Primo resoconto di un’esperienza in movimento 1
Questo contributo è una versione provvisoria dell’introduzione a una guida pratica alla nanopolitica (nanopolitcs handbook) a cui stiamo lavorando attualmente, ed è il frutto di un processo di elaborazione e scrittura collettive. In quanto work in progress, e in quanto strumento di intervento e possibilmente di mobilitazione, il testo illustra il modo in cui abbiamo cominciato a pensare attraverso il nanopolitico, utilizzandolo come quadro di riferimento per concepire la politica, la relazionalità e il corpo.
1. Fare domande. Muovendosi, toccando, parlando, ascoltando
La nano politica 2 è un modo di fare politica, è una forma di attivismo politico che è attenta al corpo. Essa prende in considerazione tutto quello che sentiamo, proviamo e soffriamo, non soltanto in quanto esperienza personale e soggettiva. La nanopolitica si occupa di comprendere in che modo i corpi sono costantemente prodotti e riprodotti in base a traiettorie di potere, di forza, di affetti e di desideri. Essa non presuppone alcuna nozione naturalistica di corpo 3, e permette piuttosto di muoversi attraverso diversi registri di sensazione, percezione e articolazione, e con ciò di incontrare corpi che non conosciamo, e perfino corpi che non pensavamo fossero possibili 4. Ci consente di imparare che attraverso il corpo siamo soggetti a cambiamenti nel nostro microcosmo, nel mondo esterno, al lavoro, nelle nostre relazioni affettive, nel nostro fare politica, nello spazio e nel tempo.
Nanopolitica è il nome che abbiamo dato a un processo multisfaccettato di messa in discussione del corpo in relazione al politico e in quanto irriducibile aspetto del politico. Il politico articolato attraverso la relazionalità, i corpi e il movimento.
Quando abbiamo iniziato questo progetto avevamo in mente una serie di interrogativi, che nel tempo è andata espandendosi. Interrogativi controversi, ambivalenti – la nostra sfida era quella di provare a risolverli attraverso incontri dei corpi (embodied encounters), condividendo esperimenti motori, tattili e verbali. In questo primo tentativo di narrazione del nostro percorso collettivo, vogliamo provare a definire quali questioni per noi determinano le specificità della nanopolitica. Queste sono alcune delle domande che ci siamo posti nel corso dei nostri incontri:
Come i corpi vengono in-formati dalla politica?
Abbiamo visto emergere diversi tipi di corporeità a partire da diverse pratiche micropolitiche (corpi morbidi e corpi rigidi, toni di voce differenti, differenti tipologie di movimento, diversi modi di stare-insieme, e ancora la circolazione, la produzione, l’inclusione e la paura di diversi tipi di affezioni). Siamo anche consapevoli del fatto che le decisioni prese a livello macropolitico hanno un impatto sui nostri corpi, rendendoci grassi o magri, cagionevoli o robusti, e interessando alcune parti del corpo piuttosto che altre 5.
In che modo il corpo viene interpellato, identificato, assoggettato, reso produttivo?
Il corpo in quanto forza-lavoro, il corpo inteso come quantità fisica. Il corpo come risorsa umana, il corpo e la mente messi al lavoro; il corpo come passivo-politico, le sue “normali” strutture sono il risultato degli effetti normalizza(n)ti di battaglie perse, lotte domate o temporaneamente sospese. Come è possibile riattivare, politicizzare e de-traumatizzare queste esperienze di lotta? E come è possibile de-individualizzare le sconfitte e il conformismo che i nostri corpi hanno patito e patiscono? Il corpo porta con sé la memoria di ciò che avrebbe voluto, ma non è riuscito a realizzare, e insieme i desideri e le possibilità che appartengono al corpo, ma al tempo stesso rinviano oltre il passato e il presente. Come liberare il corpo non solo da stratificazioni e schemi interiorizzati provocati da traumi e repressioni, ma anche da una disciplina che li fa apparire “normali” mentre li modella come corpi buoni per il lavoro? Il capitalismo neoliberale ha un bisogno disperato di corpi “liberati”, flessibili, produttivi, corpi individualizzati pronti a far fronte all’imprevisto, al rischio, allo stress, al pericolo. Come possiamo liberare i nostri corpi altrimenti, come possiamo costruire corpi coraggiosi e flessibili ma che sfuggano alla flessibilità richiesta dal mercato, corpi non riducibili all’appropriatezza della loro presunta normalità.
Come possiamo parlare, pensare e scrivere assieme in maniera differente, attraverso una pratica che fa incontrare i nostri corpi? Come può una tale pratica, una pratica che mette in comunicazione i nostri corpi, produrre un modo differente di parlare e pensare assieme, come può produrre qualcosa che possa disfare i meccanismi di controllo che interiorizziamo e ai quali siamo assoggettati in quanto individui parlanti e pensanti? Come possiamo fare uso di una nano-pratica per superare i sistemi di giudizio, valore e valutazione, secondo i quali posizioniamo noi stessi come soggetti parlanti e pensanti in relazione con gli altri?
Come possiamo tradurre una mutua attenzione per i nostri corpi in una mutua attenzione per noi stessi? Come possiamo trasporre una fragilità condivisa dei nostri corpi in uno spazio protetto, in una fragilità condivisa nella relazione delle nostre vite quotidiane? Come aprire vicendevolmente le nostre vulnerabilità, in modo da contrastare sia le minacce alla nostra stabilità, che le pressioni per essere e comportarci come (lavoratori) supermen e wonder-women?
Come possiamo imparare ad appoggiare, sostenere, prenderci cura l’uno dell’altro con le stesse modulazioni di leggerezza e di intensità con la quale appoggiamo, sosteniamo, e ci prendiamo cura vicendevolmente dei nostri corpi? Come possiamo trasportare quella leggerezza e intensità generata attraverso esercizi e giochi con il corpo, in un prenderci cura l’uno dell’altro che diventa leggero, in un divenire comune della nostra vita, a partire dai suoi aspetti più basilari: mangiare, dormire, bere, respirare… Come possiamo imparare da una pratica nanopolitica a sviluppare una vita comune, una vita diversa da quella che conosciamo già, spesso così centrata su noi stessi in quanto individui e così dipendente da ciò che viene costituito lontano dall’incontro dei nostri corpi? Come possiamo passare dall’esercitare una prossimità dei nostri corpi ad esercitare una prossimità di noi stessi, un avvicinarci ed un implicarci che si differenzia sia dai buchi neri di responsabilità personali ed esclusive, che dalla superficialità utilitaristica di una modalità da networking?
Può una pratica del disfare e ricreare i nostri corpi avere un impatto su una pratica di disfacimento e ricostituzione delle soggettività e delle istituzioni? Una pratica di disfacimento dei nostri corpi implica sempre qualcosa come una violenza; disfare un corpo e’ disfare i suoi traumi e i suoi blocchi, ma anche disfare quello che per il corpo e’ diventata una comodità confortevole: reazioni difensive apprese per sopportare quei traumi, comportamenti definiti normali e naturali, che renderebbero la vita “più facile” per i nostri corpi. Questo disfacimento e’ terapeutico: non nel senso che ci fa sentire necessariamente meglio, ma nel senso che cura i nostri corpi sia da traumi e repressioni, che dal veleno neoliberalista assorbito come fosse una “normalità”. Come può una pratica del mettere a contatto i nostri corpi che disfa le loro contrazioni traumatiche, i loro meccanismi difensivi, gli schemi normalizzanti imposti, avere un impatto nel disfacimento delle nostre soggettività e delle nostre istituzioni, e nella creazione di istituzioni differenti a partire dal crollo di quelle esistenti?
Qual è il rapporto che sussiste tra “la politica” e la questione di “che cosa può fare un corpo”?
Il corpo è attivo-politico, si muove, trascina altri corpi, è capace di affezioni. Quindi, positivamente parlando, in che modo i nostri corpi vengono attraversati dagli entusiasmi? La politica consiste proprio nell’avere a che fare con i poteri e le forze che ci attraversano, che fanno dei nostri corpi dei “corpi abili”, in modi che possono contrastare le pratiche egemoniche e che si oppongono alle varie tendenze oppressive e normalizzanti. Come possiamo espandere questi movimenti che non solo aboliscono lo stato di cose esistente, ma che rivendicano l’istituzione della loro sostenibilità materiale? In che misura i nostri movimenti corporei collettivi prefigurano il futuro a venire?
In che modo i corpi sono impegnati e prodotti nelle lotte attuali?
In che modo, nel corso delle nostre lotte, siamo affetti, modificati, arricchiti o repressi? Possiamo parlare delle nostre pratiche politiche avendo i nostri corpi in mente? Possiamo produrre una politica che non sia solo non violenta verso gli altri, ma anche nei confronti delle nostre sensibilità, nei confronti delle nostre anatomie individual-collettive? Come concepire il modo in cui razza, classe e genere si dispiegano attraverso le esperienze corporee senza ridurre il corpo ad un oggetto costruito socialmente e considerato a sé stante? Le nostre politiche antirazziste, antisessiste e anticlassiste, che sono profondamente radicate nel corpo (embodied), non possono che essere superficiali e poco convincenti se non pervengono ad alterare i modi in cui i corpi si relazionano e si muovono gli uni con gli altri. Come è possibile rendere conto dei tanti modi in cui desiderio e piacere si dispiegano in corpi diversi? Come sviluppare pratiche di cura di sé (non solo individuali, ma collettive) che sfuggano e non si riducano alle tattiche di self-help, al self–management e al solipsimo new age? Come possiamo prendere sul serio le ecologie della sfera sociale, ambientale e psichica investendo in una quarta dimensione, quella della sensazione, del movimento e delle esperienze?
Spesso abbiamo l’impressione che il nostro attivismo rispecchi il nostro modo di lavorare, segnato da un eccesso di impegno, stress, e sensi di colpa. Come possiamo indagare politicamente il lavoro e la politica per ridar loro forma a partire dalla prospettiva di ciò che i nostri corpi possono fare, e dalla considerazione degli sfinimenti, dei cedimenti e dei blocchi di cui facciamo esperienza e infine a partire dalla considerazione del nostro spazio degli affetti, delle passioni e dei desideri? Nei nostri incontri abbiamo cercato di condividere i nostri desideri, limiti ed esperienze, sia personali che collettivi, in un dialogo che utilizza sia parole che esercizi fisici.
Come possiamo affinare collettivamente i nostri modi di sentire, le nostre capacità precognitive, affettive e desideranti, attraverso pratiche di ascolto e di espressione?
Il corpo, in questi esperimenti, funziona come un connettore, un sismografo, un amplificatore e anche come una superficie sottoposta a inscrizioni e decodificazioni. Disfare alcune abitudini e coltivarne altre, costruire culture collettive dello stare insieme gli uni con gli altri, nuove forme di intimità, prossimità e distanza, navigare tra narrative, esperienze e contesti personali e domini più vasti, come quelli sociali, politici e storici: si tratta di questioni che non possono essere risolte facilmente, e non possono essere risolta una volta per tutte – si tratta infatti di processi.
Come possiamo pensare una politica che prenda le mosse dai movimenti dei corpi?
O piuttosto, come viviamo quella politica tutto il tempo, e come i nostri corpi resistono e propongono percorsi alternativi a volte senza che ce ne rendiamo conto? Questa domanda presuppone un’indagine politica-corporea dell’economico e del sociale dal punto di vista di ciò che i nostri corpi rifiutano o richiedono di fare, tenendo conto delle fatiche, degli stress, delle depressioni, delle dipendenze, delle compulsioni, delle nostre resistenze, dei momenti in cui siamo produttivi e quelli in cui non lo siamo, i momenti di procrastinazione e inerzia e quelli di desiderio e piacere.
2. Alcuni registri nanopolitici
La nanopolitica ha a che fare tanto con la politica [che si esercita] sul corpo quanto con la politica [che parte] dal corpo, e con le intersezioni tra le due, che si originano nelle pratiche repressive, di resistenza e di risonanza fra noi e intorno a noi.. Con il termine “nano” intendiamo riferirci a come ciò che accade a livello di gruppi, mondi, istituzioni e società viene a esercitarsi sulla nostra pelle, sulle nostre energie, la nostra voce, le nostre esperienze tattili e su tutti i modi in cui sentiamo. La nanopolitica non è tanto una questione di grandezze, ma di intensità dei corpi (embodied), che riguardano i gruppi così come i corpi degli individui – e in questo senso essa inevitabilmente implica la micro e la macropolitica. La nanopolitica sviluppa diverse forme di comprensione dell’operare affettivo e relazionale di forze e poteri.
Nano e Micro
Il prefisso ‘nano’ viene usato per indicare una particella, un fenomeno, o un oggetto fabbricato che è riferito a e/o impiegato su una scala la cui grandezza è misurata sul miliardesimo di metro. Esso deriva dal greco νάνος che indica una persona molto piccola di statura. “nano” è una unità di misura che opera al livello in cui si forma e si costruisce la materialità stessa; esso perciò s’imbatte nella materia non quando è sostanza già solida e separata, ma durante il processo di formazione o dissoluzione della solidità.
Il lavoro di Felix Guattari sulla ‘micropolitica’ è un punto di riferimento importante per lo sviluppo dell’idea e della pratica della nanopolitica. Guattari nello spiegare che cosa intende per micropolitica si rifa alla ricerca e alle analisi di Foucault sui corpi, la sessualità e il potere, in particolare alla sua nozione di microfisica del potere.
Attraverso queste prescrizioni, risulta chiaro come il decifrare le “tecnologie politiche del corpo”, la “microfisica dei poteri” […] e la “polizia discorsiva” […], proposto da Foucault, non consista in una semplice localizzazione contemplativa, ma implichi ciò che ho chiamato una micropolitica, proprio perché un’analisi molecolare ci ha condotti dalle formazioni di potere agli investimenti del desiderio 6.
In effetti la micropolitica non è soltanto un livello di analisi, ma anche una sensibilità che dà vita a diverse pratiche capaci di cogliere le questioni relative al desiderio, alle forme di articolazione non verbale e alle forme discorsive. La micropolitica, come modo di praticare la collettività e le sue relazioni con il molare, e come modo di comprendere i rapporti di potere dal punto di vista dei desideri e delle passioni, implica un altro ordine di grandezza visto che si tratta di raggiungere quella “discorsività altra” propria dei nostri corpi desideranti. La nanopolitica coglie il desiderio dal e attraverso il corpo, oltre la presa discorsiva, e cercando di comprendere le forme di resistenza a questa stessa presa. Il discorso qui è concepito come qualcosa di esistente ben oltre i limiti del piano linguistico. Il discorso è un dispositivo di potere: come decodificare i discorsi che finiscono per dare forma ai nostri corpi così come alle nostre parole?
Una simile decodificazione richiede un livello ulteriore di indagine e di pratica. In ogni caso, nonostante il tentativo di circoscrivere e definire il terreno specifico del “nano” come dimensione di indagine, la nanopolitica mantiene sempre un relazione di complicità con la micropolitica. Non si tratta di scegliere un livello di politica rispetto a un altro: “macro” – “micro” – “nano”. Si tratta piuttosto di cogliere le sensibilità e le intelligenze proprie di ciascuno di questi ordini di grandezza e inventare traduzioni e sperimentazioni capaci di connetterle.
Con la nanopolitica non ci sentiamo meno implicati o coinvolti nelle micro e macro dimensioni dei nostri mondi: esploriamo sensibilmente quelle dimensioni del corpo che spesso rimangono invisibili e inarticolate, come se fossero inesistenti, naturali o innocenti. Vogliamo essere sempre più a nostro agio con questa “discorsività altra” per consentirle infine di corrodere i nostri schemi discorsivi e le ineffabili riproduzioni dei rapporti di potere.
Nano e scienza
Poiché il “nano” è sentito piuttosto che visto, esso non è semplicemente una misura esterna, ma un campo che abitiamo e nel quale talvolta ci troviamo trasportati. È il luogo in cui i nostri copri possono prendere la misura di se stessi, valutando in maniera autonoma e immanente quello che sono in grado di fare.La nanoscienza, al contrario, è la scienza che isola e oggettivizza il nano, misurandolo e manipolandolo dall’esterno. È lo sguardo statico che illustra ciò di cui siamo fatti, ciò che ci attraversa e ciò di cui è fatto il nostro ambiente in quanto campo d’intervento tecnico, frontiera dell’economia capitalistica, nuova area di investimento e mercificazione. Al tempo stesso la nanoscienza offre degli spunti interessanti alla nanopolitica se accettiamo di porre, non solo speculativamente, l’identità tra manipolatori e manipolati. Essa mostra che le proprietà di un oggetto variano al variare della grandezza, in funzione dei cambiamenti che si producono al livello della superficie e del volume, e in tal modo dimostra che non stiamo parlando semplicemente di un modo di comprendere il mondo che abitiamo che sia più attento alle sfumature, ma di diversi modi di comprendere il mondo. Ciò che appartiene alla sfera del “nano” viene visto attraverso la sensazione; esso richiede l’uso di una sorta di microscopio chiamato “cantilever”, che ha la punta del diametro di un atomo. Questa punta “sente” la prossimità degli atomi sulla sua superficie, prova attrazione o repulsione e si piega in risposta. Il “nano” non è microscopico, non solo perché è più piccolo del “micro”, ma perché non ha nulla di scopico: deve essere sentito, a volte anche con gli occhi. In questo senso per la scienza stessa il “nano” non rappresenta semplicemente una grandezza più piccola. L’intervallo tra il micro e il nano non è solo quantitativo, ma segna uno scarto di qualità: dal micro al nano i sistemi di riferimento, le unità di misura e gli strumenti di manipolazione, così come le proprietà della materialità stessa, cambiano. I discorsi e le pratiche che riguardano la nanopolitica non hanno a che fare con un ordine di grandezza più fondamentale o più “reale” (come in base alle teorie classiche secondo cui gli atomi costituiscono la materia primaria), e non riducono ogni cosa esistente al nanolivello né suggeriscono che tutte le potenzialità vadano ricercate su questo terreno. Essi piuttosto sperimentano e confermano che esplorando il nanolivello possono essere scoperte diverse potenzialità e attualità.
Quando parliamo del “nano” distinguendolo dal “micro” e dal “macro”, ci riferiamo a una dimensione del divenire che ha le sue proprietà, senza però poter essere isolata dagli altri ordini di grandezza. Il nano non è come la babushka più piccola nella serie delle matrioske russe, non è situato al cuore dei complessi (e problematici) corpi sociali che abitiamo, dal momento che non stiamo parlando di bambole isomorfe che possono essere disimballate e confrontate da un osservatore esterno: il rapporto tra di essi non è una perfetta corrispondenza, ma un complicato intreccio di livelli eterogenei e di grandezze diverse ognuna delle quali è dotata della sua gamma di strutture, solidità e dinamismi.
Ciò che Deleuze e Guattari hanno detto a proposito della differenza tra micro e macropolitica vale anche rispetto alla differenza che sussiste tra la nano- e la micropolitica:
Esse sono distinte, poiché non hanno i medesimi termini, né le stesse relzioni, né la stessa natura, né lo stesso tipo di molteplicità. Ma sono anche inseparabili in quanto coesistono, passano l’una nell’altra secondo figure differenti, come fra i primitivi o fra noi – ma sempre in presupposizione reciproca 7.
Il nano e il campo politico
In quanto campo politico il nano si situa all’intersezione di molte interpretazioni. Una di queste è la tendenza a considerare sempre meno il nano come qualcosa che semplicemente è, in quanto corporeità di base o socialità naturale, e a sottoporlo sempre di più a misura e controllo. Come ha sottolineato Patricia Clough in relazione agli affetti “l’interpellazione ideologica e il disciplinamento del soggetto non sono più il nocciolo della comprensione della socialità”. Anche se entrambe queste forme di controllo sopravvivono, è necessario prestare attenzione al background affettivo che stimola i diversi modi di vivere 8. Lo sviluppo del capitalismo globale – la totalizzazione del macropolitico – opera attraverso l’intensificazione della messa al lavoro del nanopolitico:
Quando la macchina diventa planetaria o cosmica, i concatenamenti tendono sempre più a miniaturizzarsi, a divenire micro-[e noi aggiungeremmo nano-]concatenamenti 9.
La nanopolitica non consiste semplicemente in una serie di questioni, ma in uno spazio situato di questionamento. È un terreno in cui si opera e si riflette sul nanopolitico. In quanto tale la nanopolitica è un insieme di pratiche e metodi che lavorano su queste questioni e che fa sorgere nuovi interrogativi. E’ una messa in discussione che è al contempo circolare e espansiva, intensiva ed estensiva. Ci sono molti modi di interagire con gli altri e molte cose che possiamo fare con gli altri che non si riducono alla ragione, all’argomentazione né alla comunicazione verbale. Spesso sussiste una gerarchia tra ragione e fisicità. Partire dal corpo significa dischiudere ciò che non passa necessariamente attraverso la mente, e usare il corpo come un modo per penetrare le emozioni e la mente. È facile, d’altra parte, ricadere nella familiarità dei procedimenti di intellettualizzazione con cui siamo più a nostro agio. Questo testo, in un certo senso, è una tentazione a cui abbiamo resistito a lungo; abbiamo cominciato a scriverlo con il desiderio di non tagliare fuori il processo di elaborazione e scrittura dalla nostra relazione collettiva, dai nostri corpi e dai nostri movimenti.
Inoltre la nanopolitica è un processo collettivo di trasformazione in divenire e di cura. Non si tratta solo di interazioni tra individui all’interno di un gruppo, ma di un insieme di corpi diversi e di processi multipli che producono, estendono o espandono il nanopolitico. Fornire una lettura politica e una pratica politica alle nostre esperienze vissute, sentite o sofferte non è semplice in una cultura in cui il corpo è represso, essenzializzato, medicalizzato o feticizzato: districarsi tra le varie insidie e trappole in cui ci si imbatte nel parlare delle proprie esperienze col corpo è un aspetto fondamentale della pratica nanopolitica, non solo all’interno del nostro gruppo, ma anche nei confronti del mondo esterno. Maturare un’accresciuta consapevolezza e sensibilità del corpo è utile, ma c’è sempre il rischio di chiudersi in se stessi e diventare autoreferenziali, essere ossessionati da sé, restare prigionieri di sé. La questione allora è: come è possibile nella vita di tutti i giorni – al lavoro, a casa, per strada – produrre uno slittamento dal sé, concepito come punto di riferimento ontologico (per quel che riguarda ad esempio le proprie individuali abilità di sentire e percepire), verso una rinnovata attenzione alla relazionalità e alla collettività? Come è possibile produrre collettivamente questa attenzione corporea, il dispiegamento di energie differenti, la dissoluzione di schemi e compulsioni costrittive, in situazioni che non sono predisposte per questo tipo di percorsi?
3. Il Nanopolitics group
Il nanopolitics group è nato a Londra nel gennaio del 2010 intorno al desiderio di pensare la politica con e attraverso il corpo. Organizza discussioni e workshop “somatici”, teatrali e di movimento. Alla base del progetto c’è un collettivo di otto persone che porta avanti un percorso di ricerca e di organizzazione di gruppo; a livello più esteso ci sono una trentina di persone che partecipano regolarmente agli incontri.
I membri del collettivo, come anche i membri del gruppo allargato, hanno a che fare con pratiche di attivismo e organizzazione politica. Lavorando in ambiti diversi, quali l’educazione, la cultura, l’assistenza terapeutica e la cura, hanno a disposizione una grande quantità di esperienze da impiegare nel progetto di ripensare il corpo e la politica.
Alcune istanze sono state condivise fin dalla prima serie di workshop, da cui il collettivo ha cominciato a prendere forma: il desiderio di riflettere sulla politica femminista e queer attraverso le interazioni e i movimenti corporali; l’interesse per i fenomeni di alienazione della relazionalità nei luoghi di lavoro; l’interesse nei confronti di tutti quei modi di usare il corpo (la voce, lo sguardo, il tatto, l’udito) che producono dominazione e vulnerabilità epidermica; la repressione delle manifestazioni di disagio o malattia nei contesti professionali o perfino nei contesti politici più radicali.
Nell’ultimo anno e mezzo abbiamo organizzato 18 sessioni, che hanno registrato la presenza non regolare – e a volte accidentale- di circa 120 persone.
I nostri workshops sono aperti a tutti e sono gratuiti. Sono basati su diverse metodologie e tecniche che spaziano dal teatro alla danza al bodywork e alla terapia, introdotte da vari professionisti che fanno parte del collettivo. Le sessioni includono esperienze sensoriali, di movimento e di tatto, così come pratiche di discussione, rammemorazione e immaginazione volte a tracciare interconnessioni tra i vissuti esperienziali e le questioni politiche, sociali e organizzative. La maggior parte delle nostre sessioni si svolgono negli spazi universitari che frequentiamo (la Queen Mary University e Goldsmiths, a Londra), ma anche nei centri sociali, nelle sedi dei sindacati studenteschi e per strada.
Abbiamo provato a misurarci con il compito piuttosto complesso di creare connessioni, di portare la politica al corpo e viceversa, attraverso dei percorsi che non neghino né banalizzino il terreno dell’esperienza. Per affrontare queste questioni partiamo da temi diversi e usiamo diverse strategie metodologiche. Fra i metodi che utilizziamo ci sono la contact improvisation, il teatro dell’oppresso, soma (una terapia anarchica), il lavoro sulla voce, il movimento somatico, lo street training. Le tematiche affrontate invece spaziano tra i modi di vivere e sperimentare la città, il lavoro, la politica e le riflessioni sull’amore, la sessualità, il genere, la voce, il potere, la dominazione, i rapporti sociali, l’aggressività, la paura. Ci interroghiamo su come sia possibile attraversare le frontiere dei nostri corpi negli spazi socio-economici e razzialmente regolamentati della città, del lavoro e dell’attivismo politico.
- Il testo è stato redatto, a partire da note condivise ed esperienze collettive condotte dal Nanopolitics group, da: Emma Dowling, Bue Rübner Hansen, Paolo Plotegher, Mara Ferreri e Manuela Zechner. ↩
- Tradurre nanopolitics con ‘nanopolitica’ è una scelta discutibile. Avremmo potuto utilizzare ‘nanopolitiche’ per porre l’accento sulla pluralità di esperienze, abilità e approcci che compongono la nostra pratica. Oppure usare ‘nanopolitico’, sostantivizzando un aggettivo per concentrare l’attenzione sulla qualità, sul modo di un lavoro interrelazionale e intracorporeo. Nanopolitics contiene tutto questo, spesso in modo contraddittorio: non una categoria filosofica, ma un modo di prestare attenzione e relazionarsi al politico, alla politica e alle politiche. La resistenza del termine a definizioni e traduzioni rigorose è parte integrante di questo processo di interrogazione collettiva in divenire. ↩
- Perciò con la parola “corpo” in questo testo non intendiamo riferirci a una qualche unità naturale, ma a qualsiasi singolare configurazione di parti (ossa, tessuti, protesi), flussi, affezioni, malattie, tensioni, reazioni chimiche e così via. Si tratta, in altre parole, di configurazioni che non sono mai stabili, nemmeno nei corpi “morti”. ↩
- Corpi sanamente malati, corpi poliamorosi, corpi transessuali, corpi narcolettici. ↩
- In questo senso la nanopolitica è una rimessa in discussione di quelle pratiche politiche dei corpi che riguardano, ad esempio, fenomeni come l’anoressia, l’obesità, l’ossessione per la forma fisica; e anche di quelle esperienze di empowerment che si sviluppano non solo attraverso le nostre idee, le nostre convinzioni e le forme di organizzazione a cui prendiamo parte, ma anche attraverso i nostri corpi: nell’essere capaci di parlare ad alta voce, muoversi inconsapevolmente ecc. ↩
- F. Guattari, Microfisica dei poteri e micropolitica dei desideri, in AA. VV., Effetto Foucault, Feltrinelli, Milano, 1986, p.197. ↩
- Deleuze, G. e Guattari, F., Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, a cura di M. Guareschi, Castelvecchi, Roma, 2006, p.320. ↩
- Clough, P., «The New Empiricism. Affect and Sociological Method», in European Journal of Social Theory, vol. 12, n.1, 2009, p. 51. ↩
- Deleuze, G. e Guattari, F., Millepiani, cit., p.323. ↩