua Logica della scoperta scientifica, quello della demarcazione tra scienza e non-scienza, come al «problema di Kant».

Siamo giunti così a un punto cruciale e conclusivo di tutta la vicenda. L’originario avvicinamento di Colletti al marxismo, infatti, era stato determinato dalla lettura di Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin, dunque attraverso una teoria materialista della conoscenza; la stessa teoria materialista della conoscenza che egli ritrovava in Kant e nella lettura che di questi dava la Logica come scienza positiva di Della Volpe, da cui l’interpretazione collettiana di Marx prese le sue mosse iniziali. Ma si trattava, per l’appunto, di un’epistemologia fondazionalista, da cui cioè era possibile derivare criteri logici di demarcazione tra scienza e non-scienza (e quindi tra scienza e filosofia). Inevitabile dunque che, una volta che lo scrutinio epistemologico individuasse nella dialettica una violazione dei criteri di scientificità, la teoria del valore-lavoro dovesse per Colletti porsi automaticamente al di fuori della scienza, nel regno della pseudo-scienza, della speculazione, dell’ideologia, della metafisica.

Valutando però la chiusura di questo cerchio teorico sotto un altro punto di vista, si potrebbe sostenere che la concezione “povera” della dialettica di Colletti, di cui sopra si è parlato, provenga in fondo da una concezione altrettanto “povera” di scienza. Lo stesso Colletti (2011, 72) aveva mosso passi illuminanti in questa direzione quando ammoniva a non avere «un concetto ingenuo e superficiale di metafisica, come se le metafisiche siano cose inesistenti». Ricordando anzi che «le metafisiche sono cose esistenti» in quanto «comportamenti sociali in tutto e per tutto oggettivi», Colletti (2011, 72) delineava la possibilità di un materialismo che prevedeva la metafisica anziché escluderla – salvo ritrarsene quasi subito. Da un certo punto in poi, insomma, Colletti adottò una concezione deliberatamente ed estremamente restrittiva di ciò che può considerarsi scienza – escludendone il marxismo – in virtù di una concezione altrettanto deliberatamente ed estremamente restrittiva dei suoi fondamenti.

Deliberatamente, perché questa tesi può essere messa in discussione – come è stato fatto – proprio nel suo cuore pulsante, ossia l’assunzione che il principio di non-contraddizione escluda la dialettica. E deliberatamente, perché anche presupponendo la legittimità e desiderabilità di una tale demarcazione, quali siano i criteri con cui essa debba essere operata è questione aperta, su cui né Kant né tantomeno Popper hanno detto l’ultima parola. Ampliando allora quell’espressione usata da Colletti quando i suoi passi nel marxismo erano già malfermi, si potrebbe dire che non solo le scienze sociali, ma la scienza in generale non ha ancora trovato una sua vera fondazione. Senonché anche questa espressione presuppone la certezza, la possibilità e la desiderabilità di una tale fondazione definitiva – solo differita a un futuro imprecisato. Per citare allora le parole più adeguate del gigante sulle cui spalle Colletti era stato a lungo seduto, «per la scienza non c’è via maestra e hanno probabilità di arrivare alle sue cime luminose soltanto coloro che non temono di stancarsi a salire i suoi ripidi sentieri» (Marx 2011, 23).
 
 
 
Note
 
*Questo articolo porta la firma di un unico autore, ma il contributo fornito da Riccardo Bellofiore è tale da renderlo de facto co-autore. A lui si devono non solo l’invito alla stesura del saggio e preziosi commenti sulle bozze, ma anche un confronto prolungato sulle tesi qui esposte e diverse sollecitazioni, specialmente per quanto riguarda le affinità tra il marxismo di Lucio Colletti e quello successivo. L’analisi del marxismo collettiano qui elaborata origina proprio dalla lettura di alcune suggestioni proposte qua e là da Bellofiore nei suoi scritti. L’altra fonte non meno importante di questo articolo è Martin Jay, sia per quanto riguarda la ricostruzione del pensiero di Colletti contenuta in Marxism and Totality (1984), sia per l’aver messo a disposizione dell’autore, con rara cortesia e premura, il contenuto della corrispondenza intercorsa tra i due. A entrambi va la profonda gratitudine dell’autore.
[1] Com’è noto, il termine è stato in realtà introdotto nel dibattito da Maurice Merleau-Ponty con il suo testo polemico Le avventure della dialettica, apparso in francese nel 1955. La nozione di «marxismo occidentale» riprendeva qui, rovesciandola di segno, una presunta rielaborazione in chiave umanistica, soggettivistica ed eclettica del marxismo attribuita dispregiativamente dall’ortodossia sovietica a Lukács e ad altri autori coevi come Karl Korsch (cfr. ad es. Werner 1927, cit. in Korsch 2012, 133, n. Dello stesso autore, dietro il cui pseudonimo si celava in realtà il polemista ucraino Alexander Schifrin, cfr. anche Werner 1929). Il testo di Anderson non si richiama tuttavia in modo esplicito ad alcuno degli usi precedenti del termine, e ha dato vita a un dibattito in larga misura autonomo.
[2] Al tempo, una possibile eccezione era costituita da Herbert Marcuse in virtù delle sue tesi sull’integrazione della classe operaia al neocapitalismo e sulle potenzialità rivoluzionarie dei soggetti emarginati del terzo mondo, principalmente studenteschi (cfr. ad es. L’uomo a una dimensione del 1964 o Controrivoluzione e rivolta del 1972). Queste tesi tuttavia possono essere riferite più al problema dell’individuazione di una possibile avanguardia che a quello della soggettivazione rivoluzionaria vera e propria; illuminante in questo senso il chiarimento fornito da Marcuse nelle risposte al confronto televisivo del 1971 con Karl Popper (Marcuse e Popper 1977, in particolare 30). Posizioni analoghe sul ruolo paritario di lotte operaie e lotte studentesche nel tardo capitalismo sono ravvisabili anche in Hans-Jürgen Krahl (1973).
[3] Nonostante questa formula sia ormai invalsa in riferimento all’interpretazione di Marx fornita da Della Volpe, quest’ultimo parla in realtà più ellitticamente del marxismo come di un «galileismo morale» (cfr. Della Volpe 1973a, 403, 449 e 469).
[4] Lettera di Lucio Colletti a Martin Jay (Berkeley, CA), Roma, 23 maggio 1982.
[5] Si veda l’intervista con Antonio Gnoli per la rubrica «Maestri di oggi – Maestri di ieri» di Repubblica: «Galvano Della Volpe – Lucio Colletti. Quell’incantevole rissoso», Repubblica, 17 agosto 1997.
[6] Cfr. lettera di Lucio Colletti a Martin Jay (Berkeley, CA), Roma, 23 maggio 1982.
[7] Lettera di Colletti a Martin Jay (Berkeley, CA), Roma, 23 maggio 1982.
[8] Lettera di Lucio Colletti a Martin Jay (Berkeley, CA), Roma, 23 maggio 1982.
[9] Lettera di Lucio Colletti a Martin Jay (Berkeley, CA), Roma, 23 maggio 1982.
[10] Si veda ad es. l’intervista del 1977 a G. Mughini per «Mondoperaio», ora in Colletti 1979b. Rispondendo nel 1982 a una domanda di Martin Jay sulla sua attuale collocazione politica, Colletti dirà laconicamente: «La mia posizione politica odierna è semplice: sono un socialdemocratico, senza tessera di nessun partito» (Lettera di L. Colletti a M. Jay (Berkeley, CA), Roma, 18 giugno 1982).
[11] Si vedano ad esempio Napoleoni (1974b e 1973a), ma anche Napoleoni (1973b, 1974a e 1976a).
[12] Per questo si rimanda a Bellofiore 2013 e al contributo dello stesso autore incluso nel Routledge Handbook of Marxism and Post-Marxism, attualmente in uscita.
[13] Nella nota apposta all’espressione qui citata, Agazzi scrive: «Ho appreso direttamente da Backhaus che egli conobbe l’opera di Rubin soltanto dopo aver pubblicato le prime due parti dei Materiali […], e di avere esaminato solo la prima parte, dedicata al ‘feticismo della merce’. Solo in seguito (nel 1983) avendo approfondito anche la seconda parte, sulla ‘teoria del valore-lavoro’, per mio consiglio, ebbe a dirmi che se avesse conosciuto il testo prima di avviare le sue ricerche marxologiche avrebbe potuto risparmiarsi una considerevole mole di lavoro. Ovviamente ciò non significa che Backhaus non fornisca un contributo che la conoscenza di Rubin renderebbe inutile; ma semplicemente, che si tratta di lavori che muovono nella medesima direzione».
[14] In questo breve scritto, datato 1968, sono particolarmente evidenti i tratti caratteristici della neue Marx-Lektüre, principalmente per quello che riguarda il rapporto tra il «metodo dell’esposizione (Darstellungsweise)» seguito da Marx nel Capitale e la Logica di Hegel.
[15] Lettera di Colletti a Jay (Berkeley, CA), Roma, 18 giugno 1982.
[16] Si veda ad esempio il §8 dell’Estetica trascendentale all’interno della prima Critica, ma anche il §7 dell’Antropologia pragmatica.
 
 
 
Bibliografia
 
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