La presenza di Friedrich Nietzsche in Hannah Arendt

Emanuele Martinelli

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   La filosofia di Arendt può essere bipartita nei valori dell’attivo e del reattivo. Dal lato delle forze attive possono essere collocati la libera volontà, il pensiero non contemplativo, il giudizio riflettente e l’azione. Dal lato delle forze reattive, invece, il pensiero contemplativo, i giudizi determinanti, l’opera e il lavoro.
Arendt concepisce da sé questa coppia concettuale (attivo e reattivo)? O esistono precedenti nel corso della storia della filosofia?
La distinzione nietzscheana dell’istante decisivo dalla logica e dall’ontologia potrebbe essere l’antecedente ricercato: «bisogna avere un CRITERIO: io distinguo il grande stile; io distinguo attività e reattività; distinguo i sovrabbondanti, prodighi e i sofferenti-passionali (gli «idealisti»).» (Nietzsche 1990: 164).
In questo senso Arendt, al contrario di Jaspers, Lowith e sopratutto Heidegger, parrebbe aver correttamente inteso, e non frainteso, la parabola filosofica di Nietzsche. Applicando il criterio attivo-reattivo l’insieme della concettualità arendtiana acquisisce ordine e un’organizzazione non immediatamente evidente. L’intera produzione, dalla tesi di dottorato, Il concetto di amore in Agostino1, alla grande opera della maturità, La vita della mente, acquista chiarezza e coerenza.
In via preliminare, dunque, sarà obbligatorio occuparci della conditio sine qua non dell’eterno ritorno, culmine della traiettoria filosofica di Nietzsche, e della natalità. Per rispettare l’ordine cronologico e logico concettuale si inizierà indagando le peculiarità del materialismo nietzscheano.

1. Correggendo le interpretazioni di Nietzsche che non specificano la relatività di ciascuna forza, va rilevata l’indispensabilità delle forze reattive affinché l’attività possa esercitarsi.

Al fine di comprendere con esattezza la filosofia di Nietzsche, si deve insistere sul carattere relazionale del composto e su quello relativo di ciascuna forza del composto. La forza è un concetto relativo e, a sua volta, governa un composto di forze minori. Ogni forza, pur essendone solo una parte, riproduce le dinamiche della volontà di potenza. La quantità e la qualità della forza corrispondono ai limiti reciproci delle forze del composto. Ogni forza, proprio perché si incontra con un’altra, riceve la qualità che corrisponde alla sua quantità, ossia l’affezione che innesca la potenza. La nascita delle qualità presuppone la nascita relativa delle quantità, i due momenti sono simultanei e inseparabili. Quantità e qualità non si offrirebbero se la forza non fosse plurale (al contrario di Schopenhauer). Senza “differenza” si smentisce l’esperienza e contraddice il “divenire”. La volontà di potenza è principio sintetico di tutte le forze. È la “ragion sufficiente” del movimento. La volontà di potenza è l’elemento genetico, genealogico e differenziale al tempo stesso. Affermazione e negazione sono le qualità della volontà di potenza (in base alla quantità le forze sono dominanti o dominate in base alla qualità, invece, attive o reattive).

Esempi di affermazioni ci vengono offerti dalla tipologia del signore, dalla potenza del falso (l’arte di Dioniso) e dall’affermazione dell’eterno ritorno nell’attimo (Zarathustra). Quest’ultima (ciò che vuoi devi volerlo in modo tale da volerne l’eterno ritorno) è l’affermazione delle affermazioni, vertice e sintesi di tutta la filosofia.

Una tale lettura della filosofia di Nietzsche, ponendo una materia, evita di collocare l’origine della libertà nel “nulla” delimitandone, allo stesso tempo, il perimetro filosofico in relazione a quello heideggeriano.

La natalità è il baricentro logico della filosofia di Arendt, l’asse intorno al quale si muovono la libera volontà, la libertà, l’azione2 e il giudizio. Quali sono le condizioni della sua possibilità? La natalità, in termini propriamente filosofici, è una o è molteplice (come l’attività in Nietzsche)? La dimostrazione della presenza dell’epistemologia nietzschena nella filosofia di Hannah Arendt deve, inevitabilmente, rispondere a queste domande e risolvere questi problemi. Arendt sceglie la versione pluralista della Genesi: «(“Egli li creò maschio e femmina”), accettiamo questa versione della creazione del genere umano e non quella secondo cui Dio originariamente creò solo l’uomo (Adam, “lo” e non “li”), così che la moltitudine degli esseri umani è il prodotto di una moltiplicazione.» (Arendt 2012: 8). La natalità è plurale e, nondimeno, «è la paradossale pluralità di esseri unici» (Arendt 2012: 128). Le molteplici natalità sono relative, relazionali e non assolute. Ogni nuovo inizio, non anticipandone alcuno, si attiva su una materia preesistente in un regime di contemporaneità. “Nascere” è l’esito di un reciproco influenzarsi, è il frutto di una procreazione che mano a mano si depura umanizzandosi nell’azione. La vetta morale cui aspira Arendt è un’etica mai “troppo umana” della libertà. In Arendt convivono due diversi contesti plurali: il primo naturale e il secondo politico-morale. La natalità è la “re-azione” alle dinamiche esistenti nell’ordine naturale; l’azione, dal canto suo, la “re-azione” alle interazioni patite nell’ordine morale-politico. L’azione, in sostanza, è una riproposizione a uno stadio superiore del fatto della pluralità. In sede epistemologica, tuttavia, sono utilizzate categorie nietzscheane. Al netto della “grande politica” nel composto di forze, dunque, Arendt pone una materia richiamandosi a posizioni nietzscheane piuttosto che heideggeriane3. L’esser per la vita prende le distanze dalla svalutazione delle faccende umane e dal deprezzamento del corpo e della città (Abensour 2010: 71-76). Da Platone all’esser per la morte di Heidegger, viceversa, vale il paradigma dell’emancipazione dell’anima dal corpo fardello. Arendt sostituisce la natalità alla mortalità confutando la vittoria del bios theoretikos sul bios politikos4.Una frase di Agostino, ripetuta da Arendt senza posa, accompagna adeguatamente la trattazione dell’attività e introduce efficacemente al paragrafo successivo: «L’inizio, prima di diventare avvenimento storico, è la suprema capacità dell’uomo; politicamente si identifica con la libertà umana. ‘Initium ut esset, creatus est homo’, ‘affinchè ci fosse inizio, è stato creato l’uomo’, dice Agostino. Questo inizio è garantito da ogni nuova nascita; è in verità ogni uomo.» (Arendt 2009: 656). Per il fatto della nascita, un inizio diverso dal principio del mondo, l’uomo è iniziatore. “Nascere” è esprimere la “qualità” essenziale e inalienabile dell’essere umano. Vivere è “rinascere” in ogni attimo5, l’origine non resta mai un elemento del passato. Arendt allude chiaramente a una interruzione della temporalità. Nel paragrafo successivo verranno messi in evidenza i luoghi testuali di contatto tra tale interruzione della temporalità e la dottrina dell’eterno ritorno.

2.  Nel paragrafo più importante di The life of the mind (La vita della mente), The gap between past and future: the:“nunc stans” (La lacuna tra il passato e il futuro: il “nunc stans”), Arendt presenta, graficamente e discorsivamente, uno schema interpretativo identico alla dottrina dell’eterno ritorno. In quelle pagine citate poc’anzi, presupponendo un continuum temporale del quale si può solo concepire ma non pensare un inizio e una fine assoluti, dunque, anteponendo un infinito passato e un infinito futuro, colloca l’esperienza del tempo in appendice alla vita umana concreta. L’”incorporazione del divenire” nelle attività quotidiane, nel fare, è la certezza fondamentale dalla quale ricavare passato e futuro e moderare la reattività contemplativa.

In altre parole, il continuo temporale, che è mutamento perenne, si spezza nei tempi passato, presente, futuro; col che, passato e futuro sono avversari l’uno dell’altro … solo a causa della presenza dell’uomo che possiede un’”origine”, la sua nascita, e una fine; la sua morte, e perciò in ogni dato istante sussiste tra loro: questo “tra” si chiama presente. È proprio l’inserimento dell’uomo, con l’arco limitato della sua vita trasforma la corrente ininterrotta del puro mutamento – che si può concepire tanto in forma ciclica quanto come moto rettilineo senza essere in grado di concepire un inizio e una fine assoluti – nel tempo quale noi lo conosciamo (Arendt 2009: 298).

Conviene affidarci di nuovo alle chiarissime parole di Arendt (2009: 301) : «Come tale, il tempo costituisce il maggior nemico dell’io pensante poiché – per effetto dell’incarnazione della mente in un corpo i cui moti interni non possono immobilizzarsi – il tempo interrompe regolarmente e inesorabilmente quella quiete immobile in cui la mente è attiva senza far nulla.». Il tempo e il corpo sono due parole per una cosa sola. L’attività è una signoria sul tempo, il suo esercizio sancisce l’uscita dalla minore età6

Per di più, se è il frapporsi dell’uomo che spezza il flusso indifferente del mutamento perenne conferendogli un obiettivo, cioè lui stesso, l’essere che combatte, e se attraverso tale frapposizione l’indifferenziata corrente temporale si articola in ciò che è dietro di lui, il passato, in ciò che è davanti a lui, il futuro, e in lui stesso, il presente che lotta, ne deriva che la presenza dell’uomo fa sì che il corso del tempo defletta dalla sua direzione originaria o (supponendo un movimento ciclico) dalla sua non-direzione ultima, quali che fossero (Arendt 2009: 302) .

Tali citazioni del testo arendtiano suggeriscono una stretta parentela tra queste ultime e la dottrina dell’eterno ritorno7. L’eterno ritorno è il nome di una dottrina che avrebbe potuto chiamarsi anche dottrina dell’attimo. Innanzitutto perché l’idea di eterno ritorno alla quale si fa riferimento non è quella del senso comune: «dunque, per descrivere il circolo eterno, non bisogna ricorrere, mediante un’analogia sbagliata, ai circoli che divengono e periscono, per esempio le stelle, il flusso e riflusso, il giorno e la notte, le stagioni.» (Nietzsche 1965: 366). E, secondariamente, perché questa singolare accezione di eternità non corrisponde alla sostanza della dottrina. La ratio essendi è la decisione istantanea. È possibile dimostrare quanto la posizione di Arendt fosse vicina a quelle di Nietzsche: «Gli “anni che girano come una ruota” di Omero non fornivano nulla di più dello sfondo su cui era apparsa la storia degna di nota, per essere consegnata al racconto.» (Arendt, 2009). La traiettoria filosofica di Nietzsche, dalla Nascita della tragedia al Così parlò Zarathustra, è una incessante rincorsa della propria attività, dovevano essere superati gli ostacoli rappresentati dalle diverse configurazioni del “logico” e trasvalutati tutti i valori troppo umani. Solo allora il superuomo avrebbe potuto, nell’attimo e “incorporando il divenire”, far affiorare una testa (Franck 2002: 325). Tenersi nell’istante equivale, pertanto, ad emergere dalle false, volgari e grossolane rappresentazioni del tempo, dello spazio, della sostanza, del soggetto, dell’oggetto ecc ecc. Ciò è possibile esclusivamente in una società di superuomini coscienti del carattere poetico della logica e dell’ontologia.

Al pensatore occorre la fantasia, lo slancio, l’astrazione, la desensualizzazione, l’ingegnosità inventiva, il presentimento, l’induzione, la dialettica, la critica, la raccolta del materiale, l’impersonalità del modo di pensare, la contemplazione e la visione sinottica, e non poca giustizia e amore verso tutto ciò che è, – ma tutti questi strumenti hanno avuto una volta valore, ognuno per se stesso, nella storia della vita contemplativa, come fini e fini ultimi, e hanno dato ai loro inventori quella beatitudine che entra nell’anima umana al rifulgere di un fine ultimo (Nietzsche, 2013: 38).

Detto ciò spero emergano anche le differenze, oltre le coincidenze, tra la concezione di Arendt e quella di Nietzsche, e la peculiarità della proposta politica arendtiana se “vitalizzata”. Nietzsche, dunque, come dicevamo, invoca una società senza “essere” e Dio, ad altezza d’uomo: «non c’è per essa (per l’umanità) alcun trapasso in un ordine più elevato, come non potrebbero la formica e il verme auricolare innalzarsi, al termine della loro ‘carriera terrestre’, all’affinità con Dio e all’eternità. Il divenire si strascica dietro l’essere stato» (Nietzsche 2013: 41) Il senso appartiene solo alle faccende umane, la verità è il risultato di un moto ascendente e non discendente. L’ontologia, non detenendo più il primato della descrizione del mondo, è ritenuta, ormai, giusto una prospettiva circoscritta e una valutazione storica arbitraria. La logica, altresì, uno strumento di conservazione ma non di intensificazione. Le azioni sono la certezza fondamentale delle due filosofie, trasformano il moto continuo in un susseguirsi di istanti, di gaps passato e futuro. Tali fratture interrompono inesorabilmente l’attività contemplativa, smascherano la vacuità delle categorie logico-ontologiche e impongono una riconsiderazione generale dell’umano. Rappresentano la volontà di superare che in sé stessa non ha fine. L’individuo, nella sua irriducibile singolarità, destina la direzione del tempo. Stabilisce, non essendo destinato, la non “indifferenza” della freccia del tempo:

L’eterno ritorno. Filosofia.
3) Recentemente si è più volte voluta trovare una contraddizione nel concetto di infinità del tempo del mondo all’indietro: e la si è anche trovata, benché al prezzo di scambiare così <la> testa con la coda. Niente mi può impedire, calcolando da questo momento all’indietro, di dire: «non giungerò così mai alla fine»; così posso anche calcolare, dallo stesso momento, in avanti, e continuare all’infinito. Solo se volessi fare l’errore – che mi guarderei bene dal fare – di equiparare questo giusto concetto di un regressus in infinitum a un non pensabile concetto di un progressus infinito fino a ora; solo se io ponessi la direzione (in avanti o all’indietro) come logicamente indifferente, mi troverei tra le mani la testa, questo momento, come coda (Nietzsche 1974: 164).

Arendt e Nietzsche, contro Heidegger, paragonano l’istante a una “testa” e non a una “coda”. Siamo in presenza di una dottrina della libertà: «Ai religiosi. Essi sentono il superiore legame degli avvenimenti e il significato assoluto della persona e se stessi come falliti. – Se tutte le cose sono un fato, allora anch’io sono un fato per tutte le cose» (Nietzsche 1990: 10). La decisione non può modificare il movimento circolare delle forze ma può manipolare ciò che comanda la ripartizione di queste stesse forze.

«Ma, se tutto è necessario, in che misura posso disporre delle mie azioni ?». Il pensiero e la fede sono un grave fardello che preme su di te, accanto a tutti gli altri pesi, e più di essi. Tu dici che cibo, luogo, aria, compagnia ti trasformano e determinano; ma le tue opinioni lo fanno ancora di più, infatti queste ti determinano a tale cibo, luogo, aria, compagnia. – Se assimili il pensiero dei pensieri, ti trasformerai. Se per ogni tua azione ti domandi: «È ciò qualcosa che io voglia fare infinite volte?, questa domanda è il più grave fardello. (Nietzsche 1965: 355-356)

L’immagine utilizzata da Arendt è quella del parallelogramma di forze: Quanto all’origine, infatti, le due forze antagoniste del passato e del futuro sono entrambe indeterminate; dal punto di vista del presente che sta nel mezzo, l’una viene da un passato, l’altra da un futuro infiniti. Ma benché non conoscano inizio, esse hanno un termine ultimo, il punto in cui si incontrano e si scontrano, il presente (Arendt 2009: 303).

A differenza dei due vettori non paralleli la diagonale ha un’origine, è piantata nel presente, e va all’infinito. Con questo schema Arendt può «situare la regione del pensiero al di là ed al di sopra del mondo e del tempo dell’uomo» (Arendt 2009: 302). E, come Nietzsche, giudicare reattivo chi, incapace di camminare lungo questa diagonale, è saltato nella cosa in sé. «se “egli” sapesse esercitare le sue forze lungo la diagonale, perfettamente equidistante tra passato e futuro, quasi percorrendola avanti e dietro … non dovrebbe balzar fuori dalla linea del fronte per mettersi al di sopra della mischia» (Arendt 1999: 35-36).
L’annichilamento delle società moderne, per Nietzsche e per Arendt, consiste nell’adottare il punto di vista sbagliato tenendosi, non nell’istante, ma nella “cosa in sé”8. Tuttavia Arendt attua, anziché la trasvalutazione di stampo nietzscheano, una fecondazione dei valori reattivi ed logico-ontologici. Perchè? e, sopratutto, quanto è profonda la “vitalizzazione” arendtiana? Le lezioni sulla filosofia politica di Kant, tenute alla New school for social research nell’autunno del 1970, ci consentiranno di rispondere.

3.  Grazie alla lettura delle lezioni sulla filosofia politica di Kant verrà verificata la profondità dell’attività decostruttiva di Arendt e sarà dimostrato il debito che ella ha contratto nei confronti del filosofo tedesco. Emergeranno, inoltre, le peculiarità del suo pensiero politico. Nel seminario dedicato alla Critica del Giudizio Arendt sottolinea l’originalità teoretica dell’immaginazione.

per Kant l’immaginazione è la condizione della memoria, e dunque una facoltà molto più comprensiva. Nell’Antropologia la memoria, la “facoltà di rendersi presente il passato” viene trattata congiuntamente alla “facoltà della previsione”, che rende presente il futuro. Ambedue sono fondate sull’associazione (…) L’immaginazione non ha bisogno di essere guidata da questa associazione temporale, perché può rendere presente a piacimento quel che desidera (Arendt 2005: 118).

Questa prima citazione, tratta dalle Lectures on Kant’s Political Philosophy, offre un suggerimento che sarebbe inopportuno non cogliere, mi riferisco alla distinzione dell’immaginazione produttiva dalla memoria. Differentemente da quest’ultima, fondata sull’associazione, l’immaginazione produttiva non ha bisogno di essere guidata perché, a piacimento, immagina ciò che vuole. Appare, dunque, una somiglianza non casuale tra l’immaginazione e l’attività istantanea, il gap tra il presente e il futuro. Si potranno intuire la portata e le implicazioni della somiglianza appena segnalata solo dopo aver precisato, seguendo il filo del discorso arendtiano, il ruolo e le funzioni della facoltà immaginativa nella Critica della Ragion pura. Per Arendt il ruolo svolto dall’immaginazione nell’ambito delle nostre facoltà conoscitive è la più grande scoperta fatta da Kant nella Critica della Ragion pura. In particolare si sostiene la necessità di rivolge lo sguardo allo schematismo dei concetti puri dell’intelletto. La tesi di Arendt è la seguente: «la stessa facoltà, l’immaginazione, che fornisce gli schemi per la conoscenza, mette a disposizione anche gli esempi per il giudizio.» (Arendt 2005: 119).

In secondo luogo, questo concetto di “tavolo” è veramente un concetto? Non è forse a sua volta una specie di immagine? Così che una sorta di immaginazione è presente anche nell’intelletto? La risposta è: “la sintesi di un molteplice … comincia col produrre conoscenza … ; (essa) è ciò che effettivamente raccoglie gli elementi per la conoscenza, unificandoli in un certo contenuto”. Questa sintesi è il semplice risultato dell’immaginazione, ossia di una funzione dell’anima, cieca e tuttavia indispensabile, senza la quale non potremmo a nessun titolo avere una qualsiasi conoscenza (Arendt 2005: 119).

Arendt riporta l’esempio nel quale Kant afferma che lo schema, senza il quale non si potrebbe conoscere alcunché, perché se non avessi la capacità di schematizzare non si potrebbero produrre immagini, è un prodotto dell’immaginazione pura a priori:

Kant afferma che l’immagine – prendiamo ad esempio il George Washington Bridge – è “un prodotto della facoltà empirica dell’immaginazione riproduttiva; lo schema (il ponte) di concetti sensibili (invece) … (è) un prodotto … dell’immaginazione pura a priori, tramite il quale e secondo il quale le immagini acquistano la loro stessa possibilità.9 (Arendt 2005: 121).

La somiglianza poc’anzi segnalata, in relazione alla memoria, tra l’immaginazione e l’istante, dunque, induce a pensare che Arendt ritenga lo schematismo trascendentale una configurazione temporanea del “divenire”. La “vitalizzazione” sottoposta al politico avrebbe, di conseguenza, radici pre-logiche e pre-ontologiche. Nella Critica della Ragion pura l’immaginazione serve l’intelletto, nella Critica del Giudizio, invece, è l’intelletto ad essere al servizio dell’immaginazione. Arendt individua nel genio la sorgente dell’immaginazione produttiva e, invertendo l’ordine tra la prima e la terza critica, sostiene la validità esemplare dei prodotti dell’immaginazione produttiva: gli schemi. «Gli esempi svolgono un ruolo sia nei giudizi riflettenti che in quelli determinanti, il che vuol dire ogniqualvolta ci occupiamo di di cose particolari.» (Arendt 2005: 123). Nonostante le indubbie consonanze, la riduzione della pensatrice ebreo-americana a Nietzsche non è l’intenzione di questo lavoro. Arendt ne supera le insensatezze agganciando la natalità, una parola diversa per nominare lo stesso concetto designato dall’istante, al senso comune, ai casi identici ed al reciproco riconoscimento interpersonale. Per Arendt la genialità, «immaginazione produttiva e originalità» (Arendt 2005: 93), deve essere inclusa nel senso comune e l’azione, a sua volta, compresa nell’orizzonte della pluralità. All’”oltrepassamento” individuale del riconoscimento interpersonale (trasvalutazione), Arendt abbina il moto inverso: dal riconoscimento interpersonale verso la “differenza” individuale.
La facoltà che precede e presiede l’espressione del genio artistico, riuscendo a coniugare perfettamente l’universale e il particolare, è il gusto o giudizio:

Nella sua (di Kant) analisi del giudizio estetico si distingue tra genio e gusto: il genio è indispensabile per la produzione di opere d’arte, mentre per giudicarle e per decidere se esse siano o meno oggetti belli, non si richiede nulla di più (come diremmo noi a differenza di Kant) del gusto: “Per giudicare gli oggetti belli è necessario il gusto… per la loro produzione e necessario il genio”10 (Arendt 2005: 93).

Il giudizio, come l’azione, corrisponde all’”attività politica” per eccellenza: «Kant ammette questa subordinazione del genio rispetto al gusto, pur sapendo che il giudizio senza il genio non troverebbe nulla da giudicare.»11 (Arendt 2005: 94). L’unico filosofo ad essersi occupato del giudizio, eccezione nella storia della filosofia, è Kant. I modi della facoltà del giudizio, i quali rendono conto delle differenze tra la sussunzione cognitiva e la reazione alla percezione, mostrano l’umana disposizione a giudicare il bello. Una attività comprensiva ed accogliente rispetto al giudizio cognitivo ed alla percezione. Kant, nella prima parte della Critica del Giudizio, mettendo a fuoco l’oggettività delle scelte soggettive, ha messo a punto una filosofia politica che non ha utilizzato. La teoria di Arendt, in sostanza, è un’apologia del particolare al quale con il consenso universale si dà un valore oggettivo:

Resta poi un’altra possibilità, e qui si entra nell’ambito dei giudizi che non hanno carattere cognitivo. Si può esperire o pensare un tavolo ritenendolo il migliore possibile e assumendolo ad esempio ideale di ciò che i tavoli dovrebbero essere in realtà: il tavolo esemplare. (“Esemplare” viene da eximere, “trascegliere qualcosa di particolare”). Quest’esemplare è e resta un che di particolare, che proprio nella sua particolarità rivela quella generalità che altrimenti non potrebbe essere definita. Il coraggio è come Achille etc. (Arendt 2005: 115).

Arendt propone una singolare universalizzazione del particolare. L’emersione della “qualità” particolare a validità esemplare tramite un consenso universale qualitativo: «quanto è più ampio il ventaglio di coloro con cui si potrebbe comunicare, tanto maggiore è il valore dell’oggetto.» (Arendt 2005: 112). L’accordo più ampio sull’autonomia, sul disinteresse è il criterio della bellezza universale. L’assunzione del giudizio riflettente permette ad Arendt di conciliare le traiettorie particolari con il criterio morale universale. Al contrario dell’astrattezza del giudizio cognitivo, limitato da una riflessione sul tempo approssimativa, la nuova filosofia politica è un’attività della molteplicità che dimostra si sapersi sostenere da sé. Perché nella vita reale non è possibile sospendere il giudizio, non si può scegliere di non disporre di una determinata facoltà12. Qualora se ne avesse l’illusione, secondo l’opinione della Arendt, la pluralità continuerebbe a giudicarsi spostando il canone oggettivo da una parte all’altra. La morale è costretta dal tempo al movimento della fisarmonica. Il giudizio deve avere una consistenza che permetta grandi distensioni, e una resistenza grazie alla quale si mantenga forte nell’altalena dei movimenti di chiusura e di apertura. All’opposto, la durezza del giudizio determinante è destinata ad essere spezzata dal movimento del tempo: «La Critica del Giudizio tratta dei giudizi riflettenti in quanto distinti da quelli determinanti. I giudizi determinanti sussumono il particolare sotto una regola generale; quelli riflettenti, al contrario, “derivano” la regola dal particolare»13 (Arendt 2005: 123). La morale imparziale dello spettatore è diversa dalle reazioni interessate. Il giudizio politico, presentato nella prima parte della Critica del Giudizio, è alternativo, non solo al giudizio cognitivo, ma anche alle reazioni egoiste.
I soggetti si esprimono nel mondo attraverso scelte e decisioni. La bellezza è il margine oggettivo entro il quale collocarsi per essere bene stimati. Il canone oggettivo del miglior comportamento, un’entità immateriale tra le persone, essendo relativo al tempo, al contrario dei parametri cognitivi, non smette mai di imparare derivando. Arendt “genealogizza” i decreti scesi dall’alto ed eguaglia i contributi limitati dal tempo. La critica della tradizione filosofico politica non si traduce nell’abolizione della validità oggettiva, al contrario il canone estetico, offrendo un ponte per il reciproco riconoscimento, supera l’apoliticità del dominio interattivo. L’accorgimento degli intervalli in sospensione sull’attività individuale definisce e valorizza la riflessione di Arendt.

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Poizat J. C., « Entretien avec Etienne Tassin »,Le philosophoire, 2007/2 n° 29.
Vila D.R., 1992, Beyond Good and Evil: Arendt, Nietzsche, and the Aestheticization of Political Action, Political Theory. Sage Publications, Vol. 20, No. 2.

Note al testo


  1. Sulla genesi di queste tematiche, così centrali nell’opera di Arendt, rimando alla sua tesi di dottorato: Il concetto di amore in Agostino. In quel non facile testo Arendt analizza il superamento della temporalità in un orizzonte metafisico, i limiti di una libertà concepita solamente come autosufficienza e l’astrattezza disumana di una relazione con l’atro progettata dall’alto, dalla beatitudo raggiunta nel rapporto con Dio, dal sommum bonum. In questo modo, secondo Arendt, è fuorigioco un rapporto originario con il prossimo. La relazione astratta si esprime nell’obiettività della ordinata dilectio, per quest’ultima il prossimo non è più esperito nei concreti incontri mondani, come amico o come nemico, bensì è già istallato a priori. (Arendt 2004)
  2. Sui rischi che si corrono sopravvalutando il promettere in Arendt: Cfr. “certi commentatori tendono(…)a cancellare la dimensione propriamente politica dell’azione, riconducendola a una pragmatica discorsiva o comunicativa. Questo è Habermas, ma certamente non Arendt! Al contrario, in Arendt si trova questa idea che l’azione comporta una dimensione agonistica.”. (Tassin 2007: 11-40)
  3. Su questo tema cfr. F. Fistetti, Hannah Arendt e Martin Heidegger. Alle origini della filosofia occidentale. In questo testo Fistetti scorge nel metodo arendtiano un procedere decostruttivo capace di sfaldare le fondamenta dell’analitica esistenziale, la quale, stando a questa lettura, secondo Arendt sarebbe incapace di trascendersi e cogliere genealogicamente i propri presupposti indiscussi, ossia il modello della produzione e la “gigantomachia sull’essere” di origine platonica. Fistetti analizza il disaccordo tra Arendt e Heidegger in relazione al divieto parmenideo, infranto dal secondo, di interpellare “il non essere”. Dunque, sia che si esprima nei termini di un logos verace o che si affidi all’impronunciabilità del vero, Heidegger è ritenuto responsabile di strozzare la libertà e di sottrarre il corpo all’antropologia nietzscheana ricavandone una superficiale potenza. (Fistetti 1998)
  4. Secondo l’opinione di Arendt la tradizione filosofico politica occidentale, da Platone a Marx, ha assegnato un peso sempre maggiore al governo dei filosofi sulla città. L’antica opposizione tra libertà e coercizione lasciò il posto all’opposizione platonica di pensiero e azione, verità e opinione. Dal bios politikos si passò al bios theoretikos. La libertà dalla schiavitù, per esempio, non fu una richiesta avanzata dagli schiavi, il concetto di eguaglianza, infatti, possedeva già la solidità di un pregiudizio popolare. Per Arendt la libertà è un modo d’essere e non una facoltà, non è un bene ma la condizione pre-politica della politica. L’azione, in quanto fine in sé, avrebbe dovuto avere uno scopo più alto. Si era aperto, oramai, un abisso incolmabile tra l’individuo e la comunità, oltre che tra il pensiero e l’azione. (Arendt 1995)
  5. Il tedesco Augenblick (“Attimo”) è stato tradotto da Arendt con now (che in italiano è stato reso con “adesso”).
  6. La decisiva influenza della Seconda Inattuale sul pensiero di Arendt è sottolineata da Forti. Forti sottolinea l’importanza del ripensamento dell’immagine unilineare del tempo, avviato da alcune filosofie del Novecento, per la filosofia di Arendt (Forti 2006: 223).
  7. Per una diversa interpretazione del nesso Nietzsche-Arendt rimando a D.R. Villa, Beyond Good and Evil: Arendt, Nietzsche, and the Aestheticization of Political Action, Political Theory. In questo saggio Villa, concentrandosi sulla Genealogia della morale e su Vita Activa, evidenzia le reciproche idee di arte, performance e virtuosismo. Villa offre una chiave di lettura esclusivamente estetica della relazione Nietzsche-Arendt e, per lo stessa ragione, pur riconoscendo nel senso comune la capacità di domare l’agone, rovescia il significato del gusto sbilanciandolo verso l’oggettività: “la nostra concezione del gusto è soggettivistica” (Vila 1992: 274-308).
  8. Il concetto di storicità è incapace di comprendere il vero cuore della filosofia politica: l’uomo come essere che agisce. Per Arendt una parte considerevole della filosofia moderna consiste in interpretazioni dei grandi testi del passato. Lo storicismo, secondo la pensatrice tedesca/americana, ha insegnato a leggere come mai prima, l’intrinseca imprevedibilità della natura umana, l’oscurità del cuore umano, tuttavia, a detta di Arendt, rimane incalcolabile (Arendt 2005).
  9. Nel prosieguo dell’analisi Arendt elenca quattro conseguenze dall’assenza d’iimaginazione: 1) Senza l’immaginazione non sarebbe possibile la percezione: «Nella percezione di questo tavolo particolare è contenuto il “tavolo” come tale. Pertanto nessuna percezione è possibile senza immaginazione» (Arendt 2005: 122). 2) Senza immaginazione non sarebbe possibile l’esperienza: «Lo schema “tavolo” è valido per tutti i tavoli particolari. Senza di esso saremmo circondato da una molteplicità di oggetti, dei quali potremmo dire solo “questo” e “questo” e “questo”» (Arendt 2005: 122). 3) Non sarebbe possibile la comunicazione: «Quindi: senza la possibilità di dire “tavolo” non potremmo mai comunicare» (Arendt 2005: 122). 4) Senza immaginazione non sarebbe possibile la conoscenza: «essa è la condizione di ogni conoscenza» (Arendt 2005: 123).
  10. Cfr. «Secondo Kant il genio è una questione di immaginazione produttiva e originalità, il gusto invece una semplice questione del giudizio. Si pone così il problema di sapere quale delle due sia la facoltà “più nobile”, quale costituisca la conditio sine qua non (…)E la risposta è la seguente: “Alla bellezza sono meno necessarie la ricchezza e l’originalità delle idee, che l’accordo dell’immaginazione nella sua libertà con la conformità alla legge dell’intelletto (che si chiama gusto). Perché tutta la ricchezza dell’immaginazione, nella sua libertà senza legge, non produce se non insensatezza; e il giudizio, invece, è la facoltà che la mette d’accordo con l’intelletto. Il gusto, come il giudizio in generale, è la disciplina (o l’educazione) del genio, gli spunta le ali…facendole insieme degne di un consenso universale e durevole» (Arendt 2005: 93-94 ).
  11. Cfr. «Ma afferma esplicitamente che “le belle arti esigono…immaginazione,intelletto, spirito e gusto” e aggiunge in una nota che “le prime tre facoltà trovano nella quarta la loro unione”, cioè nel gusto, dunque nel giudizio. Lo spirito, una peculiare facoltà distinta dalla ragione, dall’intelletto e dall’immaginazione, consente inoltre al genio di trovare alle idee l’espressione “grazie alla quale lo stato d’animo soggettivo da esse prodotto…può essere comunicato agli altri”. In altri termini, lo spirito, ciò che ispira il genio e lui soltanto e che “nessuna scienza può insegnare e nessuno zelo può apprendere”, consiste nell’esprimere “l’elemento ineffabile dello stato d’animo” suscitato da tutti noi da certe rappresentazioni per le quali non abbiamo parole. “Senza il concorso del genio, non ci sarebbe possibile comunicare tali rappresentazioni gli uni agli altri; la sua funzione originaria consiste appunto nel rendere questo stato d’animo universalmente comunicabile”. La facoltà che presiede a questa comunicabilità è il gusto, e il gusto o il giudizio non sono privilegio del genio. La conditio sine qua non per l’esistenza di oggetti belli è la comunicabilità; il giudizio degli spettatori crea lo spazio senza il quale simili oggetti non potrebbero apparire. La sfera pubblica è costituita dai critici e dagli spettatori, non già dagli attori e dai produttori: un tale critico spettatore risiede in ogni attore e inventore; senza questa facoltà critica, giudicante, l’attore o il produttore sarebbe così separato dallo spettatore da non essere percepito» (Arendt 2005: 94).
  12. E’ necessario dispiegare la validità esemplare in un range di possibili accezioni determinandone i gradi minimo e massimo. Sembra indispensabile riconoscere alla validità esemplare una gamma concettuale che vada dal particolare appena percepito dal senso comune all’esemplarità propriamente detta: il coraggio di Achille o lo “schematismo dei concetti puri dell’intelletto” di Kant. Per la stessa ragione il giudizio riflettente deriva, oltre agli esempi migliori, le irragionevolezze a mala pena comunicabili.
  13. Cfr. «Nello schema, fondamentalmente, viene “percepito qualcosa di “universale” nel particolare. Si vede, per così dire, lo schema “tavolo” riconoscendo il tavolo come tale. Kant rimanda a questa distinzione tra giudizi determinanti e riflettenti quando distingue, nella Critica della Ragion pura, tra “sussumere sotto un concetto” e “ricondurre a un concetto” (…) Il significato della schema per i nostri propositi consiste nel fatto che sensibilità e intelletto s’incontrano per produrlo attraverso l’immaginazione. Nella Critica della Ragion pura l’immaginazione serve all’intelletto; nella Critica del Giudizio l’intelletto è al servizio dell’immaginazione. Nella Critica del Giudizio troviamo qualcosa di analogo allo “schema”: l’esempio. Nei giudizi Kant attribuisce agli esempi la stessa funzione che le intuizioni dette schemi hanno per l’esperienza e la conoscenza. Gli esempi svolgono un ruolo sia nei giudizi riflettenti che in quelli determinanti, il che vuol dire ogniqualvolta ci occupiamo di cose particolari. Nella Critica della Ragion pura – dove leggiamo che il giudizio “costituisce un talento particolare che non può essere insegnato ma solo esercitato”- gli esempi vengono definiti “dande del giudizio”. Nella Critica del Giudizio, e più precisamente nel corso della trattazione dei giudizi riflettenti, dove non si riconduce un particolare al concetto, l’esempio fornisce quello stesso aiuto che forniva lo schema nel conoscere il tavolo in quanto tavolo. Gli esempi ci guidano e ci conducono, e il giudizio acquista pertanto “validità esemplare”. L’esempio è il particolare, che contiene in sé un concetto o una regola universale o di cui si assume che la contenga. Ad esempio, perché si è in grado di giudicare coraggiosa un’azione? Giudicando, si afferma spontaneamente, senza alcuna deduzione da una regola generale: “quest’uomo ha coraggio”. Un greco avrebbe “nelle profondità del suo animo” l’esempio di Achille» (Arendt 2005: 124-124).
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