Mario Pezzella
TEOLOGIA DEL DENARO. IL DEBITO
1. In un frammento del 1921, Il capitalismo come religione[1], Walter Benjamin ha messo in rilievo in che misura il debito sia diventato l’oggetto di culto di una vera e propria teologia del danaro, che ha sostituito in larga misura la “teologia politica”. Benjamin radicalizza le idee di Weber sul rapporto tra modo di produzione capitalista e cristianesimo. Se per Weber il capitale nella sua forma moderna è stimolato dalla concezione calvinista della grazia e del peccato e poi procede alla sua secolarizzazione profana, per Benjamin è esso stesso religione: priva di dogmi, ma con un suo culto ineluttabile e continuo e un “dio minore” che ne perpetua il destino. “Il capitalismo -scrive Benjamin- è la celebrazione di un culto sans trêve et sans merci. Non esistono “giorni feriali” non c’è alcun giorno che non sia festivo, nel senso terribile del dispiegamento di tutta la pompa sacrale, dell’estrema tensione che abita l’adoratore”[2]. Oggetto di questo rito è la merce, emanazione visibile della astrazione sovrasensibile e spirituale del danaro.
“Questo culto è colpevolizzante-indebitante”. Se il debito è il rapporto sociale che domina e sostituisce ogni altra forma di riconoscimento intersoggettivo tra gli uomini, esso stabilisce immediatamente anche un nesso di colpevolezza. Questa relazione è sottolineata dal termine tedesco Schuld, che significa allo stesso tempo debito e colpa, ed esprime con precisione la morale calvinista del lavoro: chi ha denaro, ed è dunque considerato solvibile, porta in tal modo un segno della Grazia ricevuta, mentre chi resta schiacciato dall’insolvenza e dal fallimento economico mostra di non poter superare lo stato di peccato. “Solvibilità” e redenzione da una parte; debito e colpevolezza dall’altra.
Tuttavia –a lungo termine- nessuno può evitare interamente di entrare nella parte del debitore inadempiente: quanto più procedono i processi di accumulazione e concentrazione del capitale, sempre più vaste masse vengono a trovarsi nella condizione di non poter restituire il danaro ricevuto a credito e gli individui cadono nella percezione reciproca della propria colpa. Durante una crisi economica (negli anni Venti ma anche in quella che ora viviamo) il debito sovrasta come destino a cui è impossibile sfuggire, vero stato di dannazione. Lo stesso imprenditore capitalista deve ricorrere inevitabilmente al prestito bancario, per poi poter riavviare il ciclo economico del suo capitale.
Il frammento di Benjamin illumina una soglia di rottura, liminare e utopica allo stesso tempo, in cui il succedersi delle crisi è così generalizzato e inevitabile che nessuno può interamente sottrarsi all’incombere della Schuld: giunti a questa linea nodale, il dio astratto del capitale domina col suo movimento impersonale ogni vivente, denunciando la sua debitorietà, la sua irredimibilità. L’uomo è allora dominato dalla Cura (Sorge), per il proprio essere insolvente, dal senso della sua mancanza e insufficienza, dall’impossibilità di trovare una “via d’uscita”; questa situazione non è però solo materiale ma diventa il suo abito sociale permanente, la Cura diviene angoscia come condizione eminentemente dotata di uno spirito oggettivo, benché malato: “Le ‘Cure’ nascono nell’angoscia per l’assenza di vie d’uscita che pertiene alla comunità, e non è individuale-materiale”(49).
Questo stadio utopico-distruttivo o terminale del capitalismo, è dominato da una ambiguità paradossale, perché comporta la colpevolizzazione-indebitamento di dio stesso e “il raggiungimento di una condizione di disperazione cosmica in cui proprio ancora si spera…L’estensione della disperazione a condizione religiosa cosmica dalla quale ci si attende la salvezza”(43). Di quale Dio stiamo parlando? Di un Dio che è divenuto interamente immanente al destino dell’uomo, che non ha più alcuna calvinistica trascendenza, ma si afferma nel centro stesso della storia.
Questa paradossale coincidenza di speranza e disperazione può intendersi in vari modi. Benjamin inizia con l’identificarne tre, in cui tuttavia non si riconosce e che considera significative ma inadeguate soluzioni: quelle offerte da Nietzsche, Marx e Freud, i quali non sono affatto –nella sua visione- “maestri del sospetto”, ma cercano invece di forgiare una soggettività superiore adeguata all’estremo corso del capitale. Essi non vogliono neppure sospenderne l’evoluzione destinale e catastrofica, ma si aspettano che proprio da questo estremo incremento distruttivo si apra la prospettiva del rivolgimento, l’affermazione e la forgia di un soggetto alla sua altezza. Il salto apocalittico del superuomo non costituisce un “rivolgimento-conversione” (Umkehr) del destino del capitale, ma un “potenziamento” (Steigerung) in apparenza continuo, ma che alla fine esplode in discontinuità”(45).
L’intensificazione estrema della colpa-debito, del movimento e dello sviluppo stesso del capitale, dovrebbe produrre la sua crisi terminale, da cui emergerebbe l’Uomo-Dio: non un uomo diverso, che abbia estinto le sue cure, ma anzi un soggetto eroico, che ha assunto positivamente e affermativamente il proprio destino tragico, sostiene con decisione la sua colpa. E’ il Superuomo di Nietzsche, ma forse ancor più di Dostoevskij, un Raskolnikov che accetta perfino il delitto come vocazione superiore: “Il superuomo… inizia coscientemente a realizzare la religione capitalista”. Non la liberazione-redenzione dal destino, ma l’intensificazione-accettazione dello stesso, e dunque l’affermazione del capitale come Essere assoluto. La religione demoniaca del capitale giunge all’autocoscienza dello Spirito, e –come nel Faust di Goethe- le basse arti di Mefistofele si trasfigurano nella volontà imperialista del Mago-Eroe. Secondo Benjamin, questa discontinuità superomistica è un’apparenza o una fantasmagoria e un’immagine di sogno[3], mentre in realtà la struttura dell’indebitamento resta inalterata. Nietzsche propone una soggettività che sembra superare la logica borghese-capitalista, ma in effetti si limita a una immedesimazione col suo spirito profondo.
Ciò vale anche per Marx, per quella parte della sua opera in cui il superamento del capitalismo sembra dipendere dall’incremento del suo stesso sviluppo e dalla contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione (come se l’indebitamento generalizzato dovesse produrre –a interesse- il socialismo; un simile spirito riproduce spontaneamente una situazione debitoria tra l’elite capace di interpretare il mutamento e le masse che lo subiscono passivamente); e vale anche per Freud, riguardo a cui però il passo di Benjamin è davvero criptico e ci consente solo un’ipotesi vaga sul suo significato. Come afferma C. Salzani, “…soprattutto in Totem e tabù…e più precisamente nel mito dell’orda primigenia…Freud pone all’origine, non solo della religione, ma dell’organizzazione sociale tout court, la colpa originaria (Urschuld) per l’uccisione del padre. Questo è ‘il grande avvenimento da cui è iniziata la civilizzazione e che da allora non ha cessato di tormentare l’umanità’. Questa struttura è in fondo, per Freud, un modo più o meno razionale di gestire lo Schuldgefühl, che è e rimane ineliminabile”[4].
Il superuomo (Nietzsche), l’Uomo Nuovo (Marx), L’Io adulto (Freud), più che superare la logica debitoria, la sublimano in una assunzione immedesimante, che -nella terminologia del Passagenwerk– può essere definita come identificazione e interiorizzazione dell’essenza del credito. Volontà di potenza disperata, determinismo delle forze produttive, ribellione nevrotica degli impulsi inconsci, confermano –invece che sospendere- la percezione del mio essere in debito e in colpa. Anche se nel frammento Benjamin non lo dice espressamente, riconoscere in quelle tre forme soggettive il Dio nascosto, o finale, o in maturazione, della religione capitalista, significa in realtà trasfigurarlo in apparenza e fantasmagoria: perché il vero Dio di questo contesto resta il danaro e la sua logica creditizia-debitoria, che non viene scalfita. All’ambito “sacerdotale” del culto capitalista appartengono dunque in qualche modo anche Nietzsche, Marx, Freud. Tuttavia Benjamin pensa a partire dallo stesso limite tragico in cui si colloca il loro pensiero, nell’epoca del compimento del capitalismo, benché la sua risposta si voglia più radicale. Fra una teologia dis-torta e il suo “aggiustamento” messianico, come abbiamo visto a proposito del saggio su Kafka, esiste uno scarto minimo e insieme essenziale.
Nota. Il nesso debito-colpa-capitalismo-religione nei termini benjaminiani trova un interessante parallelo in due testi di Mallarmé. Il primo –Oro–[5] rielabora un articolo scritto in occasione del disastroso affare di Panama (uno dei più grandi scandali finanziari del secondo Ottocento): “Che vanissima divinità universale senz’esteriorità né pompe!…una Banca si abbatte e tutto è vago, mediocre, grigio. Il numerario, congegno di terribile precisione, perde persino un senso. Quando nei fantasmagorici tramonti, crollano solitarie nubi, ed una liquefazione di tesori rutila serpeggia, all’orizzonte, allora ho la nozione di quel che possono essere le somme, a centinaia o più, il cui enunciato ci lascia, durante la requisitoria di un processo finanziario, quanto alle loro esistenze, increduli”. Nella fantasmagoria dissolvente della crisi, i segni del danaro non significano più nulla, come i sogni umani, che in essi si erano immedesimati; le cifre che pretendevano alla precisione del dare e dell’avere, del “giusto” ma irragiungibile equilibrio del debito e del credito, si annullano (“liquefazione”!), si spostano “nell’improbabile, aggiungono zeri che tali restano”: significando che il “totale equivale, spiritualmente, a nulla, o quasi”. La conclusione di Mallarmé identifica il Dio che si è ritratto nelle tenebre, accennando una critica del capitale finanziario e un elogio del capitale produttivo: “La mancanza di meraviglia, anzi di interesse [intérêt, che è anche l’interesse da capitale, qui venuto meno] dimostra che non si ha da eleggere un Dio per confinarlo nell’ombra di cofani ferrati e di tasche”.
Nel secondo scritto, Magia[6], Mallarmé rinvia alla tradizione alchemica e alla fabbricazione dell’oro, che è insieme il metallo prezioso, il sostegno materiale della valuta, ma anche l’essenza spirituale ottenuta dalla trasmutazione liquefacente della materia. La sua essenza è spirito assoluto e nello stesso tempo assolutamente immanente e materiale: “La pietra nulla, sognatrice dell’oro, detta filosofale: ma essa annuncia, nella finanza, il futuro credito, che precede il capitale o lo riduce all’umiltà di moneta”. In realtà, lo spirito in questione è profondamente fantasmagorico e –come il credito- sembra creare ricchezza dal non-essere; “sognatrice” è la pietra nulla, o –come dicono Shakespeare e più di recente un celebre detective- essa è composta della stessa materia di cui son fatti i sogni.
Di fronte a questi fantasmagorici e alchemici misteri, Mallarmé osserva, non troppo diversamente da Marx: “Alla ricerca mentale non esistono aperte che due vie, e basta, in cui si biforca il nostro bisogno, vale a dire l’estetica da una parte, e l’economia politica dall’altra…”.
2. Pare che Benjamin, nel momento in cui scrive il frammento, avesse letto poco di Marx: eppure i passi marxiani che si riferiscono a una vera e propria “religione del capitale” sono numerosi. Una considerazione storica generale si trova nel I libro del Capitale: “Per una società di produttori di merci”, che giunge alla concezione del lavoro umano eguale e qualitativamente indifferente, “il cristianesimo con il suo culto dell’uomo astratto, e soprattutto nel suo svolgimento borghese, nel protestantesimo, deismo, ecc., è la forma di religione che più gli corrisponde”[7].
A questa anticipazione del pensiero di Weber seguono in capitoli successivi considerazioni sul debito e sul credito, assai vicine a quelle di Benjamin. A un certo grado di sviluppo della circolazione delle merci, il rapporto tra venditore e compratore muta carattere e una sottile disuguaglianza si instaura all’interno dello scambio: “Il venditore diviene creditore, l’acquirente diviene debitore”[8]. Questa discrasia poco appariscente si allarga però in una crepa minacciosa e costituisce ancor oggi un elemento drammatico delle crisi monetarie: “L’opposizione tra la merce e la sua figura di valore, il denaro, è spinta durante la crisi fino alla contraddizione assoluta”[9].
La contraddizione assoluta, già per Hegel, è quella che non consente né sintesi, né conciliazione, se si permane sul terreno dei due opposti in conflitto: essi collassano entrambi, esigendo un salto qualitativo, che sposta il punto di vista essenziale della coscienza (Hegel) o il principio costitutivo del modo di produzione (Marx). Gli opposti vanno entrambi a fondo, dissolvendo l’orizzonte epistemico di un’epoca e determinando il suo dissesto. La contraddizione è assoluta anche perché avviene tra due estremi che di per sé esigono una prossimità indissolubile, una consonanza nella dissonanza, e solo compenetrandosi sopravvivono: finchè il conflitto non ne impedisce comunque la compatibilità. Così si compongono e infine si distruggono, in Hegel, la legge divina che protegge i defunti, difesa da Antigone, e quella della Polis, imposta da Creonte; così si sostentano l’un con l’altro la merce e il denaro, in Marx, che però nelle crisi divorziano litigando l’una dall’altro: sicchè il denaro si svirilizza in un’animula priva di corpo e la merce marcisce, degradando rapidamente dall’organico all’inorganico, da lucente fantasmagoria a rifiuto tossico maleodorante.
Il denaro –anche per Marx- sembra richiedere un vero e proprio “culto” permanente e continuo[10], tanto che nel cap. 27 del primo libro del Capitale si configura un rapporto strutturale di ordini simbolici, fra la trinità cristiana e quella del capitale. Non è una formulazione ironica e tanto meno una battuta blasfema. Categorie teologiche –dis-tolte dal loro contesto originario ma non distrutte e cancellate dalla secolarizzazione- si sfigurano in fasi del movimento del capitale: così che la fede nel suo sviluppo e la sua creazione di ricchezza hanno buon gioco a occupare le primitive caselle simboliche della Grazia e della Redenzione, sostituendole nell’animo dei credenti, ma conservandone intatto il potenziale affettivo, emozionale, psichico.
Così il danaro è simile e insieme dissimile dall’immagine del dio cristiano: non è trascendente e pure è soprasensibile nel pieno e nel mezzo dell’immanenza. E’ forse questo paradosso a suggerire a Marx il paragone con l’alchimia, intesa come il rovesciamento simmetrico, ma non come la cancellazione dello spirito cristiano: “Tutto si può vendere o acquistare. La circolazione diviene la grande storta sociale dove tutto affluisce per uscirne di nuovo come cristallo di danaro. Nulla resiste a questa alchimia, neppure le ossa dei santi…”[11]. In effetti il capitale si appropria del patrimonio culturale di tutto il passato dell’umanità, reinterpretando dis-torcendo a sua giustificazione ogni simbolo e significato. L’ironia di Marx è una negazione della negazione, un détournement correttivo dello scherno effettivamente deformante che il capitale rivolge al passato: “La società moderna che appena nata tira giù pei capelli Plutone e lo trae fuori dalle viscere della terra, saluta nell’aureo Graal la meravigliosa personificazione del suo più alto principio vitale”[12].
Il capitale, pur affinandosi rarefatto nell’astrazione sovrasensibile del denaro e del credito, è dunque capace di un’immensa potenza di fascinazione, che giustifica la servitù volontaria a cui spinge i suoi sudditi. L’effetto fantasmagorico delle merci nel mercato e nel processo di circolazione è più rilucente ed esibito: ma lo stesso feticismo delle merci –per quanto decisivo- è per Marx una fantasmagoria di secondo grado, rispetto a quella che trasfigura la potenza del movimento del capitale in sé e per sé, il suo processo di produzione e l’apparenza della sua autogenerazione. L’identificazione e l’immedesimazione col danaro in sé, da parte degli adepti virtuosi del capitale, sono perfino più straripanti di quelle sollecitate dalle immagini della moda. Invece di rappresentare rapporti di merce –scrive Marx- il valore “si distingue, in quanto valore originario, da se stesso in quanto plusvalore, così come Dio Padre si distingue da se stesso come Dio Figlio, e ambedue sono coetanei e sono in effetti una sola persona, giacché le centodieci L.st. anticipate divengono capitale solo per mezzo del plusvalore di dieci L. st., e una volta divenute capitale, una volta generato il figlio e tramite esso il padre, la loro distinzione sparisce di nuovo ed entrambi sono uno, centodieci L.st.”[13]. Debito pubblico, saccheggio coloniale e pirateria, espropriazione dei beni comuni, sono la trinità demoniaca che permette l’accumulazione originaria del capitale, in una reciprocità persistente di indebitamento e di colpa.
Solo l’archetipo religioso, e la millenaria familiarità con esso, in cui l’economico precipita come in una forma cava, può rendere comprensibile l’altrimenti enigmatica sottomissione volontaria a ciò che è Spirito supremamente astratto: il danaro come segno e mezzo di misura dell’automovimento del capitale. Solo questo dio e la sua promessa di riportare il regno dei cieli in terra può permettere che il lavoro, la prassi sensibile-creativa dell’uomo, si dis-torca in fenomeno ed effetto derivato di una potenza sovrasensibile (il valore di scambio).
Una prospettiva simile –a testimoniare della sostanziale continuità del pensiero di Marx su questo punto- si trova nei manoscritti giovanili su J. Mill, dove compaiono in una prima formulazione alcuni temi poi sviluppati nelle opere mature, come l’essenza mediatrice del danaro e l’affinità tra la struttura trinitaria cristiana e quella del movimento del capitale[14]. Ma è soprattuto decisivo in questo scritto la connessione ineludibile stabilita fra debito economico e colpa morale, in una direzione sostanzialmente simile a quella di Benjamin e che aiuta a decifrarne i motivi: “Il credito è il giudizio economico sulla moralità di un uomo”. Il debitore ha fiducia nel suo debitore, se gli ha prestato denaro; ma già in questa relazione apparentemente innocua si occulta una forma distorta di riconoscimento. Su cosa si basa questa fiducia? Sul fatto che io lo ritenga onesto. E in cosa consiste l’onestà? Nella sua capacità di pagarmi: “Si pensi a tutta l’infamia che c’è nello stimare un uomo in danaro, come accade nel rapporto di credito…Non è già il denaro ad esser superato nell’uomo, nel rapporto di credito, ma è l’uomo stesso che viene mutato in denaro, ovvero è il denaro che si è incorporato in lui”; la mia intera esistenza, il mio corpo e la mia anima, sono divenuti fenomeni dello “spirito del denaro”[15].
In ultima analisi, l’instaurarsi del rapporto di credito distrugge la possibilità del riconoscimento paritario tra uomini ed è la sua diretta antitesi: l’esser riconosciuto viene distorto nell’esser solvibile e completamente sostituito da questo, in una dissimetria irrimediabile della parte creditrice e della parte debitrice; esse si pongono nella relazione del servo e del padrone di Hegel, trasposta da Marx nella sfera economica, ma sostanzialmente vigente nella sua struttura profonda. Ma cosa accade se –come abbiamo detto- il debito non può essere pagato mai, se questa condizione si generalizza indipendentemente dall’agire del singolo, entro una devastante crisi monetaria e finanziaria? Il non poter pagare il mio debito diviene allora immediatamente la mia colpa, la prova della mia scelleratezza o della mia incapacità. In una parola della mia dannazione. Così il senso economico e quello morale si fondono: “…Questa ipocrisia ed impostura reciproca viene spinta fino al paradosso che al semplice giudizio su chi è privo di credito, che cioè egli è povero, si aggiunge anche il giudizio scellerato che egli non è degno di fiducia né di riconoscimento e che, dunque, è un paria della società, è un uomo corrotto”[16]. Ma in questa degradazione, in questa discesa agli inferi, c’è ancora qualcosa di peggio e cioè il fatto che realmente il povero insolvente diviene ignobile ed è costretto a comportarsi come tale, se vuol sopravvivere, realmente egli diventa il servo nel suo stato di massima abiezione, cosalità indifferente: “…Egli stesso deve fare di sé una falsa moneta, deve carpire con inganno il credito, deve mentire, ecc. e questo rapporto di credito…diventa oggetto di commercio, oggetto di inganno e abuso reciproco”[17]. La conclusione è drastica ed esprime quella stessa condizione senza speranza, che il debito-colpa generalizza ad ogni livello della vita, secondo Benjamin: “La sua vita appare come sacrificio della sua vita, la realizzazione della sua essenza come vanificazione della sua vita”; “il culto del denaro diventa fine a se stesso”.
Nota. Il II Faust di Goethe[18] è una quasi inesauribile riserva di allegorie e simulacri, che rinviano alla divinità del danaro, alla magia demonica del credito, alla Cura e all’imperialismo finanziario. Se il I Faust descrive lo Streben, lo spirito soggettivo del nascente eroe borghese capitalista (e ne smaschera anche il posticcio romanticismo), la seconda parte dell’opera si disinteressa ormai della psicologia dei personaggi e procede spedita a descrivere lo spirito oggettivo del capitale e le sue apparenze. Goethe intuisce che il personaggio, l’individuo, diviene secondario e superfluo di fronte al procedere della gigantesca macchina allegorico-fantasmagorica, dinanzi a cui non c’è più bisogno di alcuna interiorità.
Nell’atto primo del II Faust, una progressione di fantasmi porta alla rivelazione-svelamento del danaro come ultima divinità. L’Impero si trova in una situazione di crisi economica così grave da sembrare irreversibile e preludere alla sua disgregazione: “L’Impero, quant’è grande, sembra un incubo, dove/l’informe genera l’informe,/lecitamente l’illecito comanda/e di errore tutto un mondo si dispiega”(443).
L’indebitamento generale, che avviene nella forma dell’usura bancaria, è talmente diffuso da essere insostenibile perfino per la Corte e l’élite dominante: “E a me tocca pagare e far tutti contenti:/con me l’Ebreo non farà complimenti,/lui anticipa versamenti/che un anno consumano prima dell’altro”(447). E’ come se nell’indebitamento scatenato gli anni si accorciassero fino a contrarsi, consumandosi con una velocità inusuale e imprevedibile: ogni attimo è sovrastato e dominato dall’imminente scadenza, sempre uguale presente di ciò che è dovuto. Ogni passato confluisce nel debito dell’ora, ogni presente vincola il futuro al debito contratto. Costituzione debitoria del tempo!
Faust e Mefistofele, al servizio dell’Imperatore, dovrebbero porre rimedio alla violenza e al caos che incombono: la prima soluzione offerta è il passaggio dalla tesaurizzazione alla circolazione. Grazie alla magia di Mefistofele, si tratta di rimettere in movimento tutto l’oro e i tesori sepolti senza frutto sotto la terra, trasformarli da beni immobili inattivi in capitale circolante e investito. Il luogo dove si trova l’oro è del resto sotterraneo e ctonio, e per trovarlo occorre abbandonare le regioni della vita organica e legarsi alla morte: “Laggiù c’è il morto; c’è là il tesoro!”(457). In questa sorta di alchimia invertita e rovesciata, la potenza spirituale si demonizza e si concretizza nel metallo prezioso, si condensa in una materia, che gli dèi onorano e celebrano. Certo anch’essi non sono più quel che erano una volta e si sono ridotti a ornamentali allegorie della ricchezza, come quelle che poi compiranno la loro ultima epifania nella cartamoneta del secondo Ottocento: “Perfino il Sole è di oro perfetto./Mercurio, il messo, lo serve, pagato e protetto, Madama Venere vi ha incantati tutti quanti,/ la casta luna ha lune e grilli per la testa…”(455).
Qui sembra già dispiegarsi quella fantasmagoria antiquaria e arcaicizzante che si sovrapporrà come una prima forma di giustificazione pubblicitaria alle merci esposte, nei Passages studiati da Benjamin. In particolare l’elogio e l’apologia dell’oro si fonda sulla sua capacità di garantire l’assoluto trionfo del possibile, oltre ogni condizione fisica e materiale, materialità preziosa che garantisce una onnipotenza sovrasensibile: “Si può avere ogni altra cosa,/palazzi, parchi, piccoli seni, gote di rosa;/tutto il molto sapiente uomo vi trova/che fa quanto fra di noi nessuno può”(455).
Il possesso dell’oro, scavato nelle miniere e sottratto a chi lo possedeva in forma di tesoro, come bene immobile, è in effetti un momento importante dell’accumulazione originaria del capitale e della sua espansione coloniale dopo la scoperta delle Americhe. A preparare l’introduzione della moneta da parte dei due demonici compari, si dispiega fastoso e iridescente il mondo carnevalesco delle merci e della Moda. La festa nell’ Ampia sala è in, prima che qualsiasi altra cosa, una sfilata in cui si dichiara e si annuncia il trionfo della Moda, fin dal primo gruppo allegorico, quello delle Giardiniere, che celebra così la propria acconciatura o cappellino: “Sono ritagli colorati/messi in giusta simmetria:/ogni parte, in sé, è risibile/ma l’insieme piacerà…/perché in donna è la natura/molto prossima ad un’arte”(465).
L’Araldo è l’imbonitore che presiede all’esposizione: “Venditrici e merci meritano/che si faccia cerchio intorno…”(466), le corone e le ghirlande di fiori artificialmente prodotti parlano esse stesse, come se l’anima della merce acquisisse il dono della parola: “Inconsueti alla natura/è la moda che li crea”(467), frase che già sembra un motto esposto in una vetrina a rendere appetibile il cartellino del prezzo. Segue una lunghissima sfilata di merci e allegorie antichiste, che riassumono l’intero passato culturale, culminando in una sorta di Trionfo di Pluto, che è allo stesso tempo la versione grottesca e profana di un mistero dionisiaco.
Perché tutto questo funzioni occorre però l’ultimo atto di mefistofelica magia e cioè la creazione del danaro e del suo sistema creditizio: “Tutti i conti son saldati/le grinfie degli strozzini ammansite…udite dunque la fatidica carta/che ha tramutato ogni dolore in gioia”(532-533). E’ la nuova legge dell’Impero: “Fermare quei fogli è impossibile./Si sono dispersi in un lampo./Le banche stanno sempre aperte:/ là te lo onorano ogni biglietto/-certo, con uno sconto- in oro e argento”(537); “Ma spiriti degni di guardare in profondo confidano/illimitatamente in quel che è senza limiti”(539). Solo che a un certo punto la catena dell’indebitamento porta alla liquefazione della sua base aurea, all’eccesso del segno sul corrispettivo metallico, e a una crisi ancor più devastante di quella iniziale. La “magia” si conclude nella guerra e nella necessità dell’espansione coloniale a cui si dedica infine il Faust-imprenditore: ma il suo successo è devastato da quella stessa frenetica inquietudine e dal deprimente spleen, che caratterizzano la Cura, ricordata da Benjamin. Prima della fine appaiono a Faust le quattro donne grigie, le spettrali annunciatrici di una crisi irrimediabile: Mancanza, Insolvenza, Distretta, Cura, e infine la più cupa sorella, la Morte.
Nell’aria “densa di fantasmi”, domina la Cura: “Sotto parvenza mutevole/la mia potenza è feroce: “Quando ho qualcuno in mio potere/il mondo gli diventa inutile./Su lui cala buio eterno/sole non si alza né tramonta./Ha perfetti i sensi esterni/ma tenebre intime lo abitano/; e di tutti i tesori non sa /come prendere possesso./Fortuna e Sfortuna divengono/fantasie per lui, lo rode/nell’abbondanza l’inedia/e, sia delizia sia tormento,/qualunque cosa rimanda a domani,/sempre è in attesa del futuro/e mai gli riesce di concludere”(1008-1009). Questo è lo stato dell’indebitamento-colpevolizzazione universale di cui parla anche il frammento di Benjamin.
Immotivata e immeritata come la Grazia dei calvinisti appare la redenzione –nonostante tutto- dell’ ”eletto” Faust nel finale dell’opera. “Ogni cosa che passa/è solo una figura./Quello che è inattingibile/qui diviene evidenza”(1055). Siamo qui di fronte –nei termini di Benjamin- a una conversione e remissione del peccato (Umkehr) o a una “intensificazione”(Steigerung) quasi nietzscheana del superuomo Faust, che al vertice della colpa assume il suo destino tragico? Vera salvazione o ironico Puppenspiel? Più probabile che “l’immortalità cui i Beati Infanti accompagnano Faust sia una straziante mascherata, un’altra fra le molte della tragedia”(Fortini, p. XXIV) oppure la fantasmagorica trasfigurazione della religione del capitale, a cui Faust si è così radicalmente votato.
3. Le considerazioni su Nietzsche, in Capitalismo come religione, ricordano soprattutto la Genealogia della morale, dove è esplicitata la connessione debito-colpa: “…Già Nietzsche afferma che il ‘basilare concetto morale di colpa (Schuld) ha preso origine dal concetto molto materiale di debito (Schulden)’ e riconduce genealogicamente l’origine dei concetti morali di colpa, coscienza e dovere alla sfera del diritto delle obbligazioni”[19]. La critica dell’idea di incremento (Steigerung) da parte di Benjamin non esclude d’altronde il riconoscimento che “il potenziamento in apparenza continuo”, proposto da Nietzsche, “alla fine esplode in discontinuità”: questa accentuazione del salto, della cesura all’interno del tempo storico, è pur sempre un tratto di affinità con l’intezione di Benjamin, anche se adombra ancora una relazione di causa a effetto.
Un altro riferimento possibile è l’Anticristo, dove Nietzsche –più che semplicemente polemizzare con il cristianesimo- delinea il dualismo costitutivo e profondo che ne connota la storia. Non si può immaginare –secondo Nietzsche- contrasto più violento di quello tra il messaggio originario di Cristo e la sua interpretazione ad opera di Paolo. La teologia di Paolo è già un dis-toglimento, dis-torsione della Buona Novella, uno spostamento sensibile e decisivo del suo asse portante.
Si può così sintetizzare la differenza: se Cristo scioglie e sospende semplicemente e immediatamente la logica del debito-colpa, non “saldando i debiti” ma radicalmente annullando il concetto stesso di debito –Paolo, al contrario, la istituzionalizza in ambito morale e su di essa costruisce la sua immagine di redenzione come assoluzione (e cioè perdono per l’insolvente, anche se necessariamente insolvente). “In tutta quanta la psicologia del ‘Vangelo’ -commenta Nietzsche- manca la nozione di colpa e di castigo; come pure quella di ricompensa. Il ‘peccato’, qualsiasi rapporto di distanza tra Dio e l’uomo, è eliminato -precisamente questa è la ‘buona novella’ “[20]; prima che l’idea del sacrificio espiatorio trasformasse Cristo in vittima per la remissione dei peccati, “Gesù aveva abolito lo stesso concetto di colpa (Schuld), -egli ha negato ogni abisso tra Dio e uomo, ha vissuto l’unità del Dio fatto uomo come la sua ‘buona novella’…e non come privilegio!”[21]. E’ qui presa di mira la dottrina della predestinazione e della distinzione calvinista tra Eletti (detentori della Grazia) e peccatori-debitori costretti a riconoscere la propria miseria.
Nel passo immediatamente precedente, Nietzsche descrive invece la dis-torsione operata dal “dis-angelista”, dal “falsario” Paolo, che consiste precisamente nel fondare la dottrina cristiana sul concetto di colpa. Il termine Schuld compare più volte in pochissime righe: “Il sacrificio espiatorio (Schuldopfer) e proprio nella sua forma più ripugnante e barbarica, il sacrificio dell’innocente (Unschuldigen) per i peccati dei colpevoli (Schuldigen)”[22]. L’idea della resurrezione –imposta da Paolo- sostituisce quella della beatitudine, come pratica e condotta di vita, predicata da Cristo. L’impostura di Paolo è profonda e sottile: dopo aver riconosciuto che la Legge stessa produce il peccato, ed è anzi istituita non perché possa davvero essere adempiuta, ma perché l’uomo riconosca il proprio scacco di fronte ad essa e la colpevolezza originale che lo determina, la sua strategia non mira a sospenderne la vigenza nella beatitudine e nel distacco, ma nell’incrementarne a dismisura gli effetti.
Poiché la Legge non viene semplicemente sospesa, poiché il peccato continua a scaturire come un liquido infetto dalla trasgressione di essa, allora è necessario l’intervento della Grazia, che elegge i salvati. Apparentemente Paolo dà seguito all’intenzione di Cristo di sospendere la Legge e sostituirla con l’amore; ma in realtà egli la lascia agire, nel suo atto specifico di produrre la creatura colpevole, e la sua sospensione appare allora come una miracolosa remissione dall’alto del debito-colpa. La logica di tale debito-colpa rimane però intatta, laddove Cristo ne cancellava il principio alla radice.
Questa scissione caratterizza il divenire stesso del cristianesimo, ripresentandosi nei momenti cruciali della sua storia, come conflitto tra la religione dell’amore e quello della colpa. Il primo assolve e dissolve ogni debito, il secondo da un lato pretende che sia pagato, dall’altro –concedendo una grazia- lo condona (il che significa comunque riconoscerne il valore). Questa seconda forma di cristianesimo è propriamente quella su cui il capitalismo –nella formulazione di Benjamin- può innestarsi come parassita.
Quanto al riferimento di Benjamin a Freud –come già accennato- è talmente conciso, da rendere aleatoria qualsiasi interpretazione. Si può solo ricordare che nell’opera di Freud il danaro compare associato a una pulsione arcaica infantile di carattere anale, associato a tutto il sistema metaforico della merda; il suo installarsi a dio invisibile sollecita dunque uno strato psichico profondo, che seduce ad accoglierlo e a consegnarsi anche affettivamente nelle sue mani, vivendo la propria servitù volontaria come appagamento dis-torto del desiderio: “In realtà dovunque la forma arcaica del pensiero è stata ed è rimasta dominante –nelle civiltà antiche, nei miti, nelle favole, nelle superstizioni, nel pensiero inconscio, nel sogno e nella nevrosi –il denaro è stato posto in strettissimo rapporto con lo sterco”[23]. E’ partendo di qui che Ferenczi ha potuto parlare di una vera e propria “pulsione capitalista”: “Il carattere libidico e irrazionale del capitalismo, non riducibile a una mera finalità pratica, si tradisce altresì a partire da questo stadio…La pulsione capitalista contiene quindi…una componente egoista e una componente anale erotica”[24].
4. In tedesco il termine Schuld ha un terzo significato, quello di causa. Secondo W. Hamacher, in Capitalismo come religione esso dovrebbe essere tradotto con tre denotazioni simultanee: debito-colpa-causa. Con questa complessità esso appare in un frammento di Benjamin del 1918, dove viene indicato come categoria di esplicazione del divenire storico, in opposizione a Ursache, “causa”, quest’ultima, che rinvia a un fondamento necessario e deterministico: al contrario, Schuld si riferisce a una causazione morale o giuridica, nel senso in cui si dice che qualcuno è “causa”, è “responsabile” del suo atto (simile per questo aspetto al greco aition –fa notare Hamacher). Ma perché Schuld sarebbe “la più alta” categoria di esposizione della storia e in che modo avrebbe a che fare col debito e la colpa?
Probabilmente siamo di fronte a una prima configurazione di quel “tempo omogeneo e vuoto”, che sarà oggetto della critica di Benjamin, fino alle tesi sul concetto di storia: il suo apparente e ininterrotto divenire è in realtà la perpetuazione e la ripetizione di un continuo stato di mancanza, in cui è assente ogni vero segno di discontinuità e di novità sostanziale. Non ci sono brecce della libertà in questo tempo, che scorre all’insegna di un deficit e di una colpa sempre uguali. Dal punto di vista ontologico, “Schuld è di volta in volta fondamento di un’assenza, di una mancanza, di un deficit…Ogni situazione mondana è Schuld, nella misura in cui genera un’altra situazione deficitaria, e ad essa trasferisce la Schuld. Ogni situazione è dunque incompiuta, manchevole in senso morale o giuridico”[25].
Dal punto di vista generazionale la Schuld implica la trasmissione di una costellazione colpevole dai genitori agli eredi: così, nelle famiglie di Green o di Kafka –come nota Benjamin nei saggi dedicati a questi scrittori- fra padre e figlio esiste un nesso di colpevolezza reciproca, un passaggio patologico di mancanze, che si ripetono di generazione in generazione. Come la colpa destinale dei tragici greci, l’atto manchevole o colpevole trasferisce inalterata la sua potenza dall’uno all’altro, è causa dell’incompiutezza che colpisce l’epoca successiva e che essa trasmetterà a sua volta in eredità: la breccia della libertà dovrebbe spezzare questa catena genealogica, che ha trovato la sua espressione più recente nella concezione edipica di Freud, dovrebbe separarsi “da ogni elemento del mito, dalla colpa (Schuld) determinata genealogicamente, dalla trasmissione, dall’effetto e dalla sua causazione, dalla successione familiare e cronologica”[26]. La storia come sequela continua e colpevole di causa e conseguenza, altro non è che il destino mitico, la violenza perpetua e mimetica, di cui Bemjamin parla nel saggio Per la critica della violenza.
La breccia della libertà non si pone come ulteriore causazione di un ordine, di un diritto, di una istituzione, di una costellazione familiare, ma come interruzione e azione imprevedibile, nel senso proposto da H. Arendt: non fondazione di un nuovo ordine giuridico e penale, ma sostituzione della logica della Giustizia a quella del diritto. Si può ipotizzare che questo significhi la rottura col rapporto dissimmetrico servo-padrone, che persiste nella costellazione debitore-creditore, padre-figlio, sovranità-servitù volontaria: la storia come perpetua fondazione, Schuld, di catene di dipendenza asimmetrica, è interrotta dalla relazione di riconoscimento, in cui affermo l’alterità dell’altro, condivido l’essenza umana con l’altro, decido della nostra situazione comune con l’altro. Lo spazio del giudizio politico come luogo affidato al “senso comune”, alla persuasione reciproca, e alla decisione non predeterminata da una causa, da un debito, da una colpa, si oppone alla eterna ripetizione del giudizio mitico e alla sua uniformazione della storia.
Secondo Hamacher la concezione mitico-storica della Schuld, finisce per determinare anche l’immagine di Dio nel cristianesimo, per chiamarlo in causa, per renderlo affine al Dio immanente del capitalismo. Il Dio della predestinazione “deve seguire immutabilmente la Sua decisione, è sottoposto ad un meccanismo a Lui immanente, che lo pone con se stesso in un rapporto da fondamento a risultato e dunque in un rapporto di Schuld. La predestinazione è predestinazione attraverso dio, perché essa è innanzitutto predestinazione in dio”[27].
In questo senso si può forse spiegare l’apparentemente paradossale affermazione di Benjamin, per cui Dio stesso è trascinato e coinvolto nel contesto del debito e della colpevolezza. In questa sua obbligazione permanente verso la propria decisione, il Dio della predestinazione è privo di vera Grazia, dell’eccezione che potrebbe spezzare la decisione stessa, e si palesa simile al fato e al destino mitico. Non essendo altro che questa relazione con sé, circolarmente chiusa, “Dio è pura Schuld: nel senso di aition, causa, ratio e fundamentum, e nel senso di debitum e culpa”[28]. Su questa concezione del cristianesimo e del divino, il capitalismo può innestarsi come parassita, che tuttavia realizza una potenzialità distorta già presente nell’albero di cui si è impossessato.
Il capitale non si presenta solo come rapporto debitorio e neanche solo nella colpevolizzazione generalizzata; ma anche come causa e fondamento autogenerantesi di se stesso. Esso ha l’apparenza di un divenire, in cui ogni movimento è causa di un ulteriore incremento, e deforma la storia in una causazione predeterminata, da cui sono escluse le azioni e le brecce della libertà. L’incremento è reso necessario per evitare l’altrimenti minaccioso stato di mancanza e di deficit -e tra questi due poli non c’è né alternativa, ne discontinuità possibile: ad ogni generazione si perpetua la Cura, cioè il fantasma di una mancanza, a cui occorre supplire con una ulteriore causazione di capitale, che tuttavia riproduce potenziato lo spettro deficitario. In questa circolarità demonica si muove lo spirito inquieto del denaro. Ne consegue la “moderna dottrina che un popolo diviene tanto più ricco, quanto più s’empie di debiti. Il credito pubblico diviene il “credo” del capitale. E sorto l’indebitamento dello Stato, il peccato contro lo spirito santo, imperdonabile, cede il posto alla mancanza di fede verso il debito pubblico”[29].
5. La critica a Marx, presente in Capitalismo come religione, risulta in certa misura problematica, perché l’idea che un incremento esponenziale delle forze produttive del capitale possa portare ad una sua Umkher non è estranea allo stesso pensiero di Benjamin. Il frammento del 1921 doveva confluire in un libro, Il vero politico, nel quale un saggio su Scheerbart, oggi perduto, avrebbe probabilmente costituito la parte conclusiva. Proprio negli scritti conservati su questo autore compare l’idea che la tecnica capitalista, col suo carattere radicalmente distruttivo dell’esperienza tradizionale, apra lo spazio verso nuove forme di percezione e soggettività. Se il capitale porta nella disperazione assoluta, nella rovina dell’essere, “senza vie d’uscita”, ebbene proprio la tecnica da esso sviluppata conduce –almeno in potenza- al di là dei suoi limiti e prefigura un nuovo essere del collettivo. L’inumano diffuso dal capitale –e così contrapposto al superumano di Nietzsche– deve essere padroneggiato, non attenuato. Questo polo “tecnologico-distruttivo” del pensiero di Benjamin coesiste in modo contraddittorio con la sua riflessione sull’immagine e sulla memoria almento fino all’inizio degli anni Trenta, prima di trovare la sua formulazione più complessa e matura nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e nell’insieme del Passagenwerk.
Il primo saggio su Scheerbart è del 1919, precedendo così di poco il frammento, e contiene già la congiunzione tra la forza distruttiva e quella liberatrice della tecnica: “…L’oggettività e riottosità del processo tecnico è diventata il simbolo di un’idea reale…Gli intrecci dell’amore, i problemi della scienza e dell’arte, sì, la stessa prospettiva etica sono interamente esclusi, per poter sviluppare, tramite i fenomeni più puri e inequivocabili della tecnica l’immagine utopica di un mondo spirituale astrale”[30].
In Erfahrung und Armut, del 1933, la formulazione è più decisa. Benjamin scrive di una barbarie che si annuncia ridendo, che colpisce l’eredità culturale della borghesia, producendo un radicale impoverimento dell’esperienza: questa condizione –che in prima istanza si manifesta come ulteriore desolazione e dominio- contiene però i germi del superamento degli attuali rapporti di produzione. L’astrazione tecnica non è liberatoria per i suoi effetti progressivi e conciliativi del conflitto di classe, come credeva la socialdemocrazia, ma proprio per la sua inflessibile azione corrosiva, che apre le porte all’ “uomo politecnico” immaginato dalla rivoluzione sovietica. Un uomo che ha distrutto il principio di identità, caratteristico della tradizione europea almeno da Descartes in poi, e crea una inedita innervazione tra la sua singolarità e il collettivo.
In ambito artistico questa immagine della tecnica emerge in Ensor, Klee, Loos, i cubisti: “Una totale mancanza di illusioni nei confronti dell’epoca e ciò nonostante un pronunciarsi senza riserve per essa, questo è il loro carattere distintivo”[31]. Essi “rifuggono dall’immagine umana tradizionale, solenne, nobile, fregiata di tutte le offerte sacrificali del passato, per rivolgersi al nudo uomo del nostro tempo”[32]. Il tratto comune dell’arte “tecnica” è la disumanità, cioè proprio quella condizione di disperazione di cui parla il frammento e in cui tuttavia si spera nonostante tutto. In Klee compaiono angeli e bambini, ma scompare la figura umana, le case descritte da Scheerbart sono dominate dal materiale vetro, trasparenti e inadatte alla privatizzazione: in esse il marchio personale del proprietario svanisce e non è possibile lasciare tracce di sé. Che ciò avvenga proprio nella condizione disperata descritta dal frammento sulla religione del capitale non è dubbio: in effetti, “la crisi economica è alle porte, dietro di esse un’ombra, la guerra che avanza”. Il principio dell’indebitamento si è esteso perfino all’eredità culturale, depositata “al Monte di pietà a un centesimo del valore, per riceverne in anticipo la monetina dell’ ‘attuale’”[33].
Gli artisti distruttivi-costruttivi fanno buon uso della desolazione e dell’astrazione dilaganti: con un atteggiamento sostanzialmente diverso da quello che sarà prevalente nel Passagenwerk, qui il passato non va salvato o redento dalla sua incompiutezza, estraendo da esso i possibili dimenticati, ma semplicemente liquidato. In modo sorprendente, Benjamin ricorre agli stessi termini, che aveva usato in senso negativo nel frammento del 1921, per esaltare la potenza di rovesciamento implicita nella tecnica capitalista. Nel testo più antico: “E lo stesso vale per Marx: il capitalismo che non cambia rotta diventa socialismo con interessi semplici e composti, che sono funzione del debito-colpa”; in Esperienza e povertà: “…L’umanità si prepara a sopravvivere alla cultura, se questo è necessario. E quel che è più importante, lo fa ridendo. Forse a tratti questo riso suona barbaro. Bene. talvolta il singolo può pure cedere un po’ d’umanità a quella massa, che un giorno gliela renderà con interessi semplici e composti raddoppiati”[34]. Qui sembra divenuto auspicabile quell’indebitamento con la logica del capitale, che nel frammento veniva rifiutato. Si deve pur dire che il “riso”, più che barbaro, diventerà nel corso degli anni Trenta decisamente sinistro.
Nello stesso senso va la conclusione del saggio su Kraus, in cui Benjamin scrive: “L’inumano sta tra noi come messaggero di un più reale umanesimo”[35]. L’ Angelo Nuovo di Klee non ha qui il profilo malinconico, che lo caratterizza nelle “Tesi” o nel frammento Agesilaus Santander; al contrario esso esprime “un’umanità che si afferma nella distruzione”, riprendendo la “memorabile dichiarazione” di Loos: “Se il lavoro umano consiste soltanto nella distruzione, allora è veramente un lavoro umano, naturale, nobile”[36].
Difficile negare che in questi passi Benjamin sostenga che proprio l’incremento distruttivo delle forze produttive del capitale porti alla necessità obiettiva di rovesciare i suoi rapporti di produzione, recuperando così la magia dialettica, altrettanto inaspettata della salvazione di Faust, che Marx aveva a sua volta ripreso da Hegel: “Ma la produzione capitalistica partorisce dal suo seno, con la necessità di un processo della natura, la propria negazione. E’ la negazione della negazione”[37].
6. Nella XI tesi sul concetto di storia, Benjamin modifica la posizione espressa in Esperienza e povertà e distingue radicalmente due forme di tecnica: all’idea di un illimitato sfruttamento della natura, che si ritorce contro la sopravvivenza dell’umano, si oppone l’immagine di una techne che, invece di distruggere il cosmo o trattarlo quale inerte materiale di dominio, lo considera come un grembo in cui sono in germe inedite creazioni. Fra la tecnica capitalista e quella “nuova” non c’è continuità alcuna, sia pure nella modalità del rovesciamento, ma un salto discontinuo e qualitativo, che può essere prodotto solo dall’azione politica. Non è più lo sviluppo della forza produttiva a fornire il fondamento per una forma di vita liberata dal dominio, ma è la costituzione di un essere-in-comune rivoluzionario a determinare le condizioni di possibilità in cui diviene pensabile un uso liberatorio della scienza.
Alla tecnica come sfruttamento se ne oppone un’altra, tesa alla liberazione di forze latenti, che attendono l’intervento dell’essere-in-comune per nascere e dispiegarsi. E` questa una versione materialistica della cooperazione tra umanità e natura, che negli scritti giovanili veniva attribuita al rapporto linguistico tra di esse. Nominando la natura, l’uomo le permetteva di uscire dal suo doloroso mutismo, ne liberava l’anima interna e cooperava alla sua redenzione: questa non poteva che coinvolgere allo stesso tempo l’essere umano e il cosmo[38]. In senso analogo, nella tesi XI, Benjamin parla di un lavoro capace di sgravare la natura delle creazioni in essa latenti, senza esaurirne le risorse in modo estremo e distruttivo. Questa concezione, disattesa dal marxismo tecnocratico, era invece presente nel socialismo utopistico e soprattutto nel suo massimo rappresentante, Fourier.
Nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin distingue due forme di tecnica: una è dominata da un’intenzione arcaica, simile a quella della magia, diretta al dominio della physis e all’affermazione della volontà di potenza[39]. Essa poteva pure essere inevitabile fin quando la natura era percepita come una forza ostile, sovrastante e invincibile; diviene tuttavia sempre più unilaterale e rischia di esaurire le risorse elementari della vita. Esiste invece una seconda forma di tecnica, che tende a sviluppare un legame armonico tra l’umanità e il cosmo; essa mira – come si dice nell’edizione francese dell’opera –ad un “jeu armonien”[40], che riguarda anche il rapporto reciproco degli uomini, e questo termine è ispirato direttamente dalle utopie di Fourier.
Tale relazione si oppone a quella del lavoro e dello sfruttamento: essa non implica affatto un salto nell’arbitrio o nell’irrazionalità. Il gioco indica lo spazio aperto dell’intersoggettività non più dominata in modo esclusivo dal rapporto mezzo-fine; esso è però articolato da regole reciproche e condivise, da un assenso comune, che richiede l’accettazione di un limite alle mie possibilità di azione e di espressione. Tale misura non è tuttavia imposta da un’autorità superiore, gerarchica o paterna, ma dal “pensare in comune”, dalla persuasione in atto del “pensiero ampliato”, come diceva Arendt. Essa è determinata dal rispetto per la presenza e la differenza dell’altro e dalla reciprocità che ogni azione possiede. Il gioco implica la possibilità di un accordo tra pari, che convengono su un limite accettato in comune ed elaborano questa intesa in un sistema simbolico.
Il conflitto stesso – per non divenire guerra – è trasferito entro un codice linguistico. Il gioco è perciò fondato su un principio di eguaglianza che si oppone a quello asimmetrico del lavoro sfruttato, dominato dalla relazione servo-padrone; su un criterio di riconoscimento, che sospende e disattiva l’astrazione capitalista. Esso arresta dunque l’intenzione magica della volontà di potenza, caratteristica della “prima tecnica” e si realizza grazie a una “seconda tecnica”, non più finalizzata necessariamente allo sviluppo e all’incremento delle quantità prodotte, ma alla qualità delle relazioni umane fra produttori. Questa è fondata su un limite accettato nel rapporto con la natura, che non viene cancellata, ma intensificata, rispettandone le energie primarie ed elementari. Di qui le conseguenze fantastiche che Fourier attribuiva a questo tipo di tecnica: “Tutto ciò illustra un lavoro che, ben lontano dallo sfruttare la natura, è in grado di sgravarla delle creazioni, che, in quanto possibili, sono sopite nel suo grembo”[41].
Già nell’ultimo aforisma di A senso unico, Benjamin metteva in rilievo il pericolo estremo che l’umanità corre restando legata alla “prima tecnica”[42]. La logica dello sviluppo e dell’incremento illimitato di potenza conduce alla guerra, che di essa rappresenta l’intensificazione inevitabile. La storia della techne è segnata da snodi discontinui e decisivi, in cui viene operata una decisione a favore dell’una o dell’altra delle due forme. In effetti il passaggio dalla “prima” alla “seconda” tecnica, dalla necessità al gioco, non ha in se stesso nulla di necessario; e anzi le due concezioni possono allontanarsi in modo irrimediabile l’una dall’altra. L’opzione per la “seconda” tecnica è compito proprio della decisione politica, ed essa dipende dai rapporti di forza, dallo stato della lotta di classe, e dal prevalere – o meno – del principio d’uguaglianza su quello di dissimmetria e di padronanza.
Per queste ragioni, Benjamin descrive l’accettazione dello sfruttamento della natura da parte della socialdemocrazia e del marxismo staliniano come un tradimento (tesi X) e come la premessa per la tecnicizzazione e la burocratizzazione della società. Il dominio della “prima tecnica” porta infatti alla trasformazione in macchina funzionale e burocratica del corpo sociale, alla costituzione di un “apparato incontrollabile”[43], che prolifera in entrambe le forme di totalitarismo. E’ la presa di coscienza del formarsi di questa nuova forma di potere che induce Benjamin ad allontanarsi dall’entusiasmo tecnologico di Esperienza e povertà e a riproporre il problema della tecnica nel senso di una decisione politica radicale, che non scaturisce automaticamente dal suo sviluppo stesso, ma si pone nei termini di un conflitto insanabile col suo modello astratto capitalistico. Il carattere distruttivo resta indispensabile al pensiero critico: ora però in primo piano non c’è la distruzione dell’esperienza ad opera della tecnica, ma l’annientamento di quella tecnica, che impedisce l’utopia realizzabile come “gioco armonico”, capace di realizzare la Umkher dalla logica del capitale.
La “seconda tecnica” tende a sospendere l’immediatezza del dominio e dell’asservimento del corpo umano e a sgravarlo delle funzioni del lavoro; l’archetipo della “prima tecnica”, conforme alla sua radice nella magia, è invece il sacrificio[44]. Nell’omicidio del capro espiatorio la comunità rituale rinsalda la propria coesione, di fronte alla violenza che cova al suo interno e nella natura; nel capitalismo moderno, il principio sacrificale si realizza nello sfruttamento di ogni singolarità, sottomessa alla macchina e al processo produttivo. La qualità irripetibile è sacrificata alla quantità e all’incremento illimitato della produzione.
Per inciso si può osservare che il passaggio dal lavoro materiale a quello immateriale non cambia di per sé questa intenzione di fondo, ma la traspone dal piano del corpo a quello della mente. Se l’orientamento al dominio e allo sfruttamento resta immutato, la mente può essere ora sacrificata e utilizzata in modo quantitativo, come prima la corporeità. Il passaggio dal lavoro al gioco non può che essere effetto di un giudizio politico.
Sia pure con molte incertezze e esitazioni[45], nell’Opera d’arte Benjamin si allontana da una concezione per cui nella tecnica in quanto tale sarebbe custodito un intelletto oggettivato, che eccede i limiti del capitale. Certo, essa contiene in sé una possibilità di liberazione della percezione e delle facoltà umane, purché si operi il salto e la discontinuità tra la sua prima e la seconda forma. Tale salto non è esso stesso tecnicamente precostituito, ma dipende da una Comune di uomini che si riconoscano reciprocamente. Nessuna negatività estrema e necessaria porta dallo sviluppo delle forze produttive, quali sono attualmente, alla liberazione dal lavoro e dallo sfruttamento, neppure nell’ipotesi di un regime che abolisca la proprietà privata dei mezzi di produzione.
Il cambiamento dell’intenzione direttiva della tecnica costituisce per Benjamin un fine rivoluzionario. Fino agli inizi degli anni Trenta, egli ha creduto che la rivoluzione bolscevica avesse almeno in parte realizzato un tale obiettivo e un mutamento del rapporto uomo-natura; quando invece scrive le Tesi, non nutre più una simile illusione. Il marxismo dopo Marx ha piuttosto accettato – sia nella sua versione riformista, sia in quella totalitaria – il sacrificio della singolarità umana e della natura, di fronte al feticcio del piano, dello sviluppo e dell’incremento quantitativo delle forze. L’intenzione magica della volontà di potenza ha continuato a prevalere sulla possibilità del “gioco”, preconizzata da Fourier.
Nota. Il motivo escatologico -nella forma radicale con cui si presenta in Capitalismo come religione e in generale in tutta la produzione di Benjamin fino ai primi anni Trenta- ha forse qualche radice in una corrente della mistica ebraica, studiata in più occasioni da Scholem, e orientata in direzione antinomica. L’idea estrema dei seguaci più radicali di S. Zevi è che quanto più si distrugge l’ordine simbolico esistente e la Legge nella sua configurazione attuale, tanto più si affretta e si approssima l’avvento messianico: “Per compiere la sua missione, il potere della santità –incarnato dal messia- deve discendere nell’impurità e il bene deve assumere la forma del male. Questa missione è carica di pericolo, poiché sembra rafforzare il potere del male prima della sua sconfitta definitiva…Soltanto la trasformazione completa del bene in male avrebbe esaurito il pieno potenziale di quest’ultimo e l’avrebbe quindi fatto esplodere, per così dire, dall’interno”[46]. Non si deve dunque attenuare la negatività che minaccia lo stato attuale del mondo, ma incrementarla il più possibile, fino a che il Messia non possa più ignorare la necessità del suo intervento. La violazione della legge vigente, perché si sgombri lo spazio di una nuova configurazione etica e metafisica, può giungere fino all’apostasia, mentre i comportamenti sessuali e morali si pongono decisamente “al di là del bene e del male”, nella loro declinante distinzione attuale.
Una sistemazione teorica di questa teologia antinomica è compiuta da Avraham Cardoso, per cui la Legge orale rabbinica corrisponde a un’epoca in cui domina “l’Albero della conoscenza”, che ora però sta per essere sostituita da un’altra, governata dall’ “Albero della vita”, per cui: “Chiunque desideri continuare a servire Dio nel modo attuale…distrugge le piantagioni e profana lo Sabbat”[47], e non riconosce l’avvento messianico. Abbiamo visto come anche in Kafka comparisse questa distinzione dei due Alberi, che è in certa misura già presente nello Zohar. La colpevolizzazione e l’indebitamento universale del capitale sono omologhi a quelli praticati dalla Legge ormai pervertita e inefficace del Tribunale del Processo. In questo senso i sabbatiani interpretavano, certo tendenziosamente, passi delle Scritture e del Talmud: “Il Talmud dice: “Il figlio di Davide viene soltanto in un’età che o è completamente colpevole o è completamente innocente”[48].
A questo contesto potrebbe riferirsi l’enigmatica e curiosa espressione di Benjamin, per cui occorrerebbe “implicare Dio stesso in questa colpa/debito, al fine di suscitare in Lui stesso interesse per l’espiazione”[49]. Il nichilismo teologico-politico fu poi portato alle estreme conseguenze da J. Frank e Junius Frey, che partecipò alla Rivoluzione francese. Esso si diffonde nella “condizione che precede e annuncia la ‘battaglia finale’: stato di turbamento e di simmetrica sovversione dei valori, in cui l’esperienza della tenebra diviene matrice di armi contro se stessa; “Non sarebbe esatto che nel tempo storico erano così calate le immagini e le prospettive del mito, innanzitutto del mito messianico. Era invece il tempo del mito che diveniva senza residuo tempo storico…L’utopia era la ‘nuova legge’ che non procedeva dall’antica, ma antinomicamente e paradossalmente cancellava l’antica”[50].
Come afferma Scholem, questa particolare tendenza antinomica, presente in forma moderata nella dottrina di Luria e poi esplosa con Zevi, ha sicuramente una antica radice gnostica. E’ gnostica infatti l’idea che la radicale negazione del mondo (e questo comprende più o meno consapevolmente l’assetto attuale dei suoi poteri e delle sue leggi) sia indispensabile per il suo totale rovesciamento, per il palesarsi del dio nascosto e la redenzione delle sue scintille di luce, disperse nelle tenebre della materia. In modo analogo agli gnostici, anche se rovesciandone letteralmente i termini, gli ultimi sabbatiani distinguono tra il “Dio nascosto”, oggetto di conoscenza intellettuale astratta, “e il Dio vivente della rivelazione –che è per loro il ‘Dio d’Israele’ ”[51]. Nella gnosi, come nella predicazione sabbatiana, “…gli eletti stanno sotto una nuova legge spirituale e rappresentano una nuova realtà, e quindi sono anche al di là del bene e del male”[52].
E’ lecito riconoscere nella teologia gnostica un remoto fondamento dell’impulso sovversivo e rivoluzionario all’interno della cultura occidentale e sicuramente anche una causa della sua possibile caduta in una Hybris, in una costellazione minacciosa, entro la quale convivono la credenza in una élite superiore composta solo dai chiamati, la pretesa di possedere la totalità della verità e un disprezzo illlimitato per i limiti dell’umano: “Il mondo è qui soltanto oggetto negativo, non anche positivo, del suo [della gnosi] orientamento, ossia il suo “opposto” incondizionato; la realtà mondana non deve essere sostituita con un’altra e il cambiamento non riguarda le “condizioni”, ma il contenuto della convivenza, anzi, idealmente, in primo luogo la singola esistenza più intima viene già de facto modificata attraverso la sua rivoluzione”[53]. A questi tratti radicali appartengono la fede in un principio “incommensurabile antimondano”, la concezione del “pneuma” che “suppone un’idea di libertà e di autocoscienza di genere inaudito”, il sovvertimento delle leggi morali, e certo anche il rischio di un “delirio di superiorità”, che poi precipita –per essere contenuto- in forme ascetico-autoritarie di comunità.
7. All’interno della tradizione cristiana, l’idea apocalittica suppone l’immagine dell’Anticristo, nella sua ambivalenza demonica (presente del resto nelle “Tesi” di Benjamin). Il suo carattere è radicalmente paradossale: bisogna affrettarne l’avvento, dato che il suo apparire è comunque una premessa necessaria della parusia messianica, e accettare allora l’intensificazione negativa, che gli appartiene e prelude al rovesciamento del mondo e alla fine della storia, oppure frenarlo, opporgli un katechon e contenere il dilagare della distruzione e del caos? Come dice Paolo o un suo interprete -nella Seconda lettera ai Tessalonicesi: “Il Signore Gesù non verrà prima del compiersi dell’opera del suo avversario (Antikeimenos). Il suo giorno dovrà essere preceduto dal pieno dispiegarsi della apostasia (discessio), del mistero dell’anomia (mysterium iniquitatis) – al mistero che è l’epifania del Cristo segue l’apocalisse secondo la forza di Satana, dell’Empio, di colui che finge di essere Dio e come Dio esige di essere onorato. Il giorno del Signore deve dunque essere atteso, attraversando questo tempo di immensa devastazione”[54]. E’ probabilmente ai colloqui con F. Lieb, oltre che ad alcuni suoi saggi, che Benjamin deve la definitiva cristallizzazione dell’immagine dell’Anticristo nelle “Tesi”.
Negli ultimi scritti sembra comunque esserci una minore fiducia nella prospettiva escatologica e una particolarissima e originale riproposizione del katechon, in una forma diversa da quella indicata da C. Schmitt[55]. In effetti, il confronto col nazismo, a partire dal 1933 in poi, porta Benjamin a una radicale riflessione sullo stato d’eccezione. Il mutamento decisivo che si tratta ora di considerare è la dilazione della catastrofe a condizione storica perpetuabile e permanente.
Mentre dalla prospettiva di Capitalismo come religione, l’incombere della disperazione e della desolazione portava anche sulla soglia di una rottura e di un rovesciamento dello spirito demoniaco del capitale, col nazismo si palesa l’inquietante evidenza che la catastrofe può essere protratta e dilatata, e il suo tempo divenire durata abitudinaria e quotidiana. Gli Ordini (statuali, giuridici, ecclesiali) non solo non si pongono più come un katechon che eviti la distruzione e il caos, ma anzi come i suoi agenti, che producono una situazione di emergenza permanente: con questa esistenza ossimorica si può e si deve indefinitamente convivere. A questa condizione imprevedibile, in cui il katechon dilata a normalità lo stato catastrofico invece di impedirlo o rinviarlo, Benjamin si riferisce nella celebre tesi IX, dedicata all’Angelus Novus di Klee[56].
Nelle “Tesi” Benjamin scrive anche della rivoluzione come arresto della catastrofe, distinguendo il vero stato d’emergenza rispetto a quello falso, proclamato dal potere vigente, e che in realtà diviene “regola”, condizione permanente e durata del negativo: “L’istituto dello Ausnahmezustand non dovrebbe più servire ad assicurare il potere assoluto dello Stato secolarizzato, come sostiene la teoria della sovranità di C. Schmitt. La sospensione del diritto dev’essere piuttosto intesa come istituto della Giustizia e dell’assoluzione del diritto. Ciò ricorda una antica festa tradizionale ebraica, in cui tutte le obbligazioni erano cancellate, o anche il Carnevale, in cui per un certo tempo era destituito l’ordine clericale-feudale…”[57]. La rivoluzione, lo stato d’emergenza proclamato dagli oppressi e non dai sovrani, mira a sospendere la rovinosa continuità del dominio (sia nel suo volto politico totalitario, sia come catena del debito-colpa del capitale). Arresto non vuol dire: evitiamo di distruggere l’ordine, lo Stato, la legge (d’altronde già ampiamente dissolti dal movimento contraddittorio del capitale), ma: interrompiamo questa condizione, in cui proprio la distruzione e l’emergenza sono lo Stato.
Il capitale si è dimostrato e si dimostra capace di una indefinita capacità metamorfica, di continue rivoluzioni passive, che riconducono le brecce escatologiche e rivoluzionarie entro i cardini di un sistema di potere. Il millenarismo nazista non pone fine alla storia, ma la trasforma in eccezione permanente. L’utopia del capitale –fantasmagoria di una potenza che autogenera danaro dal nulla- presuppone la crisi, non più come emergenza transitoria e superabile, ma come condizione continua e proficua. Il motivo escatologico è addomesticato e reintrodotto ciclicamente come “distruzione creatrice” di nuovo valore e di nuovi valori all’interno del movimento del capitale. L’arresto -di cui parla Benjamin- non è dunque né il katechon né l’eskaton come tradizionalmente intesi: col primo ha in comune l’idea di voler evitare il procededere della catastrofe, col secondo l’idea che proprio per ottenere questo risultato –di per sé katechontico– occorre ormai rompere definitivamente con l’ordine esistente.
L’accrescersi della potenza del negativo ha perso il suo carattere escatologico, é diventato paradossale continuazione ad ogni costo, sans trêve et sans merci, della logica debitoria del capitale. Alla negatività non c’è fine e non c’è una fine, né un punto limite di ribaltamento necessario. Essa può approfondirsi illimitatamente in se stessa, senza che si produca una reazione decisiva, o un salto discontinuo di qualità, fino all’annientamento del pianeta e della specie uomo. I campi di sterminio –negatività assoluta realizzata- sono la prova che non esiste alcuna forza mistica della negazione della negazione, capace di portare alla salvezza gli oppressi.
La rivoluzione come arresto di tale movimento richiede un “giudizio politico” (Arendt) comune, che apra una breccia nella dilazione e nel destino del negativo: un’azione radicata nella situazione e richiesta da essa, ma non garantita da alcun principio storico metafisico e infondata, scaturita dall’intesa e dal riconoscimento: anarchica nel senso letterale del termine. L’idea della rivoluzione si separa così dall’orgoglio della sua tradizione gnostica e si configura come debole forza messianica, cioè come capacità di intervenire -senza garanzie- nella contingenza della storia: “La salvazione si affida alla piccola faglia nella catastrofe continua”[58].
Digressione. La negazione della negazione è una sorta di colpo di stato dialettico, e tale rimane anche nella versione secolarizzata di Marx, che la fa derivare dalla contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione. La fede escatologica che l’estremo della negatività si capovolga necessariamente nel Mondo Nuovo, nel contesto del capitalismo attuale, ha tutti i caratteri di un mito storico, con una funzione analoga a quello della repubblica romana per i rivoluzionari francesi del 1789. E’ cioè un’immagine di sogno, che richiede interpretazione. Pure, vien riproposta in varie forme anche nel pensiero critico contemporaneo.
Il passo di Marx sulla negazione della negazione si trova in epigrafe a un importante capitolo del libro Comune di Hardt-Negri e l’idea che dall’interno stesso delle contraddizioni del capitale fioriscano le nuove soggettività che lo abbatteranno è ripetuta più volte nel testo, per esempio: “Questo è il modo in cui il capitale genera i suoi becchini: se vuole perseguire i suoi interessi e vuole autoconservarsi, il capitale deve necessariamente incentivare il potere e l’autonomia della moltitudine che nel frattempo diventano sempre più grandi. Quando l’accumulazione dei poteri della moltitudine oltrepasserà un certo livello, la moltitudine sarà in grado di padroneggiare autonomamente la ricchezza comune”[59]. Il termine moltitudine ha sostituito quello del proletariato, ma la logica del rovesciamento è la stessa.
Si può obiettare che ora questo ragionamento è giustificato dalle profonde trasformazioni del lavoro e dal suo divenire sempre più immateriale, cognitivo, fondato sull’estensione sociale del comune e della comunicazione. E’ questa produttività mentale, che il capitale non può non incentivare nella sua configurazione attuale e d’altra parte sfugge sempre più intensamente al suo controllo. Così dovrebbe essere: però così non è, ed è necessario spiegare perché ciò che in potenza è liberatorio incrementi in forme inedite la schiavitù dei salariati e la loro dipendenza da rapporti di padronanza: “Anziché focolaio di crisi, la sproporzione tra il ruolo assolto dal sapere e la decrescente importanza del tempo di lavoro ha dato luogo a nuove e stabili forme di dominio”[60]. Difficile pensare che la forza produttiva immateriale, in quanto tale, produca un attenuarsi dello sfruttamento, che invece si estende dal corpo alla mente, cancella ogni confine tra tempo di lavoro e tempo libero, produce tipologie inedite di controllo e di manipolazione: “L’innovazione tecnologica non è universalistica…Il postfordismo riedita tutto il passato della storia del lavoro, da isole di operaio-massa a enclaves di operaio professionale, da un rigonfiato lavoro autonomo a ripristinate forme di dominio personale. I modelli di produzione succedutisi nel lungo periodo si ripresentano sincronicamente, quasi alla stregua di una esposizione universale”[61].
Può essere anche vero che il tempo di lavoro, in epoca postfordista, sia divenuto del tutto inadeguato a misurare il valore della ricchezza prodotta, come afferma un ormai commentatissimo passo dei Grundrisse di Marx, e tuttavia questa misurazione continua essere applicata, in modo spietato. D’altra parte, il progetto attuale del capitale sembra comporre in Uno tempi e luoghi difformi e apparentemente contraddittori: la diffusione delle forze produttive cognitive e immateriali non esclude, ed anzi prevede, un feroce sfruttamento “fordista” o addirittura la violenza dell’accumulazione originaria (non solo fuori d’Europa, ma anche nelle “periferie” urbane dell’Occidente). Non si tratta di “ritardi”, che verranno colmati, portando tutta la produzione al livello del general intellect. C’è un nesso strutturale fra tipologie di sfruttamento “arcaiche” e l’astratto lavoro immateriale: “L’accumulazione del capitale si alimenta di ineguaglianze sociali e spaziali necessarie al suo metabolismo…”[62] e il suo movimento astratto agisce cercando di far coesistere a proprio profitto le forme di dominio più antiche e il sapere altamente qualificato della scienza.
Del resto, che il tempo di lavoro sia divenuto misura inadeguata del valore non vuol dire affatto che si sia trasformato o stia per trasformarsi in tempo libero. Si può ritenere che la differenza fra i due si stia sempre più assottigliando a vantaggio di un “tempo di produzione” (Virno) generico, che comprende anche le ore pseudo-ludiche passate al computer o al cellulare, addestrando comunque le proprie facoltà percettive e cognitive nel senso richiesto dalle attuali forme di precarietà; oppure si può mantenere la vecchia terminologia e considerare “tempo di lavoro” queste stesse attività, benché si svolgano fuori dai luoghi di produzione tradizionali.
E’ vero che l’operaio posto a controllare una macchina, che deve premere un pulsante esattamente ogni sessanta minuti, per cinquantanove resta apparentemente inattivo, sta accanto ad essa senza far niente. Ma è davvero un far niente? In realtà la tensione muscolare inconsapevole, l’attenzione rivolta a non mancare il minuto decisivo, la latente “cura” e apprensione perché l’intero meccanismo funzioni regolarmente, i rumori e le luci, che comunque gli inviano messaggi dal macchinario, tutto ciò non è ancora lavoro, dispendio di energia fisica e mentale, sia pure diverso da quello “fordista”? Computandolo in questo modo, è da dimostrare che il “tempo” ad esso destinato sia effettivamente diminuito o non piuttosto si si sia esteso a quasi tutta la vita. Certo si può dire -e in fondo non è molto diverso- che il tempo di produzione comprende ora “anche il non-lavoro, le esperienze e le conoscenze maturate al di fuori fabbrica e dell’ufficio” oppure, con una sfumatura diversa dei termini, che la cooperazione sociale del “lavoro postfordista è sempre, anche, lavoro sommerso”, e che questo è in primo luogo “vita non retribuita, ossia la parte di attività umana che, omogenea in tutto a quella lavorativa, non è però computata come forza produttiva”[63].
Resta il fatto che il tempo dominato e asservito in qual modo si voglia alla creazione di plusvalore relativo, tende nelle tipologie attuali di produzione ad aumentare a dismisura e nient’affatto a produrre forme di potenziale libertà, che attendano solo un colpo di gomito per superare l’egemonia del capitale. Per interrompere il dominio del lavoro astratto, anche nel postfordismo, occorre dunque un’azione politica che spezzi la sua continuità e non nasce dallo sviluppo automatico delle forze produttive (neanche di quelle cognitive) e delle loro contraddizioni: queste al massimo producono una situazione di crisi in cui tale azione sarebbe possibile e pensabile, ma nient’affatto destinale o necessaria.
In che direzione conviene muoversi per costruire una tale soggettività? In un recente e interessante scambio di lettere con M. Hardt, J. Holloway propone un ritorno alla qualità e alla specificità dei valori d’uso, dunque un mutamento della produzione, che dovrebbe orientarsi verso forme comunalistiche, in parte ereditate dal passato, in parte inventate ex novo. Si tratterebbe di opporre il lavoro vivo e concreto a quello astratto del capitale, accettando se necessario un tasso di decrescita e una limitazione dell’attuale sfruttamento delle risorse della terra.
Hardt critica questa prospettiva, giudicandola affetta da regressione romantica verso il mondo artigianale e contadino: “Nella tua riflessione, il lavoro astratto è un antagonista fondamentale e, se capisco bene, lo sono i processi concettuali più generali di astrazione… Un progetto politico che afferma il valore d’uso sul valore di scambio mi sembra un tentativo nostalgico di riedificare un ordine sociale pre-capitalista. Al contrario, il progetto di Marx, come lo capisco io, si apre la strada all’interno della società capitalistica per uscire dall’altro lato. Allo stesso modo, non credo che il lavoro astratto sia l’antagonista. Dire che senza lavoro astratto non ci sarebbe proletariato costituisce una semplificazione (anche se credo sia importante). Se il lavoro del muratore, del carpentiere, dell’agricoltore, del tessitore e del meccanico di automobili fossero concreti e incommensurabili, non avremmo un concetto generale del lavoro (del lavoro umano in generale, a prescindere da come è stato impiegato, come dice Marx) che potenzialmente li vincolino come classe”[64].
Probabilmente entrambi i poli di questa alternativa non giungono a soluzioni interamente soddisfacenti. Le riflessioni di Benjamin possono contribuire forse ancora al dibattito attuale. Sostanzialmente contrario a ogni ritorno al valore d’uso e al premoderno (concepibile solo con la restaurazione di forme mitiche e rituali-magiche di potere), egli è però anche radicalmente critico verso il principio di astrazione sviluppato entro la dimensione del capitale. La seconda tecnica –che pone un rapporto armonico con la natura e una relazione di gioco intersoggettivo- prevede un principio di simbolizzazione altrettanto complesso ma radicalmente alternativo a quello del capitale: non si sviluppa dal suo interno, ma sempre e decisamente contro di esso. Esiste una rottura epistemologica radicale tra prima e seconda tecnica, che presuppone una discontinuità politica altrettanto netta. Non si tratta dunque di opporre techne e comunitarismo artigianale, ma la scienza su cui fondare un comune capace di sviluppare il gioco e il riconoscimento intersoggettivo, contro una tecnica magica che sviluppa il dominio. Non è lo stesso utensile, costruito con lo stesso progetto, che basterebbe cambiare di mano per renderlo da negativo positivo: è uno strumento materialmente e idealmente opposto, che prevede la distruzione dell’altro, come la tecnica delle energie naturali si basa su una visione antropologica e esistenziale incompatibile con quella fondata sul petrolio o sul carbone. La rivoluzione epistemologica è altrettanto radicale di quella politica.
Non ogni astrazione coincide necessariamente con quella sviluppata dal capitale: “…L’astrazione reale che Marx pone a base della sua analisi del Capitale…non è l’astrazione logico-mentale, che è propria dei processi conoscitivi”[65]; questa capacità generalmente umana di simbolizzazione più che coincidere con la particolare figura della scienza capitalista collide con essa e con la sua intenzione di fondo, e da questa viene negata e atrofizzata. Si può invece concepire un lavoro della mente altamente complesso, che si oppone alla sua contraffazione nel “lavoro mentale” e non mira alla negazione dell’essere psichico-affettivo dell’uomo, ma al suo affinamento simbolico e intersoggettivo: “…In esso il soggetto umano entra in un rapporto, non di scissione e contrapposizione, ma di distanziamento e simbolizzazione con il proprio corpo emozionale…”[66], l’attività mentale e la physis si affinano reciprocamente nel “gioco” descritto da Benjamin e da lui opposto alla “magia” del lavoro astratto. Né ritorno al valore d’uso, né proseguimento della logica dell’astrazione reale, ma costituzione di un essere in comune antagonistico rispetto a quello del capitale. L’attività simbolica e non l’astrazione capitalistica è una “funzione trascendentale dell’esperienza umana”[67] o –per usare un termine che verrà chiarito in seguito- un esistenziale storico.
[1] Ho fatto ricorso prevalentemente alla traduzione di C. Salzani, in W. Benjamin, Capitalismo come religione, Il Melangolo, Genova 2013. L’introduzione di C. Salzani “Politica profana, o dell’attualità di Capitalismo come religione” è consigliabile per chiarezza e documentazione bibliografica. Rinvio anche all’introduzione “Le metamorfosi della divinità e le figure del capitale” di S. Franchini, in Il capitalismo divino. Colloquio su denaro, consumo, arte e distruzione, Mimesis, Milano 2011; e al commento di E. Stimilli, ne Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2011, p.176 e sgg. In questi ultimi due libri si trova pure una traduzione del frammento. Fondamentale è il libro collettivo curato da D. Baecker, Kapitalismus als Religion, Kulturverlag Kadmos, Berlin 2009, in cui va segnalato per la sua particolare importanza il saggio di W. Hamacher “Schuldgeschichte. Benjamins Skizze Kapitalismus und Religion”. Altri saggi importanti per l’interpretazione del frammento: M. Löwy, “Le capitalisme comme religion: Walter Benjamin et Max Weber”, in Raisons politiques 23, 2006; B. Lindner, “Der 11-09-2001 oder Kapitalismus und Religion”, in Ereignis. Eine fundamentale Kategorie der Zeiterpharung. Anspruch und Aporien, transcript Verlag, Bielefeld 2003; U. Steiner, “Kapitalismus als Religion. Anmerkungen zu einem fragment Walter Benjamins”, in Deutsche Vierteljahrsschrift fur Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte, 72.1 (1998); U. Steiner, “Der wahre Politiker. Walter Benjamins Begriff des Politischen”, in Internationales Archiv fur Sozialgeschichte der Literatur, 25 (2000), pp. 48-92.
[2] Capitalismo come religione, cit. p.43. D’ora innanzi numero di pagina nel testo.
[3] Vedi infra, pp. xxx, per i concetti di fantasmagoria e immagine di sogno.
[4] C. Salzani, Politica profana…, cit. pp. 25-26.
[5] S. Mallarmé, Opere, Lerici, Milano 1963, pp. 303-304. Cfr. L. Parinetto, Faust e Marx, Mimesis, Milano 2004, sul sistema metaforico dell’opera di Marx.
[6] Ivi, pp. 311-313.
[7] K. Marx, Il Capitale, Newton Compton, Roma 2011, p. 81.
[8] Ivi, 117.
[9] Ivi, 119-120.
[10] Cfr. nei Grundrisse: “Il culto del danaro ha il suo ascetismo, la sua rinuncia e suoi sacrifici: la parsimonia e la frugalità, il disprezzo per i godimenti terreni, temporali e transitori: la caccia al tesoro eterno. Di qui la connessione tra il puritanesimo inglese o anche il protestantesimo olandese e il far denaro”(K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Einaudi, Torino 1976, p. 173).* Il tema della condotta di vita ascetica dei primi imprenditori capitalisti sarà sicuramente un tema weberiano. Cfr. La tesi di dottorato di G. Ferraro, Economia del disincanto, Dipartimento di filosofia e scienze sociali dell’Università del Salento. In questo passo tuttavia è da notare l’associazione tra “culto” e circolazione del danaro”.
[11] K. Marx, Il capitale, cit. p. 115.
[12] Ivi, p. 116.
[13] Ivi, p. 131. Cfr. il saggio di W. Hamacher, “Schuldgeschichte”, in Kapitalismus als Religion, cit., in particolare p. 94 e sgg.
[14] Sul denaro come dio e intermediario (K. Marx, Opere, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 230)*: “Attraverso questo intermediario estraneo [il denaro] –mentre è l’uomo stesso che dovrebbe essere l’intermediario per l’uomo- l’uomo vede la sua volontà, la sua attività ed il suo rapporto con altri come una potenza indipendente da lui e dagli altri. La sua schiavitù giunge dunque al culmine. Che adesso questo intermediario divenga il Dio reale è chiaro, infatti l’intermediario è il potere reale su ciò con cui esso mi media. Il suo culto diventa fine a se stesso”. Sulla struttura trinitaria: “Ma Cristo è il dio alienato e l’uomo alienato. Dio ha ormai valore soltanto in quanto rappresenta Cristo, e l’uomo ha valore in quanto rappresenta Cristo. La stessa cosa vale per il danaro”(Ivi, p. 231). Cfr. B. P. Priddat, “Deus creditor: Walter Benjamins ‘Kapitalismus und Religion’ “, in Kapitalismus als Religion, cit. pp. 218 e sgg.
[15] K. Marx, Opere, vol.III, cit. pp. 233-234.
[16] Ivi, p. 234.
[17] Ibidem.
[18] Cit. in seguito con numero di pagina nel testo, dalla trad. di F. Fortini, Mondadori, Milano 2001.
[19] C. Salzani, “Politica profana, o dell’attualità di Capitalismo come religione”, in W. Benjamin, Capitalismo come religione, cit. p. 20.
[20] F. Nietzsche, L’anticristo, ed. Mondadori p. 163.*
[21] Par. 41. Trad. mia.*
[22] Ivi.*
[23] S. Freud, “Carattere ed erotismo anale”, in Opere complete, vol. 5, Bollati Boringhieri, Torino 1972, *Il passo così continua: “E’ noto che l’oro che il diavolo regala alle sue drude si tramuta, quando egli se n’è andato, in sterco; e certamente il diavolo non è altro che la personificazione della vita pulsionale inconscia rimossa. Nota è anche la superstizione che collega la scoperta dei tesori con la defecazione, e così pure tutti ricordano la figura del ‘cacatore di ducati’. Fin nelle dottrine dell’antica Babilonia, l’oro è lo sterco infernale”.
[24] Cit. in G. Dostaler, B. Maris, Capitalismo e pulsione di morte, La Lepre, Roma 2009, p. 52.
[25] Hamacher, “Schuldgeschichte…”, cit. 80-81.
[26] Ivi, 83. Cfr. il saggio di W. Benjamin “Per la critica della violenza”, in Opere complete, vol. I, Einaudi, Torino 2008, p. 480.
[27] Ivi, 95-96.
[28] Ivi, 96.
[29] K. Marx, Il capitale, cit. p. 542.
[30] W. Bemjamin, Opere complete, vol. I, cit. p. 463.
[31] W. Benjamin, Opere complete, vol. V, Einaudi, Torino 2003, p.541.
[32] Ibidem.
[33] Ivi, p. 543.
[34] Ivi, p. 544. Ho adeguato la traduzione delle parole finali della citazione, che sono uguali nei due testi tedeschi.
[35] W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione, Einaudi, Torino 1973, p. 132.
[36] Ibidem.
[37] K. Marx, Il capitale, cit. p. 548.
[38] Cfr. W. Benjamin, “Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo”, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pp. 53 e sgg.
[39] “Tuttavia va qui osservato che il ‘dominio della natura’ definisce l’obiettivo della seconda tecnica solo in modo estremamente discutibile; esso lo definisce dal punto di vista della prima tecnica. La prima ha realmente l’intenzione di dominare la natura; la seconda, invece, mira piuttosto a un’interazione tra natura e umanità”. (W. Benjamin, Opere complete, vol. VI, Einaudi, Torino 2004, p. 280). Si tratta della prima stesura del saggio (almeno nella numerazione seguita dall’edizione italiana), che è alla base della versione francese, l’unica pubblicata in vita da Benjamin. Per la complessa vicenda dell’opera, cfr. pp. 571ss.
[40] Ivi, nota 3, p. 532.
[41] W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit. p. 41.
[42] “Ma poiché l’avidita` di profitti della classe dominante contava di soddisfarsi a spese di essa, la tecnica ha tradito l’umanità e ha trasformato il letto nuziale in un mare di sangue”; invece essa dovrebbe essere “non dominio della natura, dominio del rapporto tra natura e umanita”. W. Benjamin, Opere complete, vol. II, Einaudi, Torino 2001, p. 462.
[43] W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit. p. 39.
[44] “Per la prima tecnica, l’impresa più grande è in un certo senso costituita dal sacrificio umano”, W. Benjamin, Opere complete, vol. VI, cit., p. 279. Il tema sarà poi ampiamente sviluppato da Adorno-Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1997.
[45] Innanzittutto la distinzione tra le due tecniche si trova in forma esplicita solo nella versione tedesca, contemporanea o quasi alla versione francese pubblicata. Scompare nella versione ulteriore, pubblicata postuma e considerata un tempo canonica. D’altra parte, esistono nel testo passi che possono far pensare a una continuità progressiva nello sviluppo dall’una tecnica all’altra, quasi fossero due stadi successivi, piuttosto che due forme contrapposte.
[46] G. Scholem, Sabbetay Sevi. Il messia mistico, Einaudi, Torino 2001, p. 786.
[47] Cit. ivi, p. 802.
[48] G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 424.
[49] W. Benjamin, Capitalismo come religione, cit. p. 43.
[50] F. Jesi, Mitologie intorno all’Illuminismo, Lubrina, Bergamo 1990, p. 21 e p. 71.
[51] G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, cit. p. 430.
[52] Ivi, p. 425.
[53] H. Jonas, Gnosi e spirito tardoantico, Bompiani, Milano 2010, pp. 296-297.
[54] M. Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013, p. 12. Cfr. su questo e sul rapporto Benjamin- Lieb, M. Cappitti, “Brevi note sull’Anticristo. Lieb lettore di Solov’ëv”, in Il volto dell’altro, L’ospite ingrato, Quodlibet, Macerata 2011, p. 225 e sgg.
[55] Rinvio per la concezione di Schmitt al mio La memoria del possibile, cit. p. 89.
[56] “Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso è questa bufera”.
[57] B. Lindner, “Der 11.9.2001 oder Kapitalismus und Religion”, in Ereignis. Eine fundamentale Kategorie der Zeiterfharung, cit. p 208.
[58] W. Benjamin, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, a cura di G. Agamben, B. Chitussi e C.C. Härle, Neri Pozza, Vicenza 2012, p. 591. D’ora innanzi CB.
[59]M. Hardt, A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010, p. 310. Per inciso, la dialettica astratta della negazione della negazione è quella contro cui più giustamente si sono puntati gli strali di Kierkegaard, in modo –direi- definitivamente letale; per contro, la parte viva della dialettica hegeliana è quella della “negazione determinata”, che però non consente di dedurre -senza una discontinuità assoluta- il positivo dal negativo.
[60] P. Virno, Grammatica della moltitudine: per un’analisi delle forme di vita contemporanee, DeriveApprodi, Roma 2003, p. 105.
[61] Ivi, p. 112.
[62] D. Bensaid, Le Pari mélancolique, pos. Ebook 610.
[63] P. Virno, Grammatica…, cit. p. 109.
[64] Da http://www.democraziakmzero.org/ebook/: M. Hardt, J. Holloway, Creare il comune, incrinare il capitalismo.
[65] R. Finelli, Tra moderno e postmoderno, Pensa, Lecce 2005, p. 244.
[66] Ivi, p. 246.
[67] Ivi, p. 245.