Axel Honneth e i presupposti della reificazione


Matteo Gargani

Università degli Studi di Urbino, “Carlo Bo”
matteogargani22@gmail.com

 
 
 
Abstract: The aim of this paper is to deal with some aspects of Axel Honneth’s reading of reification faced in his 2005 Verdinglichung. Eine Anerkennungstheoretische Studie. To this purpose, I critically analyse the interpretation of Marx by Lukács as it is expressed in Reification and the Consciousness of the Proletariat. Secondly, I claim that Lukács’ fetishism analysis is grounded in a significant misunderstanding of the core issue of Marx’s Critique of political economy. Furthermore, I suggest that Honneth’s reification concept uncritically accepts, to some extent, the main theses on Marx as they are outlined in Lukács’ text. I conclude by arguing that the Marxian heritage advocated by Honneth is methodologically more deeply linked to Lukács’ History and Class Consciousness than to Marx’s Capital.
 
Keywords: Honneth; Marx; Lukács; reification; fetishism; method.
 
 
 
1. Introduzione
 
Non intendo diffondermi in una discussione dell’intera proposta teorica lanciata da Axel Honneth nel 2005 attraverso Verdinglichung (Honnet 2005)[1]. Mio intento non coincide neanche con quello di coloro, che partendo da un vaglio critico dell’interpretazione honnethiana di Lukács, considerano poi la proposta teorica del primo nel suo complesso (Chiari 2010, Jütten 2010, Feenberg 2011a, Hall 2011). Tantomeno mi impegnerò nella difesa, operazione in sé sempre problematica, dell’attualità/inattualità di GuK. Mio scopo sarà qui più perimetrato. Analizzerò alcuni presupposti interpretativi attraverso cui Lukács costruisce La reificazione e la coscienza del proletariato, saggio centrale di GuK e unica parte del testo su cui Honneth si sofferma. Il nucleo di tali presupposti, questa la tesi fondamentale che sorregge il mio contributo, filtra intatto in Reificazione di Honneth.

Partirò (i) da alcune considerazioni generali di Marx circa la relazione tra maestri, scuole e allievi. Nella parte centrale del saggio (ii, iii) mi concentrerò sul nucleo dell’interpretazione honnethiana di GuK e (iv) sulla configurazione dell’«eredità marxiana» adita da Honneth. Infine considererò (v) le responsabilità di GuK nel veicolare una determinata immagine della quarta parte del primo capitolo del primo libro de Il capitale.
 
 
2. «Il giuoco delle parti». Maestri, scuole e discepoli
 
Tra i molteplici punti affrontati da Marx nel ponderoso collage di 23 quaderni stesi tra il gennaio 1861 e il luglio 1863 e denominati Teorie sul plusvalore, il ventesimo capitolo è dedicato alla Dissoluzione della scuola ricardiana. «Dissoluzione di scuola» non è tuttavia argomento inedito per Marx: l’indagine su un molto diverso processo dissolutorio è, non da solo, impulso di ricerca già per la Dissertation del 1841 (Hillmann 1966, 358). Sollecitato dalla recente pubblicazione delle «Vorlesungen» hegeliane sia di storia della filosofia sia di filosofia della storia (Cingoli 2001, 85-132), Marx approfondisce all’epoca la fisionomia delle principali scuole filosofiche ellenistiche per poi illuminare analogicamente l’attuale «svolta non filosofica della scuola hegeliana» (Marx 1841, 79). Di maestri, scuole e discepoli Marx si occupa ancora nel 1842 ne Il manifesto filosofico della scuola storica del diritto (Marx 1842, 206-209). Ovviamente sono però L’ideologia tedesca e La sacra famiglia i luoghi in cui Marx (ed Engels) si prodigano con più dettaglio nell’analisi di quella «dissoluzione di scuola» che è il vero fuoco della loro attenzione: quella della «scuola hegeliana» (Marx, Engels 1845-1846, 33).

Nei primi anni Sessanta del XIX secolo completamente differente è il materiale di lavoro di Marx. Ciononostante è ragionevole ipotizzare che, proprio trattando della «dissoluzione della scuola ricardiana», riecheggi la travagliata «dissoluzione di scuola» cui Marx aveva assistito de visu nella propria giovinezza. Come è stato per gli «allievi» della scuola hegeliana, anche ora Marx attesta significative differenze sia di livello sia di metodo tra il «maestro» David Ricardo e i suoi «allievi»:
 

Mill fu il primo a esporre la teoria di Ricardo in forma sistematica, sebbene con contorni alquanto astratti. Ciò a cui tende è la consequenzialità della logica formale. Con lui ‘perciò’ inizia anche la dissoluzione della scuola ricardiana. Nel maestro, il nuovo e il significativo si sviluppa in mezzo al ‘letame’ [Mist] delle contraddizioni, nasce violentemente dai fenomeni contraddittori. Le contraddizioni stesse che stanno alla base testimoniano la ricchezza e la vitalità del fondamento da cui emerge faticosamente la teoria. Per il discepolo è diverso. La sua materia prima non è più la realtà, ma la nuova forma teorica a cui il maestro l’ha sublimata. (Marx 1861-1863, 83-84)

Si tratta anche ora per Marx di capire in che termini l’«allievo» riesca a cogliere effettivamente le «contraddizioni» che ha di fronte, prescindendo degli schemi interpretativi ereditati dal «maestro». Il rischio infatti è che il primo finisca per dismettere i panni dello scienziato, di colui cioè che ha la «realtà» come «materia prima», per indossare quelli dell’epigono. Obbligato a procedere in intentio obliqua per ortodossia metodologica, l’epigono non afferra più la realtà, ma soltanto una sua «sublimazione»

Una costellazione di maestri, scuole e allievi ritorna indirettamente nel rilancio filosofico-sociologico del concetto di «reificazione» proposto nel 2005 da Axel Honneth. Questi è infatti conscio del fatto che, richiamandosi al concetto della Verdinglichung[2], sta compiendo un’operazione di “ritorno alle fonti” della Scuola di Francoforte. Se difatti di reciproca ostilità è il rapporto intrattenuto tra il tardo Lukács e i francofortesi, emblematiche sono in proposito le reciproche stilettate tra Lukács da una parte e Adorno e Habermas dall’altra[3], inoppugnabilmente GuK è tra i testi fondativi dell’intera impostazione metodologica della «teoria critica» (Feenberg 2011b, 189-191). Lukács (e Korsch) partecipano d’altronde alla «marxistische Arbeitswoche» del maggio 1923, vere e proprie prove generali dell’inaugurazione dello «Institut für Sozialforschung» che avverrà il 22 giugno 1924 (Wiggershaus 1986, 25 e 35).

Lasciando qui necessariamente da parte la complessa valorizzazione adorniana del Lukács premarxista (Tertulian 1986, 58-59), è certamente il tema della reificazione di GuK a detenere nella tradizione francofortese l’egemonia. Quindi è solo il Lukács di GuK, da un interprete come Oldrini definito addirittura «protomarxista» (Oldrini 2009, 105-117), a imprimere indirettamente sulla Frankfurter Schule il proprio magistero. Sin qui i fatti. Operazione ben più complessa consiste nel capire il «giuoco delle parti», e soprattutto le sue ripercussioni a livello teorico, tra «maestro» Lukács e «allievi» francofortesi sino a Honneth.
 
 
3. La reificazione tra «relazioni» e «processi»
 
Nel primo capitolo di Verdinglichung Honneth affronta esplicitamente la questione della «reificazione in Lukács». «Non sa di far ciò, ma lo fa», la citazione biblica (e marxiana [Marx 1890, 106]) restituisce bene l’adagio con cui Honneth apre le proprie pagine. Il primo muove da una fondamentale tesi teorico-storiografica: per capire «se» al concetto di reificazione spetti oggi un «valore utilizzabile» è del tutto sensato partire dalla «classica analisi» a esso dedicata da Lukács. «Tuttavia», aggiunge subito dopo, «constateremo presto che i suoi mezzi categoriali sono insufficienti per un’adeguata concettualizzazione di dinamiche [Vorgänge] spesso colte in modo corretto da un punto di vista fenomenologico» (Honneth 2005, 17; ted. 19)[4]. Lukács afferra il fenomeno, ma attraverso «mezzi categoriali» insufficienti. Lukács fruttuoso sì, ma malgré soi-même verrebbe da dire. Immediatamente di seguito Honneth aggiunge:
 

Lukács si attiene strettamente alla comprensione quotidiana ontologizzante del concetto di ‘reificazione’, quando afferma già nella prima pagina del suo studio – richiamandosi a Marx – che la reificazione non significa altro ‘che un rapporto, una relazione tra persone riceve il carattere della cosalità’. (Honneth 2005, 17; ted. 19)

Honneth evoca qui la tanto celebre quanto delicata citazione marxiana dove la reificazione, termine che non compare mai in queste pagine de Il capitale (Petrucciani 2012, 325), è qualificata come cosificazione di un «rapporto», «relazione», nella fattispecie «tra persone». In termini sorprendentemente contigui a quelli utilizzati qui da Honneth è lo stesso Lukács a fornire, verso la metà degli anni Sessanta, un’icastica definizione della reificazione situantesi a livello di «vita quotidiana»:
 

Si usa, per esempio, una lampada elettrica premendo un pulsante per accendere e spegnere, e di solito nessuno si mette a pensare neppure lontanamente che sta dando avvio oppure chiudendo un processo. Il processo elettrico nel quadro dell’essere quotidiano è diventato una cosa. È chiaro che la vita quotidiana è piena, non soltanto negli stadi più evoluti, di simili reificazioni [Verdinglichungen] spontanee, che non pervengono a consapevolezza. (Lukács 1986, 642; trad. mod.)

Il contesto di quotidianità evocato da Honneth per determinare un primo ed elementare significato della reificazione parrebbe effettivamente attagliarsi alla definizione della Verdinglichung espressa nella postuma Ontologia dell’essere sociale. Non è questo il luogo per ripercorrere la forma attraverso cui Lukács concepisce in quella sede la reificazione, all’interno cioè di una complessa riarticolazione del rapporto tra «Entfremdung» ed «Entäußerung» (Lukács 1986, 559-616). Honneth non fa nel proprio saggio del 2005 riferimento ad altri testi lukacsiani oltre GuK e sarebbe quindi improprio levare una requisitoria in merito. C’è però un punto sottile, apparentemente indizio quasi insignificante, su cui vale la pena riflettere. Il discorso costruito da Honneth intorno alla reificazione, anche nella sua componente di proposta teorica autonoma, addita la prima a dinamica cosificante «relazioni». Lukács al contrario sia nel passo sopra citato dell’Ontologia sia altrove in GuK fa uso di tale categoria soprattutto per denotare una dinamica cosificante «processi»:
 

Tuttavia, si deve porre qui l’interrogativo che del resto si pone lo stesso Engels e al quale egli dà anzi, nella pagina seguente, una risposta del tutto conforme a ciò che noi pensiamo: ‘Il mondo non è da comprendere come un complesso di cose già definite, ma come un complesso di processi’. (GuK, 263)[5]

«Relazioni» e «processi» non sono lo stesso o quantomeno non lo sono immediatamente. È vero certamente che Marx evoca rispetto al «feticismo» il tema della «relazione fra persone», tuttavia bisogna prestare la massima attenzione al contesto teorico in cui tale discorso viene inscrivendosi. L’estrapolazione di singoli temi rischia in questi casi di condurre a notevoli, anche se talvolta intellettualmente produttive, misinterpretazioni.

«Prozess» non solo è termine molto presente in Marx, ma è anche essenziale lemma tecnico. «Il processo complessivo della produzione del capitale» è il sottotitolo al primo libro de Il capitale; «processo» compare ancora nel sottotitolo di entrambi i libri successivi pubblicati da Engels. Per ora dunque ci basti segnalare un punto: il «feticismo» marxiano, a cui la reificazione di Lukács deliberatamente si ispira, coinvolge sì una «relazione fra persone», ma all’interno di una più generale indagine scientifica circa un «processo complessivo». Quest’ultimo è ulteriormente configurato da una molteplicità di, non secondari per importanza, processi. Scorrendo solo l’indice del primo libro de Il capitale incontriamo infatti un «processo di scambio», un «processo lavorativo», un «processo di valorizzazione» e un «processo di produzione su scala allargata»[6].

Tesi ontologica generale di GuK è quindi «realtà come complesso di processi» (Engels). Tale impegnativo presupposto ontologico deve condurre, per cogenza di ragionamento, a pensare la “de-reificazione” in primis quale ristabilimento di una processualità autentica. Problema aperto è capire come quest’ultima si declini a livello intersoggettivo: che cosa significa concepire una relazionalità animata da una processualità autentica? La risposta a tale quesito appare nel testo del ’23, attraverso un lieve slittamento concettuale, direttamente posta nei termini di una forma di relazionalità consapevole tra agenti. La molteplicità – non rigorizzata – di piani di discorso toccati da Lukács in GuK lascia tuttavia il significato di una relazionalità “autentica” quale problema esposto per molti versi ad esiti aporetici.
 
 
4. Honneth interprete della reificazione di Lukács
 
Honneth candida inizialmente tre ipotesi per cogliere il significato della reificazione in GuK: (i) «errore categoriale epistemico», (ii) «azione moralmente riprovevole», (iii) «forma interamente distorta di prassi» (Honneth 2005, 17; ted. 19). La prima viene da subito scartata in nome della «pluridimensionalità» della reificazione. Honneth evoca in tal senso la ricaduta totalizzante detenuta dalla realtà dello scambio di merci in cui gli uomini «non possono più fare a meno di percepire gli elementi di una situazione data soltanto in riferimento al guadagno che questi elementi potrebbero fruttare per i loro egocentrici calcoli utilitaristici» (Honneth 2005, 18; ted. 20).

Andando a esplicitare il significato di tale «pluridimensionalità», Honneth riesce a sintetizzare gli aspetti centrali della reificazione: (a) percepire gli oggetti esclusivamente come «cose» valorizzabili, (b) in quanto soggetti considerarsi esclusivamente come potenziali «oggetti» di una transazione profittevole e (c) guardare alle proprie «capacità» personali soltanto come «risorse» aggiuntive nel «calcolo delle opportunità del profitto» (Honneth 2005, 18; ted. 20). Honneth illustra come Lukács estenda le conseguenze della reificazione ben al di là dell’originaria «sfera economica» cui Marx originariamente le perimetrerebbe. Ampliando «le costrizioni del feticismo all’intera vita quotidiana nel capitalismo» si perviene per Honneth alla centrale acquisizione teorica di GuK: «nel capitalismo la reificazione è divenuta ‘seconda natura’ dell’uomo» (Honneth 2005, 18-19; ted. 21).

Honneth evidenzia tuttavia il carattere poco rigoroso attraverso cui Lukács trasla un fenomeno originariamente appartenente alla sola «sfera economica» a contesto generalizzante, coinvolgente «tutti i soggetti che partecipano alla forma di vita capitalistica» (Honneth 2005, 21; ted. 19). Honneth addita cioè la criticità dell’impropria estensione lukacsiana della reificazione da sola «sfera d’azione dello scambio di equivalenti» a dinamica esercitante parimenti effetti su «oggetti», «altre persone», «competenze proprie e sentimenti» (Honneth 2005, 19; ted. 22), all’intera vita quotidiana per l’appunto.

Proprio su tale ibrido terreno teorico configurato dalla ricaduta soggettiva della percezione quotidiana dello «scambio di equivalenti», indagine estranea al perimetro d’indagine marxiano de Il capitale e anche della sezione su Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano, Lukács letteralmente “si inventa”, misinterpretando Marx in grande stile, il fenomeno della reificazione. Egli legge cioè le pagine marxiane sul feticismo come un trattato di filosofia sociale inserito da Marx ne Il capitale[7]. La reificazione è in GuK sia trascendentalizzata a prisma attraverso cui il soggetto percepisce la realtà sia oggettivata a fondamento di strutturazione di tutte le relazioni intersoggettive. A tal fine Lukács riesce a sfruttare brillantemente alcuni passaggi chiave della quarta sezione del primo capitolo del primo libro de Il capitale, pagine che apparentemente sembrerebbero prestare il fianco a una tale strada interpretativa[8].

GuK legittima un’interpretazione della reificazione come premessa dell’«estraneazione» vissuta dall’individuo entro la «forma di vita» capitalistica. Tale prospettiva è colta e resa celebre da un testo come La dialettica dell’illuminismo, in cui «Entfremdung» e «Verdinglichung» sono in sostanziale continuità[9]. Honneth, in stretta consonanza con tale linea interpretativa, afferma:
 

Il soggetto non è più attivamente impegnato nell’interazione con il suo ambiente, ma è invece situato nella prospettiva di un osservatore neutrale, psichicamente o esistenzialmente non coinvolto dagli eventi. Perciò, il concetto di ‘contemplazione’ non indica tanto un atteggiamento di immersione teorica o di concentrazione, quanto piuttosto una disposizione all’osservazione indifferente, passiva, mentre ‘distacco [Teilnahmslosigkeit]’ significa che il soggetto agente non è più colpito emotivamente da ciò che gli accade attorno, ma lascia che ciò avvenga senza alcun coinvolgimento interiore, appunto limitandosi a osservare. (Honneth 2005, 20; ted. 23)

Illustrato l’ampio spettro di fenomeni coinvolti dal fenomeno della reificazione, Honneth riesce a sciogliere la propria seconda riserva interpretativa: la reificazione non è «infrazione contro principi morali» (Honneth 2005, 21; ted. 24). Ciò lo conduce finalmente a esplicitare la propria tesi in positivo: «Il comportamento da osservatore distaccato e neutrale, che Lukács cerca di concettualizzare come reificazione, costituisce un insieme di abitudini e atteggiamenti che violano le regole di una forma originaria o migliore di prassi umana» (Honneth 2005, 22; ted. 25). L’immagine di una prassi reificata guadagnata da Lukács in contrasto con un’ideale prassi più vera è però secondo Honneth colta su presupposti «normativi» ed «essenzialistici». Questi addita i piani dell’«ontologia sociale» o dell’«antropologia filosofica» a fonte di tale normatività:
 

Per questo in molti passaggi del suo testo egli dissemina indicazioni per chiarire come dovrebbe configurarsi una relazione pratica dell’uomo con il mondo non viziata dalla coazione [Zwang] alla reificazione: ad esempio, un soggetto attivo dovrebbe esperire il mondo in modo ‘diretto’ e immediato conservando l’ ‘unità organica’ della propria personalità e agendo in modo ‘cooperativo’, mentre dal lato degli oggetti, essi dovrebbero essere esperiti dal soggetto partecipe come alcunché di ‘qualitativamente unico’, o ‘essenziale’, come alcunché di contenutisticamente determinato. (Honneth 2005, 26; ted. 26)

La radice storico-filosofica di tale concezione normativa di prassi è per Honneth una «Identitätphilosophie» prossima al modello di «spontanea attività dello spirito» di Fichte (Honneth 2005, 23; ted. 27)[10]. Proprio tale debito verso l’impraticabile concezione normativa dell’«attività spontanea dello spirito» fichtiana è per Honneth il maggiore ostacolo che la presentazione lukacsiana della reificazione sconta rispetto all’attuale dibattito filosofico. L’idea di un’oggettività integralmente prodotta dal soggetto – «l’oggetto può esser pensato come prodotto del soggetto e quindi spirito e mondo infine coincidono» (Honneth 2005, 23; ted. 26) – è per Honneth del tutto impraticabile.

Ciononostante Honneth individua anche un itinerario teorico capace di rendere alla reificazione una legittima «Rehabilitierung». Nettamente accantonata la «Identitätsphilosophie» ponente da sé l’oggettività, e soprattutto la specifica traduzione politica che su queste basi Lukács avanza attraverso l’immagine del proletariato come «un soggetto espanso al collettivo [ein zum Kollektiv ausgedehntes Subjekt]» (Honneth 2005, 23; ted. 27), Honneth intende invece conservare del discorso di Lukács la fertile traccia di un’immagine altra, valorialmente meglio qualificata, d’intersoggettività:
 

Io voglio pormi la domanda se non sia effettivamente sensato riattualizzare il concetto di ‘reificazione’, in una forma che intende le circostanze come atrofizzazione o distorsione di una prassi originaria in cui l’uomo assume una relazione partecipata [anteilnehmendes] nei confronti di sé e del proprio ambiente. (Honneth 2005, 23; ted. 27)

La conclusione interpretativa di Honneth lo mette tuttavia su un crinale molto precario e per certi versi contraddittorio. Da una parte, infatti, egli sanziona come del tutto obsoleti i residui «normativi» ed «essenzialistici» immanenti al concetto di «prassi» esposto in GuK. Dall’altra egli intende comunque «riattualizzarne» il contenuto. Proprio quest’ultimo gli pare difatti capace di indicare una forma più autentica di interazione sociale: un’interazione «partecipata». Honneth intende così contraddittoriamente conservare il contenuto fenomenologico dell’analisi di Lukács, rigettandone però integralmente la forma, ossia i presupposti metodologici (e indirettamente normativi) attraverso i quali il primo è ricavato.
 
 
5. Honneth e l’«eredità della teoria marxiana»
 
Intervenendo sul «Lukács Jahrbuch 2012-2013», Honneth coglie l’occasione per ritornare sul senso complessivo del proprio testo del 2005: «Con il libretto, che è uscito sotto il titolo Reificazione, ho voluto far valere in forma nuova, inutilizzata l’eredità della teoria marxiana» (Honneth 2012-2013, 67; trad. mia). Honneth aggiunge qui come la ricezione dell’opera marxiana a partire dagli anni Venti del Novecento abbia scontato eminentemente due, parimenti insoddisfacenti, limiti interpretativi. Il primo è connesso a una lettura della «teoria marxiana» a vocazione sociologica: «Da una parte c’erano quegli interpreti che cercavano di adattare la sua teoria nell’essenziale al modello delle scienze normali sociologiche» (Honneth 2012-2013, 67). Il secondo risiede in una visione della «teoria marxiana» come «critica morale del capitalismo» (Honneth 2012-2013, 67).

Tale duplice limite interpretativo si ritrova per Honneth anche nei più recenti tentativi di riattualizzazione della proposta teorica di Marx. Il primo è quello a base di un filone «post-althusseriano» – Honneth non fa qui come in precedenza nomi specifici – che interpreta la «teoria marxiana» come «un concetto della spiegazione materialistica dei processi di sviluppo sociale». Il secondo, rappresentato per Honneth soprattutto dallo «analytical Marxism», coglie la «teoria marxiana» come «impostazione molto promettente di critica etica del capitalismo» (Honneth 2012-2013, 67). Contro entrambi tali errati modelli interpretativi di Marx, Honneth indica la propria proposta interpretativa dell’«eredità teorica» marxiana[11]. Quest’ultima si staglia così a vero e proprio sfondo tacito di Verdinglichung:
 

I concetti centrali che egli [Marx, M.G.] utilizza sia nei suoi scritti giovali sia maturi, da ‘Entfremdung’ a ‘Verdinglichung’ sino a ‘Fetischismus’ rimangono completamente incomprensibili sino a che essi vengono interpretati o solamente come concetti di spiegazione sociologica o come strumenti della critica morale. L’autentico finale [Pointe] di tutti questi concetti consiste propriamente in ciò: che essi si collocano esattamente tra le due possibilità interpretative appena esposte; essi denotano esattamente sviluppi mancati o patologie nel pensare o agire dei soggetti socializzati, che non possono essere descritte né nella lingua puramente neutrale della sociologia esplicativa né nei termini puramente normativi di un’etica. L’autentico interesse di Marx è rivolto a ciò: comprendere le condizioni di vita delle nostre società come causa di una deformazione delle umane capacità razionali; ciò che lo ha impegnato per tutta la vita, ciò su cui ha costantemente diretto la propria attenzione teorica sono state patologie cognitive o esistenziali, che vengono prodotte attraverso la specifica forma di organizzazione delle società capitalistiche. (Honneth 2012-2013, 67-68)

Questa citazione apre a un ampio e complesso novero di considerazioni. In primo luogo Honneth ha il merito di esporre con estrema nettezza la propria opzione interpretativa rispetto a Marx, imperniandola sui concetti di «Entfremdung», «Verdinglichung» e «Fetischismus». Come già illustrato in precedenza, la lettura offerta da Honneth della «teoria marxiana» ribadisce così, nonostante i distinguo da lui pronunciati verso la La dialettica dell’illuminismo (Salonia, Fath 2006, 28-30), la sostanziale continuità con la linea della “prima generazione” francofortese. Tale vincolo interpretativo si ripercuote inevitabilmente anche sulla lettura honnethiana di GuK. Decidendo di soffermarsi sul concetto della «Verdinglichung», questi lascia infatti da parte almeno due ulteriori, e potenzialmente non meno fruttuosi, elementi del testo del ’23. Penso in proposito in primis all’importante riflessione metodologica lukacsiana sulla categoria di «totalità»:
 

Infatti, di fronte alla superiorità dei mezzi nel campo del potere, del sapere, dell’educazione e della routine, ecc., che la borghesia indubbiamente possiede e continuerà a possedere finché resterà la classe dominante, l’arma decisiva del proletariato, l’unico elemento in cui esso rivela efficacemente la propria superiorità, è la sua capacità di vedere la totalità della società come totalità concreta, storica. (GuK, 259)[12]

La categoria di «totalità» dischiude un approccio metodologico alla realtà sociale non immediatamente riducibile alla mera «multidisciplinarietà»[13]. Proprio alla «totalità» di GuK, anche un interprete che nutre verso Lukács un sentimento ancipite come Colletti rende il merito di evidenziare l’«unità della formazione economico-sociale capitalistica» contro le artificiose partizioni disciplinari del marxismo secondinternazionalistico:
 

E, tornando a Lukács, si capisce, quindi, sotto questo profilo, quanto di positivo vi sia, non solo nella sua polemica contro la falsa ‘scientificità’ del marxismo positivistico dei Cunow, dei Kautsky, dei Plechanov, dei Conrad Schmidt, ecc., ma anche – e stavamo per dire: persino – nel suo ricorso alla categoria della ‘totalità’, quando questa serva a sottolineare il problema dell’unità della formazione economico-sociale capitalistica, in quanto ‘totalità’ delle sfere (economia, diritto, politica, ecc.), malamente rese autonome dalla scolastica che regna tuttora nel campo delle cosiddette ‘discipline morali’. (Colletti 1969, 339)[14]

Il secondo elemento che un’interpretazione di GuK imperniata sulla Verdinglichung lascia a margine, per motivi che in questo caso sono però più strettamente connessi alla fisionomia complessiva della proposta teorica autonoma di Honneth, è il tema dell’organizzazione: «L’organizzazione è infatti la forma della mediazione tra teoria e praxis» (GuK, 368). Essa cade al di fuori del perimetro d’indagine scelto da Honneth non solo tematicamente, ma anche testualmente. Scegliendo infatti di limitarsi a considerare GuK non nella sua unitarietà, ma concentrandosi solo sul suo più ampio saggio centrale (mai pubblicato da Lukács in tale veste), inevitabilmente Methodisches zur Organisationsfrage (GuK, 363-418) rimane una sorta di appendice spuria al testo del ’23.

Il tema dell’organizzazione è tuttavia immanente al contesto analitico affrontato già nella sezione su Il fenomeno della reificazione. Non si tratta qui di muovere a Honneth lo sterile rimprovero di silenziare così le punte politicamente più accese del testo del ’23. La ricchezza dell’autonoma proposta teorica honnethiana sa da sola replicare alla povertà di un’accusa verso di essa condotta su tali premesse. Il punto che invece resta così in ombra è altro e di rilevante peso teorico. Il «proletariato» non è in Die Verdinglichung und das Bewußtsein des Proletariats un generico «destinatario» (Camozzi 2009, 1025) del discorso di Lukács, ma un soggetto cui è simultaneamente demandato uno scopo pratico e un traguardo teoretico[15].

Benché il retroterra hegeliano sia stato quello consuetamente più valorizzato rispetto al testo del ’23, anche in ragione della esplicita prossimità teorica in merito rivendicata da Lukács con il «metodo dialettico», un bacino neokantiano anima – con importanza non minore rispetto al primo retroterra – il senso complessivo della proposta teorica di GuK (Feenberg 2011b, 177). Basti pensare, anche sotto il più generale profilo lessicale, al fatto che Lukács menziona «antinomie del pensiero borghese» e invoca l’acquisizione pratico-teorica di un determinato «Standpunkt» quale presupposto per risolverle. Il tema dell’organizzazione guarda proprio in quest’ultima direzione.

Tenere fuori dal perimetro teorico di GuK i problemi della «totalità» e dell’«organizzazione» è tuttavia la strada scelta da Honneth. Tale opzione interpretativa effettivamente ben si sposa con un’interpretazione della «teoria marxiana» incentrata sulle «deformazioni delle capacità razionali umane» causate dalle condizioni di vita capitalistica e sulle «patologie sociali» dalle prime promananti.
 
 
6. Che cosa la reificazione non è. Le responsabilità di Lukács
 
Conclusivamente intendiamo riflettere criticamente su tre punti che abbiamo sin qui diversamente affrontato: (i) in che termini sia possibile afferrare la reificazione come «patologia sociale» in relazione ai presupposti metodologici della «critica dell’economia politica» di Marx; (ii) in che modo GuK effettivamente legittimi una determinata strategia interpretativa circa l’oggetto «critica dell’economia politica»; (iii) quanto il ruolo di Lukács verso Honneth sia effettivamente un analogon di quello del «maestro» che, come David Ricardo per John Mill, ha aperto sì un produttivo sentiero metodologico, ma viziato in partenza da una potente misinterpretazione teorica. Al fine di appressarci al primo punto riteniamo fruttuoso muovere da alcune considerazioni di Colletti del 1974:
 

Non voglio portare il discorso per le lunghe. Il senso di ciò che sto dicendo è che ci sono due Marx. Da una parte, c’è il Marx delle prefazioni al Capitale che si presenta come il continuatore e il coronatore dell’economia politica come scienza, impostata da Smith e Ricardo. Dall’altra, c’è il Marx critico della economia politica (non dell’economia politica borghese, ma dell’economia politica tout court), che intreccia (e rovescia) il discorso di Smith e Ricardo con una teoria dell’alienazione, di cui gli economisti non sanno nulla. Nel primo caso, il discorso economico-scientifico è riferito a una realtà che è assunta nei modi positivi con cui l’assume ogni scienza. Nel secondo, la realtà, di cui si discorre, è sottosopra, ‘a testa in giù’: non è la realtà sic et simpliciter, bensì è la realizzazione dell’alienazione. Non è una realtà positiva, ma da rovesciare e negare. (Colletti 1974, 99-100)

Nella citazione di Colletti coabita del giusto con dello sbagliato. In termini generali è sbagliato affermare che «ci sono due Marx». Non intendiamo con ciò prendere posizione circa la vexata quaestio, non solo althusseriana, della «coupure» tra Marx giovane e Marx maturo. Le parole di Colletti potrebbero essere colte, e il seguito del suo discorso guarda effettivamente anche in tale direzione, come presa di posizione circa il tema continuità/discontinuità tra primo e secondo Marx, tuttavia il senso del discorso qui pronunciato è altro e più sottile. «‘Due anime abitano, ahimè, nel suo petto, e l’una all’altra si vuol separare!’» (Goethe, Faust, I parte, vv. 1112-1113 cit. in Marx 1890, 531), l’immagine goethiana (e marxiana) identifica forse meglio la specifica scissione interiore che attraverserebbe Marx e a cui allude qui Colletti. «Due anime» in un solo Marx dunque; in questi termini avrebbe potuto forse meglio esprimersi l’interprete. Da una parte il Marx “buono”, il «continuatore e coronatore dell’economia politica come scienza impostata da Smith e Ricardo». Dall’altra il Marx “cattivo”, il critico dell’economia politica «tout court», artefice di un cortocircuito economico-filosofico» tra il discorso dei «classici» e una «teoria dell’alienazione» a essi del tutto estranea.

Ancora più interessante tuttavia è quanto Colletti afferma nell’ultima parte della propria citazione. I «due Marx» guardano «due realtà» distinte: il primo pone a oggetto «una realtà che è assunta nei modi positivi con cui l’assume ogni scienza»; il secondo una realtà «sottosopra, ‘a testa in giù’», «realizzazione dell’alienazione», non una «realtà positiva, ma da rovesciare e negare». Molto si potrebbe criticamente commentare circa le carenze del modello epistemologico collettiano, sul senso di espressioni come «realtà sic et simpliciter» o «discorso economico-scientifico» di Marx[16]. Ma ciò non è quanto preme qui mettere qui in luce. Al contrario ci interessa sottolineare un ulteriore aspetto su cui la schematica alternativa di Colletti obbliga a riflettere.

Vi è un’oscillazione che attraversa il progetto marxiano maturo e che ha delle ambigue ricadute anche nel cuore del modello epistemologico de Il capitale, precisamente nella volontà marxiana di distaccarsi dai presupposti metodologici dell’economia politica contemporanea[17]. La nota distinzione del Poscritto alla seconda edizione de Il capitale tra «Forschungsweise» e «Darstellungsweise» guarda esattamente in questa direzione (Cazzaniga 1981, 19-23). «Esposizione» e «critica» coabitano in Marx in un procedimento che intende, già nella sua immanente costruzione metodologica, distaccarsi dalle sterilità teoriche della economia politica classica e post-classica.

Se dunque è corretto con Colletti affermare l’esistenza di una dualità in Marx, essa non è congruente con una scissione scienza vs filosofia. Al contrario si tratta per Marx di procedere metodologicamente tenendo come bussola quanto Lukács stesso individua in un saggio degli anni Trenta come «processo di decadenza ideologica» (Lukács 1938). Di ciò Marx parla a chiare lettere proprio nel Poscritto alla seconda edizione de Il capitale: la «rivoluzione di luglio» suona la campana a morto della «scienza economica borghese», al posto della «ricerca disinteressata» subentra la «cattiva coscienza della apologetica» (Marx 1890, 40). Tale dinamica regressiva da «scienza» a «apologetica» è quanto Marx studia ne Le teorie sul plusvalore e che tiene costantemente presente nell’intera elaborazione de Il capitale[18]. Si parla qui del dato semplice, ma pur sempre decisivo, del condizionamento storico-sociale della scienza. D’altronde è questo ciò che Marx, già nel lontano 1844, pone a decisiva chiave ermeneutica per demistificare le astrattezze dell’«alienazione» della Fenomenologia dello spirito e che continua a tenere in piedi – insieme a molto altro – sino a Il capitale[19].

Se è vera la nostra lettura del senso complessivo dell’impresa teorica della «critica dell’economia politica» come critica alla «decadenza ideologica» della «scienza economica borghese», allora anche le note pagine su Il carattere di feticcio della merce devono assumere una diversa sfumatura di significato. Quest’ultimo è distante rispetto a un laboratorio diagnostico di «patologie sociali» e di «deformazioni delle capacità razionali umane» cui allude Honneth. Un deficit certamente Marx lamenta in quelle pagine, ma di rigore scientifico. La «scienza economica borghese», in ragione di presupposti «extra-scientifici», difende un determinato assetto politico-sociale ed è necessariamente condotta a una visione “opacizzata”, feticistica per l’appunto, del «processo complessivo di produzione del capitale». In altre parole è una scienza che “gira a vuoto”, che studia cioè non la realtà come fa ogni scienza, ma «feticci». Il feticismo è cioè per Marx in primis descrizione, depositata in pagine colme di sottilissima ironia, di un’essenziale carenza di scientificità.

Feticismo non denota dunque per Marx uno svuotamento qualitativo delle relazioni umane. Esso è invece il paradossale esito di una scienza che, dopo l’eroica stagione di ascesa delle grandi rivoluzioni «borghesi» del 1688 e del 1789, imbocca con sempre più decisione dopo il 1830 la strada sul piano politico della reazione e scientifico dell’«apologetica». L’inversione di rotta passa per Marx anche attraverso l’assunzione di un diverso «Standpunkt» (Marx 1861-1863, vol. I, 140-141), a cui occorre che la «critica dell’economia politica» programmaticamente sappia attenersi. Tale cambio di prospettiva – e di «classe» – è un presupposto fondamentale (non l’unico) per penetrare «l’intero segreto della concezione critica», per cogliere cioè la «doppia natura del lavoro» e della «merce» (MEO, vol. XLIII, 13-14)[20].

Già nel 1964 Raniero Panzieri segnalava i rischi impliciti in un’estrapolazione dell’«alienazione» da metafora atta a indicare l’apparenza necessaria dei «movimenti del capitale nella sfera di circolazione»[21]. Per cogliere il senso del progetto marxiano di «critica dell’economia politica» non si può dunque prescindere anche da una considerazione del ruolo giocato dallo «Standpunkt» proletario come prospettiva lato sensu “trascendentale”[22].

E Lukács? Legittimamente ci si potrebbe chiedere in che termini l’autore di GuK si sia posto nel 1923 rispetto allo statuto della «critica dell’economia politica» e in particolare come abbia interpretato la sezione su Il feticismo. Un interprete d’eccezione del testo del ’23 come Habermas ha con acutezza valorizzato il ruolo chiave che la tesi della merce come «Gegenständlichkeitsform» gioca all’interno dell’intera configurazione del capitolo su Il fenomeno della reificazione: «la forma di merce diventa la forma di oggettività [Gegenständlichkeitsform], dominando le relazioni reciproche degli individui nonché il confronto degli uomini con la natura esterna e con quella interna» (Habermas 1984, 482; trad. mod.)[23].

Il Lukács di GuK, come sottolineato indirettamente da Habermas, è stato pioniere di una determinata (mis)interpretazione della quarta parte del primo capitolo del primo libro de Il capitale. Lukács interpreta quest’ultima effettivamente come descrizione fenomenologica di una realtà pratico-sociale[24], scaturente dalla forma che le relazioni umane assumono a un determinato grado di sviluppo. Sfruttando a livello interpretativo alcuni vertici retorici effettivamente presenti nelle pagine marxiane su Il feticismo, Lukács ha “de-trascendentalizzato” l’impostazione marxiana di «critica dell’economia politica», leggendone il contenuto direttamente imperniato su considerazioni di fenomenologia sociale. Ci pare in tal senso improprio indicare le pagine dedicate a Il fenomeno della reificazione come improntate a una «prospettiva rigorosamente marxiana» (Bellan 2013, 101). Naturalmente GuK contiene anche molto altro. Tuttavia è proprio su questo quid pro quo che si fonda la teoricamente produttiva interpretazione intrapresa da Lukács nel 1923, che rimane per molti versi estranea al senso complessivo della marxiana «critica dell’economia politica».

Ed eccoci così vis-à-vis con la citazione da Le teorie sul plusvalore da cui abbiamo preso le mosse. Il ruolo del «maestro» in questo caso spetterebbe al Lukács di GuK, che detiene l’innegabile merito di «sublimare la realtà» attraverso una (mis)interpretazione in grande stile delle pagine marxiane. Se pertanto un’«eredità teorica» Honneth intendesse effettivamente avocare, molto più quella del Lukács di GuK rispetto a quella di Marx ci parrebbe la legittima. Quale delle due sia intellettualmente più produttiva e conseguentemente consenta di penetrare meglio entro «il “letame” delle contraddizioni» del presente è tuttavia tema che travalica il breve perimetro del presente contributo.
 
 
 
Tavola delle abbreviazioni
 
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MEGA2 = Marx, K.-Engels, F., 1975-1989, Gesamtausgabe, Berlin/DDR-Moskau: Dietz; Id., 1992-, Berlin-Amsterdam, Akademie.
MEO = Marx, K.-Engels, F., 1972-1990, Opere, Roma: Editori Riuniti; Id., 2008-, Napoli, La Città del Sole.
 
 
 
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Note al testo[1] Cfr. le obiezioni di Judith Butler, Raymond Geuss e Jonathan Lear (Honneth 2008, 97-143). Per una collocazione del tema della «reificazione» nel contesto della riflessione honnethiana cfr. Piromalli (2012, 233-260).
[2] Cfr. Bellan (2013, 335-338) per indicazioni bibliografiche circa la «reificazione» nel dibattito filosofico contemporaneo. Per quanto riguarda la «Verdinglichung» in Lukács, il testo di riferimento rimane Dannemann (1987).
[3] Per un indice commentato dell’opere adorniane possedute da Lukács cfr. Mesterházi (2014-2015); a livello filologico e documentario, fondamentale sul rapporto Adorno-Lukács è Braunstein-Duckheim (2014-2015). Circa l’episodio dell’incontro del 1966 a Francoforte tra Ágnes Heller e Habermas e il «rifiuto per principio» da questi dimostrato verso «le linee principali» dell’Ontologia lukacsiana, cfr. Fehér (1977, 14).
[4] Ho talvolta apportato, senza segnalarle di volta in volta, modifiche alla traduzione italiana.
[5] Citazione interna (Engels 1886, 1133). La medesima citazione è ripresa in Lukács (GuK, 267).
[6] Renault (2014, 144-146) tocca la questione in riferimento a Il capitale valorizzandone però soprattutto il retroterra logico-epistemologico hegeliano. Come dimostra l’esplicito riferimento a Engels, Lukács attribuisce tuttavia in GuK alla nozione di «processo» un significato direttamente ontologico.
[7] Proprio su tale linea interpretativa delle pagine de Il carattere di feticcio della merce si muove ancora Chari (2010, 589-590).
[8] «Tali forme costituiscono appunto le categorie dell’economia borghese. Sono forme di pensiero socialmente valide, quindi oggettive, per i rapporti di produzione di questo modo di produzione sociale storicamente determinato, per i rapporti di produzione della produzione di merci» (Marx 1890, 108).
[9] «L’estraniazione degli uomini dagli oggetti dominati non è il solo prezzo pagato per il dominio: con la reificazione dello spirito sono stati stregati anche i rapporti interni fra gli uomini, anche quelli di ognuno con se stesso» (Adorno, Horkheimer 1984, 35).
[10] Il presunto «fichtismo» di Lukács ha suscitato nei decenni passati una querelle storiografica. Tra i sostenitori del «fichtismo» di GuK: «the notion of the subject in History and Class Consciousness bore unmistakable traces of Fichte’s subjective activism» (Jay 1984, 106). Oldrini (2009, 94-95, n. 3), a cui rimandiamo anche per ulteriori riferimenti bibliografici, interviene in proposito molto polemicamente. Più equilibrato sul rapporto Fichte-Lukács è Feenberg (2014, 128-131).
[11] Al di là delle conclusioni cui spinge il proprio ragionamento («avvenire aleatorio») merita seria considerazione la tesi althusseriana circa la «finitezza» della «teoria» di Marx: «Io credo che la teoria marxista è ‘finita’, che è ‘limitata’. Limitata all’analisi del modo di produzione capitalistico» (Althusser 1978, 7). Sullo statuto della «teoria» marxiana torna recentemente Renault (2014, 17), ipotizzando però in Marx «une conception déflationniste de la philosophie».
[12] Cerutti (1980, 3-73) sviluppa impegnative considerazioni su «totalità formale» e «totalità concreta» in GuK entro un quadro interpretativo fortemente connotato dal coevo contesto di dibattito.
[13] «Quando ho assunto la direzione dell’Istituto di Ricerca Sociale, mi sono posto come primo scopo formale quello di reimpostare il programma di ricerca empirica in termini interdisciplinari. Nel corso degli anni, dopo la morte di Adorno, l’Istituto ha proposto piuttosto una professionalizzazione e una specializzazione, ovvero un’autolimitazione a una sola disciplina, di fatto la sociologia empirica. Si praticava sostanzialmente una sociologia industriale. A me sin da subito questa revoca dell’orientamento interdisciplinare è parsa un grosso problema» (Camozzi 2009, 1028-1029).
[14] Nonostante le nettissime critiche nei confronti del modello teorico primo-francofortese da parte di Colletti, Petrucciani (2015, 272) recentemente rileva: «Approfondendo progressivamente la lettura di Marx, e dunque allontanandosi sempre più da Della Volpe, Colletti giunge dunque a un’interpretazione che converge nella sostanza con quanto sostenuto dagli interpreti dialettici o francofortesi: centralità in Marx del tema del feticismo e inscindibilità di esso dalla teoria del valore». Tale consenso interpretativo viene tuttavia guadagnato da Colletti e i «francofortesi» attraverso percorsi interpretativi tanto differenti del pensiero di Marx da inficiare de facto la consistenza dell’accostamento.
[15] In proposito nel 1969 Oskar Negt afferma: «Per quel che riguarda ora l’influenza di GuK è caratteristico che proprio i neokantiani […] non abbiano colto assolutamente questo momento di trascendentalità presente in Lukács» (Cerutti 1971, 51). Non è sviluppabile in questa sede l’originale reinterpretazione che, attraverso il problema della «Konstitution», il «trascendentalismo» di GuK riceve in (Krahl 2008).
[16] Accenni critici ai presupposti complessivi dell’interpretazione collettiana di Marx in Valentini (2004).
[17] Di compromesso ci pare tale soluzione interpretativa: «La critique marxienne de l’économie politique doit bien être entendue comme une refonte de l’économie politique classique – c’est-à-dire comme un processus qui conduit de problèmes théoriques internes à une théorie au réaménagement des principes de cette théorie» (Renault 2014, 149). In termini prossimi a quelli appena esposti già Backhaus (1969, 95): «Benché ci si debba tener fermi alla veduta, faticosamente raggiunta, secondo cui la marxiana critica dell’economia politica trascende l’ambito dell’economia specialistica, l’analisi della forma di valore – orientata in base a categorie filosofiche – va intesa nella sua funzione diretta a superare le antinomie dell’economia specialistica». Circa lo statuto metodologico della marxiana «Critica dell’economia politica» e conseguentemente sul rapporto da essa intrattenuto con la teoria del valore la bibliografia è sterminata. Un buon punto di partenza bibliografico, soprattutto per l’area di lingua tedesca e in particolare successiva al 1965, è Elbe (2010, 600-631). Finelli (2014, 313-318) è recentemente intervenuto criticamente su meriti e limiti dell’interpretazione de Il capitale di Backhaus e delle cosiddetta «Neue Marx-Lektüre».
[18] Siamo in disaccordo con la tesi secondo cui l’«economia volgare erige a spiegazione scientifica il senso comune e la rappresentazione ordinaria (volgare) di coloro che sono immessi nei rapporti di produzione borghesi» (Mugnai 1984, 217). Il «senso comune» e «la rappresentazione ordinaria (volgare)» non sono a tema nell’analisi marxiana della sfera della circolazione, così come dell’intero impianto teorico de Il capitale.
[19] «Hegel parla dell’ ‘alienazione’ e della sua soppressione ad opera della filosofia. Ma egli non sospetta minimamente che quella filosofia che dovrebbe esprimere l’ ‘alienazione’ nel suo sistema è essa stessa una manifestazione pregnante e caratteristica dell’ ‘alienazione’» (Lukács 1967, 762-763).
[20] Lettera (8.1.1868) di K. Marx a F. Engels.
[21] «All’uso del termine alienazione non bisogna qui annettere alcuna ‘idea mistica’: è al contrario strumento di demistificazione del punto di vista dal quale gli agenti (capitalisti) della produzione e gli ideologi ed economisti volgari considerano l’economia capitalistica, attraverso categorie le quali, riflettendo in modo unilaterale i movimenti del capitale nella sfera della circolazione, tendono a celare i movimenti reali nella sfera della produzione diretta» (Panzieri 1976, 74, n. 57). Per una torsione immediatamente politica del problema in primis epistemologico del «punto di vista» scientifico e non apologetico de Il Capitale, generalizzando il «punto di vista operaio» cfr. Tronti (1966). Contro la «ideologia della reificazione», ma attraverso un differente percorso argomentativo rispetto a quello degli interpreti appena evocati, cfr. Althusser (1965, 205-206, n. 1).
[22] «Poiché il metodo marxista, la dialettica materialistica come conoscenza della realtà, si produce soltanto dal punto di vista di classe, dal punto di vista di lotta del proletariato» (GuK, 29; trad. mod.). Cfr. anche «Nel Capitale Marx opera una radicale rottura con questo metodo. Non come se egli – in maniera agitatoria – considerasse ogni momento immediatamente ed esclusivamente dal punto di vista del proletariato. Da una tale unilateralità potrebbe solamente sorgere una nuova economia volgare a segno rovesciato. Piuttosto considerando i problemi dell’intera società capitalistica come problemi delle sue classi costituenti, quella dei capitalisti e quella dei proletari, intese come complesso [Gesamtheit]» (GuK, 37-38; trad. mod.).
[23] Cfr. anche Habermas (1984, 476): «Lukács afferma ora che possiamo caratterizzare come ‘reificazione’ questo pregiudicare – cioè la singolare assimilazione delle relazioni sociali e delle esperienze a cose, a oggetti che possiamo percepire e manipolare». Entro un orizzonte interpretativo prossimo a quello habermasiano Bellan (2013, 100-101) interviene sulla merce come «Gegenständlichkeitsform» in GuK. Per accenni di Honneth al senso dell’operazione di recupero habermasiano di Lukács ne La teoria dell’agire comunicativo cfr. Dannemann (2009, 265-266).
[24] «Reification is in the first instance practical rather than theoretical. That is to say, the reification of social reality arises from the way individuals act when they understand their relation to social reality to be reified» (Feenberg 2011b, 179).
 
 
 

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