Roberto Finelli
1. Le due libertà.
La ricerca della più recente filosofia pratica tedesca, in particolare grazie ai lavori di Axel Honneth, è sbocciata nel risultato di ridefinire alcune categorie fondamentali della teoria sociale e politica.
L’acquisizione teorica più originale e significativa appare concernere l’allargamento del concetto di libertà, definibile ora, non solo come assenza o riduzione dei limiti che il mondo esterno pone all’attività di un soggetto, ma anche – e nel verso di una pari importanza – come riduzione dei limiti che il mondo emozionale interno pone allo stesso soggetto. “Libertà” è infatti concepibile oggi, dopo un secolo di psicoanalisi, e secondo quanto teorizza Honneth rifacendosi all’opera dello psicoanalitista inglese Winnicot, anche come la capacità di star soli, di avere cioè un rapporto di confronto e di interazione con la propria emotività, che non sia caratterizzato da terrori, rimozioni e difese, che costringano il soggetto in questione in ripetizioni rituali e patologiche, sottraendolo alla sperimentazione del mondo e a un possibile godimento della vita.
Tale complicazione interiore del concetto di libertà mette immediatamente in gioco per altro il concetto di riconoscimento, nel senso che non è possibile che un soggetto riconosca se stesso, il proprio mondo di bisogni, affetti ed emozioni, senza che in tale discesa verticale sia accompagnato da un riconoscimento orizzontale: dall’appoggio, cioè, dalla stima e dal sostegno di altri, che lo confermino e lo rassicurino in questo processo di individuazione. “Riconoscersi” del soggetto nella veridicità e nell’autenticità del proprio sé ed “esser riconosciuto” da parte degli altri-da-sé vanno tutt’uno, secondo la complessità di un nesso che deve essere in pari tempo di individuazione e di socializzazione.
Ma qui, più che al linguaggio sociologico e antropologico-filosofico di Honneth, sulla rilevanza strutturale di tale intreccio, l’uno verticale, l’altro orizzontale, nella costituzione di una soggettività, appare opportuno cedere direttamente la parola alla clinica e alla teoria psicoanalitica, e specificamente all’opera di Wilfred R. Bion e alla sua originalissima concezione della mente. Nella quale l’aspetto che maggiormente colpisce è che i pensieri vengano considerati come precedenti, dal punto di vista sia genetico che epistemologico, alla capacità dell’apparato di pensiero di pensare, e che la nascita del pensiero dipenda appunto dalla possibilità originaria della mente in questione di essere accolta, contenuta e riconosciuta da un’altra mente. I «protopensieri» – coerentemente con la teoria freudiana del processo primario come modalità del pensare finalizzata a liberare la mente nei termini più immediati dall’eccesso di stimoli che la invadono – possono infatti rimanere non elaborati nella condizione di oggetti («cose in sé» alla Kant, come le chiama Bion, o «elementi β», per riferirsi a qualcosa che rimane estraneo e in conoscibile), alle quali corrisponde un pensiero che, invece di pensare, agisce, nel senso che evacua ed espelle fuori di sé i pensieri-oggetti cattivi per la loro carica di distruttività e di negatività. Mentre un apparato per pensare vero e proprio, che possa effettivamente mantenere dentro di sé e trasformare i pensieri epistemologicamente pre-esistenti, nasce solo – ritiene Bion – se la mente in questione, in genere quella del bambino, può proiettare e collocare le proprie emozioni e i propri bisogni in un’altra mente, in genere quella della madre, che li riceve e li metabolizza, restituendoli tollerabili e trasformati alla prima mente. Cosicché la mente funziona o come un muscolo, che scarica continuamente pensieri-oggetto rimasti allo stato di cariche energetiche intollerabili, o come un apparato di pensiero vero e proprio che pensa i pensieri («elementi α »), reintroducendo dentro di sé esperienze emotive modificate e mitigate da altre menti.[1]
Ovviamente questa concezione bioniana rimanda ad un’elaborazione del lascito freudiano, il quale soprattutto dopo l’opera fondamentale di Melanie Klein, valorizza molto la seconda topica freudiana – la compresenza cioè nel fondo pulsionale dell’essere umano non solo del principio di piacere ma anche della pulsione di morte – e la tendenza, gia teorizzata dallo stesso Freud, dell’Io primitivo di costituirsi secondo l’incorporazione di tutto ciò che è buono e positivo e l’espulsione di tutto ciò che di negativo e di distruttivo pure appartiene allo stesso Io. Meccanismo di scissione all’interno dell’Io e di espulsione-proiezione all’esterno, che appunto spiega quell’originario e arcaico modo del pensare che Bion caratterizza come incapacità di accoglimento, di mentalizzazione e di simbolizzazione delle emozioni e come, invece, loro evacuazione, in quanto appunto «elementi » (o «cose in sé», pensieri-oggetto non rappresentabili e non mentalizzabili).
Ma, senza approfondire il discorso sul carattere “dialettico” del fondo pulsionale umano, sulla compresenza in esso degli opposti e dunque sulla sua strutturale ambivalenza, quello che qui preme sottolineare è come, anche con il progresso della clinica e della teoria psicoanalitica, si sia venuto facendo sempre più chiaro nell’ambito delle scienze umane quanto l’accoglimento e il riconoscimento da parte dell’altro sia fattore costituzionale del formarsi e del consolidarsi dell’identità e della soggettività personale, quanto l’altro-da-sé sia cioè fattore trascendentale, imprescindibile, e soprattutto intrinseco di costituzione del sé. Naturalmente a patto che si consideri ormai definitivamente superato il canone dell’io liberale-kantiano, per cui il soggetto moderno può accedere alla socializzazione solo attraverso una messa in campo di forme e di universali che, malgrado l’appello al sintetico e al trascendentale, appaiono ripercorrere la vecchia strada della forma come separazione e astrazione dal sensibile e dal particolare: come nell’universalizzazione formale-quantitativa della conoscenza scientifica, nella formalizzazione anaffettiva e razionale dell’imperativo morale, nell’istituzione formalistico-negativa dello Stato di diritto, dove l’istituzione pubblica non interviene mai nella sfera privata dei singoli a dire cosa è bene e cosa è male, ma, obbligando appunto solo a ciò che non si deve fare, costruisce solo le regole di limitazione all’interno delle quali ciascuno possa giocare il gioco che vuole.
Senza tralasciare inoltre la considerazione ulteriore che proprio tale dualismo-distinzione tra pubblico e privato, tra nesso sociale e individuo, è la cerniera su cui gira, almeno secondo la critica del vecchio Marx, la separatezza tra l’ambito democratico-pubblico della circolazione delle merci e dello scambio tra soggetti liberi ed equivalenti mediato dal denaro e l’ambito autoritario-privato del consumo capitalistico della forza-lavoro, mediato, non dal denaro, ma dall’organizzazione tecnico-direttiva d’impresa.
La civiltà del liberalismo classico, fondata su questo snodo tra pubblico e privato, sembra del resto che stia esaurendo la sua funzione storica, proprio a causa della vuotezza e dei drammatici esiti esistenziali che quella collocazione, all’esterno, dell’altro-da-sé ha generato nel sé, quale doloroso e patologico rovesciamento da pagare alla sua pretesa mitica e ideologica di costituire un’individualità fondamentalmente autosufficiente. Mitologia di una soggettività, presuntivamente concepita come originariamente compos sui, padrona di sé a priori, e nella quale la relazione con l’altro-da-sé, espulsa e collocata all’esterno, ha costituito sempre un a posteriori, una possibilità opzionale anziché una necessità strutturale e costitutiva.
Né per altro il modello antropologico dei regimi del cosiddetto socialismo reale ha potuto proporsi come modello di una civilizzazione alternativa a quella del liberalismo illuminista, dato il carattere, parimenti astratto, della socializzazione che proponeva, istituito sulla valorizzazione, univoca ed asimmetrica, dell’eguaglianza rispetto al polo della differenza e della singolarizzazione. E dove, di nuovo, anche se con una configurazione di valori opposta a quella della civiltà liberale, società e individualità tornavano ad essere estranee l’una all’altra, giacché il carattere comunitario e comune del vivere escludeva il diritto all’individuazione come un errore ontologico e come un terribile peccato sociale: tanto da potersi imporre, quel valore dell’eguaglianza estrema ed assoluta, anche attraverso istituzioni autoritarie.
E’ perciò a uno snodo diverso, a una diversa cerniera, che articoli il nesso individuo-società che bisogna guardare per trovare modi diversi e più avanzati di socializzazione e di antropologizzazione. Nel verso, appunto, del pensiero e della ricerca di Honneth la quale si prova, partendo, come si diceva, da una complicazione psicoanalitica del concetto di libertà, a coniugare insieme individuazione e socializzazione. A concepire cioè una configurazione della società il cui nesso di socializzazione sia fondato proprio sulla possibilità per ciascun suo membro di realizzare e veder riconosciuto un percorso di vita altamente personalizzato: «una forma di società che trova nel riconoscimento intersoggettivo della particolarità di ciascuno l’elemento organico della sua coesione».[2] Ovvero, si potrebbe dire in modo ancora più espressivo, una configurazione sociale, nella quale non accade che la mia libertà finisce là dove comincia la tua, secondo quanto vogliono una concezione classicamente liberale di libertà e una rappresentazione atomistica delle individualità, bensì che la mia libertà inizi dove comincia la tua, giacché la maturazione di una personalità maggiormente individuata da parte degli altri-da-sé è condizione e medium, attraverso una maggiore capacità di riconoscimento, di una maggiore individualizzazione e capacità di autorealizzazione, a sua volta, di ciascun sé.
E proprio tale nuova configurazione dell’immagine di libertà, nel suo carattere bidimensionale, fa ben capire l’estenuazione e l’esaurimento storico delle due classiche libertà contrapposte del moderno (la «libertà liberale» e la «libertà comunista»), coll’esplicitarne i limiti di una medesima astrazione che le coinvolge entrambe, ciascuna a suo modo, nel non tener in conto della dimensione opposta. La libertà liberale, perché, considerando unica sede di creatività e di valore quella del foro interiore o dell’agire privato, ha sempre derivato e dedotto il pubblico (quale male necessario o quale valore secondario) dal privato, concependolo appunto solo quale regolazione negativa e reciproca limitazione degli ambiti privati, affinché non si danneggino l’un con l’altro. Col finire così, come accade oggi nella diffusione delle nuove forme di lavoro mentale-informatico e nelle nuove tipologie di consumo mercantile del postmoderno, ad enfatizzare la pienezza e la creatività di un soggetto, che invece nella pratica quotidiana reale si rovescia nella vuotezza di emozioni e nella fragilità di un io che si riconosce solo nell’interiorizzazione di stereotipi massificati di superficie.
La libertà comunista perché, valorizzando solo l’eguaglianza e vedendo nella differenziazione individuale dal “comune”[3] il disvalore, ha finito con lo svincolare l’esistenza d’ognuno da una gestione sana e matura della propria bisognosità: o consegnandola, con un basso grado di elaborazione personale, al soddisfacimento burocratico-autoritario-indifferenziato del collettivo, o affidandola a un fai-da-tè occulto ed arrangiante, furtivo e compromissorio. Dando vita, in entrambi i casi (sia con una percezione simbiotica del proprio sé che con una valorizzazione dell’astuzia dell’io di fronte al collettivo), al venire meno di una partecipazione motivata e appassionata alla vita comune, che è stata una delle cause, non ultime, sul piano antropologico-esistenziale del crollo dei paesi del cosiddetto comunismo reale.
2. La libertà come unificazione di facoltà
La nuova definizione dell’etico-politico, che qui si propone, – da concepire come somma delle condizioni intersoggettive che valgano come presupposti dell’individuazione intrasoggettiva – risponde anche al modo più laico e post-metafisico d’intendere l’istanza, io credo, di quella filosofia hegeliana che costituisce, com’è noto, il punto di riferimento fondamentale, non solo della ricerca di Honneth, ma di larga parte della «riabilitazione della filosofia pratica» che s’è avuta in Germania nell’ultimo trentennio.
Il movimento del Geist hegeliano può essere letto infatti come quella di una soggettività che, quanto più è capace di Erinnerung (interiorizzazione), tanto più è capace di aprirsi all’Entäusserung (esteriorizzazione) e alla relazione con l’alterità fuori di sé. «Spirito» cioè in Hegel può significare, propriamente, la capacità di sottrarsi ad una serie di autorappresentazioni fallaci del proprio sé, le quali in tanto sono inadeguate e fallaci in quanto scindono e collocano all’esterno quella relazione con l’altro-da-sé, che è invece condizione interna della costituzione della soggettività. Lo spirituale è così l’abbandonare l’identità più immediata ed estrinseca del proprio sé – quella attinente al naturale per Hegel, perché il naturale è appunto il modo di autoconcepirsi dove il motivo dell’esclusione reciproca dei corpi individuali e del loro riprodursi prevale su quello della relazione – ed è invece il processo dell’interiorizzarsi in se stesso, trascorrendo dalle immagini di superficie a quelle più interne, dove si trova al fondo del proprio sé anche l’altro da sé, e dove finalmente il soggetto può coincidere con sé, cioè totalizzarsi, perché il suo fondamento non è mai l’essere uno ma sempre l’essere bino.
Che il movimento dialettico, del superamento della scissione e della contrapposizione tra poli, in tanto abbia una conclusione triadica (tesi, antitesi, sintesi) in quanto la sua struttura effettiva sia in effetti formata da una quadruplicazione dei termini – dove ciascuno dei due si fa l’intero perché ognuno, accogliendo dentro di sé l’altro, da uno si fa bino – , è, com’è noto, quanto Hegel ha appreso da Schelling nella loro collaborazione jenese al «Kritisches Journal der Philosophie». La definizione schellinghiana dell’Assoluto come indifferenza di soggetto ed oggetto impone infatti, al di là della sua presupposizione speculativa e metafisica, che ogni forma d’esistenza sia sempre doppia, compresenza di soggetto ed oggetto (con la prevalenza della dimensione oggettiva dell’inconsapevolezza nella natura, o mondo dell’oggetto-soggetto, e con quella della consapevolezza soggettiva nel mondo spirituale del soggetto-oggetto). Ed impone perciò che il cammino verso l’Assoluto, ossia verso l’autenticità, consista nella capacità di raggiungere ed esplicitare la struttura sempre duale del proprio sé.
Ma, ancor prima, che l’autenticità consista in una unificazione armoniosa degli ambiti interiori e delle facoltà di un soggetto, senza che tale unificazione possa significare dominio di una di quelle sulle altre, è quanto il giovane Hegel ha maturato con Hölderlin nella declinazione comune, pur tra accentuazioni diverse, di una Vereinigungsphilosophie (filosofia dell’unificazione) che, movendo, tra l’altro, da forti sollecitazioni schilleriane, discuteva appunto di come comporre senza violenza e senza asimmetrie, al di là dei dualismi kantiani, l’unità della vita.[4] Per cui ciò che qui preme ora dire, senza stare ora a considerare i vari modi con cui, secondo le diverse fasi del pensiero hegeliano, si produce tale unificazione (destino, negazione, contraddizione), è che per Hegel non si dà realmente soggetto, ossia non si supera un’esistenza meramente naturalistica, senza totalizzazione della propria interiorità. Senza cioè che si dia un’attivazione e una messa in gioco di tutte le sue facoltà: in una mancanza di dominio e di repressione interiore che implica e rimanda, necessariamente, ad una mancanza di dominio e repressione esteriore, come già voleva appunto l’ideale della Vereinigungsphilosophie, con la sua idealizzazione della grecità classica come il luogo di un’umanità armonica e pacificata sia all’interno di ogni essere umano che all’esterno della vita pubblica e civile.
3. Filosofia dell’unificazione e filosofia del diritto.
L’ideale della Vereinigungsphilosophie, come realizzazione, insieme, di individuazione e di socializzazione, nel sistema hegeliano della maturità si traduce e si svolge in quella filosofia dello «spirito oggettivo» che nelle Grundlinien der Philosophie des Rechts studia e articola il nesso appunto di individuazione-socializzazione secondo le tre sfere di «famiglia», «società civile» e «Stato”». Infatti qui l’autoriconoscersi del soggetto nelle sue varie istanze interiori – quale, rispettivamente, essere bisognoso di accudimento e d’amore, persona capace, alla pari degli altri, di attivarsi e oggettivarsi nel mondo esterno, e individuo meritevole di godere del rispetto e della stima sociale -, secondo quanto ha ben compreso Honneth, è legato al progressivo ampliarsi dell’ambito del riconoscimento che gli altri pongono in atto nei suoi confronti. Dove cioè approfondimento dell’autoriconoscersi da un lato, nel complicarsi delle proprie facce interiori e nell’uscita da un’autorappresentazione solo immediata e primitiva di sé, e allargamento delle dimensioni e degli spazi sociali dell’essere riconosciuto fanno tutt’uno.
Eppure è proprio qui, nella riattualizzazione della Filosofia del diritto di Hegel che Honneth ha posto al centro della sua proposta di un’etica sociale basata sul riconoscimento, che si evidenzia quanto sia complesso impostare un nuovo discorso di antropologia sociale istituito sulla compresenza dei due “assi cartesiani” di espansione orizzontale, quanto a socializzazione, e di approfondimento verticale, quanto a interiorizzazione e appropriazione del Sé. E quali siano per altro le difficoltà teoriche e i limiti dell’intero movimento di riabilitazione della filosofia pratica, quando le sue istanze si piegano troppo nel verso dell’egemonia di quel paradigma comunicativo che l’etica del discorso di Habermas sembra aver imposto all’intero ambito della sociologia, nonché della filosofia sociale e politica contemporanee.
L’operazione teorica che Honneth compie sulla Filosofia del diritto di Hegel per altro è assai chiara ed esplicita. Il suo intento è di mostrare infatti come il testo del 1820 de-metafisicizzato e de-statualizzato – affrancato cioè dalla curvatura ontologica e metafisica dello Spirito in Hegel come dalla configurazione, ormai superata, dello Stato hegeliano – contenga «l’abbozzo di una teoria normativa di quelle sfere sociali del reciproco riconoscimento, il mantenimento delle quali è costitutivo per l’identità morale delle società moderne».[5] Si tratta di ripensare cioè la Filosofia del diritto senza la funzione di sostegno della Scienza della logica (ossia senza la dialettica) e senza il costituzionalismo monarchico-cetuale che ancora affetta lo Stato hegeliano, per poterne sviluppare tutto il valore di un modello sociale che vuole rifondare il principio moderno dell’autodeterminazione dell’individuo sul fondamento di un’intensificazione progressiva della stima di sé, procurata attraverso l’esposizione e la partecipazione a sfere sempre più ampie del confronto sociale e del riconoscimento intersoggettivo.
Infatti nella «famiglia» il singolo si rapporta alla propria bisognosità per mezzo di una relazione con gli altri che non è mediata attraverso vincoli e istituzioni sociali bensì attraverso sentimento ed amore. Ne deriva perciò, col soddisfacimento del bisogno, che il singolo non può riconoscersi ed essere riconosciuto ancora come persona autonomamente distinta e libera, ma solo come individuo gruppale, come membro di un gruppo. Nella «società civile» invece l’individuo soddisfa una propria bisognosità, fattasi più complessa e più vasta, relazionandosi agli altri attraverso la mediazione della ragione e del lavoro. Attraverso la ragione è infatti capace di realizzare un’agire strumentale adeguato ad uno scopo (lavoro), il cui prodotto scambia sul mercato economico con i prodotti dei lavori di tutti gli altri. Per cui, come individuo in grado di mediare da sé la propria bisognosità attraverso la ragione, è riconosciuto persona autonoma, non dipendente da nessun gruppo o da nessun altro in particolare, e, come tale, a tutti gli altri eguale in quanto soggetto di diritto privato: portatore cioè di tutti i diritti liberali classici, che attengono appunto al libero individuo in quanto diritti cosidetti negativi e che impediscono che l’esercizio della ragione, nonché la libertà, la vita e la proprietà della persona privata sia danneggiata dall’ingerenza illecita degli altri singoli e dello Stato.
Solo che il riconoscimento giuridico a sua volta, riconoscendo il singolo come persona pari a quella di tutti gli altri, lo considera ancora secondo qualità generali (ragione e lavoro) che trascurano ciò che di più peculiare lo differenzia e lo individualizza. Per tale motivo l’ambito di riconoscimento ulteriore alla dimensione astratta del mercato e ricco, invece, di individuazione, è lo «Stato». Dove, attraverso le istituzioni comunitarie e solidali delle professioni e delle corporazioni, l’individuo acquisisce stima ed onore da parte degli altri membri della società proprio per le sue particolari qualità e la specificità delle prestazioni che riesce ad apportare all’utile generale. Per cui all’astrattezza universalistica del concetto di persona si sostituisce una soggettività, che cessa di soffrire d’indeterminatezza e di riconoscimenti generici, per essere stimata e valorizzata nell’individualità più propria, irriducibile a quella degli altri, del suo Sé.
Così si può concepire la suddivisione della vita sociale, e la coesistenza in essa, di tre ambiti delle relazioni intersoggettive strutturate secondo modalità specifiche di riconoscimento reciproco – amore, diritto, solidarietà (nel senso di orientamento verso valori comuni) – cui corrispondono specifiche e differenti modalità di autorelazione individuale. Secondo una progressione nella quale, tanto più si approfondisce il riconoscimento intrasoggettivo e la valorizzazione integrale del proprio sé, tanto più si estende la latitudine e l’orizzonte del riconoscimento sociale. E per la quale – rilievo che mi sembra fondamentale nell’argomentazione di Honneth – si può pensare, diversamente dal diritto liberale e dal diritto comunista, che portatrici di diritti in generale non siano più gli individui, atomisticamente concepiti e presupposti, ma le istituzioni del riconoscimento: a patto, ovviamente, che, per sfuggire all’estremo opposto, di un’invasione del collettivo nella singolarità, il loro scopo istituzionale prioritario sia proprio la promozione e l’accudimento dell’autodeterminazione individuale. «A questa proposta concettuale di Hegel si deve la trasposizione del moderno concetto di «diritto», cioè della rappresentazione normativa che ad un oggetto competono pretese universalmente legittimate e sanzionate dallo Stato, dalla sfera dell’individuo ai rapporti o alle strutture sociale nel loro complesso. Secondo l’utilizzo che Hegel fa del concetto di diritto nella Filosofia del diritto, i diritti universali non spettano in primo luogo agli individui, ma a quelle forme sociali dell’esserci che, nell’interesse a una realizzazione del libero volere, si lasciano mostrare come beni sociali fondamentali. […] Le portatrici di «diritti» di cui la Filosofia del diritto tratta sono perciò innanzitutto le sfere e le pratiche sociali che hanno una legittima pretesa ad essere conservate e sviluppate dalla società nel suo insieme; mentre destinatari di tali «diritti» di sfere, istituzioni o sistemi devono essere considerati tutti i partecipanti a quelle società che sono caratterizzate dal principio normativo dell’autodeterminazione dell’individuo».[6]
4. L’aporia di un impossibile sincronismo storico
Eppure, al di là dell’alleggerimento metafisico e politico che può essere apportato alla Filosofia del diritto di Hegel, e al di là dell’accoglimento della sua tesi generale quanto alla necessità di coniugare insieme progressi dell’individuazione e progressi della socializzazione, c’è una difficoltà intrinseca che mostra di impedire la riattualizzazione di quel testo, quale possibile modello paradigmatico della problematica in questione. L’aporia di fondo della soluzione avanzata da Hegel di coniugare insieme, nell’unico spazio della modernità, tre diverse tipologie di libertà e tre diversi snodi del riconoscimento/autoriconoscimento, sta nel fatto che il maestro berlinese è stato costretto, a mio avviso, a giustapporre tempi storici diversi e dunque, a ben vedere, istituzioni, corpi giuridici ed usanze tra loro incompatibili perché iscritte ed appartenenti ad epoche successive della civilizzazione. Ha preteso cioè di far coincidere la filogenesi di un soggetto individuale – l’evoluzione di un soggetto che trascorre e matura da forme insufficienti a forme sempre più adeguate del proprio sé – con la compresenza di modelli relazionali che rimandano a genealogie diverse. Giacché non è forse vero che il sistema dei bisogni, la parte più caratterizzante o comunque più celebrata della società civile hegeliana, rimanda ai soggetti liberi, autonomi ed eguali del mercato moderno, nel loro scambio mediato da merci e denaro, laddove Stände (ceti), Zünfte (corporazioni) e Polizey (polizia), gli altri istituti che nella stessa società civile insediano il senso associativo e solidaristico della comunità, oltre che assistenziale-dirigistico dello Stato, rimandano alla configurazione premoderna di una società corporativo-cetuale e di un Polizeystaat legate all’ordinamento monarchico-principesco dei vari stati tedeschi e alla tradizione cameralistica del dispotismo paternalistico settecentesco?[7]
Hegel è stato il primo, com’è ben noto, a introdurre nella filosofia sociale e politica moderna la distinzione di «società civile» e di «Stato politico», assegnando alle due sfere autonomie e peculiarità di compiti. Ha cioè caratterizzato la modernità secondo la differenziazione di ambiti che nella società cetuale premoderna sono ancora indistinti, per la coincidenza di funzioni economiche e di prerogative giuridico-politiche che articolano secondo diritti-doveri e poteri-prerogative diverse la compagine dei vari, e e tra loro gerarchici, ceti sociali. Tant’è che prima di Hegel il lemma «societas civilis», in tutto il giuscontrattualismo sei-settecentesco, definisce la società in quanto tale, nella totalità delle sue istituzioni economico-giuridico-politiche, a differenza della «societas naturalis» che attiene allo stato di natura e a una condizione precontrattuale e presociale della vita individuale.
Ma Hegel, attraverso la frequentazione fin dalla giovinezza degli economisti inglesi, ha compreso che il sistema dei bisogni, cioè l’economia di mercato, annulla ogni vincolo sociale di natura non economica che sia predeterminato e presupposto (come accade nella società cetuale) all’agire degli attori economici, e che il nesso e la relazione sociale nasce solo attraverso e con l’economico, scambiando merci e lavoro. Ha compreso cioè che con l’economia moderna si costituisce per la prima volta nella storia un ambito, che è il mercato, che si autoregola secondo un valore di scambio e legalità del tutto autonome, che non dipendono più da altri valori e altri ordini culturali-simbolici, di natura parentale, religiosa, politica, com’era accaduto fin’allora in tutte le società antiche e premoderne. E che appunto il sistema dei bisogni, come ambito dell’agire peculiare della borghesia moderna e come luogo che contraddistingue per eccellenza l’intera società civile, pretende legittimamente, per questa sua autonomia di legalità e di fondazione, ad un suo spazio differenziato dagli ambiti a valle e a monte, rispettivamente, della famiglia e dello Stato politico.
Anzi, va aggiunto, che Hegel ha tanto compreso la specificità e la potenza di questo nuovo nesso di socializzazione, costituito da una dipendenza di ciascuno da tutti, e perciò da nessuno in particolare, da vedere e presagire il possibile estremizzarsi ad astratto e a cosa morta di tale nesso impersonale, con tutte le crisi e i rovesciamenti di cui può soffrire un’economia di mercato. Tanto da concepire, soprattutto con l’eleborazione del sistema maturo rispetto agli scritti di filosofia sociale e politica del periodo di Jena, il compenetrarsi del tempo moderno con il tempo premoderno, per far intervenire tutta una serie di istituti e di interventi solidali e comunitari che potessero mitigare e compensare le asprezze strutturalmente connesse con l’economia moderna di mercato. Per dire cioè che lo Stato etico di Hegel, ben lungi dalla lettura assai miope di Stato totalitaristico che ne ha dato l’interpretazione liberale a cominciare da R.Haym per finire con K.Popper, nasce, all’opposto, dall’esigenza d’impedire che proprio l’autonomia dell’economia monetaria moderna possa, essa, totalizzarsi, facendosi soggetto smisurato ed abnorme che travolge, anche da lontano nelle crisi economiche mondiali, le esistenze dei singoli.
Ma appunto le virtù e le modalità di riconoscimento solidale che Hegel trova a disposizione sono quelle della tradizione cameralistico-cetuale: a meno ovviamente di voler vedere, come pure taluni hanno voluto proporre, nelle Zünfte medioevali e cetuali di cui parla Hegel, già le associazioni mutualistiche e i sindacati della moderna lotta tra le classi, o addirittura nella Polizey hegeliana una sorta di anticipazione dello Stato bismarckiano e del Welfare.[8] Io credo al contrario che l’articolarsi della società civile hegeliana secondo la tripartizione del «substanzielle Stand» (ceto agricolo), del «formelle Stand» (ceto dei mestieri e dell’industria), e dell’«allgemeine Stand» (ceto dei funzionari pubblici) rimandi alla valorizzazione-utilizzazione che da sempre Hegel ha fatto della struttura cetuale premoderna – fin dal Naturrechtaufsatz e dal System der Sittlichkeit del 1802 – così come la «Polizia» richiama esplicitamente non l’istituzione repressiva moderna finalizzata al mantenimento dell’ordine, ma la politica, quale arte della polis e accadimento del benessere dei sudditi da parte da parte del sovrano premoderno attraverso la scienza cameralistica; così come infine il riconoscimento e l’onore, che i membri di una Zunft si accordano reciprocamente in base alla qualità dei manufatti che creano e all’eccellenza della prestazione professionale che esercitano, appaiono iscriversi indubbiamente assai più al mondo corporativo delle arti e dei mestieri premoderni e preindustriali che non al mondo moderno del lavoro salariato e industriale. Ed appunto proprio per questo suo strutturale anacronismo, o, come si diceva sopra, per la giustapposizione di un tempo premoderno e di un tempo moderno, non sembra sia né possibile né utile oggi proporre una riattualizzazione della Filosofia del diritto, per quanto la si faccia leggera sottraendola alla curvatura ontologico-dialettica del più generale impianto hegeliano.
5. Dalla dialettica al dialogo.
Tanto più che proprio la giustapposizione hegeliana di un sistema dei bisogni da un lato, improntato all’economia impersonale del mercato moderno e al suo automatismo privo di vertici e di asimmetrie decisionistiche, e dall’altro di istituzioni della società cetuale, basate su relazioni personali e su un forte decisionismo politico, – senza che i due ambiti interagiscano e si compenetrino l’un l’altro – anticipa le difficoltà che oggi stringono da presso, a mio avviso, il confronto tra mercato ed economia capitalistica della globalizzazione e quel paradigma democratico-comunicativo di redistribuzione delle ricchezze, di Welfare, di dialogo multiculturale, nel cui allargamento e intensificazione anche Honneth, seguendo la lezione di Habermas, fa sfociare, quanto a soluzioni istituzionali, la sua etica del riconoscimento. Coltivando in tal modo quel percorso di abbandono di ogni istanza dialettica legata alla critica marxiana dell’economia politica al fine di una valorizzazione, invece, dell’ambito discorsivo dell’etica e della politica, che, attraverso il programma habermasiano di un’etica del discorso e di una rifondazione linguistico-comunicativa del materialismo storico – si potrebbe dire, riassumendo, dalla dialettica al dialogo – ha caratterizzato la sociologia critica della Scuola di Francoforte e più in generale l’intera filosofia pratica tedesca degli ultimi trent’anni.[9]
In effetti il vizio di fondo del paradigma etico-discorsivo habermasiano – e si perdoni qui, per ragioni di spazio, la schematicità dell’esposizione – appare essere, probabilmente per eccesso di un’originaria cultura sociologica, nella riduzione di Karl Marx a Max Weber, nella riduzione cioè del processo di produzione della ricchezza moderna marxianamente inteso all’agire strumentale di un soggetto razionalmente orientato. Nell’interpretazione cioè dell’economia moderna come istituita sulla centralità della ragione calcolante, esito del processo di secolarizzazione e della sostituzione, nella storia d’Occidente, dell’orizzonte religioso-teologico con quello logico-scientifico. Con la conseguenza di leggere la storia della modernità economico-tecnologica alla luce di un criterio d’azione soggettivistico e individualmente intenzionale, secondo quanto poi ha ben compreso e valorizzato Heidegger nella sua lettura del moderno e della tecnica, come ipertrofia del soggetto logico-rappresentazionale e manipolante. Laddove dovrebbe esser ben chiaro che la differenza più significativa tra la matura critica dell’economia politica di Marx e la sociologia tra ‘800 e ‘900 si colloca nel fatto che la sociologia, a muovere da quella weberiana, spiega l’evento sociale sempre a a partire dalla motivazione e dall’intenzione del soggetto agente, mentre non solo tutto il materialismo storico marx-engelsiano legge la storia alla stregua di leggi oggettivo-naturalistiche ma soprattutto il Marx di Das Kapital e dei Grundrisse mette in scena un soggetto astratto e impersonale, qual è «il capitale» con la sua natura di ricchezza appunto astratto-quantitativa che riduce i soggetti concreti e individuali ad essere solo maschere, cioè portatori delle varie funzioni della sua produzione e riproduzione.
Ma soprattutto la traslazione del paradigma capitalistico di Marx nel paradigma razionalistico di Weber, con la riduzione del processo di produzione economico sostanzialmente a un modo di porsi, laico, utilitaristico e calcolante, del soggetto di fronte all’oggetto, tende a mettere sullo sfondo le relazioni sociali di cui quel processo è invece intessuto e a vederlo, per la sua natura dichiaratamente solo funzionale-strumentale e produttivo-materiale, sostanzialmente estraneo alla produzione simbolico-culturale, di idealità cioè e valori diversi da quelli immediatamente economico-materiali. Ed infatti la produzione di tali valori, concernenti non l’utile, bensì il buono, il bello e il vero – ossia fondamentalmente come i membri di una società devono distribuirsi e godere, quanto e come privatamente o comunitariamente, quell’utile – avviene, sappiamo per Habermas e l’intera svolta comunicativa da lui impressa alla filosofia tedesca contemporanea, altrove: attraverso un’altra forma di agire, che, mettendo in campo un’altra tipologia di ragione, diversa da quella tecnico-strumentale, è l’agire dialogico-discorsivo, il cui orizzonte è quello istituzionale-democratico e in cui la relazione soggetto-soggetto domina la scena rispetto a quella di soggetto-oggetto.
In tal modo la Kehre comunicativa di Habermas interrompe e riscrive del tutto a suo modo la tradizione della Scuola di Francoforte, con due radicali riorientamenti di prospettiva. Sostituisce infatti all’economico marxiano il primato del sociologico weberiano, visto che, come si è detto, pone a base di un sottosistema come quello dell’economia moderna l’astrazione mentale anziché l’astrazione reale. Ossia l’azione razionale rispetto allo scopo propria dell’imprenditore, con la pianificazione e organizzazione del processo produttivo che ne consegue e con il calcolo sul mercato dei beni, del capitale e del lavoro, al posto di un vettore di socializzazione come il capitale in quanto tale, che per la natura astratto-quantitativa della sua ricchezza e l’accumulazione tendenzialmente senza fine che ne deriva, riduce invece le varie figure dell’imprenditore capitalista (produttivo, finanziario, commerciale) a funzionari della propria necessità impersonale di crescita, piegando ogni logica specifica di razionalità al vertice indiscutibile, e in quanto tale irrazionale, della ininterrotta maggiorazione quantitativa di profitto.
E libera, in pari tempo, la democrazia dall’economia, collocandola non più in uno spazio derivato e sovrastrutturale, ma in un luogo intrinsecamente autonomo, perché istituito su un agire comunicativo, che non produce beni o denaro, ma è volto alla comprensione e all’intesa linguistica, come mezzo e sistema di coordinamento delle azioni dei singoli. Con la consequenza, tra le varie tesi teoriche che da questa dislocazione radicale derivano, di delegittimare l’istanza teorico-critica che più specificamente aveva connotato l’attività di ricerca dell’Istituto di Francoforte durante le due guerre e la filosofia sociale, soprattutto nella versione adorniana, che l’aveva a lungo alimentata e che aveva assunto la società del capitalismo contemporaneo come totalità totalitaristica in quanto unificata da un medesimo principio antilluministico e autoritario, sia nella produzione delle cose che in quella delle idee e della coscienze.
6. Un eccesso di comunicazione.
Che nella filosofia etico-politica di Honneth una teoria della socializzazione basata sul progredire di forme sempre più approfondite del “riconoscimento” sbocchi, come sua proposta antropologico-istituzionale più adeguata, nella valorizzazione di un riconoscimento democratico-comunicativo quanto più esteso ed ampio possibile, che si ponga accanto – e come ulteriore – a un economico strutturato già secondo una sua specifica ma insufficiente modalità di riconoscimento, mi sembra dunque palesare le difficoltà e le incongruenze, per altro inevitabili io credo all’inizio di un nuovo cammino, che si danno tra il modo assai fecondo e originale d’impostare il problema di una nuova filosofia sociale della postmodernità, qual è quello di Honnneth, e soluzioni congrue all’altezza dei problemi che quella medesima filosofia inaugura e pone.
La possibilità da parte del riconoscimento comunicativo d’intervenire solo dall’esterno a contemperare e a riformare gli esiti del riconoscimento economico – insomma il sostanziale dualismo d’interessi e di logiche tra agire strumentale e agire comunicativo – continuano a parlare di una attualità della Filosofia del diritto di Hegel, ma alla rovescio: nel senso negativo dell’impossibilità di riproporre la sua aporia di fondo, che consiste nella giustapposizione sincronica di funzioni storiche diacroniche. Del resto tale compromesso storico è quanto di meglio ha potuto concepire Hegel, per soddisfare il nobile ideale della sua filosofia della storia, perseguito fin dagli scritti giovanili, di riunificare l’etica antica del comune e del collettivo con l’autonomia moderna della soggettività individuale e privata. Ma al prezzo appunto con la Filosofia dello spirito oggettivo delle Grundlinien di sciogliere la processualità dialettica del suo filosofare, scandita nella sua tipologia generale dal succedersi di figure per opposizione-contraddizione, in una compresenza, qui invece, di distinti, il cui nesso, proprio perché di coesistenza e di distinzione, non è costituito da opposti in conflitto e in esclusione reciproca tra di loro.
Salvo cadere nell’errore, come è accaduto invece a una larga parte degli interpreti d’ispirazione marxista che hanno seguito su ciò l’esegesi semplicistica e sbagliata del giovane Marx, di leggere la Filosofia dello spirito oggettivo, e in particolare il nesso società civile-Stato politico come un legame, non di distinzione-giustapposizione, bensì di opposizione e contraddizione. Da cui sarebbe derivata, ancor prima che per ragioni economiche, una spinta e una facilitazione al superamento della società borghese moderna, minata appunto al suo interno, come teorizza il Marx del 1843 della Critica del diritto statuale hegeliano nella sua facile e moralistica costruzione di opposizioni, da un lato dal principio dell’individualismo astratto che reggerebbe la società economica e dall’altro dal principio di un universalismo parimenti astratto, che reggerebbe lo Stato.
Ma quello che più in generale preme dire è che oggi non appare più possibile mettere a tema o predisporre una teoria dei distinti, alla Benedetto Croce, o degli spazi sistemici differenziati alla Luhmann, di contro al darsi di una postmodernità, che nell’era della globalizzazione, assiste all’imporsi di una sovradeterminazione economica che supera ogni differenziazione di ambiti, sia geopolitici che di funzioni di vita, eccedendo da un lato i confini tradizionali dello Stato-nazione e dall’altro traducendo dall’extraeconomico all’economico ogni luogo dell’esperire capace finora di un’esistenza che non si riproducesse attraverso merce e denaro. La funzione identitaria e omologante dell’economico oggi è così pervasiva, così universalizzante, sia in termini di macrocosmo che di microcosmo, che è vano pensare al suo contenimento attraverso cerchie concentriche, di valorizzazione qualitativamente eterogenea, nonché di maggiore ampiezza e presunta universalità. E’ vano cioè pensare secondo una logica della giustapposizione, giacché la forza universalizzante, e astraente da ogni differenza, propria oggi dell’economico potrà, verosimilmente, essere discussa e messa in questione da una valorizzazione altra solo quando quest’ultima sarà in grado di attraversarla, di mediarla e di risignificarla intrinsecamente. Quando dunque invece di una logica e di una politica della pretesa distinzione, si metterà in campo un vettore di universalizzazione e di socializzazione capace di essere ancora più universale e socializzante dell’economico.
Ed è appunto quanto si può provare a progettare un’antropologia, un’economica e una politica del riconoscimento, a muovere da quanto ha significativamente e meritoriamente inaugurato da Honneth. Giacchè l’ideale di una comunità il cui principio di socializzazione sia costituito dal «riconoscimento intersoggettivo della specificità biografica di tutti i soggetti»[10] può effettivamente valere come una nuova tipologia e realtà di ricchezza da far valere, come più universale e insieme più individualizzante, di contro alla ricchezza universale ma astratta dell’economico oggi dominante su scala globale. Non foss’altro perché un’individualizzazione di tale natura e ampiezza porterebbe a una tale liberazione di energie che senza dubbio la produttività economica, quanto a creazione e a moltiplicazione di beni e di servizi, aumenterebbe forse come non mai. La proposta di Honneth di una socializzazione individualizzante, per la quale ciascuno potrebbe vedere nella realizzazione dell’altro/altri la condizione della propria autorealizzazione, può implicare dunque una nuova definizione di ricchezza incentrata su un’ecologia antropologica, a cui, nell’ottica di una generalizzata non-violenza e del rifiuto di ogni dimensione di dominio, si connette necessariamente il paradigma di un’ecologia ambientale.
Del resto, la fuoriuscita di una parte privilegiata della popolazione mondiale da una antropologia della penuria, legata al soddisfacimento di bisogni solo materiali e a un’autorappresentazione ancestrale e primitiva di sè, consente di mettere all’ordine del giorno, per la prima volta nella storia dell’umanità, un concetto di ricchezza, in qualche modo non più materiale, istituito appunto sul grado più ampio possibile di autoriconoscimento come di riconoscimento dell’altro da sé. Ma ciò non può non significare, per quanto s’è fin qui detto, provarsi, in un grande sforzo di innovazione e di sperimentazione collettivo, a sottrarre la pienezza del modulo del riconoscimento a un contesto di relazioni solo dialogico-comunicative, come avviene ancora con Honneth, e dislocarlo in un contesto fondamentalmente economico-produttivo, riuscendo ad articolarlo secondo sistemi di relazione uomo-macchine, uomo-uomo, uomo-natura, composizione merceologica dei prodotti che strutturino un nuovo modo di produzione.
Condizione indispensabile di questo nuovo procedere appare perciò ogni sforzo che si dia nel tentativo di riequilibrare l’asimmetria che in una coniugazione prevalentemente dialogico-comunicativa del paradigma del riconoscimento si dà tra costituzione interpsichica e costituzione intrapsichica del sé. Dove ciò che progressivamente si fa assente, o viene asimmetricamente neutralizzato e raffredato, è il corpo, nella sua complessità di corpo fisico-emozionale, nonché di luogo ultimo e fondativo del senso. Giacché tale si configura la corporeità almeno a chi, nella continuità della tradizione ideale che da Spinoza giunge a Freud, ritiene che la mente dell’essere umano sia sempre mente di un corpo: che abbia cioè il corpo e la sua cura come oggetto prioritario e fondamentale della sua attività di vita e di pensiero.
La libertà come assenza d’impedimenti, di rimozioni, di terrore rispetto alla propria interiorità, di cui parla Honneth, quale complicanza indispensabile del concetto postmoderno di libertà, è soprattutto capacità di ascolto e di valorizzazione della propria corporeità e del percorso emotivo-rappresentazionale-simbolico che la conduce ad essere presente e significante nella mente. La cura di questo versante relazionale-verticale del proprio Sé, abbiamo detto, è di pari importanza a quella del versante relazionale-orizzontale, visto anche che l’una non può realmente darsi senza l’altra. Giacché senza fiducia di sé non c’è confidenza con l’altro, come senza conferma dell’altro non c’è accettazione di sé.
Riuscire a fare della protezione di tale libertà interiore, e dell’accudimento della corporeità ch’essa implica, un’acquisizione e un valore irrinunciabile del nostro vivere futuro non solo nell’ambito delle relazioni d’“amore” familiare ma anche nell’organizzazione della scuola e della trasmissione del sapere, ma soprattutto nell’organizzazione e nelle modalità del “lavoro” in generale – significa concorrere all’ipotesi di realizzazione della nuova ricchezza di cui si diceva. E solo di lì, alla luce di una libertà postliberale e postcomunista che coniuga insieme l’altro da sé e l’altro di sé, tornare a concepire una nuova filosofia e una nuova pratica dei distinti, che differenzi, secondo diverse proporzioni di quel criterio, spazi privati e pubblici, scolastici e lavorativi, formativi e di tempo libero: perché la differenziazione e l’autonomia dei vari ambiti d’esperienza nell’ambito di una cornice unitaria di vita è la condizione di ogni assetto sociale che non si voglia indifferenziato e totalitaristico secondo un unico principio, quali sono stati nel moderno – certo secondo valori, progetti e destinazioni assai diverse tra loro – rispettivamente, il principio liberale e il principio comunista.
[1] Sulla teoria bioniana della mente e del pensiero cfr. W.R.Bion, Gli elementi della psicoanalisi, tr. it. di G.Hautmann, Armando Armando, Roma 1973; id., Trasformazioni. Il passaggio dall’apprendimento alla crescita, tr. it. di G.Bartolomei, Armando Armando, Roma 1983.
[2] A.Honneth, Lotta per il riconoscimento, op. cit., p. 26.
[3] Per una valorizzazione filosofica, invece, di questa categoria cfr. A.Illuminati, Del comune. Cronache del General Intellect, manifestolibri, Roma 2003.
[4] Sulla «Vereinigunsphilosophie» cfr. D.Henrich, Hegel und Hölderlin, in Id., Hegel im Kontext, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1975, pp. 9-40.
[5] A.Honneth, Il dolore dell’indeterminato. Una attualizzazione della filosofia politica di Hegel, tr. it. di A.Carnevale, manifestolibri 2003, p. 42.
[6] Ivi, p.57.
[7] Cfr, P.Schiera, Società per ceti, in N.Bobbio, N.Matteucci e G.Pasquino (sotto la direzione di), Dizionario di politica, UTET, Torino 1992, pp. 1076-71. Sulla teoria dei ceti e della “rappresentanza” politica in Hegel rimane sempre imprescindibile la lettura di R.K.Hočevar, Stände und Repräsentation beim jungen Hegel, C.H.Beck, München 1968 (particolarmente pp. 15-44)
[8] Per un’interpretazione del genere si rimanda alle pagine di commento di D.Losurdo (“Corporazioni, sindacato e società di mutuo soccorso”) a G.W.F.Hegel, Le filosofie del diritto. Diritto, proprietà, questione sociale, a cura di D.Losurdo, Leonardo, Milano 1989, pp. 405-426.
[9] Cfr. L.Cortella, Habermas e la svolta comunicativa della filosofia contemporanea tedesca, in Fenomenologia e società, VII (1984), 2, pp. 19-41.
[10] A.Honneth, Lotta per il riconoscimento, op. cit., p. 73.