Jonathan Crary, 24/7. “Il capitalismo all’assalto del sonno”, Einaudi, 2015.

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Saverio Mariani

 

24-7Jonathan Crary (professore di Modern Art and Theory alla Columbia University) disegna un profilo del nostro presente nel quale emerge in modo inequivocabile il legame che la struttura economica ha con il vissuto privato e pubblico, quindi politico, di ogni cittadino. Il paradigma entro cui questa divisione appare, oramai, come inutile, è quello definito dalla formula 24/7. Ventiquattr’ore al giorno; sette giorni su sette. Si tratta della massima espressione del capitalismo odierno, il suo apogeo: produttività e capacità di consumare sempre attive. Una continuità indifferenziata dove il 24/7 si autoalimenta, e nella quale il tempo, ma di riflesso anche lo spazio, viene dominato dalla «voracità del capitalismo contemporaneo» (p. 13), svuotandosi e divenendo quindi un non-tempo (p. 34). Ogni attimo della nostra esistenza è almeno potenzialmente – perché è realmente impossibile essere “on” per 24/7 – un attimo consumatore o produttore di qualcosa. Il paradigma è sempre aperto e in gioco, capace di generare così gli strumenti di stabilità del sistema stesso, frantumando dall’interno tutto ciò che ha il compito di “frenare” la potenza ineluttabile del 24/7.
Uno di questi momenti di alternanza, di freno alla produttività costante, è il sonno. Al contrario di quanto si riteneva alla metà del XVII secolo, nella convinzione che fosse uno stadio inferiore della natura umana perché contrapposto alla veglia governata dalla luce della ragione, esso è una forma di resistenza e opposizione al sistema capitalistico 24/7. Il sonno, infatti, è «condizione intima» e «vulnerabile», «comune a tutti» e che «non può assolutamente prescindere dal sostegno della società intera» (p. 28). La continua operosità richiesta agli individui e l’accelerazione propria del sistema capitalistico erodono anche il tempo del sonno (p. 32), momento fondamentale nel mantenere in piedi un’alternanza tra attività (che è poi produttività) e inattività. Il sonno, per sua stessa conformazione biologica, naturale, interrompe il flusso costante di produzione e, oggigiorno, di informazione che è diventato oramai la normalità (p. 49).

La temporalità (impossibile) del modello 24/7 è «l’annuncio di un tempo senza divenire», capace di annullare ciascuna periodizzazione del tempo di vita (p. 33). Qui, Crary utilizza forse categorie filosofiche in modo un po’ superficiale. Dicendo che il 24/7 è un tempo senza divenire si vira verso una concezione temporale che in realtà è eternità immobile, giacché, in filosofia, il tempo per essere tale deve accogliere un divenire. Al contrario quindi di ciò che è esplicitamente scritto nel testo, dall’analisi di Crary emerge che il tempo del 24/7 è puro divenire, accumulazione costante di produzione e consumo, implementazione sempre maggiore di novità che non trova sulla sua strada alcun ostacolo fisso, immutabile e indipendente al mutare costante della realtà. Proprio a tal proposito è possibile capire la rivendicazione dell’autore nei confronti del dominio del 24/7, riferita al mantenimento di alcune strutture che scandiscano il ritmo temporale. Tali strutture (il giorno, la notte; i pasti; le settimane; il weekend…), per Crary, sono pressoché sparite, e anche quando rimangono “vive” sono comunque svuotate del loro senso tradizionale: oramai innervate dalla legge del capitalismo odierno. L’ingombrante presenza di questo paradigma non può però nasconderci che, in modo diverso rispetto a ciò che scrive l’autore, tali strutture siano tuttora presenti, sebbene mutate. Le forme immutabili attraverso le quali la temporalità passava, senza modificarle, sono certamente più elastiche ma non scomparse. L’infinita possibilità di produzione e consumo che il 24/7, sotto varie forme, ha portato all’interno delle nostre vite, non elimina del tutto i ritmi biologici, le convenzioni temporali. Le ha certamente modificate, erose e le sfrutta per una logica perversa, ma non le può distruggere.

Solo interpretando così la nuova temporalità del 24/7, e quindi in parte tradendo il testo (soprattutto per quanto riguarda la questione del puro divenire), è possibile comprendere perché esso sostenga che pensare un’alternativa al mot d’ordre del 24/7 – come dice Crary riprendendo la definizione elaborata da Deleuze e Guattari in Mille piani – appare inammissibile (p. 54). Non essendovi più alcun appiglio stabile, o almeno un residuo di quelle forme immutabili del passato, secondo Crary il paradigma non può essere attaccato, o comunque non sembra plausibile alcuna forma di vita e concezione economica che non si integri all’idea capitalistica del 24/7; così come appare impossibile avere – all’interno di questo puro divenire nel quale l’uomo ha perso ogni riferimento che vada oltre se stesso – nuove forme d’immobilità che non si modifichino pur essendo costantemente a contatto con le esigenze del 24/7.

L’estensione a tutte le sfere del vivente del paradigma unico è evidente, sostiene Crary. Esso opera, ad esempio, anche in ambito militare. Il tempo solitamente dedicato al sonno, all’interno di sistemi militari automatizzati e costantemente “on”, dove l’uomo-soldato rappresenta oramai «il collo di bottiglia» (p. 5), viene utilizzato per missioni strategiche. Gli attacchi notturni con i droni ne sono un esempio (p. 36); essi infrangono quella barriera, per definizione fragile ma essenziale, che è appunto il sonno. Anche per queste considerazioni, e in virtù di un solo principio, quello della «operatività incessante» (p. 11), sono in atto ricerche scientifiche che non hanno «come obiettivo solo la stimolazione di uno stato di veglia, quanto piuttosto la riduzione del sonno come bisogno naturale del corpo umano» (p. 4), al fine di creare un «nuovo genere di soldato» (p. 5) capace di abbattere anche l’ultima barriera naturale.

Le genealogia che Crary rintraccia di questo paradigma – al quale, oramai, sembra opporsi in modo quasi incredibile solo il sonno – intreccia motivi storico-politici ed economici, in stretta continuità con la sua costituzione. In una scala sempre di maggiore efficacia della sua pervasività, il 24/7 ha sfruttato ogni nuova conoscenza o tecnologia. Nell’analisi – un po’ epidermica – di Crary, dalla Tv ai Social Media, tutto sembra indistintamente un mezzo utile solo a soddisfare le esigenze del capitalismo 24/7. L’idea secondo la quale Tv, Social Media e informazione siano un continuum carcerario, usando categorie foucaultiane, appare come troppo restrittiva e pregiudiziale. Dire che «il mito della natura egualitaria ed emancipativa di questa tecnologia in realtà è stato diffuso ad arte» (p. 126), può non essere totalmente sbagliato, ma è un concetto che non può allo stesso tempo affermarsi in modo dogmatico. La diffusione di notizie – sebbene spesso incontrollata e dentro al non-tempo istituito dal 24/7 –, ma anche quella comunicazione diretta e orizzontale della quale facciamo continuamente esperienza, non può essere considerato solo un male. Perché se è vero che l’alternativa al 24/7 è l’abbandono dell’individualità agganciata ai soli valori di competitività propri del paradigma e la liberazione dallo schiacciamento del desiderio di conoscenza sulla funzionalità al 24/7 (p. 93); allora i Social Media, ad esempio, possono essere uno strumento utile affinché si sviluppi una nuova tendenza comunitaria e cooperativa. Essi possono essere utili a finalizzare e costruire proposte comuni, incanalando interessi che evadono dal mantra del 24/7, fermo restando le criticità che li investono e delle quali sono portatori.

Perché ciò avvenga, ovviamente, è necessario pensare i Social Media stessi, e le “strutture” che li costituiscono, non come fini, ma come mezzi. In questo modo si potrà mostrare l’incompatibilità di fondo fra la naturalità degli uomini e le esigenze del capitalismo 24/7, come auspica Crary (p. 105), la cui conclusione, relegata a una certa difesa della sfera del sonno e del sogno, appare distante da ogni obbiettivo comunitario e realmente attuabile. «Situato com’è in una zona incerta, ai confini tra sociale e naturale, il sonno garantisce la presenza nel mondo dei ritmi periodici e ciclici fondamentali per la vita e incompatibili con il capitalismo», scrive Crary (p. 133). Ma difendere “quest’ultimo baluardo” non basta, così come non serve demonizzare ogni prodotto dell’ingegno tecnologico umano, solo perché figlio di quella «spinta mortale verso l’accumulazione, la finanziarizzazione e lo spreco che hanno devastato tutto quel che un tempo era oggetto di condivisione» (p. 133). Al contrario, alcune di queste esperienze possono condurre a una rinnovata capacità di cooperazione e di circolazione delle idee; in fondo possono essere i veicoli adatti per far sì che gli individui non guardino solo dalla loro ristretta finestra prefigurata, ma si definiscano di nuovo come parti di una comunità della quale si sentono realmente coprotagonisti.

 

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