Vico e le strutture antropologiche della storia

Mauro Scalercio

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Riflettere sul problema della storia in Vico implica una complessa riflessione sul nucleo stesso del pensiero vichiano: descrivendo la natura del proprio sforzo intellettuale Vico sostiene, infatti, che la sua scoperta fondamentale è l’esistenza di una “storia ideal eterna, sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni”[1]. Il tema è cruciale perché si tratta di stabilire lo statuto ontologico della storia in Vico, di come la concezione vichiana della storia costituisca l’architrave di tutto il progetto vichiano di una “nuova scienza”. In particolare di cruciale importanza è la determinazione del  significato dell’espressione “storia ideale eterna”, uno dei veri enigmi della critica vichiana, che ne ha dato interpretazioni spesso diametralmente opposte. Da un lato, la storia ideale eterna è intesa come una legge capace di regolare deterministicamente la storia empirica e dall’altro si considera la storia ideale eterna come puro costrutto euristico a disposizione dello studioso per mettere in forma dati e notizie, posizione quest’ultima decisamente più diffusa. Nel primo estremo si colloca chi sostiene che la Scienza Nuova sia una filosofia della storia in senso compiuto e che la storia ideale eterna consenta di fare a meno di evidenze empiriche nella ricostruzione del senso del processo storico.[2] Ad esempio, la successione postulata da Vico aristocrazia-democrazia-monarchia permette di dire, secondo questa interpretazione, che anche in assenza di conferme empiriche, “la monarchia deve essere stata preceduta da un regime democratico”. Oppure si può sostenere che “la libertà delle sue [dell’uomo] azioni viene sussunta nella necessità metafisica della ‘storia ideale eterna’”[3]. Tuttavia si può facilmente verificare come le “leggi storiche” individuate da Vico non siano né meccanicistiche né tali da rendere irrilevante l’azione degli uomini. Nella degnità XXI Vico, ad esempio, afferma chiaramente che la nazione greca e la nazione francese hanno affrettato il corso della loro storia, passando da uno stato di “cruda barbarie” ad uno stato di “somma delicatezza”[4]. Un altro esempio di come l’uomo possa agire sulla “eterna natural regia legge”[5] che vede il susseguirsi di aristocrazia, democrazia, monarchia, è nel capitolo secondo del libro quinto. Posto che i plebei, avendo riconosciuto la comune natura con gli eroi, ambiscono ad uguali diritti, dando vita a monarchie o a repubbliche: “Nella presente umanità delle nazioni, le repubbliche aristocratiche, le quali ci sono rimaste pochissime, con mille sollicite cure e accorte e saggi provvedimenti, vi tengon, insiem insieme, e in dovere e contenta la moltitudine”[6].

Scartata l’idea di una storia deducibile a priori, rimane da valutare l’altro estremo, quello di un uso esclusivamente euristico della storia ideale eterna, ipotesi che è stata declinata in differenti modi. Una è che la storia ideale eterna sia una sorta di idealtipo weberiano, una unione di “legge e fatto, principio e idea”[7]. O ancora la storia ideale eterna può essere pensata come strumento ermeneutico, “la rete interpretativa gettata dal nuovo scienziato sul mondo degli uomini”[8]. Questo modello presenta l’indubbio vantaggio di rendere conto delle eccezioni che Vico stesso ammette nelle strutture storiche, lasciando così lo spazio per il libero arbitrio.

Nella lettura presentata in queste pagine ci discosteremo da ambedue queste interpretazioni. Dalla prima accoglieremo il suggerimento che la storia ideale eterna sia che precede il tentativo ermeneutico dello scienziato, della seconda accoglieremo l’idea che sia impossibile ricavare dalla storia ideale eterna un contenuto storico empirico[9]. Lo statuto epistemologico e ontologico della storia ideale eterna deve essere ricercato della dimensione antropologico-culturale della Scienza Nuova. Solo a questo livello la storia ideale eterna può essere interpretata correttamente, ponendola nel giusto rapporto con ciò che Vico chiama “storie di tutte le nazioni”, e al contempo al cuore del suo grandioso progetto di studiare la “comune natura delle nazioni”.

1. Storia e storie

In una struttura a mosaico qual è la Scienza Nuova vichiana il significato di ogni elemento può essere compreso solo in connessione con gli elementi vicini. Il concetto di storia ideale eterna deve essere compreso nella sua dimensione funzionale all’interno dell’opera vichiana ma soprattutto deve essere compreso insieme all’elemento contiguo ossia le “storie di tutte le nazioni”. Il primo passo è allora di capire perché Vico ricorre a questa coppia, per poi determinare lo statuto epistemologico ed ontologico della storia ideale eterna. Vico usa il plesso storia/storie come grimaldello per risolvere uno dei problemi cruciali che aveva affrontato lungo tutta la sua riflessione: come ottenere una conoscenza scientifica, quindi universalmente valida, ma che possa essere utile per la conoscenza del particolare, e come ottenere una tale conoscenza nello “studio dell’umanità”. L’esigenza di una scienza che sia capace di adattarsi alla concretezza dell’esistenza è una costante del pensiero vichiano. Già nel De Ratione (1708) Vico invita a non usare per i fatti umani una “rettilinea e rigida regola mentale: occorre considerarli, invece, con quella misura flessibile di Lesbo, che, lungi dal voler conformare i corpi a sé, si snodava in tutti i sensi per adattare se stessa alle diverse forme dei corpi”[10].

Nelle opere successive, pur mantenendo l’obbiettivo di studiare il particolare, il concreto, Vico comincia a porsi il problema di come sia possibile ricondurre ad uno studio scientifico, quindi universale i fatti umani. Se con i due volumi del Diritto Universale (1720-1721) il tentativo, sul solco dei grandi giusnaturalisti, è di ricercare tale universalità nell’ambito del diritto, con la Scienza Nuova il tentativo, esplicito sin dal titolo, è quello di affrontare lo studio dell’umanità con basi nuove. È la storia, adesso, il campo in cui può essere articolato il rapporto fra particolare ed universale, fra scienza e concretezza dell’esistenza. Ed è con la Scienza Nuova che appare l’espressione storia ideale eterna. Compare anche l’elemento delle storie di tutte le nazioni, che presenta però uno scarto significativo nella formulazione fra la prima edizione pubblicata nel 1725 e l’ultima, pubblicata nel 1744. Il raffronto fra le due edizioni mostra uno scarto importante del pensiero di Vico che è centrale per la nostra interpretazione. Cominciamo dalla lettura di un passo dall’edizione del 1725 analogo a quello dell’edizione del 1744 citato in precedenza: “Ella viene ad essere una storia ideale eterna, sopra quale corra in tempo la storia di tutte le nazioni[11]. L’aspetto che emerge subito è il passaggio dal singolare al plurale fra le due versioni[12]. Nella prima versione della Scienza Nuova, rapporto fra storia ideale eterna e storia delle nazioni è di immediata sovrapposizione e manca il rapporto aperto ed estremamente dinamico che fa la ricchezza della Scienza Nuova nell’ultima edizione[13]. “Storia” nella Scienza Nuova del 1725 è un “singolare collettivo” il cui soggetto è l’umanità, il cui sviluppo segue in percorso definito e razionale[14]. Coerenti a questo scenario sono, dunque, i riferimenti vichiani ad un “dispiegarsi” delle idee umane nel corso della storia, e ai “non interrotti progressi di tutto l’universo delle nazioni”[15].

Nella Scienza Nuova l’articolarsi della “storia” in storia ideale eterna e storie di tutte le nazioni risponde alla necessità vichiana di pensare ad uno studio scientifico e quindi universale, ma al tempo stesso di rendere conto del concreto, della moltitudine delle prassi sociali dell’uomo. In altre parole fare una scienza che abbia per oggetto l’uomo in società sottolineando l’unitarietà sincronica e diacronica del genere umano, giustificando e rendendo conto della diversità degli esiti empirici. La storia ideale eterna è ciò che “regola” in maniera immutabile lo svolgersi delle concrete storie dei diversi gruppi sociali. Rimangono da determinare due aspetti cruciali: in che modo tale funzione normativa avvenga e se, e quanto, tale funzione sia compatibile con la libertà dell’uomo nella storia.

2. I principi. La struttura metanormativa della storia ideale eterna.

Come accennato in apertura di questo saggio, la difficoltà della concezione vichiana della storia è quella di determinare con precisione cosa intenda Vico con l’espressione “storia ideale eterna”. Stabilito che il suo statuto nella teoria vichiana della storia è quello di rappresentare il generale, l’universale, possiamo individuare più precisamente il suo contenuto. In assenza di una specifica definizione è necessario risalire al suo significato attraverso l’analisi del funzionamento dell’espressione “storia ideale eterna” all’interno del testo. Il punto centrale è la parte terza del secondo libro della Scienza Nuova intitolata “I princìpi”. Qui Vico è chiaro nel definire la natura della sua scienza: “Or, poiché questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomini, perché tali cose ne potranno dare i princìpi universali ed eterni, quali devon essere d’ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutte vi si conservano in nazioni”[16]. Qui Vico sostituisce l’espressione “storia” con l’espressione “principi”, ma ciò non toglie che stia parlando esattamente della medesima cosa: tali principi sono proprio la “materia” di cui è costituita la storia ideale eterna. Nel paragrafo successivo Vico identifica questi principi: “Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti”[17]. Più avanti Vico ritorna su questi elementi, aggiungendone un altro: tutti gli “effetti civili” ossia gli avvenimenti sociali, “richiamerannosi a queste quattro loro cagioni, che, come per tutta quest’opera si osserverà, sono quasi quattro elementi di quest’universo civile: cioè religioni, matrimoni, asili e la prima legge agraria che sopra si è ragionata”[18].

Lo sforzo vichiano è quello di individuare all’interno della moltitudine dei comportamenti umano la loro unità nei “costumi”, sottolineandone in particolare il carattere rituale: “Né tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consagrate solennità che religioni, matrimoni e seppolture”[19]. La comune natura delle nazioni è identificata per via antropologica perché non è attraverso un astratto ragionamento, secondo Vico, che è possibile stabilire cosa sia comune al genere umano né si può individuare la comune natura delle nazioni all’interno del funzionamento della ragione. Al contrario, è necessario individuare  un livello metanormativo che permetta di individuare cosa effettivamente leghi le più diverse norme sociali. Un’analisi dei quattro elementi presi singolarmente, in riferimento al loro significato per la teoria del tempo e della storia della Scienza Nuova, permette di chiarire il modo di pensare vichiano.

La religione è la credenza nell’esistenza di una “divinità provvedente”[20]. L’attributo “provvedente” indica una qualità soteriologica della divinità: “La provvedenza divina sovraintenda alla salvezza di tutto il gener umano”; è per l’attributo di “provvedente” che gli uomini contemplarono Dio[21]. È molto importante notare che la “divinità” ha direttamente a che fare con l’idea di futuro. È la divinazione “dalla qual appo i gentili tutti incominciarono le prime divine cose” che è fortemente connessa, di fatto consustanziale, alla divinità: “Fu universalmente da tutto il gener umano dato alla natura di Dio il nome di ‘divinità’ da un’idea medesima, la quale i latini dissero ‘divinari’, ‘avvisar l’avvenire”[22]. Vi è dunque una forte connessione nell’idea di “divinità provvedente” fra la salvezza, futuro e giustizia, perché la salvezza dipende anche dalla conformazione della società all’ordine divino[23]. Questa funzione è chiaramente espressa da Vico stesso in riferimento alla funzione dei poeti teologi “ovvero sappienti che s’intendevano del parlar degli dèi conceputo con gli auspìci di Giove, e ne furono detti propiamente ‘divini’, in senso d’‘indovinatori’, da ‘divinari’, che propiamente è ‘indovinare’ o ‘predire’: la quale scienza fu detta ‘musa’, diffinitaci sopra da Omero essere la scienza del bene e del male, cioè la divinazione, sul cui divieto ordinò Iddio ad Adamo la sua vera religione”[24]. La religione indica la necessità di un’autorità capace di decidere per il bene e il male e che, dunque, possieda l’autorità per dirimere le controversie[25]. Questo è il motivo per cui questo elemento della Scienza Nuova sembra essere il più importante, avendo la funzione di ordinare anche gli altri elementi. Vico non sta pensando, dunque, ad una particolare religione ma alla duplice funzione che la religione svolge: incutere timore spingendo perciò al rispetto di norme morali ma anche far percepire tali norme come giuste e legittime. Spogliata di tutte le determinazioni empiriche, il principio della “religione” è quindi il principio di regolamentazione degli atti della collettività nel tempo, anche attraverso un meccanismo di punizione e ricompensa. Senza un meccanismo simbolico di svolgimento di questa funzione una società, è il postulato di Vico, una società non può reggersi.

La religione è alla base del secondo principio secondo cui i matrimoni “sono carnali congiugnimenti pudichi fatti col timore di qualche divinità”[26]. Ciò significa che il matrimonio è un legame che sancisce socialmente e ritualmente l’unione biologica fra uomini e donne, al fine di individuare legami verticali fra genitori e figli. Vico indica nel matrimonio l’elemento che permette di superare il “Cao” (Caos) primordiale, la “confusione de’ semi umani, nello stato dell’infame comunione delle donne”. In questa epoca di Caos primordiale non vi era, dice Vico, “niun ordine d’umanità” e gli uomini “eran assorti dal nulla, perché per l’incertezza delle proli non lasciavano di sé nulla”[27]. Il problema della “confusione de’ semi” è la mancanza di un principio d’individuazione della continuità familiare, che causa il rischio dell’abbandono dei figli, non avendo i genitori “niun vincolo necessario di legge”, con il conseguente rischio dell’incesto ma soprattutto con l’impossibilità di una trasmissione ereditaria dei beni e del riconoscimento della proprietà attraverso le generazioni. È con il matrimonio che può essere garantita la permanenza temporale dei rapporti di proprietà. La seconda funzione della regolazione delle unioni è la “custodia degli ordini”, cioè la gestione delle modalità di ingresso all’interno del gruppo. Anche qui il principio è quello dell’ereditarietà, della trasmissione nel tempo, questa volta non di beni ma dello status sociale. Il matrimonio è innanzitutto un limite posto dal gruppo delle famiglie, degli eroi all’ingresso dei famoli nel gruppo: “Tal custodia è propietà naturale delle repubbliche aristocratiche, le quali vogliono i parentadi, le successioni, e quindi le ricchezze, e per queste la potenza, dentro l’ordine de’ nobili”[28]. La libertà popolare segna anche una differente disciplina dei matrimoni (e quindi dell’accesso alla cittadinanza e alle cariche pubbliche) “gli eroi contraggono matrimoni con istraniere e i bastardi vengono nelle successioni de’ regni”[29].

L’individuazione precisa del terzo principio, quelle delle sepolture, pone alcuni problemi di interpretazione del testo. Se questo elemento viene identificato, proprio nell’enunciazione iniziale dei principi, come “seppolture”, ad una successiva ricapitolazione questo elemento scompare sostituito, come abbiamo visto, dal riferimento agli “asili”[30]. Inoltre nella spiegazione della dipintura iniziale ci spiega che l’urna cineraria è simbolo sia delle “seppolture” sia della divisione dei campi[31]. Questa oscillazione non è dovuta ad una confusione di Vico, per quanto non brilli qui per chiarezza, ma al fatto che sta indicando non una “cosa” ma la necessità dello svolgimento di una certa funzione che regoli il rapporto fra i gruppi umani e la terra[32]. La sepoltura indica la creazione di un rapporto rituale che sancisca la permanenza del gruppo in un luogo, cioè, ancora una volta, la sanzione rituale di un legame che perdura nel tempo: “E, con lo star quivi fermi lunga stagione e con le seppolture degli antenati, si ritruovarono aver ivi fondati e divisi i primi domìni della terra”[33]. Nel principio delle sepolture è inclusa da Vico l’idea dell’immortalità dell’anima: “Oltrecché, questo è un placito nel quale certamente son convenute tutte le nazioni gentili: che l’anime restassero sopra la terra inquiete ed andassero errando intorno a’ loro corpi inseppolti, e ‘n conseguenza che non muoiano co’ loro corpi, ma che sieno immortali”[34]. La formulazione vichiana non è chiarissima ma permette almeno una considerazione elementare ma fondamentale, cioè che l’idea dell’immortalità dell’anima permette di trascendere l’orizzonte della vita umana, creando la possibilità di un legame temporale eterno. La difesa del territorio è simbolicamente da ricollegare, dunque, alla difesa della terra degli avi, la cui anima rimane legata al luogo della vita terrena. In sostanza la sepoltura è lo strumento rituale che permette di pensare al legame permanente fra una stirpe e un luogo.

L’ultimo elemento è la legge agraria. Anche questo è un elemento problematico perché compare, come già rilevato, nella seconda esposizione dei principi ma non nella prima. Questa difformità è piuttosto difficile da spiegare: data l’enorme importanza che Vico vi conferisce, sarebbe stato lecito attendersela anche nella prima, più solenne, esposizione. Avventurarsi sulle motivazioni che hanno spinto Vico a questa scelta significa abbandonarsi alle congetture, tuttavia c’è da registrare una netta differenza fra gli altri principi e la legge agraria che deve essere segnalata e che forse spiega la sua diversa collocazione: è infatti l’unico a prescindere da legami di tipo familiare, ed è la prima relazione formale (giuridica e/o rituale) fra gruppi non legati da legami di parentela. Tutti i principi precedenti hanno la loro origine della socialità iniziale delle famiglie, mentre la legge agraria è un elemento che regola i rapporti fra gruppi già costituiti. Si potrebbe dire che questo è il principio che sancisce il passaggio ad una società propriamente politica. Prima della legge agraria il rapporto che legava le “famiglie”, i primi gruppi organizzati ritualmente, ai “famoli”, individui non organizzati e servi delle famiglie, era di puro dominio, un rapporto che prevedeva la preservazione della vita in cambio del lavoro[35]. La ribellione dei famoli obbliga le famiglie a concedere una formalizzazione del rapporto e la nascita di un primo sistema di diritti: “Or tai senati regnanti, per contentare le sollevate caterve de’ famoli e ridurle all’ubbidienza, accordarono loro una legge agraria, che si truova essere stata la prima di tutte le leggi civili che nacque al mondo; e, naturalmente, de’ famoli, con tal legge ridutti, si composero le prime plebi delle città”[36]. Non è certamente un caso che Vico indichi nella prima agraria sia la prima legge sia l’origine stessa delle repubbliche[37].

Ecco dunque il significato della “legge agraria” nella storia ideale eterna. È il principio che regola il possesso della proprietà e la divisione del lavoro in gruppi non legati da legami di parentela. Inoltre è il principio di divisione della terra, quindi di gestione dei confini. Il riferimento ai famoli spiega perché Vico senta l’esigenza di andare oltre al principio delle sepolture come principio di divisione dei campi. Se il riferimento ai “morti congionti” aveva senso in un contesto familiare, la presenza dei famoli, e quindi lo sviluppo di una società politica doveva essere riferita ad un altro principio. Di conseguenza, il principio della “legge agraria” agisce accompagnandosi ai tre elementi precedenti, rendendone possibile la pensabilità al di fuori di un contesto familiare. Alla luce di queste considerazioni la “legge agraria” appare come “simbolo” della complessità delle relazioni di proprietà. Sancisce, in altri termini, la necessità di una regolazione simbolica del rapporto con gli oggetti, in particolar modo con i bene necessari alla sussistenza (la terra in primis) ma anche la necessità di una qualche sanzione della divisione del lavoro in un contesto non di parentela[38].

Nell’ultima edizione della Scienza Nuova, dunque, scomparso il carattere immediatamente normativo della storia ideale eterna, essa assume un carattere funzionale e strutturale, o metanormativo. Affermando la natura metanormativa della storia ideale eterna si vuole sottolineare il suo carattere non-empirico, appunto ideale ed eterno, ma anche la sua ineliminabile e ontologica funzione di creare l’ordine: essa non è l’ordine, ma l’insieme di ciò che può permettere un ordine ed è questo che le conferisce un valore meta-normativo.

Gli elementi della storia ideale eterna, dunque, indicano alcune precise necessità funzionali che Vico individua essere alla base della socialità: valutazione della conformità delle azioni e delle regole interne al gruppo ad un ordine continuo nel tempo; gestione simbolica della funzione riproduttiva, che permette la perpetuità del legame familiare; gestione simbolica del legame fra un luogo e un gruppo sociale, attraverso la gestione simbolica della morte; regolazione della proprietà in assenza di legami familiari. Aver individuato la storia ideale eterna nei termini qui chiamati metanormativi lascia a Vico l’opportunità di ridare all’uomo la sua capacità di fare e apre la possibilità per quell’enorme riflessione sulle facoltà umane, soprattutto sull’ingegno, che costituisce gran parte della Scienza Nuova. Proprio queste facoltà sono ciò che permette il passaggio dalla storia ideal eterna alle storie delle nazioni o, in altri termini, ciò che rende l’estrema varietà culturale esistente compatibile con l’idea di una comune natura delle nazioni[39].

L’elaborazione concreta dei riti dei simboli, delle istituzioni umane non ha dei limiti fenomenici, ossia relative all’aspetto estrinseco, e moralistico della norma sociale, ma solo dei limiti che concernono quelle funzioni che secondo Vico sono essenziali per la formazione e la conservazione dei gruppi sociali. Ciò significa che le metanorme devono essere lette come nozioni intersoggettive e relazionali. Esse costituiscono i “limiti” all’interno dei quali l’incontro fra gli uomini può dare origine alle nazioni, quindi alla socialità. Vico non sta indicando la necessità dell’istituzione matrimoniale o la necessità dei cimiteri o di una religione di stato o di una particolare regolamentazione della proprietà. “Religione”, “Matrimonio”, “Sepolture”, “Agraria” sono dei nomi che indicano una funzione il cui svolgimento costituisce il “limite” della società, senza particolare riguardo alla modalità empirica con cui venga assolta[40]. Piuttosto, è necessario aggiungere che gli elementi della storia ideale eterna non hanno sviluppo propriamente storico, ma sono storiche le modalità pratiche di assolvimento di queste funzioni sociali. Non a caso Vico indica come queste funzioni siano svolte fin dal principio della società politica umana, e siano presenti in ogni luogo, sottolineandone il carattere, appunto ideale ed eterno.

3. Commensurabilità e prassi nell’esperienza storica.

L’elaborazione della storia ideale eterna è essenziale per la pensabilità di una comune natura delle nazioni, che costituisce l’oggetto della nuova scienza vichiana. Essa rende da un lato effettivamente comune la natura delle nazioni, perché la storia universale è appunto comune a tutta l’umanità, ma rende anche commensurabili l’infinita varietà delle storie realizzate. Il lavoro dello storico vichiano, o se si preferisce, del nuovo scienziato, è di spiegare l’articolazione fra questo momento ideale e lo svolgimento materiale delle storie delle nazioni, cercando di evitare un dualismo che è certamente estraneo a Vico. In altre parole si tratta di mostrare come, concretamente, sia possibile lo svolgimento delle metanorme della storia ideale eterna. Gran parte della Scienza Nuova consiste proprio nell’enunciazione e nella dimostrazione dei principi che regolano questo rapporto. Uno degli strumenti elaborati da Vico esplicitamente per mostrare la commensurabilità, la traducibilità delle storie mostrandone così la comune natura, è l’idea di una “lingua mentale” che permette di elaborare un “dizionario mentale” che possa servire da guida per lo studio delle nazioni. Nella degnità XIII si trova una celeberrima proposizione: “Idee uniformi nate appo intieri popoli tra essoloro non conosciuti debbon avere un motivo comune di vero”[41]. Tale “motivo di vero” è costituito dal senso comune dell’umanità “ond’esce il dizionario mentale, da dar l’origini a tutte le lingue articolate diverse, col quale sta conceputa la storia ideal eterna che ne dia le storie in tempo di tutte le nazioni”[42]. La degnità XXII torna sostanzialmente a ribadire il medesimo concetto: “È necessario che vi sia nella natura delle cose umane una lingua mentale comune a tutte le nazioni, la quale uniformemente intenda la sostanza delle cose agibili nell’umana vita socievole, e la spieghi con tante diverse modificazioni per quanti diversi aspetti possan aver esse cose; siccome lo sperimentiamo vero ne’ proverbi, che sono massime di sapienza volgare, l’istesse in sostanza intese da tutte le nazioni antiche e moderne, quante elleno sono, per tanti diversi aspetti significate”[43].

Il “senso comune” dell’umanità non può che essere rintracciato in quei quattro principi a cui ci siamo riferiti sopra, che costituiscono l’unico “comune” dell’umanità nel suo complesso[44]. Da quei quattro principi, dalla loro combinazione, dal loro svolgimento effettivo può essere elaborato un “dizionario” che aiuta a fornire gli equivalenti fra le diverse storie. La funzione di questo “dizionario” è quello di tradurre parole, riti, leggi in termini più generali e che possono essere commensurabili a quanto avviene nelle altre nazioni. La storia ideale eterna permette questo meccanismo di traduzione, in quanto ultimo referente possibile di ogni storia e di ogni mitologia. Lo sforzo dello studioso, secondo Vico consiste nel mostrare che i costumi di tutte le nazioni partecipano della storia ideale eterna: “Le tradizioni volgari devon avere avuto pubblici motivi di vero, onde nacquero e si conservarono da intieri popoli per lunghi spazi di tempi. Questo sarà altro grande lavoro di questa Scienza: di ritruovarne i motivi del vero, il quale, col volger degli anni e col cangiare delle lingue e costumi, ci pervenne ricoverto di falso”[45].

La “lingua mentale” comune è la lingua attraverso cui “parla” la storia ideale eterna. La struttura della scienza vichiana delle nazioni non potrebbe fare a meno di una tale dimensione senza perdere il carattere di scienza, compromettendo il progetto stesso di studio della comune natura delle nazioni: “’n quest’opera, con una nuova arte critica, che finor ha mancato, entrando nella ricerca del vero sopra gli autori delle nazioni medesime (…) la filosofia si pone ad esaminare la filologia (…), la quale, per la di lei deplorata oscurezza delle cagioni e quasi infinita varietà degli effetti, ha ella avuto quasi un orrore di ragionarne; e la riduce in forma di scienza, col discovrirvi il disegno di una storia ideal eterna, sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni”[46].

Vico adotta questa struttura storica come strumento ermeneutico per analizzare la storia delle civiltà. In particolare la storia dell’impero romano è spiegata in maniera mirabile riferendo i passaggi chiave del suo sviluppo ai cambiamenti nella gestione rituale e politica dei singoli elementi della storia ideale eterna. La lotta dei plebei, dei famoli, per conquistare l’uguaglianza rispetto ai patrizi segue le anse della storia ideale eterna, mostrando come la lotta non possa avvenire che sul suo schema. Ciò risulta in maniera particolarmente chiara dalla trattazione che Vico fa della legge agraria e del matrimonio. Con la prima legge agraria gli eroi concedettero il dominio “bonitario” dei campi, una sorta di usufrutto concesso dagli eroi, senza alcuna protezione per la stabilità del possesso dei famoli. Si trattava sostanzialmente di una condizione, come sottolinea Vico, meramente servile, priva dei diritti di cittadinanza. Questa condizione comportava che i plebei “non potevano lasciare i campi ab intestato a’ congionti, perché non avevano suità, agnazioni, ch’erano dipendenza tutte delle nozze solenni; nemmeno disporne in testamento, perché non erano cittadini: talché i campi lor assegnati ne ritornavano ai nobili”[47].

La natura della lotta che emerge è chiara: non si tratta di lottare per cambiare gli elementi della storia ideale eterna, ma per il controllo della posizione politica e sociale che permette il loro svolgimento materiale e simbolico. Gli elementi della storia ideale eterna indicano il luogo del potere, e di conseguenza indicano la prassi necessaria per il sovvertimento dell’ordine politico. La storia ideale eterna, nel suo regolare le storie di tutte le nazioni, regola la possibilità stessa del cambiamento storico. Le lotte avvengono non per mutare l’ordine metanormativo della storia ideale eterna, ma per mutare l’ordine normativo del loro svolgimento materiale e simbolico. In altre parole, l’ordine dei rapporti sociali è ricondotto all’ambito della praxis, le cui condizioni, ma non le sue determinazioni empiriche, dipendono dalla storia ideale eterna. Le storie delle nazioni allora, lungi dall’essere predeterminate dalla storia ideale eterna, sono plurali, seppur non incommensurabili, proprio perché la storia ideale eterna non è prescrittiva di una essenza della comunità, ma indica le modalità del divenire storico.

È chiaro allora che l’eternità della storia non implica l’immutabilità delle storie. Al contrario, Vico immagina una storia combinatoria e non vettoriale proprio perché considera non interdipendenti lo scorrere del tempo storico e la presenza di regole che permettono la comprensione scientifica della storia stessa. In altre parole, Vico non può annettere alcuna qualità allo scorrere del tempo, al contrario di ciò che avviene nelle teorie del progresso, né può concepire un tempo storico unico che prescinda dalla condizioni sociali e dalla struttura di potere interna ai gruppi sociali.

Conseguentemente, la temporalità politica in Vico non è legata all’aspetto formale e universale costituito dalla storia ideale eterna. Il tempo non è il momento primo, presupposto e pensato della storia, ma è intrinsecamente legata all’esperienza sociale e alla messa in forma delle relazioni materiali. Le singole esperienze storiche, riferibili alle modificazioni delle funzioni simboliche della storia ideale eterna, sono legate ad un luogo e ad un gruppo sociale, allo svolgimento dinamico delle relazioni antagoniste che implicano la presenza di storie multiple e che rendono la temporalità non tanto relativa alla “nazione” quanto ai singoli gruppi sociali, anche all’interno della nazione stessa[48].

4. Le strutture formali del tempo storico. Una filosofia della storia?

È chiaro, da quanto detto finora, che la struttura storia/storie implica un rapporto fra singolarità e pluralità che spezza il fluire omogeneo del tempo storico e lo relativizza radicalmente, in quanto dipende dalla prassi sociale del gruppo, dalle configurazione di potere e dalle lotte condotte nel suo seno. Il tempo storico vichiano sfugge così alla duplice alternativa fra temporalizzazione dello spazio, tipica delle filosofie della storia e dalle dottrine del progresso e spazializzazione del tempo di matrice storicista.[49] Da una prospettiva più ampia, si può rilevare la singolarità della teorizzazione vichiana del tempo storico, tema centrale della riflessione moderna, su cui, per comprendere meglio la singolarità vichiana, è utile soffermarci brevemente. Negli stessi anni in cui Vico elabora la sua nuova scienza, in Europa il problema del tempo storico cominciava ad essere oggetto delle formalizzazioni che condurranno alle teorie del progresso e alle filosofie della storia in senso proprio[50]. Non è possibile qui parlare in esteso della “storia del tempo storico” in Europa, perché troppo sono gli eventi e gli autori che bisognerebbe citare. A mo’ di mappa, si possono indicare tre eventi la scoperta dell’America, la riforma protestante e la rivoluzione scientifica come punti cardinali che permettono di inquadrare in maniera essenziale l’orizzonte in cui si delinea il crollo dell’ordine medievale[51].

A cavallo fra questi avvenimenti e il secolo XVIII si sviluppò una concezione del tempo che portò a riflettere sulla natura del tempo storico e sulla relazione fra passato e futuro. In particolare, in assenza di un’assicurazione divina della presenza di un ordine, il futuro si pose come problema politico, strettamente legato all’idea della soggettività umana[52]. L’ordine dell’uomo viene identificato con lo sviluppo della razionalità umana e lo sviluppo ordinato dell’umanità, non più assicurato dal legame con la trascendenza, viene identificato con la conoscenza delle leggi razionali che regolano le azioni dell’uomo. Un altro elemento da mettere in evidenza è che fin dall’inizio della modernità, in maniera implicita o esplicita, la razionalità dell’uomo coincide con la razionalità dell’uomo occidentale[53]. La struttura della storia assume allora una forma lineare, vettoriale, in cui le culture occidentali rappresentano il momento più avanzato. La razionalità dell’uomo risulta così essenzializzata e ricondotta ad un ben preciso “modello” di umanità. Ne risulta così una spazializzazione del tempo: identificare lo sviluppo razionale con un preciso tipo di sviluppo storicamente avvenuto in Europa è alla base di tutte le “filosofie della storia” e delle teorie del “progresso” elaborate.

La filosofia della storia costituisce l’ossatura teorica, e implicitamente antropologica, di tutto ciò. Tuttavia l’espressione “filosofia della storia” rischia di essere vaga e priva di rigore scientifico, ed è necessario ridurla, ed  è possibile sulla scorta di quanto detto, a quattro elementi fondamentali. Il primo è che la storia e considerato un processo basato sull’autocomprensione razionale dell’uomo, sulla comprensione delle leggi che regolano il divenire storico, e su un conseguente meccanismo di prognosi e diagnosi. Il secondo è l’idea che la storia si possa fare in virtù di quella comprensione  razionale. Il terzo elemento, è la conseguente possibilità di una pianificazione razionale del futuro. L’ultimo è che l’umanità sia un oggetto di studio scientifico unitario.[54] Caratteristica principale del tempo della filosofia della storia è quello di essere vettorialmente disposto su una linea che dal passato tende ad un futuro qualitativamente migliore perché frutto dell’azione razionale dell’uomo, che si svolge in ciò che Walter Benjamin ha icasticamente definito tempo “omogeneo e vuoto”[55].

L’approccio di Vico al problema del tempo storico si pone su un altro versante intellettuale. La razionalità umana non è il presupposto della storia ma un risultato, non scontato e non definitivo, della prassi storica dell’uomo volta al miglioramento delle condizioni materiali di vita. In altre parole, non è una razionalità unica e immutabile che permette il movimento storico. Infatti le strutture formali del tempo storico non sono razionali, non nel senso che non rispondono ad alcuna logica ma nel senso che non sono deducibili a priori razionalmente e non è postulabile una loro natura astratta, in quanto rispondono invece ad un logica pratica. Gli elementi della storia ideale eterna, che sono elementi culturali, mitici, rituali, costituiscono un campo combinatorio in cui il tempo storico viene smontato, rimontato, riordinato, in uno scambio costante fra le dimensioni temporali, che rappresenta la natura del “ricorso” vichiano. La scoperta di Vico è che il tempo storico deve essere inventato attraverso la pratica sociale, che si costituisce attraverso le lotte per il miglioramento delle condizioni materiali, l’elaborazione di mitologie, l’espansione dei diritti[56]. In particolare è il mito, ma ancora meglio sarebbe dire la facoltà mitopoietica umana, che permette infiniti esiti degli elementi della storia ideale eterna. Il tempo, dunque, non è un presupposto ma un prodotto, è letteralmente una creazione mitopoietica dell’uomo.

Scartata l’idea che quella di Vico possa essere considerata una filosofia della storia in senso proprio, magari proto-hegeliano, è da scartare in maniera almeno altrettanto decisa che quella di Vico sia semplicemente una storia plurale in senso premoderno.

Le “storie” di cui parla Vico non sono mai le “storie di qualcosa”, ma è senza alcun dubbio un “tempo in generale” anche nel caso delle “storie delle nazioni”[57]. Ognuna di quelle che Vico chiama “sette dei tempi” ha un suo ben preciso carattere che caratterizza l’intera struttura sociale[58]. Anche nel caso di conflitti fra diverse temporalità all’interno del gruppo si tratta sempre di scontro fra “temporalità generali”, che implicano la possibilità di un diverso assetto complessivo della società. Più importante ancora da notare è che Vico si pone in maniera chiara ed esplicita il problema della singolarità della Storia, espressa dall’idea stessa di storia ideale eterna e dal cuore del progetto di studio della “comune natura” delle nazioni. Il tema del tempo storico e della funzione della storia ideale eterna pone direttamente il problema di quale forma possa esso assumere, avendo escluso quella lineare moderna. Inoltre, a dispetto della celebrità dei cosiddetti “corsi e ricorsi” storici, Vico è ben distante anche dalle concezioni cicliche della storia. Il ricorso, che certo è una figura chiave della storia vichiana, non ha nulla a che fare né con la riproposizione di eventi né con una successione regolare di forme di relazioni sociali, politiche o di governo. Il ricorso è un momento di crisi nella relazione fra gli elementi della storia ideale eterna e la prassi politica, cioè un momento in cui la forma empirica che la storia ideale eterna assume non è adeguata alla regolamentazione delle relazioni sociali e politiche in atto. L’esito di questo momento di crisi più che essere un ritorno di forme politiche del passato è la riattivazione delle facoltà creative che permettono di svolgere in modo nuovo gli elementi della storia ideale eterna con il cambiare delle relazioni materiali.

La grande intuizione vichiana è di aver colto la possibilità di sempre nuovi rapporti fra la singolarità, data dalla struttura metanormativa che costituisce la “comune natura delle nazioni”, e la pluralità degli esiti empirici. La storia ideal eterna vichiana, quindi, non è ciò che assicura l’omogeneità del tempo, ma ciò che rende possibile la sua eterogeneità e pluralità, proprio in virtù del suo essere staccata dallo scorrere del tempo, del suo essere eterna e quindi senza tempo ma anche senza un definito contenuto empirico. È in questa prospettiva ci dobbiamo spiegare l’idea della storia ideale eterna come insieme delle cose quali “dovettero, debbono, dovranno” svolgersi[59]. Essa indica non l’esaurirsi della storia in un percorso deterministico necessario semmai “la pretesa di esaurire tutti i casi eventuali”[60].

La storia ideale eterna si presenta dunque, paradossalmente, come ciò che permette a Vico di pluralizzare radicalmente la storia, al punto da storicizzare la natura umana stessa, considerata non come l’insieme delle caratteristiche immutabili caratteristiche dell’individuo, ma coincidente con le infinite modalità pratiche di sviluppo della socialità. Tuttavia la pluralità vichiana non implica mai il disordine, né il caos, né l’impossibilità di uno studio scientifico della fondazione della politica. Al contrario il significato della riflessione vichiana sulla storia e sulla comune natura delle nazioni è da ricercare nel tentativo di ripensare l’ordine escludendo una chiusura formalistica della forma politica, e rimettendo in discussione la possibilità di un ripensamento radicale dei fondamenti dell’ordine sociale.

Il pensiero vichiano, anche in quella versione epigrafica che è l’enunciazione dei quattro principi fondamentali, si pone con forza il problema filosofico dell’esserci della comunità. Gli elementi della storia di Vico, infatti, presuppongono non una soluzione formalistico-contrattualistica al problema dello stare insieme, ma una riflessione che in senso lato potremmo definire metafisica. Sono qui misurabili facilmente le coordinate di Vico rispetto alla modernità. Con il pensiero moderno Vico condivide l’obiettivo della comprensione scientifica dei fondamenti dell’ordine sociale ma proprio su questo problema la riflessione vichiana si pone in una posizione differente. L’ordine è da un lato da Vico storicizzato, nella misura in cui il problema dell’ordine politico si pone solo nella concretezza storica dei rapporti materiali in atto, ma dall’altro è posto in un ordine ideale ed eterno e fondato antropologicamente e non da un’astratta riflessione sulla ragione umana. Questo punto deve essere compreso attraverso la lettura del rapporto fra l’ordine e il conflitto. Il conflitto non è mediato razionalmente attraverso la spoliticizzazione e la sua espulsione dall’ordine politico. Esso è mediato da quattro funzioni, religione, matrimonio, sepolture, legge agraria, che regolano il potere ma lo trascendono. Ciò non implica né l’antimodernità di Vico né una storia fondata sulla metafisica, almeno non sulla metafisica tradizionalmente intesa. Significa che il legame politico non è mai né questione di mera potenza, né è separabile da una riflessione che trascende l’ordine delle cose presenti. E fra le cose “non presenti” fondamentali per la concezione della storia vichiana il futuro è la più importante, perché costituisce insieme il campo creato e regolato dalla storia ideale eterna, e la posta in palio della lotta politica. Se è vero che gli elementi della storia eterna sono sempre legati alla materialità del conflitto sociale ciò implica in maniera altrettanto forte una domanda sulla giustezza dell’ordine delle relazioni creato. In altri termini, il conflitto è proprio ciò che tiene aperta la domanda, prendendosi completamente carico del problema filosofico politico del futuro che è stato individuato in precedenza come momento critico del moderno e della concezione della storia ad essa legata.


[1]

G. Vico, Principi di Scienza Nuova in Giambattista Vico: Opere a cura di A. Battistini, Milano, Mondadori, 1990, (ed or. 1744) par 7, (di seguito Sn44). L’espressione ritorna, con leggerissime e non sostanziali variazioni nei parr. 114, 145, 245, 343, 393.

 

[2]

In questa direzione vanno E. Mc Mullin, Vico’s Theory of Science in  G. Tagliacozzo, et al., Vico and Contemporary thought, London Basingstoke: MacMillan, 1980, p. 62-63. F. Feldmann, La teleologia storica in Kant e Vico, in Bollettino del centro di studi vichiani, (1981), n. XI p. 104. Anche Karl Lowith, nel capitolo dedicato a Vico nel suo Significato e fine della storia sostiene la preminenza dell’aspetto necessitante nel pensiero di Vico, seppur riconoscendo a Vico una costitutiva ambiguità fra libertà e necessità. K. Löwith, Weltgeschichte und Heilgeschehen. Zur Kritik der Geschichtsphilosophie, in Sämtliche Schriften, Stuttgart, J.B. Metzlersche Verlagsbuchhandlung, Band 2, 1983, pp. 136-138, trad. it. di F. Tedeschi Negri, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Milano, Il Saggiatore, 19893 (Edizioni di Comunità, 1963),  pp. 147-149. Sul tema della “legalità” della storia vedi M. Vanzulli, Caso e necessità della nuova scienza vichiana, in Quaderni materialisti vol. I marzo 2002.

 

[3]

E. Mc Mullin, Vico’s Theory of Science in G. Tagliacozzo, et al., Vico and Contemporary thought, London Basingstoke: MacMillan, 1980, p. 62-63. F. Feldmann, La teleologia storica in Kant e Vico, in Bollettino del centro di studi vichiani, (1981), n. XI p. 104.

 

[4]

       Sn44, par. 158. Le degnità sono gli “assiomi” che Vico elenca per la costruzione della sua scienza.

 

[5]

       Sn44, par. 29.

 

[6]

       Sn44, par. 1087.

 

[7]

R. Nisbet, Vico and the Idea of Progress, in Vico and contemporary thought cit. p. 244.

 

[8]

R. Caporali, La tenerezza e la barbarie, Napoli: Liguori, 2006, p. 46 corsivo nel testo. Nella stessa direzione di una storia ideale eterna come costrutto metodologico vedi anche M. Vanzulli, Caso e necessità, cit.

 

[9]

Non è superfluo ricordare che per Vico “l’ordine delle idee dee procedere secondo l’ordine delle cose”. Sn44, par. 238.

 

[10]

G. Vico, De nostri temporis studiorum ratione, in Giambattista Vico: Opere, a cura di A. Battistini, Milano, Mondadori, 1990, pp.133-135.

 

[11]

G. Vico, Principi di una scienza nuova, in Giambattista Vico: Opere, cit., (di seguito Sn25) par. 90. corsivo aggiunto.

 

[12]

Non bisogna esagerare l’importanza di questo scarto, perché in altre ricorrenze nella stessa edizione del 1725 l’espressione è già al plurale, come sarà nell’ultima edizione. Tuttavia, l’oscillazione presente nella prima edizione non è casuale e indica un cambiamento sia di “atmosfera” sia di contenuto speculativo. La prima è, infatti, più lineare nell’esposizione e insiste in maniera rilevante sull’universalità e sulla necessità della storia. Alcune utili indicazioni per un confronto sono nelle note di A. Battistini in Giambattista Vico: Opere, cit., particolarmente pp. 1756-1757. Sulla maggiore linearità della Sn25 è utile la considerazione di Mooney, che vede il linguaggio di Vico sempre meno astratto e sempre più concreto dalle prime opere alla Sn44 M. Mooney, Vico in the tradition of rhetoric, Princeton: Princeton University Press, 1985, pp. 322-323.

 

[13]

           Non è certamente un caso che nel passaggio dalla Scienza Nuova del 1725 a quella del 1744 scompaiano altre due immagini centrali. Nella prima il rapporto della provvidenza con l’uomo è quello dell’architetto con il fabbro. Sn25 parr. 45-47. La seconda è quella del “giusto” inteso come sviluppo dei “semi eterni di vero” nell’animo umano, secondo un percorso che segue in “dispiegarsi delle idea”. Sn25, parr. 49, 51.

 

[14]

Usiamo l’espressione “singolare collettivo” nel senso in cui lo impiega Reinhart Koselleck, ossia in cui la pluralità degli eventi storici non viene più disposta parallelamente, creando una moltitudine di “storie di”, convergono per formare  una “Storia in generale” che non è riducibile alla somma delle parti ma fa riferimento un tempo astratto tipico dell’umanità. R. Koselleck, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1979; tr. it. Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Genova: Marietti, 1986 p. 4.

 

[15]

      Ivi, par. 90.

 

[16]

           Sn44, par. 332.

 

[17]

      Ivi, parr. 332-333.

 

[18]

      Ivi, par. 630.

 

[19]

      Ivi, par. 333

 

[20]

      Ivi, par. 334

 

[21]

      Ivi, par. 385

 

[22]

      Ivi, par. 9.

 

[23]

           Mi permetto qui di rinviare a M. Scalercio, La figura della divinazione nella Scienza Nuova. Una teologia politica vichiana, in R. Vanzulli (a cura di), Razionalità e modernità in Vico, Milano: Mimesis, 2012.

 

[24]

           Sn44, par. 381.

 

[25]

Vedi anche G. Vico, De constantia iurisprudentis, in Opere giuridiche: il diritto universale; introduzione di N. Badaloni, a cura di P. Cristofolini, Firenze: Sansoni, 1974 (1721) p. 698. A questa necessità è collegata anche l’altra caratteristica fondamentale della religione, che è quella di incutere il timore della divinità. Sn44, par. 503.

 

[26]

Sn44, par. 505.

 

[27]

      Ivi, par. 688.

 

[28]

Sn44, par. 985.

 

[29]

      Sn44, par. 802.

 

[30]

Ivi, par. 630.

 

[31]

Ivi, parr. 12-13.

 

[32]

È interessante notare, sulla scorta di Amoroso, che il simbolo della sepoltura all’interno della “dipintura” che Vico pone all’inizio della scienza Nuova, sia un’urna cineraria, Sn44, par. 12. A Leonardo Amoroso tale scelta pare strana sia perché Vico non parla mai di cremazione ma solo di sepoltura, sia per il significato fondamentale che il verbo inhumare, letteralmente seppellire, riveste nella Scienza Nuova. Tale problema si supera se si considera non il gesto in sé di inumare, ma l’attenzione alla necessità di una elaborazione rituale della morte stessa. D’altronde di questo sembra avvedersi lo stesso Amoroso, quando parla dell’urna come simbolo, generico, della “cura dei morti”. L. Amoroso Lettura della scienza nuova di vico, Torino, UTET, 1998, p. 24.

 

[33]

      Sn44, par. 13.

 

[34]

      Ivi, par. 337.

 

[35]

Ivi, par. 258.

 

[36]

Ivi, par. 25.

 

[37]

Ivi, rispettivamente parr. 607 e 40.

 

[38]

           È il caso di sottolineare che il termine parentela va inteso, probabilmente, in un senso più ampio di quello puramente generico. Anche un antenato immaginario potrebbe essere adeguato alla svolgimento simbolico implicito nella storia ideale eterna.

 

[39]

           Osserva correttamente Caponigri che non si può far derivare queste strutture storiche da una natura umana antecedente storicamente o logicamente. R. Caponigri, op. cit. p. 117. In effetti, tutti gli elementi sono riconducibili a eventi storici, per quanto simbolicamente interpretati.

 

[40]

Questa lettura della storia ideale eterna è prossima a quella proposta dall’antropologo Peter Winch che nel suo saggio Understanding a primitive society afferma che nella concezione della vita umana sono coinvolte alcune “nozioni limite” che determinano uno spazio etico all’interno del quale devono essere esercitate le possibilità del bene e del male nella società. Winch cita esplicitamente Vico e i principi di cui abbiamo discorso come possibili “nozioni limite”. Le nozioni limite che Winch ritiene di poter individuare sono “nascita, morte, relazioni sessuali”. Senz’altro da accogliere è il suggerimento che sia necessario individuare in religione, matrimonio, sepolture, e legge agraria elementi primari. Tuttavia è necessario adottare un approccio più relazionale rispetto a quello di Winch. P. Winch, Comprendere una società primitiva in F. Dei-A. Simonicca (a cura di) Ragione e forme di vita: razionalità e forme di vita in antropologia, Milano: F. Angeli, 1990, pp. 155-156.

 

[41]

      Sn44, par. 144

 

[42]

Ivi, par. 145.

 

[43]

Sn44, par. 161. Vico torna a ribadire il concetto anche in seguito: “Perciò da noi in quest’opera la prima volta stampata si è meditata un’idea d’un dizionario mentale da dare le significazioni a tutte le lingue articolate diverse, riducendole tutte a certe unità d’idee in sostanza, che, con varie modificazioni guardate da’ popoli,  hanno  da  quelli  avuto  vari  diversi  vocaboli, ivi, par. 445.

 

[44]

           Ciò non toglie che ci siano altri “sensi comuni” a ogni livello di gruppo sociale (nazione, ordine e così via). Ivi, par. 142.

 

[45]

       Sn44, parr. 149-150. In altre parole si potrebbe dire che il cambiamento dello svolgimento effettivo provoca un “effetto” di falsità anche se si tratta di elementi strutturalmente veri.

 

[46]

Sn44, par. 7. Vedi anche la nota di A. Battistini. “Come per le norme del diritto naturale, anche i differenti linguaggi storici presuppongono delle costanti interiori, psicologiche e strutturali, comuni a tutti i popoli”. Giambattista Vico: Opere, cit., p. 499, nota 3. L’avvertenza da fare, naturalmente, è che quando Vico parla di “lingua” e di “parole” vuole indicare un ambito più largo del “linguaggio” in senso stretto, ma un ambito in cui viene inteso l’intero insieme della produzione culturale di un gruppo ossia l’ambito della filologia.

 

[47]

      Sn 44, par. 598.

 

[48]

Sn44, par. 19. Sulla non omogeneità temporale dei gruppi all’interno delle singole età vedi R. Mazzola Il metro dei Lesbi. Appunti sull’evoluzione delle civiltà secondo Vico in BCSV, (1986), vol. XVI, p. 305. Inoltre, bisogna tenere a mente la metafora vichiana, secondo cui tracce delle età precedenti sono presenti nella successiva “come gran corrente di real fiume ritiene per lungo tratto in mare e l’impressione del corso e la dolcezza dell’acque” Sn44 par. 629. I famoli sono portatori di un altro tempo, perché entrano nella società solo in un secondo tempo, portando con sé il segno della loro bestialità, espressa nelle modalità mitologiche con cui esprimono la loro identità, segnatamente nella bruttezza, bestiale, dei loro universali fantastici. “[Esopo] ci fu narrato brutto, perché la bellezza civile era stimata dal nascere da’ matrimoni solenni, che contraevano i soli eroi, com’anco appresso si mostrerà: appunto come fu egli brutto Tersite, che dev’essere carattere de’ plebei che servivano agli eroi nella guerra troiana, ed è da Ulisse battuto con lo scettro di Agamennone, come gli antichi plebei romani a spalle nude erano battuti da’ nobili con le verghe”, Sn44 par. 425. La bruttezza indica una temporalità diversa da quella della bellezza, perché in posizione diversa rispetto agli elementi della storia ideale eterna: da una parte matrimoni solenni, dall’altra semplici matrimoni naturali.

 

[49]

L’uso delle espressioni “filosofia della storia” e “storicismo” di due, almeno apparentemente, opposte concezione del rapporto fra filosofia e storia rimanda ad un uso particolarmente diffuso negli ambiti culturali di matrice tedesca. Pur parziale, tale distinzione è utile da un punto di vista euristico, data l’impossibilità di definire in maniera univoca le due espressioni. Con il termine storicismo indichiamo qui le concezioni per cui ciò che importa nello studio dell’evento storico è l’insistenza sulla loro unicità e sulla primaria attenzione al contesto storico come terreno privilegiato nell’attribuzione di senso. La filosofia della storia, al contrario, individua il significato degli eventi nel loro riferimento a tendenze storiche universali. P. Hamilton, Historicism, London-New York: Routledge, 1996, p. 2. Sul tema anche il classico G. Iggers The German conception of history. The national tradition of historical thought from Herder to the present. Middletown: Wesleyan University Press, 1968.

 

[50]

Alcune delle opere fondamentali per inquadrare questo dibattito sono B. Le Bovier de Fontenelle, Digression sur les Anciens et les Modern, 1688; C. I. Castel de Saint-Pierre, Observations sur le progrès de la raison universelle, 1737; A. R. J. Turgot, Plan de deux discours sur l’histoire universelle, 1751; per arrivare a Voltaire, La Philosophie de l’histoire, 1765, ripubblicata poi come Discours préliminaire a Essai sur les mœurs et l’esprit des nations, 1769. Per una discussione del tempo storico nella modernità sono indispensabili i testi di R. Koselleck, (ed.), Studien zum Beginn der modernen Welt, Stuttgart: Klett-Cotta, 1976 trad, it. Gli inizi dell’età moderna, Milano: vita e pensiero 1997 e R. Koselleck, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten, cit. Sullo sfondo di ogni trattazione della filosofia della storia sta lo sterminato dibattito sulla secolarizzazione. Per quanto riguarda il presente contesto, la domanda essenziale che la secolarizzazione pone è se la temporalità lineare moderna sia, e in che misura, di derivazione teologica ossia in qualche modo discendente dall’escatologia cristiana. Vedi C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, München-Leipzig, 1922; trad. it. Teologia politica in Le categorie del politico, Bologna: Il Mulino, 1988; C. Schmitt, Teologia politica 2: la leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, Milano: Giuffrè, 1992.  Vedi anche il punto di vista critico di H. Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit. Frankfurt am Mein: Suhrkamp, 1966 trad. it.  La legittimità dell’età moderna, Genova: Marietti, 1992.

 

[51]

C. Galli, Spazi politici, Bologna: Il mulino 2001, op. cit. pp. 27-32. Hannah Arendt aveva già attirato l’attenzione sui tre eventi, anche se al posto della rivoluzione copernicana troviamo l’invenzione del cannocchiale. H. Arendt, The Human Condition, Chicago: University of Chicago Press, 1958, trad. it. Vita Activa, Milano: Bompiani, 2008.

 

[52]

È impossibile riassumere in poche righe questi problemi, perciò rinviamo agli studi di Hans Blumenberg e di Reinhart Koselleck. Il primo collega strettamente il problema della soggettività umana all’idea del tempo non più assicurato provvidenzialisticamente, il secondo riflette sulla forma che il tempo storico assume nella modernità. H. Blumenberg, op. cit., R. Koselleck, Vergangene Zukunft, cit.

 

[53]

Fra i tanti, segnaliamo E. Said, Orientalism, Pantheon Books, New York 1978, 1995; trad. it. Orientalismo, Feltrinelli, Milano 199, 2007, de Certeau, M., L’Écriture de l’histoire, Gallimard: Paris, 1975; trad. it. La scrittura della storia, Milano: Jaka Books, 2006. V. Y. Mudimbe, The idea of Africa, Bloomington: Indiana university press, 1994. Utile anche R. Koselleck, C. Meier, Fortschritt in O. Brunner, O. Conze,R.  Koselleck, (eds), Geschichtliche Grundbegriffe: historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, trad. it. Progresso, Venezia: Marsilio, 1995.

 

[54]

È appena il caso di ribadire che il riferimento principale è R. Koselleck, Futuro passato, cit. Ma vedi anche le precedenti note nn. 50 e 52.

 

[55]

W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte (1940) in Gesammelte Schriften, Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1974-1989, trad. it. Sul concetto di Storia in Scritti, 1938-1940,  Torino: Einaudi, 2006.

 

[56]

Non è a caso che è stato usato il verbo inventare, che ha lo scopo di rendere conto della fondamentale importanza dell’immaginazione nella filosofia vichiana. In particolare è l’immaginazione che crea la molteplicità degli esiti empirici delle storie. È l’immaginazione che permette la creazione di mitologie politiche che permettono un’azione che non sia legata meramente al benessere materiale del singolo e che diventa quindi propriamente politica. A proposito dell’immaginazione vedi D. P. Verene, Vico’s Science of Imagination, Ithaca: Cornell University Press, 1981, tr. it. di F. Voltaggio, Lascienza della fantasia, Roma: Armando, 1984. Un altro testo rilevante è G. Cacciatore,  V. Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M. Sanna, (a cura di), Il sapere poetico e gli universali fantastici. La presenza di Vico nella riflessione filosofica contemporanea, Napoli, Guida, 2004.

 

[57]

Sul passaggio dalla miriade di storie particolari ad una “storia in generale” vedi R. Koselleck, Vergangene Zukunft, cit., p. 4.

 

[58]

Sn44, parr. 975 ss.

 

[59]

           È utile un brano, tratto dalle aggiunte manoscritte di Vico all’edizione del 1730 e databile tra il 1730 e il 1731: “Per tutto ciò, quel DOVETTE, DEVE, DOVRA’ è una maniera archetipa, e quasi creativa, la quale non si può avere che nell’Idea eterna di Dio; poiché tanto vagliono DOVETTE quanto fu fatto, tanto DEVE quanto si  fa; tanto DOVRA’, quanto farassi; Talchè così in un certo modo la Mente Umana con questa Scienza procede a produrre da sé questo Mondo di Nazioni. Sn30, p. 429. Questo brano non fu tenuto presente per l’edizione del 1744. Ci pare, però, che la sostanza del discorso vichiano sia sostanzialmente immutata.

 

[60]

N. Badaloni, Introduzione a Vico, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 75.

 

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