Dall’anima semovente al ‘soggetto automatico’. Stratificazioni filosofiche nel concetto di ‘capitale’ e nell’analisi marxiana del sistema di macchine

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Luca Micaloni

Università La Sapienza
luca.micaloni@uniroma1.it

 
 
 
Abstract: In this paper the Author examines the philosophical implications of the Marxian analysis of the «automatic system of machinery». In the first part, he shows that the notion of «automaton» cannot be univocally assimilated to a passive and heteronomous kind of movement. In fact, it displays (both etymologically and conceptually) an affinity with the notion of «self-motion»: an «automaton» is something that finds within itself the sources and the principles of its movement. In the second part, the Author argues that Marx’s definition of «capital» as «automatic Subject» (Book I, chapter 4) should be grasped from the standpoint of this notion of «automaticity», which is also coherent with the Idealistic (Fichtean and Hegelian) account of the prerogatives of the «Subject». In the third part, he examines the chapter on «large-scale industry», in which the «automaton» (i.e. one of the shapes of capital as automatic Subject) proves to be the real «Subject» of capitalist production, through the subsumption and expropriation of the subjectivity (of the capacity of initiative, movement and control) of the human bearers of labour-power.
 
Keywords: Capital; automatic subject; machinery; Marx; large-scale industry
 
 
 
1. Introduzione
 
Nel corso dei capitoli XII e XIII del Libro primo del Capitale l’applicazione delle macchine alla produzione acquisisce una crescente centralità teorica. Se nell’indagine dedicata al “periodo” della manifattura le macchine svolgono un ruolo ancora secondario rispetto al principio “architettonico” della «divisione del lavoro», esse divengono invece elemento decisivo nell’analisi della grande industria, sia ove la si consideri come specifica fase evolutiva del modo di produzione capitalistico, sia quando si abbia di mira una connotazione rigorosa del suo ruolo “sistematico” come tappa dell’esposizione del Capitale.

Il passaggio d’epoca e il mutamento del principio strutturante sono riferiti già dai titoli: Divisione del lavoro e manifattura per il cap. XII, Macchine [Maschinerie] e grande industria per il capitolo XIII. Mentre la funzione economico-politica della Maschinerie (come anche della divisione del lavoro) si annuncia già nella collocazione dei capitoli: entrambi, assieme al capitolo XI sulla Cooperazione, compongono infatti la sezione quarta del Libro primo, che ha per oggetto La produzione del plusvalore relativo. Già capace di sussumere la forza-lavoro “formalmente” attraverso l’anticipazione del salario e di estrarre, mediante l’uso della forza-lavoro, un plusvalore «assoluto» in seguito al prolungamento della giornata lavorativa ripartita in «lavoro necessario» e «pluslavoro», ora il capitale è in grado – in forza di successive ottimizzazioni o “rivoluzioni” tecnologiche – di massimizzare il plusvalore «relativo» (diminuire, cioè, il lavoro necessario attraverso l’intensificazione del lavoro e la maggiore efficienza dei processi, mantenendo costante la durata della giornata lavorativa); il capitale riesce, inoltre, a perfezionare la sussunzione della forza-lavoro sottraendo ai suoi portatori il controllo dell’attività lavorativa, affidandone la regolazione alla quota della sua parte “fissa” costituita dalle macchine, prodotte e impiegate grazie alle «potenze intellettuali [geistige]» che si separano dal lavoro esecutivo e gli si contrappongono come «poteri del capitale sul lavoro» (Marx 1991, 381; trad. it. 462). In tal modo, il rapporto di dominio tra classi sociali non soltanto permea di sé i rapporti economici a mediazione monetaria, ma innerva anche i percorsi più strettamente tecnici della produzione materiale, rimuovendo la residua autonomia e sapienza tecnica del mestiere artigiano e interiorizzando in tal modo un’alterità che la pulsione autovalorizzante del capitale incontrava finora come ostacolo e limite meramente esterno: «attraverso la sua trasformazione in automa, il mezzo di lavoro si contrappone al lavoratore all’interno dello stesso processo lavorativo come capitale, come lavoro morto che domina e succhia fino all’ultima goccia la forza-lavoro vivente» (Marx 1991, 381; trad. it. 462).

Se la sostanza economico-politica della große Industrie può essere compresa soltanto in seguito alla sua collocazione nella complessiva articolazione sistematica della critica marxiana, altre caratteristiche e conseguenze del macchinismo industriale individuate dall’indagine di Marx, nella misura in cui poteva esser loro attribuita, almeno in apparenza, una capacità di sussistenza “autonoma” che ne autorizzava l’estrazione dalle strette maglie dell’impianto espositivo, hanno beneficiato di una più immediata fruibilità e di una corrispondente maggior fortuna nel discorso filosofico avente per oggetto la modernità capitalistica. Si tratta, forse non a caso, di considerazioni sul macchinismo legate prevalentemente al registro storico e sociologico della “patologia industriale”, non di rado consegnate a un lessico che valica i limiti delle categorie filosofiche e scientifiche, per restituire il turbamento dell’osservatore dinanzi all’artificialità sublime dei più moderni processi di produzione.

A ogni modo, se tanto la trattazione in termini di patologia industriale quanto gli aspetti economico-politici del macchinismo hanno sinora trovato adeguata ricezione, diversa è invece la sorte della rilevanza più genuinamente filosofica dei sistemi di macchine. Una sua adeguata comprensione è non soltanto meritevole di per sé di qualche fatica ermeneutica, ma anche funzionale al conseguimento di una più compiuta nozione del ruolo economico-politico delle macchine, nella misura in cui i due livelli sono, nella critica marxiana, peculiarmente connessi e – almeno a giudizio di chi scrive – virtuosamente sintetizzati: per intendersi, il lettore del Capitale non incontra l’applicazione di una signorile speculazione filosofica a una rude e positiva scienza empirica legittima nel suo ambito, bensì il sistema (incompiuto) di una Wissenschaft filosofica (critica) dell’economia politica[1].

Che cosa vi è, dunque, di “filosofico” nei tentativi di Marx – arrestatisi, peraltro, a un livello di penetrazione ed elaborazione ancora grezzo – di fornire una teoria delle macchine? Quali elementi filosofici emergono in seguito a una stratigrafia concettuale dell’analisi marxiana della grande industria? E in che modo essi sono rilevanti per il livello più generale di una teoria del capitale? Si può, in primissima approssimazione, rispondere che, per cogliere la direzione in cui dovrebbe muoversi un’ipotesi di risposta a simili interrogativi, è necessario attribuire una qualche centralità al concetto di «automa».

Si è giustamente osservato che, nel susseguirsi delle sue figurazioni logiche e storiche, il capitale “deve” progressivamente adeguarsi al suo concetto[2], e realizzare quella capacità, prescritta dalla sua formula generale, di valorizzarsi attraverso una pura e infinita autorelazione circolare. Se si tiene presente che in tale formula il capitale è definibile come «soggetto automatico», si può iniziare a inquadrare dalla giusta prospettiva la ragione per cui il mezzo di lavoro in quanto capitale (o il capitale in veste di mezzo di lavoro) manifesta in modo eminente la propria pervasività e capacità di sussunzione in seguito alla sua trasformazione in automa. Posto accanto a espressioni “pittoriche” apparentemente dotate di scarsa pregnanza concettuale – si pensi all’immagine, fornita in Marx (1991, 343; trad. it. 416) della fabbrica abitata da «un mostro meccanico» [ein mechanisches Ungeheuer] dotato di «forza demoniaca» [demonische Kraft] –, il concetto di «automa» potrebbe essere liquidato come ulteriore ausilio metaforico di un evocativo periodare marxiano. In alternativa, ma con analoghi effetti di presbiopia teoretica, sullo sfondo delle note tesi secondo cui la produzione industriale giunge a prescindere dai residui di virtuosismo artigianale, i lavori si livellano (cfr. Marx 1991, 378; trad. it. 458) e il lavoratore che sta alla macchina è «svuotato» (Marx 1991, 381; trad. it. 462) e ridotto a mera appendice umana del macchinario, l’uso del termine “automa” potrebbe essere assunto come conferma ab auctoritate di un generico depauperamento dell’attività lavorativa, legato a un concetto di «automa meccanico» sostanzialmente pre-teorico e di senso comune.

In tal modo, nella letteratura “marxologica” risulta scarsamente tematizzata la specificità tecnologica del sistema automatico di macchine rispetto ad altre tipologie di macchina e ad altre epoche e modalità della loro applicazione alla produzione di merci; non si penetra nella complessità – e nelle approssimazioni – della teoria marxiana della macchina e del processo di lavoro, né abitualmente ci si preoccupa di collocare quest’ultima nel contesto delle precedenti teorizzazioni antiche e moderne, o di sondarne le possibilità di dialogo con le più recenti riflessioni sull’automazione e la robotica. Neppure si provvede a sufficienza a qualificare ulteriormente e con adeguati strumenti concettuali ed empirici, andando al di là delle stringate tesi marxiane, la natura dell’attività lavorativa connessa alle macchine automatiche nei diversi comparti produttivi.

Da un punto di vista più strettamente filosofico, che ci riguarda più direttamente, resta scarsamente esplorata la densità del concetto marxiano di «automa» e la comprensione del suo ruolo sistematico nella critica dell’economia politica. Scopo del presente saggio è appunto quello di muovere qualche passo iniziale in questa direzione.

Il pensiero occidentale presenta numerosi impieghi del concetto di «automa» e di quello contiguo ma non sovrapponibile di «semovente». Una ricognizione, sia pure non esaustiva e condotta per esempi eminenti, della loro storia evolutiva può contribuire a determinare la specificità dell’impiego marxiano di tali concetti e a farne emergere una portata filosofica altrimenti scarsamente tematizzata. L’avverbio greco αὐτομάτως indica l’accadere per caso, spontaneamente o accidentalmente[3]. L’aggettivo αὐτόματος qualifica invece ciò che muove sé stesso (αὐτός), derivando dall’interno il proprio impulso vitale (μένος)[4]. Il semovente (αὐτοκίνητον) rinvia infine in modo più diretto e ovvio all’idea di movimento. Un luogo in cui il concetto di «semovente» rimanda di fatto a quello di «automa» (all’accento posto dal concetto “etimologico” di «automaticità» sull’origine interna del principio di movimento) è il Fedro platonico. Nel tentativo di dimostrare l’immortalità dell’anima, Platone sostiene l’immortalità di ciò che muove sé stesso (τὸ αὑτὸ κινοῦν, Phaedr. 245c), o di ciò che si muove da sé (τοῦ ὑφ᾽ ἑαυτοῦ κινουμένου, Phaedr. 245e), e afferma che tale è senz’altro l’essenza dell’anima. È animato (ἔμψυχον) «ogni corpo che riceve il movimento dall’interno (ἔνδοθεν), da sé stesso (ἐξ αὑτοῦ)» (Phaedr. 245e)[5].

Aristotele impiega invece il termine αὐτόματος, e sembra farlo in un modo più vicino al senso ordinario di evento fortuito, per esempio in Phys. II, 4 nel contesto della discussione sulla «fortuna» e sul «caso» (τò αὐτόματοv) come possibili cause (cfr. Aristotele, Phys. II, 4). Nel De generatione animalium il termine ricorre invece in riferimento al tema della generazione “spontanea” e in senso analogo, a un diverso livello di astrazione, nella Metafisica (Met. VII, 1032a) (τῶν δὲ γιγνομένων τὰ μὲν φύσει γίγνεται τὰ δὲ τέχνῃ τὰ δὲ ἀπὸ ταὐτομάτου). Rilevante anche la connotazione della vita come capacità di auto-nutrimento (δι’ αὑτοῦ τροφήν) offerta nel De anima (DA 412a). In una diversa accezione, invece, nel trattato sulla Meccanica, Aristotele (o uno pseudo-Aristotele)[6] si riferisce agli automi meccanici come fonti di meraviglia. L’automaticità denota qui la capacità di muoversi da sé, propria di artefatti tecnici che imitano il vivente e celano la causa del proprio movimento, che si presenta come auto-indotto, posto che sia presente un impulso iniziale (cfr. Cambiano 2006). Analogo impiego del termine si trova nel trattato di Erone di Alessandria dedicato alla costruzione di automi, e in altri documenti di simile argomento e natura (cfr. Cambiano 1994).

Si può concludere in prima approssimazione che il concetto antico di «automa» (sia esso riferito a un’anima immateriale, sia esso invece legato alla materia e dunque incapace di trascendere una quota, sia pure minima e iniziale, di passività e di ricezione del movimento da una causa esterna) contiene un riferimento all’automovimento, che tende invece a dissolversi tanto nel concetto ordinario di «macchina», quanto nelle nozioni invalse di «automaticità» e «automatismo» (cfr. Belardi 2005).

Per proseguire in questa rassegna avanzando una anche minima pretesa di completezza scientifica, si dovrebbe dapprima esplorare il modo in cui le tesi di Platone vengono riprese e rielaborate nella tradizione platonica, non solo tardoantica ma anche proto-moderna, e si ibridano con la teologia trinitaria. Valga a mero titolo di esempio un passo del De ludo globi di Nicolò Cusano (2001, 70), in cui si afferma che nella sua parte intellettuale «l’anima muove sé stessa con un movimento circolare perché questo movimento ritorna su sé stesso. Quando penso di pensare, il movimento è circolare e muove sé stesso. Dunque, il movimento intellettuale dell’anima, che è vita, è perpetuo, perché è circolare e riflesso su se stesso». Senza con ciò avallare l’immagine di Hegel come «Proclo moderno» e idealista neoplatonico, dotata di una certa fortuna in campo marxista (cfr. Colletti 1969), appare non innaturale tracciare un parallelo tra questa impostazione “platonica” e l’andamento circolare della scienza logica in Hegel, da un lato, e il circuito del denaro-capitale in Marx, dall’altro: due istanze di Kreislauf, la cui connotazione deve molto, sia pure implicitamente, a questa tradizione filosofica.

Occorrerebbe poi, ovviamente, seguire tanto lo sviluppo del concetto di «automa», quanto le sorti del moto circolare, lungo tutta la storia del pensiero moderno. Una simile ricostruzione complessiva esula per ovvie ragioni dagli scopi di questo saggio. Crediamo, però, che anche una rapida rassegna come quella appena condotta possa rappresentare un punto d’avvio per una ricognizione più avvertita dell’uso marxiano del concetto di «automa». Ai fini dell’indagine che segue, proporrei di distinguere: 1) una visione “idealistica” dell’anima come entità semovente, automatica in senso “etimologico”, che si muove in modo circolare e per cause endogene; 2) una visione “meccanica” dell’automaticità, in base alla quale l’automa è apparentemente semovente, ma è in realtà mosso da altro e non deriva da sé il principio del proprio movimento; 3) una visione “biologica” dell’automovimento come auto-nutrimento.

Tra i compiti del saggio vi sarà allora quello di mostrare in che modo questi tre livelli agiscono nella qualificazione marxiana dell’automa e in generale del capitale come soggetto semovente, ampliando a tal fine un repertorio interpretativo che si è in massima parte limitato a rilevare – spesso con una non trascurabile discordia – l’analogia tra il concetto di «capitale» e le determinazioni che Hegel assegna al «Soggetto» e al «Concetto». A tal riguardo, intendiamo sostenere che la versione idealistico-spirituale, la versione “meccanica” e la versione “biologico-metabolica” sono rilevanti, rispettivamente, in ordine alla definizione a) del capitale come «soggetto automatico»; b) del capitale come «sistema automatico di macchine»; c) del capitale produttivo di interesse come «feticcio automatico». Cercheremo infine di valutare in che misura, assunta in via ipotetica la vigenza di questa partizione, il capitale come automa meccanico sia conforme ai requisiti posti dalla definizione del capitale come «soggetto automatico».
 
 
2. Il capitale come soggetto semovente
 
La sezione seconda del primo libro del Capitale si inaugura con un capitolo (il quarto) dedicato alla Trasformazione del denaro in capitale. Nel definire il capitale individuandone la differenza specifica rispetto alle diverse forme e funzioni del denaro – e al modo in cui il denaro, considerato ancora soltanto come denaro e non come capitale, prende parte ai processi di scambio e intrattiene una relazione di tipo essenziale con il valore (cfr. Backhaus 2016) – Marx sostiene che nella circolazione D-M-D, in cui il denaro si trova tanto all’inizio quanto alla fine di ogni ciclo, il valore sia divenuto «soggetto di un processo» di «costante ricambio delle forme di merce e denaro» (Marx 1991, 141; trad. it. 171). Non soltanto il valore «passa da una forma all’altra senza perdersi in questo movimento», ma riesce anche a valorizzare sé stesso attraverso un «movimento suo proprio», in forza del quale «la sua valorizzazione è dunque autovalorizzazione» (Marx 1991, 141; trad. it. 171). A un primo livello di analisi, è possibile scorgere in questi passaggi una duplice ascendenza hegeliana. Da un lato, questo «soggetto» che «ora assume ora dismette la forma di denaro e la forma di merce, ma che in questo cambiamento si conserva e si amplia» (Marx 1991, 141; trad. it. 171), ponendosi come il punto di partenza e il punto finale del processo (cfr. Marx 1991, 139; trad. it 168), richiama l’idea hegeliana di una autorelazione “circolare”[7] vivificata dal passaggio nell’alterità e connotata dunque come «esser presso di sé nel proprio esser-altro» e come movimento di “ritorno”. Dall’altro, compare già – sia pure in guisa embrionale e metaforica – la critica del “carattere di feticcio” assunto da una simile autorelazione. Una critica che, su questo punto specifico, pare affidata ancora – stanti i diversi livelli di “maturazione” e “rottura epistemologica” – a un modulo concettuale giovanile, fortemente dipendente da Feuerbach, teso a smascherare le inversioni “mistiche” di soggetto e predicato. In modo significativo, il gergo hegelizzante è intrecciato con similitudini teologiche, secondo le quali il valore «respinge sé da sé quale valore originario»[8], «distingue sé, in quanto valore originario, da sé in quanto plusvalore, come Dio Padre si distingue da sé come Figlio di Dio, e […] non appena viene generato il figlio e, attraverso il figlio, il padre, di nuovo scompare la loro distinzione ed entrambi sono Uno» (Marx 1991, 142; trad. it. 171-172).

Esula dal tema e dagli scopi di questo saggio un’analisi dei diversi valori dei riferimenti hegeliani in questo e in altri luoghi dell’opera. Ma anche questo passaggio può a buon diritto essere assunto come prova di quanto lo Hegel dell’esposizione dialettica delle categorie, lo Hegel realista onto-logico e lo Hegel “mistico” convivano, nel Capitale, a un elevato grado di integrazione – e di acuta problematicità. Se, tuttavia, le influenze hegeliane sulla critica dell’economia politica – sul suo impianto espositivo e sui suoi contenuti – sono largamente riconosciute e indagate dagli interpreti, e se l’analogia capitale-Soggetto è ormai un topos classico nella letteratura “marxologica” degli ultimi decenni, non altrettanta attenzione teorica è stata dedicata alla tipologia di movimento che inerisce il valore in quanto soggetto di un processo.

Nel continuo passaggio tra due modi di esistenza (merce e denaro), il valore è secondo Marx un «soggetto automatico». Nell’edizione francese, l’espressione «soggetto di un processo» è sostituita da «sostanza automatica, dotata di vita propria» (Marx 1989, 124). Espressione che ricompare poco dopo nell’edizione tedesca: «sostanza in processo, automoventesi» (Marx 1991, 142; trad. it. 171). Risulta evidente da queste formulazioni che la capacità di muoversi da sé, di essere principio del proprio movimento senza necessità di ricorrere a cause motrici esterne, qualifica in modo essenziale il concetto di «capitale», proprio nel punto cruciale della sua introduzione e definizione. La nozione di «automa», lungi dal designare un’entità condizionata e mossa in quanto riflesso passivo di un’intenzionalità e di un influsso causale esterni, si riferisce invece alla prerogativa soggettiva di essere principio, inizio e causa del proprio movimento. Non si tratta di un mezzo “cognitivo” di misurazione del valore, né di un mezzo “empirico” di circolazione e scambio delle merci utilizzato dagli agenti economici, né infine di una massa oggettiva accumulata in forma di tesoro. Il capitale è invece soggetto dinamico, «valore in processo», denaro capace di abbandonarsi alla circolazione, scambiarsi con merci e fare «ritorno» a sé come quantità incrementata, secondo una forma di moto circolare.

Essere “soggetto” significa essere in movimento, secondo una specifica forma (circolare e “ritornante”) di movimento e in forza di cause endogene. Nel caso del «valore in processo», il movimento in questione è duplice: da un lato, il moto “circolare” di compera e vendita espresso dalla formula D-M-D’; dall’altro, il moto “lineare” di accrescimento quantitativo del valore, compendiato nella «forma abbreviata» (Marx 1991, 142; trad. it. 172) D-D’. E si tratta, in entrambi i casi, di un movimento automatico, di un “automovimento”.

Marx anticipa già a questo livello dell’esposizione che la «forma abbreviata» risulterà essere l’espressione più adeguata del capitale produttivo di interesse. Nelle pagine poi confluite nel capitolo XXIV del Libro terzo Marx parlerà del capitale in questa configurazione come di un «feticcio automatico» (Marx 2004, 381). Di nuovo, la caratteristica dell’automaticità è chiamata a connotare il capitale in un punto teorico cruciale. Nel caso specifico, l’automovimento e la capacità di generare per cause almeno apparentemente endogene il proprio aumento assumono carattere di feticcio, nella misura in cui rimuovono la complessa rete di mediazioni, attraverso la quale soltanto il denaro può effettivamente accrescersi, e si compendiano nella forma ‘abbreviata’ della pura autorelazione D-D’ tra quantità monetarie. L’automovimento del capitale si presenta qui dunque come “auto-nutrimento”, denaro che genera denaro.

La struttura soggettiva di automovimento che qualifica il concetto di «capitale» connota anche la natura e l’azione del capitale come innovatore e regolatore dei processi di produzione delle merci, secondo un progressivo avvicinamento a un punto culminante che, allo stadio di sviluppo osservato da Marx, è rappresentato dalla «grande industria». Nel passaggio dalla manifattura alla grande industria si osserva una crescente capacità di assunzione, da parte del capitale, di caratteristiche e prerogative precedentemente ascrivibili in via esclusiva alla soggettività umana. Dapprima «soggetto automatico» e infine «feticcio automatico», nella produzione macro-industriale il capitale rimane coerente con la sua natura di Soggetto, presentandosi e agendo nella forma di sistema automatico di macchine, lavoro morto o coagulato che manifesta però capacità soggettive di automovimento. La definizione marxiana del capitale, imperniata sul concetto di «soggettività automatica», trova una “traduzione” empirica nell’automazione industriale consentita dai sistemi di macchine.

Non è tuttavia sufficiente sottolineare che il concetto di «soggettività capace di iniziativa autonoma» e quello di automaticità non sono in opposizione, ma sono anzi profondamente legati, e che questo si riflette nella definizione marxiana del capitale come «soggetto automatico». Tra un automa-soggetto, quale può essere (almeno come ideale regolativo) un essere umano libero, o quale è secondo Marx il capitale, e un automa meccanico, sembra intercorrere una differenza sostanziale difficilmente aggirabile. Occorre dunque verificare se e in che misura al sistema automatico di macchine analizzato da Marx inerisce un qualche grado di soggettività; in che misura, cioè, il sistema automatico di macchine è conformato in modo tale da consentire di tracciare un isomorfismo o un’analogia tra il suo tipo di automaticità e quella del capitale come «soggetto automatico».
 
 
3. Automovimento e soggettività nel passaggio dalla manifattura alla grande industria
 
Nelle pagine iniziali del capitolo XII, dedicato a Divisione del lavoro e manifattura, Marx scrive:
 

Composta o semplice, l’operazione rimane artigianale e quindi dipendente dalla forza, dall’abilità, dalla sveltezza e dalla sicurezza del lavoratore singolo nel maneggio del suo strumento. Il mestiere rimane la base. Questa base tecnica ristretta esclude un’analisi effettivamente scientifica del processo di produzione. (Marx 1991, 305; trad. it. 371-372)

L’analisi del processo di lavoro propria della manifattura genera l’annessione del lavoratore a una delle molte operazioni parziali necessarie: «la manifattura sviluppa forze-lavoro che per natura sono adatte soltanto a una funzione particolare, unilaterale» (Marx 1991, 314; trad. it. 383). Secondo un’altra celebre espressione marxiana, la manifattura «storpia il lavoratore e ne fa una mostruosità […] attraverso la soppressione di un intero mondo di impulsi e di disposizioni produttive» (Marx 1991, 325; trad. it. 395). Vincolato a una funzione di dettaglio, «l’individuo stesso viene diviso, trasformato nel motore automatico [das automatische Triebswerk] di un lavoro parziale» (Marx 1991, 325; trad. it. 395).

Per gli scopi della nostra indagine, è opportuno soffermarsi sul significato del termine «automatico» in questo passaggio. Il carattere automatico del movimento del lavoratore nella manifattura rinvia all’idea di un riflesso passivo, di un’eterodirezione, di un’assenza di controllo sui propri movimenti e sul processo parziale e complessivo in cui essi sono inseriti. La forza-lavoro, privata della libera iniziativa e del controllo razionale del processo complessivo, è sfruttata come forza motrice di una «macchina operatrice» che esegue il lavoro in sua vece. Poco più avanti, infatti, Marx cita per esteso il celebre passo di Ferguson, secondo il quale «le manifatture prosperano di più dove meno si consulta la mente» (Marx 1991, 326; trad. it. 396), e le più radicali considerazioni di Smith, secondo il quale l’operaio «non ha nessuna occasione di esercitare le sue capacità mentali» e acquisisce destrezza nella sua operazione parziale «a spese delle sue virtù intellettuali, sociali e militari» (Marx 1991, 327; trad. it. 397). L’automaticità del movimento umano significa qui la riduzione del lavoro umano a mero esercizio di risposta e la privazione delle prerogative essenziali della soggettività. Prerogative che, tuttavia, non scompaiono dal processo produttivo, ma vengono riallocate e assegnate a un titolare più idoneo a garantire la fluidità del processo di valorizzazione del capitale.

Marx sostiene in modo esplicito che, nella successione di Cooperazione, Manifattura e Grande industria come principi regolatori della produzione capitalistica, le funzioni superiori di ricostruzione mentale e direzione consapevole del processo di lavoro passano in modo crescente dai lavoratori al capitale:
 

Le cognizioni, l’intelligenza e la volontà […] sono ormai richieste soltanto per il complesso dell’officina. […] Ciò che i lavoratori perdono si concentra di fronte a loro nel capitale. È un prodotto della divisione del lavoro di tipo manifatturiero porre loro di fronte come proprietà altrui e come potere che li domina le potenze intellettuali del processo di produzione. Questo processo di scissione comincia nella cooperazione semplice […]; si sviluppa nella manifattura […]; si completa nella grande industria che separa la scienza dal lavoro, facendo della prima una potenza produttiva indipendente, e la costringe a entrare al servizio del capitale. (Marx 1991, 325-326; trad. it. 396)

La “fase” della manifattura e della divisione del lavoro, se da un lato degrada il lavoratore singolo a componente dipendente ed esecutore “passivo” di operazioni abituali, dotato di “automaticità” nel senso deteriore, dall’altro – attraverso la crescente separazione delle «potenze intellettuali» dai portatori di forza-lavoro – consegna al capitale le prerogative di un “automa”, capace di direzione e controllo sui processi. L’adeguamento del capitale come agente storico della produzione materiale alla sua definizione come «soggetto automatico» si perfeziona, man mano che la produzione basata sul macchinario acquisisce centralità.

La produzione macro-industriale – in modo più compiuto rispetto alla manifattura e alla cooperazione – avvicina il capitale alla piena coincidenza con la propria definizione. La Maschinerie è elemento essenziale di questo percorso, e lo supporta in modo assai più efficace di quanto fosse in grado di fare il principio della divisione del lavoro. Tale coincidenza del capitale con il proprio concetto non è tuttavia mai compiuta. Il capitale, in ogni sua funzione e configurazione, non è in grado di ridurre integralmente a suo prodotto (a una sua alienazione) l’alterità costituita dalla natura e dalla forza-lavoro, ma deve ogni volta di nuovo operarne la sussunzione – e ciò a prescindere dal grado della sua capacità di disporre tecnicamente della natura e di esercitare potere sociale, tanto sulla «forza-lavoro» considerata come categoria economica, quanto sull’intima costituzione psicofisica dei suoi portatori (cfr. Arthur 2002 e Bellofiore 2013)[9]. Il carattere automatico del capitale è dunque già intaccato da una considerazione critica della definizione marxiana e della pretesa capitalistica di pervenire a una compiuta automaticità. Resta tuttavia valido che, secondo la definizione del cap. IV, il carattere automatico del capitale è intimamente legato al suo carattere di Soggetto. Ciò che occorre a questo punto domandarsi è in quale misura il carattere automatico del capitale come sistema di macchine impiegato nella grande industria sia coerente con la natura “soggettiva” del capitale e, in caso di risposta positiva, in che termini ed entro quali limiti sia articolata questa coerenza.

Marx inaugura il capitolo XIII sostenendo che «nella manifattura il rivoluzionamento del modo di produzione prende come punto di partenza la forza-lavoro; nella grande industria, il mezzo di lavoro» (Marx 1991, 333; trad. it. 405). Nella manifattura, prosegue Marx dopo aver sostato sul carattere problematico della distinzione tra strumento e macchina e aver distinto le macchine in macchine motrici, meccanismi di trasmissione e macchine operatrici, «il lavoratore viene appropriato al processo, ma prima il processo era stato adattato al lavoratore. Questo principio soggettivo della divisione del lavoro scompare nella produzione meccanica» (Marx 1991, 341; trad. it. 415). Insofferente dinanzi ai limiti antropici posti dal soggetto umano all’incremento del plusvalore relativo, il capitale procede al loro superamento tecnologico:
 

Il processo complessivo viene considerato oggettivamente in sé e per sé, viene analizzato nelle sue fasi costitutive e il problema di eseguire ciascun processo parziale e di collegare i diversi processi parziali viene risolto per mezzo dell’applicazione tecnica della meccanica, della chimica, etc. (Marx 1991, 341; trad. it. 415)

Questo passaggio contiene un’allusione cruciale, che diviene esplicita nel momento in cui Marx, nello stesso capitolo ma nel diverso contesto di un paragrafo dedicato alla legislazione sulle fabbriche, torna sul superamento dei mestieri e della base artigianale della produzione:
 

Il principio della grande industria – risolvere nei suoi elementi costitutivi ciascun processo di produzione considerato in sé e per sé e senza tener alcun conto della mano dell’uomo – ha creato la modernissima scienza della tecnologia. Le policrome figure del processo di produzione sociale […] si scomposero in applicazioni delle scienze naturali consapevolmente pianificate e sistematicamente scompartite a seconda dell’effetto utile che ci si era posti come scopo. La tecnologia ha scoperto anche le poche grandi forme fondamentali del movimento nelle quali si svolge necessariamente ogni azione produttiva del corpo umano. (Marx 1991, 438; trad. it. 530)

Al centro dell’estrazione capitalistica di plusvalore si trova dunque die ganz moderne Wissenschaft der Technologie, imperniata sull’applicazione delle scienze naturali e sulla conoscenza ergonomica e dinamica del corpo umano[10]. Questa tendenza all’oggettivazione del processo produttivo, alla demistificazione del “mistero” del mestiere, procede attraverso la dislocazione, la marginalizzazione, la crescente e sempre possibile espulsione della forza-lavoro dalla produzione. L’operaio industriale può essere sostituito, sia in quanto forza motrice, sia in quanto possessore di saperi indispensabili: l’una e gli altri si concentrano nelle mani del capitale. Da un lato, come abbiamo visto, mediante la separazione delle «potenze intellettuali» dal lavoratore. Dall’altro, attraverso l’attuazione del principio automatico [die Durchführung des automatischen Princips]»  (Marx 1991, 342; trad. it. modificata 416). Tale principio investe sia la macchina operatrice, che «compie senza assistenza umana tutti i movimenti necessari per la lavorazione» (Marx 1991, 342; trad. It. 416), sia la macchina motrice, «primo motore semovente» (Marx 1991, 342; trad. it. 415), sia l’intero processo, il che dà luogo a «un sistema articolato di macchine operatrici che ricevono il movimento da un meccanismo automatico centrale» (Marx 1991, 342-343; trad. it. 416).

Nei termini della nostra rassegna storico-filosofica si tratta certo di qualcosa di più vicino al concetto di «automa meccanico» che non a quello platonico di «anima semovente». Tuttavia, è di nuovo Marx a legare il concetto di «automaticità» a quello di «soggettività»: se resta almeno in linea di principio possibile una applicazione “neutrale” del macchinario su larga scala, in cui «il lavoratore complessivo combinato, ossia il corpo lavorativo sociale, si manifesta come soggetto dominante [als übergreifendes Subjekt] e l’automa meccanico come oggetto» (Marx 1991, 377; trad. it. 458), nell’applicazione capitalistica e nel moderno sistema di fabbrica «l’automa stesso è il soggetto» (Marx 1991, 377; trad. it. 458). A prova di quanto la connessione tra il capitale e le peculiarità “automatiche” del Soggetto non sia estrinseca, e qualifichi invece la definizione formale del concetto di «capitale», che deve potersi ritrovare – più o meno fedelmente – esemplificata nelle sue diverse configurazioni; e di come, nella teoria marxiana della grande industria e in particolare nella nozione di «automa», siano sedimentati elementi di antica origine, dotati di una rilevanza genuinamente filosofica spesso misconosciuta.
 
 
 
Note
 
[1] Mi permetto di rinviare, su questo punto, ai risultati parziali raggiunti ed esposti in Micaloni (2017a, 2017b), ma soprattutto alla letteratura ivi citata.
[2] Cfr. l’impostazione che emerge dal testo di Finelli (2014).
[3] Buona parte dell’uso aristotelico del termine è coerente con questa definizione.
[4] Cfr. Chantraine (2009).
[5] Più controverso il passo iniziale: «L’anima è immortale; perché ciò che sempre si muove (ἀεικίνητον) è immortale» (Phaedr. 245c). Nel papiro di Ossirinco si trova infatti «αὑτοκίνητον», ciò che si muove da sé, in luogo di «ἀεικίνητον». Cfr. Decleva Caizzi (1970).
[6] Cfr. Ferrini (2010) per una introduzione al problema dell’attribuzione di questo trattato.
[7] Pur non impiegato da Hegel, il concetto di «autorelazione» rende efficacemente conto della natura di alcune strutture rilevanti. Cfr. Henrich (1982). Cfr. anche l’impiego del concetto da parte di Quante (2011) nel quadro dell’indagine sulla teoria hegeliana della volontà e dell’azione.
[8] Cfr. Hegel (1980, 101): «Io, l’omonimo, mi respingo da me stesso; immediatamente, però, questo differenziato, questo qualcosa posto come disuguale, per me non costituisce più, mentre è differenziato, nessuna differenza». Questa formulazione, posta al termine della III sezione (Forza e intelletto) a definire il passaggio all’autocoscienza, implica la compresenza di due “momenti” logici che Hegel (1980, 104) rende espliciti all’inizio della sezione IV: nel primo, «per l’autocoscienza […] l’essere-altro è come un essere»; nel secondo, l’autocoscienza sperimenta «l’unità di se stessa con questa differenza». Diversamente, se «agli occhi dell’autocoscienza la differenza non ha la figura dell’essere, l’autocoscienza non è tale». Della formulazione iniziale, dunque, deve essere superata l’immediatezza che in essa ancora inerisce all’autorelazione: «Ma nella misura in cui essa differenzia da sé soltanto se stessa in quanto se stessa, allora per essa la differenza come esser-altro è tolta in modo immediato; la differenza non è, ed essa è soltanto la tautologia priva di movimento: Io sono Io». Il carattere immediato del toglimento della differenza verrebbe infatti a contraddire la tesi secondo cui l’autocoscienza è il movimento attraverso cui essa consegue la propria uguaglianza con sé (non è, cioè, data prima di questo movimento, che deve essere dunque pensato come originario e costitutivo). L’autocoscienza, scrive Hegel, è «essenzialmente il ritorno dall’essere-altro».
[9] Di diverso segno la prospettiva di Finelli (2014).
[10] Mentre i riferimenti a Charles Babbage e soprattutto a Andrew Ure, i cui lavori Marx leggeva in traduzione francese già nel 1845 (cfr. Marx 1982), rimangono ben evidenti nel Capitale, lo stesso non può dirsi delle letture, risalenti al 1851 (cfr. Marx 1981) relative al ramo “tedesco” della Technologie e in particolare ai lavori di Poppe: riferimenti conservati nel Manoscritto 1861-63, ma in massima parte rimossi dall’edizione a stampa del Capitale. Ulteriore elemento degno di nota e di approfondimento filologico e teoretico è la sostituzione, non piena ma tendenzialmente sistematica, delle occorrenze dell’aggettivo «tecnologico» (technologisch), impiegato nella prima e nella seconda edizione tedesca nel capitolo XIII del Libro primo, con «tecnico» (technisch), nelle successive edizioni tedesche curate da Engels. Su questi temi, cfr. Muller (1992), Tribe (2016) e Frison (1992, 1993a e 1993b).
 
 
 
Bibliografia
 
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