Divagazioni intorno al 25° capitolo del I Libro del Capitale

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Edoarda Masi (1927 – 2011)*

 
 
 
Abstract: This paper deals with Marx’s theory of colonization. It is argued that – in constrast with E.G. Wakefield’s view – Marx proposed a complete a consistent approach to the role of colonization in the dynamics of capital reproduction. In particular, he emphasized the transformation of free men in “underdeveloped” economies into wage workers.
 
Keywords: primitive accumulation; colonization; imperialism; China
 
 
 
1. Una lettura
 
Non riassumo il capitolo 25°, che è abbastanza breve e – mi sembra – di facile lettura. Marx è interessato a indagare come il capitale agisca sempre secondo la sua logica interna, e si propone qui di mostrare che nelle colonie si riproducono i suoi meccanismi fondamentali: specificamente, nella trasformazione di uomini liberi in salariati sfruttati. Per semplificare il discorso utilizza polemicamente un testo di E.G. Wakefield, un teorico della colonizzazione. Il discorso è chiaro e coerente, la sua logica incontestabile, una volta che si accettino i presupposti – per la verità non tutti accettabili (come quello che nelle terre da colonizzare il capitale trovi, all’inizio, liberi produttori).

Partire dal massimo livello di astrazione può valere contro la realtà storica? Al di là di questa logica, mi limiterò ad alcune osservazioni in certo senso fuori tema.

Quando Marx scrive queste righe, siamo in pieno Ottocento – il secolo nel corso del quale le terre emerse colonizzate degli europei passano dal 35% all’85%. È quanto meno singolare che un osservatore acuto (diciamo pure, un genio) come lui non si curi di questo evento macroscopico, una volta che abbia deciso di scrivere un capitolo sulla colonizzazione. Né si domandi per quali motivi tale fenomeno sia in corso, da dove parta e quali risultati produca nella madrepatria (cioè nel luogo centrale della sua indagine sul capitale).

Non solo. Come esempio di colonia sceglie gli Stati Uniti d’America, che da un pezzo hanno raggiunto l’indipendenza; anche se – come si precisa in nota – «economicamente parlando […] sono ancora terra coloniale dell’Europa».

Ma chi sono quei liberi produttori che il capitale colonizzatore trasforma in salariati sfruttati? Non gli indigeni del continente colonizzato, bensì i liberi immigrati, originari e del presente. Sulle conseguenze della guerra civile, terminata da poco quando presumibilmente scrive queste righe, Marx osserva che questa ha prodotto «un debito nazionale colossale, accompagnato da una pressione fiscale, dalla nascita della più volgare aristocrazia finanziaria, dalla donazione di una parte enorme di terreni pubblici a società di speculatori al fine dello sfruttamento di ferrovie, miniere, ecc. in breve, ha avuto come conseguenza una rapidissima centralizzazione del capitale. Dunque la grande repubblica ha cessato di essere la terra promessa degli operai emigranti».

È curioso che fra le conseguenze (e fra le cause) della guerra civile Marx non includa la liberazione degli schiavi, ai fini della formazione di una nuova massa di lavoratori salariati. Il fenomeno conferma la sua tesi, eppure quei lavoratori e la loro sorte vengono ignorati. (L’abolizione della schiavitù nelle piantagioni viene ricordata solo nella nota 253, in termini poco chiari: «ha completamente sovvertito la situazione»).

Anche per gli Stati Uniti, piuttosto che al fenomeno della colonizzazione in senso proprio, Marx qui è interessato a mostrare come un mercato di coloni liberi, quale si prospettava negli Stati Uniti prima della guerra civile, sia incompatibile col sistema capitalistico e sia considerato aberrante dai suoi teorici; in ogni caso destinato a venir distrutto, anche con mezzi violenti, affinché i lavoratori espropriati divengano disponibili per l’altrui sfruttamento. Gli interessano le colonie come luogo dove più o meno si ripeta quanto già avvenuto nella madrepatria.

Nel capitolo 24 lo stesso Marx non solo si mostra ben consapevole del reale carattere del colonialismo, ma ne descrive alcune caratteristiche fondamentali, denunciandone con forza gli orrori. Non solo, ma pone anche le basi su cui si svilupperà, nel secolo successivo, la disputa a proposito dell’accumulazione originaria, alla quale accenno nelle mie “divagazioni”. Si intravede una posizione equilibrata, al di sopra dei vari teoremi successivi, a proposito della pluralità delle condizioni della nascita del capitalismo (cause esogene e endogene). Infatti è esplicita, nella rassegna delle diverse componenti che hanno portato alla cosiddetta accumulazione originaria, la presenza di più fattori, fra i quali anche il saccheggio di metalli preziosi nei territori colonizzati.

Ma nel capitolo 24 si tratta dell’accumulazione originaria; quanto alla colonizzazione, di una prima fase della stessa, per quanto lunga – circa dalla fine del XV alla fine del XVIII secolo. Insomma, si tratta dell’epoca di formazione del capitalismo («Oggigiorno la supremazia industriale porta con sé la supremazia commerciale. Invece nel periodo della manifattura in senso proprio è la supremazia commerciale a dare il predominio industriale. Da ciò la funzione preponderante che ebbe allora [sottolineatura mia ]il sistema coloniale»).

Come già osservavo e come è ben noto, preparato nei tre secoli precedenti, è fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento che si verifica il vero e proprio salto quantitativo e qualitativo che conduce dalla manifattura alla fabbrica capitalistica. È lo stesso periodo, il secolo XIX, in cui si ha la realizzazione completa della colonizzazione. È allora, come ho già detto, che i domini coloniali diretti dell’Europa passano da circa il 35% a circa l’85% delle terre emerse. L’affermarsi del capitale si presenta come un evento inedito nella storia, tale da imprimere una dimensione epocale alla trasformazione che ha inizio col XIX secolo. È certo che la svolta fondamentale nei rapporti con i colonizzati, e di conseguenza la crescita di una ideologia organica moderna del colonialismo-imperialismo sono inscindibili dall’affermarsi dell’economia capitalistica.

Nel periodo in cui la cosiddetta accumulazione originaria è sostanzialmente compiuta, quando cioè si è realizzato il passaggio dalla manifattura al capitalismo (sec. XIX), la colonizzazione non solo non si esaurisce ma si accresce e aggrava. Di questo Marx sceglie di non occuparsi. Aveva già detto, nel capitolo 24, che la funzione preponderante del sistema coloniale si ha nella fase della manifattura. Questa posizione già al suo tempo andava contro l’evidenza dei fatti. Ancor più grave è l’evidenza dei fatti nel successivo secolo XX.

In concomitanza col movimento mondiale di liberazione del lavoro, con le vittorie ottenute dal lavoro nella lotta contro il capitale e i primi tentativi di socialismo, si verifica l’altro grande movimento di liberazione dei popoli, che dopo la seconda guerra mondiale culmina nel cosiddetto processo di decolonizzazione. Ma prima ancora che il processo di decolonizzazione sia compiuto, assistiamo all’inizio di quella che possiamo chiamare «ricolonizzazione», in termini più estremi ed estesi. Tanto che a metà anni settanta si arriva contemporaneamente alla conclusione del vecchio colonialismo e all’affermazione del nuovo. Non è possibile esporre qui le vicende della ricolonizzazione globale, in corso ai nostri giorni, perché equivarrebbe praticamente a ripercorrere l’intera storia mondiale del XX secolo e dell’inizio del XXI. Ma non credo sia necessario farlo, perché è evidente a tutti come il processo della cosiddetta globalizzazione contenga in sé come elemento dominante il colonialismo.

Il pensiero di Marx, la sua analisi dei meccanismi del capitale, può essere uno strumento fondamentale per orientarci anche nell’interpretare la colonizzazione del nostro tempo. A patto di non seguirlo su due punti, che non riguardano l’analisi di quei meccanismi ma sconfinano in una filosofia della storia, che la storia stessa ha smentito. E sono, a mio giudizio, alla radice della volontaria cecità sulla continuazione ed esasperazione del colonialismo ben oltre la fase della manifattura e dell’accumulazione originaria.

Il primo punto sta nell’assumere come modello universale le vicende della trascorsa storia d’Europa – e in particolare d’Inghilterra. Il secondo punto è di farne la base di una dialettica evoluzionistica. Economia feudale, manifattura, capitalismo diventano una sorta di successione necessaria e universale. Infine il modo di produzione capitalistico e la proprietà privata capitalistica – come si dice nelle ultime righe del capitolo 24 – «sono la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera essa stessa… la propria negazione. È la negazione della negazione… la proprietà individuale fondata sulla conquista dell’era capitalistica, sulla cooperazione e sul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti del lavoro stesso».

Questa visione in linea di principio è incompatibile col fatto che il capitalismo maturo continui a generare, e in forme sempre più gravi, dapprima alla sua periferia e via via anche verso il suo centro, fenomeni che la dialettica evoluzionista attribuirebbe a fasi pregresse, incluso il colonialismo (È fra l’altro una visione così generalmente diffusa, che di fronte all’orrore di quello che sta accadendo ci fa dire: “stiamo tornando indietro”).

È una visione pure incompatibile col riconoscimento che nella storia di paesi non europei si siano verificate nei rapporti di proprietà e di produzione – in assenza sia del feudalismo che del capitalismo – certe condizioni che nella storia d’Europa appaiono esclusive dell’uno o dell’altro. Questa visione si è affermata in modo dogmatico nel marxismo volgare sovietico.

Infine è una visione incompatibile con l’esperienza dei primi tentativi di socialismo, dove la “negazione della negazione” non si è realizzata ed è risultato chiaro che il capitale può detenere il potere economico anche in regime di proprietà pubblica dei mezzi di produzione (A scanso di obiezioni “trockisteggianti” – Unione Sovietica troppo “arretrata” – : anche nelle non “arretrate” Germania Est e Cecoslovacchia).

È noto come Marx si sia trovato in difficoltà di fronte al cosiddetto “modo di produzione asiatico”, e abbia avanzato ipotesi frettolose, irrilevanti nel contesto della sua ricerca. Ma i suoi epigoni hanno aggravato la cosa: basta ricordare le tesi aberranti di Karl August Wittfogel sul dispotismo orientale.

E le altrettanto aberranti tesi recenti di Giovanni Arrighi (Adamo Smith a Pechino) che, volendo affermare una specificità cinese, è talmente eurocentrico da ricorrere a Adamo Smith contro Marx, e paradossalmente non si accorge che la storia del mercato senza capitalismo nella Cina di oggi è una barzelletta e attualmente la specificità cinese è aggredita dal capitale nel suo carattere globale.

Nel ricercare perché le condizioni della “negazione della negazione” non si siano verificate – e perché inoltre l’affermarsi del capitalismo non abbia segnato la conclusione del colonialismo – credo che siano da impiegare come strumenti di base quelli forniti da Marx: riportare il problema al rapporto lavoro-capitale. La “negazione della negazione” si basava sull’ipotesi che al processo di unificazione a opera del capitale corrispondesse l’unificazione del lavoro (evidente nella grande fabbrica dell’Ottocento e del primo Novecento). Invece il capitale ha finito per operare in funzione della frantumazione del lavoro. La stessa colonizzazione ha conservato ed esasperato modi di produzione pregressi, in termini distruttivi ma non unificanti del lavoro, e solo marginalmente ha introdotto all’interno delle aree colonizzate il modo di produzione propriamente capitalistico. Tanto più la ricolonizzazione opera in funzione della frantumazione e non dell’unificazione del lavoro. La quale resta per così dire virtuale; ma politicamente inesistente; là dove si era formata nel primo secolo di lotte operaie, nelle madrepatrie del capitale, ha finito col dissolversi nel corso degli ultimi cinquant’anni. L’unificazione si è dissolta anche nelle aree di tentato socialismo, dove una forzatura politica non aveva sradicato i meccanismi della riproduzione del capitale, anche a causa dell’aggressione esterna, che infine è risultata decisiva.

Ogni ipotesi di lotta contro il capitale è irreale senza una unificazione del lavoro, molto al di là di quella che si era realizzata nella fabbrica ottocentesca e novecentesca; e anche al di là della sfera dell’industria. (In proposito, va esaminato come il grande capitale transnazionale intervenga oggi direttamente nel settore dell’agricoltura, in ogni zona della terra). Credo che le premesse stiano nella ricerca di come opera la frantumazione in ogni sfera dell’economia globalizzata, e anche della funzione preminente della ricolonizzazione (che, fra l’altro, è un luogo di saldatura fra il grande capitale e il potere politico-militare).

Il pensiero di Marx, la sua analisi dei meccanismi del capitale, sarà più tardi fondamentale per orientarsi anche nell’interpretare la colonizzazione. Nonostante i limiti storici e teorici dello stesso Marx in proposito. Saranno Lenin e Luxemburg – per citare i più grandi – ad aprire la strada.
 
 
2. Una divagazione
 
L’espansione aggressiva di alcune nazioni europee verso Oriente e verso Occidente, che ha inizio alla fine del secolo XV e si conferma e dilata nei secoli seguenti, segna un mutamento radicale nei rapporti fra i popoli. All’ignoranza reciproca o alla conoscenza più o meno estesa e più o meno accompagnata da pregiudizi reciproci di superiorità, agli scambi commerciali e culturali e ai conflitti e agli scontri nella vasta area euroasiatica su un piano di parità, subentra ora e si afferma un principio nuovo, gerarchico, di valenza universale. La violenza delle armi e la violenza economica vanno via via imponendo come assoluta una sola civiltà, a detrimento di tutte le altre, che si vorranno infine ridotte a frammenti, archeologia o folklore. La sottovalutazione delle civiltà asiatiche e dell’incidenza di quei paesi nell’economia mondiale, il trasferimento nel passato del loro presente (in una presunta immobilità della loro storia), la centralità planetaria e la retrodatazione dello sviluppo capitalistico in Europa sono state contestate nell’ultimo trentennio da alcuni storici dell’economia e dagli studiosi dell’Asia Centrale. Non solo, ma gli uni e gli altri – se pure con varietà di punti di vista – tendono a ricostruire una storia globale, prima euroasiatica, poi mondiale, fuori dagli schemi storiografici ereditati dall’Ottocento europeo. Per quanto riguarda la storia complessiva del continente euroasiatico, una costante dura dall’antichità fino alla metà del XVII secolo: la funzione di tramite fra Oriente e Occidente esercitata dai popoli dell’Asia Centrale: come intermediari commerciali; ma anche, e ancor prima, per la trasmissione della cultura[1]. La trasmissione non è mai a senso unico. Attraverso, a volte, una pluralità di passaggi, l’Estremo Oriente comunica fino con le regioni del Nord Europa e con quelle mediterranee. Decisive per questa funzione di tramite sono le grandi vie commerciali. Non una “via della seta”. Le vie di terra sono numerose, da est a ovest e anche verso il nord e il sud, dove nel medioevo islamico si collegano con i porti e con le vie marittime. Sono essenziali per la vita stessa dei popoli del centro, tanto che la loro interruzione, per eventi bellici nelle zone di confine, poté stimolare nell’antichità alcune di quelle migrazioni conosciute come invasioni, ai margini dell’impero romano e di quello cinese[2]. Mentre si è oggi generalmente concordi sulla circolazione di beni materiali e di un certo grado di storia culturale comune – non solo per analogie o pure coincidenze – è oggetto di ricerca e discussione se prima dell’era moderna si possa parlare dell’esistenza di un sistema globale[3]. Sono invece ormai ricchissimi i contributi tendenti a dimostrare la formazione di un sistema globale – e quindi la necessità di reimpostare in questa luce la ricerca storiografica – a partire dalla fine del XV secolo, cioè dalla conquista delle Americhe da parte di alcuni stati europei. Variano però, e si scontrano, le opinioni circa il peso relativo di Europa e Asia nel sistema globale fino alla fine del XVIII secolo[4]. In questa materia, una grande influenza sui ricercatori nel campo sia degli studi asiatici, sia della storia economica, hanno esercitato le ipotesi di Joseph Fletcher (1934-1984), che in particolare in un saggio postumo (1995), nel chiedersi se vi sia una storia moderna (relativa a Europa, Vicino Oriente, Asia Centrale, India, Cina) fa uso delle categorie di interconnessione e continuità orizzontale. Per interconnessione intende un fenomeno in cui vi sia un contatto che colleghi due o più società; per continuità orizzontale, un fenomeno comune contemporaneamente a due o più società senza che vi sia necessariamente comunicazione diretta. Per la ricerca di interconnessioni e continuità occorre guardare oltre la superficie della storia politica e istituzionale e esaminare gli sviluppi nelle economie, nelle società e nelle culture. Il punto di partenza per una storia integrativa è la ricerca di parallelismi – per poi indagare se si tratti di casualità o di interconnessioni e continuità orizzontali. Nel periodo 1500-1800, egli rileva i seguenti parallelismi (analizzati via via specificamente per i diversi periodi e regioni): tendenza generale alla crescita della popolazione; accelerazione del ritmo della trasformazione storica, in tutto il mondo; aumento dell’urbanizzazione e dei commerci interregionali, nei confronti di quelli a lunga distanza, già molto sviluppati nei secoli precedenti; crescita delle classi commercianti urbane (rinascimenti), popolarizzazione della letteratura; rinascite religiose e movimenti missionari (riforme); disagio e rivolte contadine; declino del nomadismo. Se si esamina come questi fenomeni siano variamente intrecciati, così da formare un tessuto complesso, è possibile individuare interconnessioni e continuità. La storia integrativa è la ricerca e la descrizione di questi fenomeni correlati. In assenza di una macrostoria di questo tipo, sfugge il pieno significato delle peculiarità di una società data[5]. Fra gli specialisti della materia c’è un largo consenso sull’esistenza di un mercato mondiale a partire dal XVI secolo e sul peso decisivo che sulle economie e sui rapporti politici in Europa e in Asia esercitò la grande importazione in Europa di argento dalle Americhe colonizzate, e il suo trasferimento in misura massiccia in Asia, e specificamente in Cina.

C’è discordanza di vedute su una serie di punti, relativi a:

 

– quale data iniziale vada assegnata – come ho già accennato – alla supremazia europea, economico tecnologico-culturale, nei confronti dei paesi asiatici: XVI o XIX secolo[6];
 
– quale peso abbia avuto l’importazione dell’argento in Spagna ai fini della nascita e dello sviluppo del capitalismo nell’Europa settentrionale;
 
– a quali motivi vada attribuita la successiva decadenza della Spagna;
 
– a quali motivi vada attribuito l’afflusso eccezionale di argento in Cina, non solo tramite Europa ma anche direttamente dal Perù e dal Messico via Manila, e dal Giappone (altro paese produttore di argento);
 
– quali siano i motivi della crisi economica di metà secolo XVII (il processo inflazionistico detto anche “rivoluzione dei prezzi”) e della sua estensione e delle sue conseguenze sia nei paesi europei che in quelli asiatici (Cina, Giappone, India, Sud-est).

 

I punti più controversi riguardano l’origine del capitalismo – prevalentemente endogena o coloniale; e il peso immediato, o differito di due secoli, della rivoluzione scientifica sulla cosiddetta rivoluzione industriale. È evidente che i dati di fatto, e i risultati di sempre nuove ricerche, vengono portati a sostegno di diverse, e divergenti, interpretazioni generali della storia moderna. A una linea che da Hegel e Marx scende fino a Weber – dove lo sviluppo della borghesia europea e la nascita del capitalismo costituiscono una svolta eccezionale e di ordine universale e si impongono come inevitabile e unica via di progresso al mondo intero – si contrappongono quanti ridimensionano l’inevitabilità ed eccezionalità del capitalismo, ne collegano la nascita all’abilità europea (portoghese, olandese; poi inglese) di inserirsi in un mercato mondiale nei secoli XV-XVII in Asia più sviluppato di quello europeo; e l’enorme crescita nel secolo XIX principalmente all’aggressione coloniale. Secondo questa tesi, l’accumulazione originaria indispensabile per il decollo dell’economia capitalistica è dovuta all’espansione economica e coloniale europea: la conquista delle Americhe, l’argento portato in Europa dal Messico e l’oro del Perù, e in generale lo sfruttamento delle popolazioni oggetto di conquista nei secoli XVI-XVIII. Questo orientamento (origine esogena dello sviluppo capitalistico) si accompagna alla tesi dell’esistenza di un mercato globale euroasiatico già prima del XVI secolo – e nei secoli seguenti, del rafforzamento di tale mercato, esteso al resto del mondo. In questa direzione la posizione più estrema è quella assunta negli ultimi anni da Andre Gunder Frank, il quale propone una radicale riscrittura della storia del continente euroasiatico, orientata sulla supremazia dell’Asia fino a tutto il XVII secolo (periodo che per la Cina si prolunga fino alla fine del XVIII). Il suo volume ReORIENT: Global Economy in the Asian Age (Frank 1998) è una lettura preziosa – se non altro per i dati che fornisce – anche per chi in tutto o in parte non ne condivida gli assunti.

Come sempre, non sembra corretto ricercare una sola causa, o causa prevalente, nei fenomeni storici, tanto più quanto più sono complessi. I due fattori, endogeno ed esogeno, sono entrambi presenti, e si rafforzano reciprocamente. In ogni caso, preparato nei tre secoli precedenti, è fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento che si verifica un vero e proprio salto quantitativo e qualitativo, coincidente con l’introduzione delle macchine nella produzione, a cominciare dall’Inghilterra, combinata con l’evoluzione dall’organizzazione manifatturiera alla fabbrica capitalistica[7]. L’affermarsi del capitale si presenta come un evento inedito nella storia, tale da imprimere una dimensione epocale alla trasformazione che ha inizio col XIX secolo. Di portata enormemente più vasta e radicale del passaggio al “macchinismo” e alla “modernità”, è tale da giungere alle conseguenze estreme oggi, quando macchinismo e modernità hanno già compiuto la loro parabola[8]. È certo che la svolta fondamentale nei rapporti con i colonizzati, e di conseguenza la crescita di una ideologia organica del colonialismo-imperialismo, sono inscindibili dall’affermarsi dell’economia capitalistica[9].

Ai primi del Novecento Rosa Luxemburg, pur collocandosi entro la tradizione marxista e attribuendo il peso dovuto ai fattori endogeni nello sviluppo del capitalismo, nella sua opera L’accumulazione del capitale (Luxemburg 1913)[10] propose un’interpretazione dell’imperialismo (e del colonialismo) dove l’espansione aggressiva del capitale fuori della sua sfera d’origine e in aree non capitalistiche era riconosciuta come componente strutturale e necessaria per la sua stessa riproduzione allargata. Le argomentazioni di Luxemburg sono state giudicate erronee, sul piano tecnico, non solo dai marxisti ortodossi. Sono personalmente incompetente a giudicare di questa disputa. Resta il fatto che menti geniali siano a volte in grado di comprendere e interpretare la sostanza dei fenomeni storici, anche quando non arrivano a formulare le loro tesi in termini dottrinariamente corretti.

Il quoziente di verità nel contributo di Rosa Luxemburg sul tema dell’imperialismo è alto, perché confermato dai fatti. Nella realtà storica il capitalismo, dalle sue origini mercantili fino al presente, ha mostrato l’incapacità di crescere, se non inglobando e continuamente rendendo subalterne, all’interno dei singoli paesi e nel mondo intero, sfere non capitalistiche – strutturate al di fuori dell’universo capitalistico eppure componente indispensabile della costruzione globale. L’ideologia del capitale interpreta questo processo come l’acquisizione di sfere arretrate alla più alta zona di civiltà. A questa ideologia appartengono le teorie relative al preteso “sviluppo” e alla pretesa “modernizzazione” dei paesi o dei continenti “arretrati”. I fatti hanno ampiamente provato, e continuano a provare, che quel concetto di «arretratezza» è falso, con tutta evidenza se riferito al passato.

L’espansione del capitale ha alterato equilibri precedenti, e non è dimostrabile che costituisca un “progresso”, giacché dovunque arriva produce sottosviluppo e povertà crescente, oltre che disintegrazione sociale e distruzione di civiltà. Non solo, ma questi risultati sono necessari alla sussistenza del meccanismo di accumulazione del capitale stesso. Tanto che al periodo di rapina nelle regioni del mondo non capitalistiche succede al presente una tendenziale riduzione al sottosviluppo di zone già capitalistiche, all’interno delle società cosiddette avanzate o nel pianeta. Così vediamo ridotti al rango di colonie grandi paesi già liberi e semicapitalistici, e all’interno del cosiddetto Occidente si riproducono rapporti di lavoro che credevamo appartenere al passato (sfruttamento dei minori) o addirittura al lontano passato (riduzione in schiavitù). Non si tratta di fenomeni marginali, ma della stessa essenza del sistema del capitale al livello più “sviluppato”. L’imperialismo conduce oggi a una sorta di ricolonizzazione, che parte dalle sfere già colonizzate ma tende ad allargarsi generalmente. La questione se questo processo sia ulteriormente possibile è tutt’uno con la domanda se vi sia spazio per una ulteriore sopravvivenza del sistema che lo postula.
 
 
3. Alcuni dati sulla storia della parziale colonizzazione della Cina
 
Come ho già accennato, da una condizione, agli inizi del XVI secolo, di scambi commerciali vantaggiosi per tutte le parti contraenti, e tali da promuovere una reciproca conoscenza e crescita culturale, si procede da parte dei paesi europei – dell’Inghilterra nella forma più esplicita – sempre più rapidamente e direi spudoratamente alla pratica di estendere la propria sfera di potenza e di trasformare gli scambi in aggressione commerciale e culturale. La percezione del cambiamento è viva in Cina, sia fra le popolazioni sia fra i governanti: da cui le misure difensive, spesso scambiate per incomprensibile ostilità o diffidenza o chiusura dagli ingenui aggressori europei. Vedi i diversi atteggiamenti dell’impero cinese nei confronti di questo o quel paese europeo, in particolare degli inglesi o dei russi. Anche in questi ultimi i governanti cinesi riconoscono ovviamente il perseguimento di propri interessi politici e di potenza, a volte contrapposti ai propri e per quanto possibile da conciliare, ma non un cambiamento, una svolta rispetto al tipo di rapporti da pari a pari che fino allora aveva caratterizzato i contatti, amichevoli o ostili, fra i popoli.

Il cambiamento è particolarmente evidente nei rapporti fra Europa e Cina. Dal sec. XVI alla fine del XVIII la Cina è un paese prospero, in alcuni periodi fra i più prosperi del mondo[11]. Un arricchimento costante è provato dalla grande crescita dell’argento posseduto. Su 400 milioni di dollari d’argento che l’Europa importa dalle Americhe fra 1571 e 1821, la metà è impiegata nell’acquisto di merci cinesi. Contemporaneamente, sul mercato internazionale si verifica un costante deprezzamento dell’argento in rapporto all’oro. (Il che va a svantaggio della Cina, per la quale il metallo di riferimento negli scambi è l’argento.) Ma nel secolo XVI ha pure inizio la penetrazione europea in Cina, prima approfittando delle vie commerciali, poi con l’occupazione più o meno pacifica di territori, e infine attraverso l’aggressione armata. I portoghesi (dal XVI al XVIII secolo), gli spagnoli (nei secoli XVI e XVII), gli olandesi nel XVII (orientati principalmente alla colonizzazione dell’Indonesia e al commercio col Giappone); i russi, che dalla seconda meta del XVI cominciano a colonizzare la Siberia e sono i soli fra gli europei a intrattenere con la Cina un rapporto fra uguali (se pure a volte conflittuale). E infine i missionari gesuiti dei secoli XVII-XVIII che – nonostante lo spirito di colonizzazione culturale inevitabilmente implicito nel proposito di predicare la propria religione-verità a un popolo con tutt’altra tradizione e cultura (e verità) – riuscirono ad attuare il proposito di sinizzarsi, anziché proporre l’europeizzazione ai cinesi: con una visione universalistica e anti-etnocentrica eccezionale allora e anche in anni più tardi. Sono tuttavia legati alla penetrazione economico-politica europea, particolarmente portoghese, come lo stesso Matteo Ricci ebbe a lamentare.

Diverso è fin da principio il rapporto, o meglio il non rapporto, con gli inglesi, che fin dal 1600, quando viene creata la Compagnia delle Indie Orientali, ricercano sì contatti commerciali vantaggiosi ma ignorano lo stato cinese ed entrano piuttosto in rapporto, conflittuale o di compromesso con i paesi europei concorrenti – olandesi, portoghesi. Nei mari della Cina si comportano di frequente come pirati e manifestano un atteggiamento aggressivo che aliena loro ogni simpatia della popolazione. La ricerca di basi per il commercio assume subito il carattere di conquista. Nel secolo XVIII il commercio si sviluppa da Guangzhou lungo la costa orientale. Per mezzo di manovre sulle tariffe doganali, più alte negli altri porti, il governo cinese mira a concentrare per quanto possibile i traffici esteri a Guangzhou, la cui popolazione vive tradizionalmente di commercio; e anche perché quel porto è il più controllabile e difendibile per la sua posizione naturale e per la vicinanza con i forti di Huangpu e di Boge. Il commercio estero a Guangzhou è organizzato secondo precise regole, i mercanti stranieri hanno in affitto proprie residenze e le transazioni passano per un solo agente intermediario, gli hong, un gruppo di ditte privilegiate che in alcuni periodi si associano in gilda (honghang). Quanto agli inglesi, che dalla metà del Settecento sono la principale controparte, oltre che con la Compagnia delle Indie Orientali, autorizzata ufficialmente dalla corona britannica, sono presenti con molti mercanti privati. Nell’ultimo ventennio del secolo entrano anche commercianti privati americani. In seguito a incidenti con commercianti inglesi, nel 1759 per decreto imperiale Guangzhou è designata come il solo porto aperto ai commerci stranieri. Le esportazioni cinesi sopravanzano di gran lunga le importazioni[12]. Nel secolo XVIII e all’inizio del XIX la bilancia commerciale è decisamente a favore della Cina, che ha scarso bisogno di prodotti stranieri, mentre esporta grandi quantità di seta, porcellane, spezie e altri prodotti, ma soprattutto, in Inghilterra, di tè. Gran parte degli scambi avvengono fra beni di consumo da parte cinese e lingotti d’argento, in pagamento, da parte europea. Fra il 1775 e il 1795 la Compagnia inglese delle Indie (che dipende direttamente dallo stato) importa dalla Cina lingotti d’argento e merci per un ammontare di 31.5 milioni di liang, mentre ne esporta per 56,6 milioni. La differenza è in parte compensata dal commercio delle società private, per le quali la bilancia è attiva, ma rimane comunque un deficit di 13.6 milioni di liang. Secondo un altro calcolo, fatto per il periodo fra il 1781 e il 1790, il surplus a favore della Cina è di 16.4 milioni di liang, e fra il 1800 e il 1810 di 26 milioni. Il vantaggio della Cina dura fino a metà anni venti del XIX secolo. Gli inglesi hanno bisogno di trovare una merce da vendere in Cina in grande quantità, per colmare lo sbilancio. Questa merce è l’oppio, già consumato in Cina per impieghi medicinali fin dall’VIII secolo, e limitatamente come droga, mescolato col tabacco e poi fumato in speciali pipe. Nel 1729 l’imperatore Yongzheng ne proibisce la vendita e il fumo. Nel 1773 la Compagnia delle Indie orientali ne monopolizza in India la coltivazione, autorizzata dal governo del Bengala. Dopo che nel 1796 l’imperatore Jiaqing ne proibisce la coltivazione e l’importazione, la Compagnia si ritira ufficialmente dal commercio dell’oppio ma lo promuove attraverso le imprese private che commerciano sotto licenza, con vari trucchi formali[13]. Il commercio illegale condurrà alla guerra dell’oppio (1840-41), che si concluderà col trattato di Nanchino del 1842: è la prima di una serie di aggressioni banditesche alla Cina nel corso del XIX secolo da parte delle potenze europee, seguite ciascuna dai “trattati ineguali”[14]. I trattati ineguali comportano cessioni di territori, apertura di nuovi porti al commercio (incluso quello di oppio), diritti di extraterritorialità ed esercizio consolare della giurisdizione per gli stranieri, “concessioni” di territorio sottratto alla sovranità cinese all’interno delle città, gestione delle dogane (famosa la riorganizzazione delle dogane marittime nel 1863 da parte di Robert Hart), e ogni volta pagamento di enormi indennizzi.

Nel corso del XIX secolo, e in particolare dopo la guerra dell’oppio, alla penetrazione economica si somma dunque la progressiva conquista militare e politica della Cina da parte delle potenze europee e – per quanto da principio in misura minore – degli Stati Uniti.

Il rapporto fra le potenze è concorrenziale, ma nell’aggressione alla Cina c’è unità di intenti. La stessa concorrenzialità si va regolando attraverso la divisione della Cina in rispettive zone d’influenza. Uno degli elementi disastrosi à l’uso costante, nei trattati, della clausola della nazione più favorita, che consente via via a ciascuna delle potenze di beneficiare delle concessioni fatte alle altre. Le successive aggressioni armate – in guerre dichiarate o non – hanno inizio a volte del tutto gratuitamente, e spesso dal pretesto di qualche incidente anche limitato, verificatosi a sua volta in seguito a comportamenti illegali della potenza aggressiva.

La Cina è colpita da un impoverimento progressivo. Alla fine secolo, ancora il 30% delle importazioni è costituito dall’oppio. È continua la fuga dell’argento, in grandi quantità. Oltre che per via commerciale, l’argento parte attraverso il pagamento degli indennizzi e degli interessi sugli indennizzi ai governi europei[15]. Dopo la guerra perduta col Giappone (1895) si aggiunge una nuova piaga, quella dei prestiti. Per pagare gli indennizzi, la Cina negozia con gruppi capitalistici franco russi e anglo-tedeschi prestiti per oltre 300 milioni di liang d’argento, da ripagare ratealmente ad alto interesse, garantito attraverso la gestione delle dogane e dei dazi interni.

Nel 1899 il deficit commerciale è di 69 milioni di liang, e il deficit di bilancio dello stato, di 12 milioni. Con la fuga dell’argento, alla recessione economica e all’aumento della popolazione, molto forte già nella prima metà del secolo, si aggiunge il deprezzamento della moneta in rame, che è il mezzo corrente di scambio fra la massa del popolo. Incapacità e corruzione dominano fra i governanti. Pesantissimo è l’aumento della tassazione sui più poveri e sui contadini. Le “modernizzazioni” messe in atto dagli stranieri spesso sono la rovina per alcuni strati popolari – così le ferrovie per i lavoratori sulle vie d’acqua. La costruzione di ferrovie infatti è lottizzata nel Nordest, nel Sudovest e nello Shandong fra Russia, Francia e Germania, alle quali si associano il Belgio e la Gran Bretagna, e in seguito gli Stati Uniti: c’è fra le potenze ora complicità ora competizione; la sola assente è la Cina, il cui governo ha unicamente la funzione di accordare concessioni.

Fra il 1895 e il 1896 vengono aperte in Cina numerose fabbriche straniere (già presenti a Shanghai nei decenni precedenti), con sfruttamento selvaggio della mano d’opera e con conseguenze disastrose per la produzione locale[16].

Il degrado progressivo della società e dell’economia in seguito all’aggressione europea, accompagnato dal disfacimento delle strutture dispotiche – che maturava all’interno già negli ultimi secoli nonostante la generale prosperità – produce due reazioni principali: il moltiplicarsi delle rivolte popolari; la ricerca di una via di riforme dello stato e dell’economia da parte delle menti più vivaci fra la classe dirigente colta.
 
 
 
Note
 
* Questo testo riprende, anche nella forma, il testo presentato al Seminario Bergamasco sul Capitale coordinato da Riccardo Bellofiore il 3 maggio 2008.
[1] A cominciare dalle grandi religioni (manicheismo [Uighuri VIII-IX sec.], cristianesimo nestoriano, giudaismo [Khazari IX sec. – Caucaso], buddhismo, islam). La trasmissione di forme nelle arti figurative e nell’architettura è ampiamente documentata. Secondo lo storico sovietico Tichonov nell’VIII-IX secolo più di un terzo della popolazione lungo le vie della seta sapeva leggere e scrivere.
[2] In una ricerca pionieristica di sessant’anni fa Frederick J. Treggart (1939), fornì un’esauriente documentazione sulla sincronia delle migrazioni ai confini dell’impero romano e di quello cinese, in concomitanza con i medesimi eventi perturbatori, per lo più di carattere bellico.
[3] Due aspetti di “globalizzazione” già dal XIV secolo riguardano le condizioni sanitarie (sono documentati flussi comuni di grandi malattie infettive – pestilenze e altre) e la tendenziale unificazione delle tecniche di guerra e del tipo di armi. Per la discussione sull’esistenza o meno di un sistema globale prima del XVI secolo, vedi fra gli altri: Abu-Lughod (1989 e 1993).
[4] Sul sistema globale a partire dal XVI secolo, vedi fra gli altri: S. Amin (1982), Fischer (1986), Holtfrerich (1989), Pohl (1990), Modelski e Thompson (1988) e numerosi saggi di F. Braudel, I. Wallerstein, F. Perlin. La storia integrativa è la ricerca e la descrizione di questi fenomeni correlati. In assenza di una macrostoria di questo tipo, sfugge il pieno significato delle peculiarità di una società data. Nel periodo 1500-1800, egli rileva i seguenti parallelismi: tendenza generale alla crescita della popolazione; accelerazione del ritmo della trasformazione storica, in tutto il mondo; aumento dell’urbanizzazione e dei commerci interregionali, nei confronti di quelli a lunga distanza, già molto sviluppati nei secoli precedenti; crescita delle classi commercianti urbane (rinascimenti), popolarizzazione della letteratura; rinascite religiose e movimenti missionari (riforme); disagio e rivolte contadine; declino del nomadismo.
[5] L’approccio recente degli “area studies”, secondo Fletcher, ha peggiorato la situazione, giacché gli storici, suddivisi per aree geografiche, comunicano fra loro solo relativamente a questioni di metodo, o questioni teoriche proposte dai non storici. Ma sui contenuti delle rispettive ricerche non comunicano. Anche la storia comparata, più che storia sembra così scienza sociale. Le interconnessioni risultano solo dalla metà del diciannovesimo secolo. In precedenza, si vedono solo storie settoriali.
[6] Fra i tanti studiosi che hanno affrontato questi argomenti: G. Arrighi, A. Atman, K.-N. Chaudhuri, R. Chaunu (fin dal 1959), I. Habib, Hamashita Takeshi, E.I. Hobsbawn, C. Howe, Lin Manhong, R.D’A. Lourido. Specialmente importanti sul tema dell’argento nel commercio globale sono i saggi di D.O. Flynn, che ritornando all’economia classica considera l’argento una merce, e sostiene che il trasferimento verso la Cina è motivato non solo dall’importazione in Europa di merci cinesi ma in primo luogo – e almeno fino a tutto il sec.XVII – dallo squilibrio fra il costo di quel metallo in Cina e in Europa (fortemente ribassato a causa dell’importazione massiccia dalle Americhe). Questo discorso presuppone l’esistenza di un mercato mondiale pienamente operante. Per la discussione fra i due storici giapponesi Ueyama Shunpei e Kawakatsu Heita, vedi: Lee (1999).
[7] E il compimento della colonizzazione si ha nel corso del secolo XIX. Basti ricordare che fra il 1815 e il 1914 i domini coloniali diretti dell’Europa passano da circa il 35% a circa l’85% delle terre emerse.
[8] Di fulminante chiarezza a questo proposito è un brano famoso di Marx, che si legge nell’edizione italiana dei Grundrisse (Marx 1976, vol. I, 706-719), o nella traduzione di Renato Solmi (Marx 1964). L’argomentazione di Marx a proposito del macchinario quale “forma [la] più adeguata del capitale” ha validità generale ed è applicabile al di là della fabbrica e delle macchine nella forma specifica ottocentesca; tanto che queste pagine risultano ancora più pertinenti al nostro tempo e valgono da sole a dissolvere ogni ideologia postindustriale, postmoderna e new-economista.
[9] Questo non significa che in precedenza i popoli colonizzati non fossero aggrediti e colpiti (fino al genocidio), resi schiavi e sfruttati. Si tratta di pratiche non specifiche del capitalismo, presenti in tutta la storia umana.
[10] Il saggio fu oggetto di violenti attacchi da parte dei marxisti ortodossi. Rosa Luxemburg rispose nel successivo: Luxemburg (1920).
[11] Il sistema politico in Cina è a quel tempo dispotico-burocratico, mentre sul piano economico, oltre a un’agricoltura gestita da proprietari privati (nel complesso tecnicamente molto progredita) e a un fiorente artigianato, fin dall’inizio del millennio l’attività commerciale è sorretta dalle banche (si utilizzano carta moneta e lettere di cambio); grandi manifatture di stato impiegano migliaia di operai salariati (nella produzione tessile, di porcellane, di metalli, del sale).
[12] Alle grandi quantità di seta, porcellane, spezie e altri prodotti si aggiungono le cotonate fini, le cui esportazioni in Europa passano dalle 338.000 pezze degli anni 1785/1791 alle 1.415.000 pezze degli anni 1814/1820. Ma la merce principale è il tè, le cui esportazioni in Gran Bretagna dal 1720 al 1830 salgono da 12.700 a 360.000 tonnellate.
[13] L’importazione illegale di oppio in Cina aumenta costantemente: dalle 200 casse del 1729 si arriva alle 40.000 casse annue nel 1838 e nel 1839. Già fra il 1820 e il 1825 la bilancia commerciale si è rovesciata a sfavore della Cina. Con la soppressione nel 1834 del monopolio commerciale della Compagnia in Cina, il traffico di oppio, gestito da privati, si estende a tutta la costa sud-orientale. Essendo illecito, i pagamenti sono in contanti. I commercianti di oppio intrattengono rapporti con i banditi e le società segrete, oltre che con i banchieri dello Shaanxi. Anche i mercanti americani si associano al traffico: dal 1800 al 1839 trasportano in Cina 10.000 casse di oppio. Il numero dei fumatori d’oppio è stimato negli anni trenta fra i due e i dieci milioni. Fra il 1818 e il 1834 entra in Cina dall’America argento per 60 milioni di dollari ed esce dalla Cina su navi inglesi argento per 50 milioni di dollari.Il continuo flusso in uscita di argento sconvolge l’economia interna del paese, provoca la stagnazione nella domanda di altri beni; è pure compromesso il tasso di scambio fra argento e rame: Nel 1740, un liang d’argento vale 800 monete di rame; nel 1828, un liang d’argento vale 2600 monete di rame nello Shandong. Il governo è costretto a deprezzare le monete di rame e a moltiplicarne la coniazione.Negli anni 1826-1827 dall’oppio proviene il 5% delle entrate della Compagnia delle Indie, nel 1828-1829, il 9%; nel 1850, il 12% (4 milioni di sterline).
[14] Seconda guerra dell’oppio, 1856-1858 cui partecipano inglesi e francesi e di cui beneficiano – trattato di Tianjin 1858 – anche Stati Uniti e Russia; sacco di Pechino e saccheggio e incendio del palazzo d’estate da parte di francesi e inglesi nel 1860; incidenti di Tianjin nel 1870; guerra franco-cinese del 1883-1889, conclusa – trattato di Tianjin 1885 – col riconoscimento da parte cinese della colonizzazione francese del Vietnam; guerra cino-giapponese del 1894-1895, conclusa col trattato di Shimonoseki).
[15] Fra il 1851 e il 1864, solo da Guangzhou partono 30 milioni di liang d’argento. Fra il 1862 e il 1869 vengono pagati circa 400.000 liang d’argento per indennizzi in seguito a incidenti fra popolazione cinese e missionari cristiani. Nel 1870, 490.000 liang per indennizzi dopo gli incidenti di Tianjin. Nel 1873, 500.000 liang in seguito al tentativo giapponese di conquistare Taiwan. Dal 1878 al 1897, 244 milioni di liang pagati al Giappone e alla Russia. Le perdite di argento sono così ingenti, che lo stato cinese non è più in grado di pagare gli indennizzi imposti via via dalle potenze straniere.
[16] Così, le compagnie tessili EWO e Laou Kung Mow (inglesi), Soy Chee (tedesca), International Cotton Manufacturing Company (americana); e altre imprese granarie e olearie. Alla fine del secolo, è il disastro per l’artigianato nei villaggi, per il commercio interno. Cresce la disoccupazione, peggiora il tenore di vita medio.
 
 
 
Bibliografia
 
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